Anassimandro ed Empedocle: due filosofi al confronto.

Materie:Tesina
Categoria:Filosofia

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Testo

Anassimandro ed Empedocle: due filosofi a confronto.
Anassimandro, nacque nel 610-609 a Mileto. Fu uomo politico ed astronomo. Con la sua opera in prosa “Intorno alla Natura” diventa il primo autore di scritti filosofici in Grecia. Come gli altri filosofi, il suo pensiero si incentra sul problema della realtà primaria. Gli Ionici (pensatori provenienti dalla scuola ionica) si convincono che, al di sotto di tutto esiste una realtà unica ed eterna, di cui ciò che esiste è passeggera manifestazione. Anassimandro chiama tale sostanza unica con il nome di principio (archè, derivante dal verbo greco archein, che sta a significare un principio sia nella sfera temporale sia per quanto riguarda l’importanza). Riconobbe tale principio non nell’acqua (come aveva fatto Talete) o nell’aria (come Anassimene) o in un altro particolare elemento, ma in un principio infinito o indeterminato (apeiron) dal quale tutte le cose hanno origine e si dissolvono quando è terminato il loro ciclo stabilito da una legge necessaria. L’aperion abbraccia e governa ogni cosa; è immortale e indistruttibile, quindi divino e va inteso come una materia in cui gli elementi non sono ancora distinti, quindi indefinito. Il processo attraverso cui le cose derivano dalla sostanza principale è la separazione. La sostanza infinita è animata da un eterno movimento, in virtù del quale si separano da essa i contrari (caldo e freddo, secco e umido, …). Per mezzo di questa separazione si generano i mondi infiniti che si succedono secondo un ciclo eterno. Per ogni mondo, il tempo della nascita, della durata e della fine è segnato.
Anassimandro ha una visione molto pessimistica: il mondo è nato perché gli elementi hanno deciso di sopraffarsi a vicenda, commettendo quindi un ingiustizia, che dovranno scontare “gli uni agli altri, secondo l’ordine del tempo”. Questa è la legge di giustizia di Solone, che qui diventa legge cosmica. Tale ingiustizia è probabilmente dovuta alla costituzione stessa e quindi alla nascita degli esseri, inevitabile come inevitabile è la pena. La nascita è quindi la separazione degli esseri dalla sostanza infinta, una rottura dell’unità, che è proprio dell’infinito; è il subentrare della diversità, del contrasto, là dove erano l’omogeneità e l’armonia. Con la separazione dunque si determina la condizione propria degli esseri finiti: molteplici, diversi, contrastanti tra loro, e perciò inevitabilmente destinati a scontare con la morte la loro stessa nascita e a ritornare all’unità.
La natura stessa della sostanza principale conduce Anassimandro ad ammettere l’infinità dei mondi. Egli inoltre considera in modo originale la forma della terra: è un cilindro che sta sospeso nel mezzo del mondo senza essere sostenuto da nulla perché, trovandosi ad eguale distanza fra tutte le parti, non è sollecitata a muoversi verso nessuna di esse. Quanto agli uomini, essi non sono gli essere originari della natura. Infatti non sanno nutrirsi da sé e non avrebbero potuto sopravvivere se fossero nati la prima volta come nascono ora. Hanno dovuto dunque avere origine da altri animali, nella fattispecie dei pesci. Si trovavano dentro di essi, e dopo essere stati nutriti, divenuti capaci di proteggersi da sé, furono gettati fuori e presero terra. Teorie primitive che mostrano l’esigenza di cercare una spiegazione puramente naturalistica del mondo, addirittura in questo caso Anassimandro sembra avvicinarsi alla teoria evoluzionistica moderna.
Finora permane una problematica cosmologica, che diventa ontologica solo con Parmenide, fondatore delle scuola eleatica. I filosofi che vengono dopo l’Eleatismo tornano ad interessarsi del problema della natura, cercando però di effettuare una sintesi fra l’Eraclitisco e l’Eleatismo. Da Eraclito e dalla scuola ionica essi accettano l’idea del divenire incessante delle cose (panta rei) e da Parmenide accolgono invece il concetto dell’eternità e dell’immutabilità dell’Essere “vero”. Distinguono quindi composti (mutevoli, riprendendo Eraclito, che nascono, muoiono, cambiano) ed elementi (immutabili, riprendendo l’Essere parmenideo). Tali filosofi vengono anche detti fisici pluralisti, in quanto ritengono che i principi della natura siano molteplici.
Uno di questi è Empedocle di Agrigento, nato verso il 492. Partecipò alla vita politica e fu nello steso tempo medico, taumaturgo e scienziato. Egli stesso presenta la sua dottrina come uno strumento efficace per dominare le forze naturali e perfino per richiamare dall’Ade la vita dei defunti. La sua figura di mago è lumeggiata dalle leggende che si formarono alla sua morte. Egli fu, dopo Parmenide, il solo filosofo greco che espose in versi le sue dottrine filosofiche. Di lui ci sono rimasti abbondanti frammenti appartenenti a due poemi: “Sulla Natura” (carattere cosmologico) e “Purificazioni” (carattere teologico). Empedocle è consapevole dei limiti della conoscenza umana. I poteri conoscitivi dell’uomo sono limitati, vedendo egli solo una piccola parte di una “vita che non è vita” perché sfugge subito. Ritiene anche che l’Essere non possa nascere né perire, ma vuole spiegare l’apparenza della nascita e della morte, e lo fa ricorrendo al combinarsi (nascita) e dividersi (morte) degli elementi che compongono le cose. Gli elementi sono 4: fuoco, acqua, terra ed aria. Comparendo però il termine “elemento” solo più tardi con Platone, Empedocle parla della “quattro radicidi tutte le cose”, animate da due forze opposte e cosmiche: l’Amore che tende ad unirle e la Contesa o Odio che tende a dividirle.
C’è una fase in cui l’Amore domina completamente ed è lo Sfero nel quale tutti gli elementi sono unificati e legati nella più completa armonia. Ma in questa fase non c’è né il sole né il mare né la terra, perché non c’è altro che un tutto uniforme. L’azione della Contesa rompe quella unità e comincia ad introdurre la separazione degli elementi. Ma in questa fase la separazione non è distruttiva; ad un certo punto, essa determina la formazione delle cose quali sono nel nostro mondo, il quale è il prodotto dell’azione combinata delle due forze e sta a metà strada tra il regno dell’Amore e quello dell’Odio. Continuando l’Odio ad agire le cose stesse si dissolvono e si ha il regno del Caos: il puro dominio dell’Odio. Ma, allora, spetta di nuovo all’Amore di ricominciare la riunificazione degli elementi: a metà strada si avrà di nuovo il mondo attuale, mescolato d’Odio e d’Amore e finalmente si ritornerà allo Sfero, dal quale ricomincerà un nuovo ciclo. (fig. 1)
1. Il ciclo cosmico
Nonostante ciò Empedocle è bel lontano dall’ammettere che l’Amore, e solo l’Amore è il principio del cosmo: egli è convinto che la divisione degli elementi, l’odio, la lotta, abbiano una parte importante nella costituzione del mondo. I quattro elementi e le due forze che li muovono sono anche le condizioni della conoscenza umana. Il principio fondamentale della conoscenza è che il simile si conosci con il simile. Essa avviene mediante l’incontro tra l’elemento che è nell’uomo e lo stesso elemento al di fuori dell’uomo. Empedocle non fa nessuna distinzione tra la conoscenza dei sensi e quella dell’intelletto; anche quest’ultima avviene allo stesso modo per un incontro degli elementi esterni ed interni. Nelle Purificazioni Empedocle riprende la dottrina orfico-pitagorica della metempsicosi. C’è una legge necessaria di giustizia che fa scontare agli uomini, attraverso una serie successiva di nascite e di morti, i peccati di cui si macchiarono.
Confrontando i due salta subito all’occhio che entrambi prendono in considerazione la problematica cosmologica. Concordano sul fatto che le cose derivano da una sostanza primordiale e si distaccano da essa grazie a delle forze.
E’ nel dettaglio che differiscono: il primo individua l’archè nell’apeiron, da cui le cose si staccano tramite il processo di separazione, mentre il secondo nei quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), governati dalle forze cosmiche di Amore e Odio.
In comune hanno altresì la teoria dell’ingiustizia: essa fa scontare agli uomini il loro sopraffarsi a vicenda con la loro morte, pena inevitabile come la loro nascita.
Infine “stilisticamente” uno scrive in prosa e l’altro in versi.
Personalmente trovo interessante la teoria dell’ingiustizia che entrambi presentano: come dice Anassimandro, da un principio infinto si separano le cose per contrari. E ancora, quando dice che per divenire gli elementi si sono dovuti sopraffare fra loro. Secondo la mia opinione, fra gli uomoni, finché il prevalere non è eccessivo, ma è solo voglia di affermarsi, è un qualcosa di positivo. Ognuno di noi è diverso dall’altro, ed è giusto che cerchi di farsi conoscere. Se così non fosse, sarebbe un mondo piatto, omogeneo, così come l’apeiron, e infatti filosoficamente in esso non c’è vita.
Altra cosa che mi ha colpito è che la separazione avvenga fra contrari, e che la loro fine avverrà per il loro scontro. In effetti è giusto, perché nessuna cosa esisterebbe senza il suo contrario: non potremmo essere felici se prima non avessimo provato il dolore, o non potremmo parlare di pace se non avessimo vissuto in tempo di guerra, o ancora non potremmo dire che una cosa è buona se non ne abbiamo assaggiato prima una cattiva. Alla fine, non potendo coesistere, bene e male, pace e guerra, gioia e dolore, a forza di scontrarsi e avvicendarsi si distruggeranno e torneranno a far parte di quel principio infinto e indeterminato.
Per ultimo, mi ha colpito come Anassimandro, anche se in maniera primitiva, sia riuscito a cogliere il principio fondamentale della moderna teoria evoluzionistica, e cioè che gli uomini non sono stati creati così come sono, come dice invece il creazionismo, ma discendano da altri animali (che ora sappiamo non essere pesci ma scimmie antropomorfe).
Di Giulia Vittoria De Angelis,
III A
10-03-2007
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