Materie: | Appunti |
Categoria: | Filosofia |
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Data: | 04.10.2001 |
Numero di pagine: | 3 |
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APOLOGIA DI SOCRATE
La filosofia intesa non come sapere ma come modo di vivere, come indagine su se stessa e sugli altri, come rendere conto della propria vita e delle proprie azioni e come ricerca incessante della verità.
Di recente un noto cantautore (Francesco Guccini) in un suo pezzo si è definito “eterno studente”, sia perché non si finisce mai di imparare sia perché ritiene di “non sapere niente”. Riflettendoci infatti, la condizione dello studente è proprio quella di essere permeabile a tutti gli impulsi che gli vengono dati, quella di indagare e di indagarsi, traendo dallo studio l’insegnamento necessario alla creazione di un proprio modo di vita, che, nella visione filosofica socratica è la consapevolezza di non sapere. In realtà, a mio avviso, il “sapere di non sapere” è la meta a cui il pensare inevitabilmente porta, è la conclusione obbligata di ogni campo della cultura, poiché quest’ultima, se ben decifrata, insegna a ragionare con la propria testa. Mi meraviglio sempre, quasi ingenuamente, nel constatare che la maggior parte degli uomini riesce a convivere con i suoi pregiudizi oppure a continuare ad accettare le certezze preconfezionate che la società gli impone, anche dopo essere venuto a conoscenza di altre vie, altri modi di pensiero, di messe in discussione del modo stesso di pensare. Mi meraviglio ma poi mi rendo conto che è ovviamente più facile non avere coscienza delle tante realtà scomode che la filosofia solleva e continuare a vivere come se nulla fosse. E’ molto più comodo ritenersi sapienti e proclamarsi tali piuttosto che dichiararsi ignoranti, perché in fin dei conti la nostra è ancora una “civiltà di vergogna”, dove conquistare il beneplacito comune significa ottenere il benessere materiale e spesso anche quello morale, che ci fa’ sentire in pace noi stessi. E’ per questo che non sono in molti ad abbracciare la causa degli “eterni studenti”, di coloro cioè che non escono mai dalla scuola della ricerca personale perché non ne hanno mai abbastanza. Una sorta di ripetenti a vita che tuttavia sono consapevoli di esserlo. Una vita da studente ripetente costituisce dunque la base del pensiero socratico, che si sviluppa e si articola alla costante e utopica ricerca di una verità assoluta. Ma l’utopia, come la definisce il regista italo-argentino Fernando Birri, è “quella cosa che si insegue non raggiungendola mai e che, proprio per questo, ha la qualità di farci andare avanti” , un po’ come la intendeva implicitamente anche Socrate, che nel Fedone afferma che il filosofo, che vive la vita alla ricerca della verità, non desidera nulla di meglio che la morte, in quanto egli morendo può finalmente conoscere ciò che ha sempre bramato, pertanto è implicito che in vita, pur perseguendo la verità, non si giungerà mai ad essa. La conquista della filosofia socratica dunque è proprio quella di una vita in fieri, in divenire ricercando se stessi e gli altri , poiché questo è l’unico modo per essere più vicini alla verità. Spesso pensiamo di conoscerci, pensiamo di conoscere anche gli altri, ma non ci accorgiamo che le nostre stesse sensazioni, le nostre emozioni, non sono che il frutto di un lento processo di condizionamento esterno del nostro subconscio. Esso infatti è troppo debole e troppo soggetto agli stimoli a cui viene sottoposto, e questo ci rende in un certo senso schiavi della nostra propria coscienza e della nostra sensibilità, dalle quali non siamo in grado di liberarci, il che vuol dire che non saremo mai in grado di conoscerci veramente, Pirandello docet. Ne La carriola infatti cita testualmente “conoscersi è morire”, ossia raggiungere la verità anche su noi stessi è un’esperienza dolorosa e nel contempo impossibile, che si può attuare pertanto solo con la morte. Per il filosofo che non crede, come Socrate, ad un’altra vita dopo la morte o anche per quello che ci crede, la vita appare dunque come un’esperienza inutile, che non porta a raggiungere alcuna certezza e che vede il suo senso, la sua compiutezza, solo nella morte. Ecco perché Socrate non ha paura di morire, anzi ne è lieto e affronta con nochalance la pena di bere il veleno. Il coraggio della filosofia socratica infatti sta non tanto nel morire quanto nel vivere imponendosi sempre un’analisi del proprio agire, un resoconto dell’operato, insomma una sorta di perenne esame di coscienza, o meglio di riesame della coscienza ad opera dell’unico strumento immune dal condizionamento: la razionalità.