vocabolario sotorico di termini storici

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Testo

CLASSE SOCIALE
La Classe è un concetto sociologico che designa una categoria di individui che in una società dispongono in egual misura di risorse economiche tali da determinare fortemente il proprio stile di vita. Strettamente connesso alla classe è il concetto di stratificazione sociale, introdotto dai sociologi per descrivere le diseguaglianze; si possono distinguere quattro sistemi fondamentali di stratificazione: schiavitù, casta, ceto (o status) e classe.La classe si differenzia però profondamente dagli altri sistemi per diversi aspetti. Anzitutto, le classi non dipendono da ordinamenti giuridici e religiosi (come avviene invece nel caso delle caste): l’appartenenza alle classi generalmente non si basa sull’ereditarietà della posizione. Secondariamente, la classe di un individuo è almeno in parte acquisita, e non sempre ascritta alla nascita: le classi sono in altri termini sottomesse alla mobilità sociale, in quanto si fondano su differenze economiche relative al possesso di risorse materiali che possono modificarsi nel corso della vita.
Di tutte le forme di stratificazione la classe è l’ultima a essersi affermata storicamente. In India le caste esistono da 5000 anni; anche la schiavitù e i ceti sociali sono perdurati per millenni. Le classi si fondano su differenze economiche all’interno del mercato, dove si manifesta il conflitto tra capitale e lavoro, e secondo alcuni studiosi sono state identificate come sistema di stratificazione con l’avvento dell’industrializzazione. Si deve a Karl Marx l’analisi approfondita del concetto di classe; un contributo altrettanto rilevante per lo studio delle dimensioni della stratificazione sociale è quello di Max Weber. Secondo Marx le classi sociali sono essenzialmente due: la borghesia e il proletariato. Il suo studio sulle classi si colloca all’interno di una concezione materialista della storia, approccio teorico che considera gli interessi materiali come motori fondamentali dell’umanità, e gli esseri umani (ipotesi peraltro già sostenenuta da Thomas Hobbes) come attori sociali in perenne conflitto tra loro. Nella società civile infatti gli uomini lottano per assicurarsi i fattori di produzione e queste continue lotte sono espressione dei conflitti di classe. Marx teorizzò anche la fine del conflitto e l’avvento di una società senza classi attraverso la rivoluzione del proletariato che, prendendo coscienza dei propri interessi di classe, avrebbe posto fine al proprio sfruttamento da parte dei capitalisti rovesciandone il predominio attraverso la rivoluzione. Dopo un periodo transitorio, che sarebbe coinciso con la dittatura del proletariato, l’abolizione della proprietà privata avrebbe permesso di abolire definitivamente le classi sociali.Sebbene molti studiosi ritengano superate le teorie di Marx, il concetto di classe continua a essere considerato da numerosi sociologi (marxisti e non) uno strumento indispensabile per comprendere le diseguaglianze sociali, la povertà, le differenze di reddito, e soprattutto, la mobilità sociale. Altri studiosi invece, come Jurgen Habermas e Alain Touraine, ritengono che le classi sociali siano scomparse con la fine della società industriale, lasciando il posto a nuove diseguaglianze basate su altri fattori, quali il genere (o sesso), la razza, la religione, le etnie, che sembrano permeare i conflitti dell’odierna società post-industriale.
Esempio
Il termine BORGHESIA definiva l'insieme dei cittadini liberi delle città europee durante il Medioevo; in seguito divenne sinonimo di ceto medio.
Il termine fu applicato inizialmente in Francia agli abitanti delle città medievali o dei borghi che occupavano una posizione sociale intermedia tra i contadini e la nobiltà terriera. Queste persone erano generalmente mercanti, commercianti e artigiani, in seguito anche banchieri e imprenditori. Con lo sviluppo delle città medievali come centri di commercio, la borghesia cominciò a emergere quale importante classe socio economica. Spesso si riuniva in associazioni o corporazioni per proteggere il proprio interesse dai più potenti proprietari terrieri.
La fine del Medioevo vide sorgere nell'Europa occidentale stati nazionali governati da monarchie assolute. La borghesia generalmente sosteneva la corona nella sua lotta contro l'ordine feudale, aumentando così la propria influenza. Con la trasformazione della società feudale in società capitalista, la borghesia divenne la punta di diamante del progresso nell'industria e nella scienza, nonché del cambiamento sociale.
Dal XVII secolo la classe media sostenne i principi del diritto naturale e del governo costituzionale contro le teorie del diritto divino e i privilegi del sovrano e della nobiltà. Così, i membri della borghesia guidarono la rivoluzione inglese del XVII secolo e le rivoluzioni americana e francese del tardo XVIII secolo che aiutarono a stabilire diritti politici e libertà personale per tutti i cittadini liberi.
La rivoluzione industriale del XIX secolo introdusse alcuni dei mutamenti più significativi nella storia economica: lo sviluppo dell'energia meccanica e del sistema industriale con la conseguente crescita dei centri urbani. A livello sociale, allora, la classe borghese, numericamente già aumentata, sviluppò al proprio interno notevoli diversificazioni tra i capitalisti e il crescente numero di piccoli borghesi, negozianti, tecnici e impiegati. I capitalisti tendevano a possedere e dirigere le industrie e ad associarsi con le classi superiori.
Fu in questo periodo che Karl Marx sviluppò la teoria della lotta di classe. Marx identificò la borghesia con la classe capitalista – cioè con il padronato – e la considerò una forza reazionaria che per mantenere la propria supremazia impediva l'avanzamento del proletariato, cioè la classe lavoratrice. Egli predisse che questa sarebbe un giorno insorta impossessandosi dei mezzi di produzione per sostituire la borghesia quale classe economica dominante.
Oggi il termine "borghesia" viene usato raramente nel suo significato originario, tranne che dagli storici dell'economia. È generalmente intercambiabile con il termine classe media. Nella società moderna questo gruppo è composto da professionisti, impiegati, agricoltori e da figure sociali analoghe, tutti lontani dalla classe capitalista della teoria marxista.
COLONIALISMO
Colonialismo è il termine con cui si designa la politica di conquista di territori d’oltremare e risorse (materiali e umane) attuata dalle potenze europee a partire dal XV secolo. Indica inoltre l’insieme dei principi a sostegno di tale politica e, infine, l’organizzazione del sistema di dominio.
Lo sviluppo del colonialismo può essere distinto in due fasi: una prima, che parte dal XV secolo per giungere fino alla metà del XIX secolo; una seconda, che parte dagli ultimi decenni del XIX secolo e termina a metà degli anni Settanta del Novecento con il crollo del sistema coloniale portoghese.
Il colonialismo si sviluppò a partire dal Quattrocento, a seguito delle esplorazioni geografiche, e coinvolse soprattutto i territori asiatici e americani, fondando in Africa, in un primo tempo, solo delle stazioni commerciali (per l’approvvigionamento di oro, avorio e schiavi) e portuali, di supporto per le spedizioni marittime verso l’Asia. Nella prima fase, l’Europa occidentale, guidata da Spagna e Portogallo, attuò una politica espansionistica nelle Indie Orientali e in America centrale e meridionale. Nella seconda fase, la Gran Bretagna e la Francia guidarono l’espansione europea in America settentrionale, Asia, Africa e nell’oceano Pacifico.
Nel Novecento, il crollo degli equilibri di potere in Europa e le due guerre mondiali segnarono comunque la fine del colonialismo. La crescita di una coscienza nazionalista nelle colonie, il declino dell’influenza politica e militare europea, l’erosione delle giustificazioni morali che per secoli avevano sostenuto l’espansione coloniale contribuirono infine a una rapida decolonizzazione dopo il 1945.
Le ragioni della corsa alle colonie sono molteplici e controverse. Per quanto riguarda la prima fase del fenomeno, quella avviatasi nel XV secolo in seguito alle grandi esplorazioni, i motivi sono vari: il prestigio delle monarchie e delle nazioni; la possibilità di impadronirsi, attraverso il controllo di territori vergini, di immense risorse; l’intento di diffondere la propria civiltà (le leggi, i costumi, la religione) tra popoli considerati “selvaggi”.
Il colonialismo sviluppatosi alla fine del XIX secolo conservò alcune di queste istanze, ma vi prevalsero le motivazioni economiche e strategiche delle potenze europee e delle due nuove potenze internazionali, gli Stati Uniti e il Giappone. Per i paesi che stavano vivendo un grosso sviluppo industriale diventò infatti vitale proteggere i mercati interni dalla penetrazione di merci straniere e conquistare altri mercati per le proprie, costituendo aree di sottomissione prevalentemente economica.
Questa fu la spiegazione di molti studiosi marxisti e in particolare di Lenin, che definì il nuovo fenomeno colonialista con il termine “imperialismo”, inteso come la fase monopolistica del capitalismo. Secondo questi studiosi il colonialismo del XIX e XX secolo si spiegava con le dinamiche del mercato capitalista e con le esigenze di materie prime e di sbocchi per il proprio capitale eccedente. Altri spiegarono invece il fenomeno con motivazioni strategiche o diplomatiche, oltreché economiche. Sicuramente fu un complesso di ragioni – politiche, militari, economiche, culturali ecc. – ad agire nel processo storico che, nel corso di cinque secoli, segnò indelebilmente lo sviluppo di interi continenti.
Qualsiasi valutazione del colonialismo deve tenere conto del mutare delle circostanze storiche. Oggi esso è inaccettabile in quanto contrasta con i diritti dei popoli all’autodeterminazione. Questi diritti, tuttavia, solo di recente sono stati riconosciuti come universalmente applicabili. I costruttori di imperi del XIX secolo, infatti, erano spesso convinti che i popoli “civilizzati” avessero la responsabilità morale di guidare i popoli “arretrati” e di recare loro i frutti della cultura occidentale.
Neanche gli effetti del colonialismo sono univoci, sia per i colonizzatori sia per i colonizzati. È evidente che il possesso di un impero arrecò alle potenze coloniali numerosi benefici, tra cui opportunità di emigrazione, espansione del commercio, possibilità di accedere a risorse strategiche, profitti. Allo stesso tempo però i colonizzatori dovettero provvedere all’amministrazione, all’assistenza tecnica, alla difesa delle colonie.
Per chi lo subì, il colonialismo ebbe da una parte indiscutibili effetti negativi: i modi di vita tradizionali furono cancellati, le culture distrutte e interi popoli soggiogati o sterminati. Anche il bilancio economico e politico non è positivo, perché il colonialismo lasciò delle economie “estravertite”, che producevano ciò che non consumavano e consumavano ciò che non producevano, restando quindi totalmente dipendenti dal mercato estero ed esponendo i paesi che avevano appena raggiunto l’indipendenza a nuove forme di colonialismo, stavolta prettamente economiche.
Lasciò inoltre in eredità una serie di stati autoritari, diretti da élite autocratiche, che non furono capaci o non vollero trasformare le istituzioni ereditate in senso democratico. D’altra parte, il contatto con la cultura europea portò ai popoli colonizzati indiscutibili benefici nel campo della sanità, dell’istruzione, dell’accesso alle nuove tecnologie.
Oggi il rapporto tra paesi ex colonizzatori ed ex colonizzati presenta ancora un notevole squilibrio a sfavore di questi ultimi, sprovvisti, tranne alcune eccezioni, di strutture politiche ed economiche adeguate. Gli effetti perversi ancora attivi del colonialismo (visibili, ad esempio, nella forte instabilità della gran parte dei paesi africani), insieme con quelli della globalizzazione dell’economia e dei conflitti in corso in molte regioni del mondo, continueranno a gravare per molti anni sui paesi ex coloniali, esponendoli al rischio di nuove politiche di conquista, forse meno cruente ma altrettanto devastanti di quelle attuate in passato dalle potenze europee.
Esempio
Sebbene alcuni territori africani fossero stati occupati dagli europei da tempi più antichi è dalla seconda metà dell'ottocento in poi che possiamo parlare di una vera e propria corsa alle colonie in Africa (cosiddetto scramble for Africa). I paesi che ebbero il ruolo di gran lunga più importante nella conquista dell'Africa furono Gran Bretagna e Francia. Con esse cercò di competere per un breve periodo la Germania, mentre il Portogallo si sforzava di mantenere i suoi antichi possedimenti e l'Italia cercava di creare il proprio impero coloniale con scarso successo. Una vicenda storica complessa portò anche il Belgio a entrare in possesso di un vasto territorio africano.
Le nazioni europee giustificarono le loro pretese sul continente africano in nome di una presunta "missione civilizzatrice". L'importanza economica dei territori africani, sia in termini di risorse naturali che di sbocchi per le merci europee fu spesso molto esagerata dai promotori delle imprese coloniali. In definitiva tuttavia l'effetto maggiore della dominazione europea fu quello di destabilizzare il continente. Molto spesso l'azione degli europei si limitò al saccheggio della risorse naturali e non vennero create strutture utili ad un'economia moderna. Nei paesi in cui si stabilirono comunità di origine europea si crearono tensioni con la popolazione locale, discriminata politicamente ed economicamente.
Il territori agli albori della prima guerra mondiale appariva così suddiviso:
Colonie inglesi : (Egitto Sudan Africa Orientale Zimbabwe Zambia Sudafrica Africa Occidentale.
Colonie francesi : Algeria, Marocco, Tunisia, Africa Occidentale Francese, Mali, Guinea, Costa d'Avorio, Ciad, Somalia francese, Madagascar
Colonie tedesche: Camerun, Africa Orientale Tedesca
Colonie portoghesi: Angola, Mozambico, Cabinda, Guinea Bissau
Colonie italiane: Libia, Eritrea ,Somalia Italiana, Abissania
Colonie belghe: Congo
Colonie spagnole: (Sahara Occidentale) Rio De Oro Rio Muni
Nazioni indipendenti: Liberia Abissinia (attuale Etiopia)
Le colonie africane si distinguevano in territori che gli europei speravano di utilizzare come fonte di materie prime e sbocco commerciale per i loro prodotti (colonie di sfruttamento come la Costa d'oro, lo Stato Libero del Congo, la Nigeria etc.) e colonie in cui veniva incoraggiata l'emigrazione europea (colonie di popolamento come l'Algeria o la Colonia del Capo). I confini erano tracciati in modo arbitrario e popolazioni tradizionalmente nemiche erano costrette a convivere mentre altre, unite dalla stessa lingua e dalla stessa storia, venivano divise. Questo avrebbe creato gravi problemi agli Stati africani anche dopo la propria decolonizzazione.
Le "filosofie" a cui si ispiravano le politiche coloniali delle potenze europee erano differenti. La Francia proponeva un modello "assimilazionista" in cui gli africani potevano ottenere gli stessi diritti dei francesi se acquisivano la cultura e i valori della nazione francese (queste persone erano dette évolués). Nella pratica tuttavia le possibilità per gli africani di partecipare realmente all'amministrazione e agli affari pubblici su un piano di parità con i bianchi erano in realtà limitatissime. La Francia incontrò di fatto alcune resistenze, ben nota quella incarnata dalla figura di Lalla Fadhma n'Soumer in Algeria.
La Gran Bretagna invece cercava di non interferire nella cultura e nelle usanze locali, mantenendo ad esempio al potere sotto tutela inglese i capi tradizionali o lasciando il diritto di famiglia sotto la giurisdizione di corti indigene (modello dell'indirect rule). La filosofia del colonialismo inglese fu in particolare espressa dal governatore della Nigeria, Lord Frederick Lugard. Questo sistema di governo incontrava minori resistenze presso le popolazioni colonizzate ma privilegiava gli elementi più conservatori delle società indigene. Anche qui gli spazi di reale democrazia erano estremamente scarsi.
In numerose colonie, come i due Congo e le colonie portoghesi, fu introdotto il lavoro forzato, con conseguenze drammatiche per i popoli africani. In altri casi i lavori pubblici più faticosi e pericolosi (ad esempio costruzione delle ferrovie) venivano fatti fare ad abitanti di altre colonie, ad esempio indiani o "coolies" cinesi legati da un contratto di indentured labour (di fatto una forma di schiavitù temporanea).

ETNIA
Il concetto di etnia e di etnicità è di difficilissima definizione date le sue diverse interpretazioni. In etnologia ed antropologia culturale per etnia si intende un raggruppamento umano determinato in base a criteri di classificazione che possono essere di tipo molto diverso (linguistici, culturali, tratti fisici, ecc).
Gli antropologi tengono comunque a precisare che il concetto di etnia è assunto unicamente come strumento di indagine e non come determinazione della realtà.
Da uno studio fondamentale risulta che le etnie, lungi dall’essere realtà naturali, sono piuttosto creazioni collettive e le rappresentazioni etniche hanno un valore performativo, ovvero ricoprono la funzione di delimitare e di suggerire uno spazio relazionale e sociale privilegiato. L’etnia è dunque una forma simbolica, una categoria di relazioni composte da rappresentazioni reciproche e da lealtà morali. A questo riguardo è interessante analizzare le diverse ipotesi identitarie prospettate ai ragazzi stranieri che vivono in Italia
Non va comunque dimenticato, come scrive Anna Maria Gentili, che "le tradizioni e dunque anche le identità di gruppo ed etniche sono continuamente manipolate da chi ha potere, da chi lo subisce, da chi lo vuole ottenere. Quindi i gruppi etnici, così come l’etnicità, sono costruzioni tanto esterne quanto interne".
Esempio
Una delle pagine più oscure, ed al tempo stesso meno divulgate, della storia del XIX secolo é quella del genocidio perpetrato dall'Impero Ottomano prima e dai Giovani Turchi poi, ai danni delle popolazioni armene stanziate da sempre sul territorio che comprendeva la parte nord-orientale dell'attuale Turchia e sulle terre a nord dell'Impero Persiano su fino alle cime del Caucaso. Ed infatti la storia ci racconta di una nazione eternamente contesa e frazionata tra molti grandi imperi, Persiano, Ottomano, Russo e continuamente devastata ed angariata da frotte di invasori quali i Turchi Selgucidi od i Mongoli.
Fino al XVIII secolo la condizione armena non segna sostanziali modifiche ma l'avvio del declino della potenza ottomana e la nascita del sentimento nazionale armeno, contemporaneamente alla conquista dell'indipendenza del popolo greco, aprono possibilità fino ad allora sconosciute. La contemporanea sollevazione dei popoli caucasici a reclamare la propria indipendenza e l'annessione da parte dell'Impero Russo dell'Armenia Orientale, concorrono a spezzare gli equilibri esistenti. Inoltre anche le maggiori potenze europee, ansiose di accrescere i propri interessi nell'area, premono sull'Impero pretendendo delle riforme interne che la Sublime Porta si vede costretta a prendere in considerazione. In questo clima effervescente l'azione armena si esplica su due fronti: il primo a Costantinopoli, dove il Patriarcato Armeno solleva la questione del riconoscimento della specificità armena, il secondo in Armenia dove nascono i primi partiti rivoluzionari armeni clandestini. Il Sultano Abdul Hamid II, preoccupato dall'attivismo armeno ed anche dallo sviluppo economico che questo popolo sta vivendo, decide di mettere alla prova le titubanti potenze straniere punendo la popolazione armena con l'esecuzione di alcuni pogrom durante i quali vengono uccisi 200.000 (300.000 secondo altre fonti) armeni nel periodo compreso tra il 1895 ed il 1997. Tutto questo avviene sotto gli occhi delle potenze europee che, come spesso faranno anche in futuro, non riescono a prendere alcuna iniziativa in difesa delle popolazioni angariate. La reazione armena consiste nell'intraprendere la guerriglia e nella creazione della Federazione Rivoluzionaria Armena, detta anche Dachnak, con basi nella vicina Armenia Russa e fortemente sostenuta dalle popolazioni locali.
Una nuova speranza, presto disillusa, nasce quando anche il potere imperiale giunge al collasso e prende sempre più forza il movimento rivoluzionario dei GiovaniTurchi, caratterizzati da un forte nazionalismo turco. Essi sembrano intenzionati ad abbattere il sistema imperiale per poi creare una federazione di tutti i popoli precedentemente inclusi nell'Impero. Ovviamente le concezioni di nazionalismo turco e di una federazione ottomana sono decisamente antitetiche e questo porterà a considerare l'elemento armeno come un pericolo interno da combattere ed annientare. Già nel 1909 avvengono i primi massacri: in Cilicia 30.000 armeni vengono uccisi dalle forze del loro partito Ittihad ve Terakki (Unione e Progresso).
Tutto ciò fu conseguenza dell'ideologia che aveva ormai impregnato l'intero partito, formata da un' intreccio di panturchismo, caratterizzato da tratti nazionalisti-irredentisti, e Turanismo*. L'unione tra indipendenza nazionale e purezza razziale furono la premessa per la conquista dell'allora provincia russa dell'Azerbaigian. Tra essa e la Turchia vi erano però proprio in mezzo le terre armene. Questa nuova campagna di conquista fornisce ai Giovani Turchi la giustificazione per l'eliminazione del "pericolo armeno".
Nel 1914 la situazione armena peggiora irrimediabilmente. In quell'anno infatti il governo turco decide di entrare in guerra a fianco degli imperi centrali e subito si lancia alla conquista dei territori azeri "irredenti". La Terza Armata turca, impreparata, male equipaggiata, mandata allo sbaraglio in condizioni climatiche ostili, viene presto sbaragliata a Sarikamish nel gennaio 1915 dalle forze sovietiche. L'esercito turco indica i responsabili della disfatta negli armeni che, allo scoppio della guerra avevano comunque assicurato il proprio sostegno all'impresa turca. Il clima si fa sempre più teso e, tra il dicembre del '14 ed il febbraio del '15, il Comitato Centrale del partito Unione e Progresso, diretto dai medici Nazim e Behaeddine Chakir, decide la soppressione totale degli armeni. Vengono creati speciali battaglioni irregolari, detti tchété, in cui militano molti detenuti comuni appositamente liberati; essi hanno addirittura autorità sui governi ed i prefetti locali e quindi godono di un potere pressoché assoluto.
L'eliminazione sistematica prende l'avvio nel 1915, quando i battaglioni regolari armeni vengono disarmati, riuniti in gruppi di lavoro ed eliminati di nascosto. Il piano turco, pensato e diretto dal Ministro dell'Interno Talaat, prosegue poi con la soppressione della comunità di Costantinopoli ed in particolare della ricca ed operosa borghesia armena: tra il 24, che resta a segnare la data commemorativa del genocidio, ed il 25 aprile, 2345 notabili armeni vengono arrestati mentre tra il maggio ed il luglio del 1915 gli armeni delle province orientali di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput vengono sterminati. Solo i residenti della provincia di Van riescono a riparare in Russia grazie ad una provvidenziale avanzata dell'esercito sovietico. Nelle città viene diffuso un bando che intima alla popolazione armena di prepararsi per essere deportata; si formano così grandi colonne nelle quali gli uomini validi vengono raggruppati, portati al di fuori delle città e qui sterminati. Il resto della popolazione viene indirizzato verso Aleppo ma la città verrà raggiunta solo da pochi superstiti: i nomadi curdi, l'ostilità della popolazione turca, i tchété e le inumane condizioni a cui sono sottoposti fanno si che i deportati periscano in gran numero lungo il cammino. Dopo la conclusione delle operazioni neppure un armeno era rimasto in vita in queste province.
La seconda parte del piano prevedeva il genocidio della popolazione armena restante, sparsa su tutto il resto del territorio. Tra l'agosto del 1915 ed il luglio del 1916 gli armeni catturati vengono riuniti in carovane e, malgrado le condizioni inumane cui vengono costretti, riescono a raggiungere quasi integre Aleppo mentre un'altra parte di deportati viene diretta verso Deir es-Zor, in Mesopotamia. Lungo il cammino, i prigionieri, lasciati senza cibo, acqua e scorta, muoiono a migliaia. Per i pochi sopravvissuti la sorte non sarà migliore: periranno di stenti nel deserto o bruciati vivi rinchiusi in caverne.
A queste atrocità scamperanno solo gli armeni di Costantinopoli, vicini alle ambasciate europee, quelli di Smirne, protetti dal generale tedesco Liman Von Sanders, gli armeni del Libano e quelli palestinesi.

Su tutte valga la testimonianza del Console italiano Giovanni Gorrini che così scrisse: "Dal 24 giugno non ho più dormito ne mangiato. Ero preso da crisi di nervi e da nausea al tormento di dover assistere all'esecuzione di massa di quegli innocenti ed inermi persone. Le crudeli cacce all'uomo, le centinaia di cadaveri sulle strade, le donne ed i bambini caricati a bordo delle navi e poi fatti annegare, le deportazioni nel deserto: questi sono i ricordi che mi tormentano l'anima e quasi fanno perdere la ragione." Anche l'intervento della Santa Sede tramite il Papa Benedetto XV non produsse alcun effetto, in funzione anche del fatto che i turchi avevano proclamato la guerra santa.
Successivamente, approfittando degli sconvolgimenti in corso in Russia a causa della rivoluzione, gli armeni sotto il controllo dell'impero zarista si ribellano e, il 28 maggio 1918, dichiarano la propria indipendenza. In seguito, dopo la presa di alcuni territori nell'Armenia turca, verrà proclamata la nascita della Repubblica Armena. Durante i lavori del Trattato di Sevrès venne perfino riconosciuta l'indipendenza al popolo armeno e la sua sovranità su gran parte dei territori dell'Armenia storica ma, come altre volte in futuro, tutto resterà solo sulla carta. Infatti il successivo Trattato di Losanna (1923) annullerà il precedente negando alle popolo armeno persino il riconoscimento della sua stessa esistenza.
La caduta del regime turco alla fine della Grande Guerra e la seguente ascesa alla guida del paese di Kemal Ataturk non cambiò la situazione. Infatti, tra il 1920 ed il 1922, con l'attacco alla Cilicia armena ed il Massacro di Smirne, il nuovo governo portò a compimento il genocidio. Dopo questi ultimi crimini non un solo armeno vivo lasciò traccia in Turchia.
La disfatta ottomana nella grande Guerra spinse i principali responsabili del genocidio ad abbandonare il paese e molti di essi fuggirono in Germania. A loro carico venne intentato un processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la direzione di Damad Ferid Pascià. Lo scopo non era evidentemente quello di rendere giustizia al martoriato popolo armeno ma di addossare le colpe dell'accaduto sulle spalle dei Giovani Turchi discolpando al tempo stesso la nazione turca in quanto tale. Il risvolto pratico del processo fu minimo in quanto, nei confronti dei condannati, non vennero mai presentate richieste di estradizione e successivamente i verdetti della corte vennero annullati. L'importanza del procedimento sta comunque nel fatto che, durante il suo svolgimento, vennero raccolte molte testimonianze che descrivono le varie fasi del genocidio a partire proprio dalle dichiarazioni di chi ne era stato artefice.
Altri processi vennero tenuti a riguardo di specifiche situazioni. A seguito di quello per i massacri del convoglio di Yozgat venne condannato il vice-governatore Kemal. Nel processo di Trebisonda si ammise la responsabilità del governatore e si descrisse il modo in cui venivano perpetrate gli annegamenti di donne e bambini. Nel processo per il massacro nella città di Karput venne giudicato in contumacia Behaeddin Chakir e si descrisse dettagliatamente il ruolo dell'Organizzazione Speciale.
A seguito però della riluttanza delle autorità turche ed alleate ad eseguire le sentenze da loro stesse emesse, il partito Dashnag creò un'organizzazione di giustizieri armeni che si incaricò di eliminare alcuni tra i principali responsabili del genocidio. Vennero così freddati Behaeddin Chakir, Djemal Azmi (il boia di Trebisonda), Djemal Pascià (componente del triumvirato dirigente dei Giovani Turchi) e l'ex Ministro degli Interni Talaat ucciso per le strade di Berlino il 15 marzo del 1921 da Solomon Tehlirian. In quest'ultimo caso le colpe a carico di Talaat emerse durante il processo furono talmente terrificanti da far assolvere Tehlirian per l'omicidio da lui compiuto.
Durante e dopo l'attuazione del piano criminale turco gran parte degli scampati e dei sopravvissuti furono costretti all'esilio ed alla diaspora. Nel 1991 a seguito della dissoluzione dell'URSS è nata la Repubblica Armena sulle ceneri dell'ex Repubblica Sovietica Armena. Il 90% dell'Armenia storica, comunque rimane sotto il controllo della Turchia che, oltre a non voler ammettere alcuna responsabilità riguardo al genocidio, rifiuta categoricamente la restituzione anche parziale dei territori da loro occupati.
Attualmente il genocidio armeno è stato riconosciuto come realtà storica di cui la Turchia dovrà farsi carico in diverse sedi. L'ONU, anche se in sordina, lo ha fatto il 29 agosto del 1985 mentre il Parlamento Europeo si pronunciò in proposito il 18 giugno 1997. A tutt'oggi il riconoscimento del genocidio da parte della comunità internazionale sembra ancora ben lontano dall'essere una realtà ed i timidi tentativi, quali quello dell'Assemblea Nazionale Francese, di dare dignità storica ai fatti avvenuti in quegli anni sono stati tutti immediatamente insabbiati dalle inconsulte reazioni turche e dal vergognoso silenzio-assenso delle grandi potenze, primi fra tutti gli USA, che hanno sempre dato maggiore importanza ai propri interessi politici ed economici piuttosto che alla giustizia ed al rispetto di quei principi morali ai cui spesso loro stessi fanno appello e di cui si sentono custodi.
GUERRA CIVILE
Il termine di guerra civile indica genericamente un conflitto combattuto all'interno di uno stato tra opposte fazioni o formazioni armate ribelli e forze governative in lotta tra loro per il potere politico o il controllo di un'area. Alcune guerre civili sono anche chiamate rivoluzioni quando si prospetta una grande ristrutturazione della società al termine del conflitto. Un'insurrezione, che abbia successo o meno, è spesso classificata come guerra civile dagli storici solo se eserciti organizzati combattono vere e proprie battaglie. Altri storici, invece, parlano di guerra civile quando si verificano violenze prolungate tra fazioni organizzate o regioni di un paese (indipendentemente se si tratti di battaglie convenzionali o no). Si utilizzerà invece il termine di guerra di secessione nel caso in cui l'obiettivo finale è quello della scissione di una parte di territorio dallo stato e la formazione di un nuovo stato indipendente. Il confine fra il concetto di guerra civile e altre forme di conflitti interni ad uno stato è estremamente arbitrario e labile, anche se con conseguenze importanti a livello internazionale (per esempio l'ONU ha competenza limitata nel caso di guerre civili, non ne ha alcuna nel caso di insurrezioni, mentre ha poteri attivi nel caso di guerre di secessione).
È solitamente accettata l'idea secondo cui fattori nazionalistici, religiosi e ideologici hanno svolto un piccolo ruolo nelle guerre civili pre-moderne. Mentre è abbastanza comune da parte dei nazionalisti leggere sommosse del passato come quelle della Scozia contro l'Inghilterra primi esempi di nazionalismo. Ma queste sono letture molto controverse. Alcune guerre civili possono invece essere viste come all'inizio alimentate da fattori religiosi: è ad esempio il caso delle rivolte ebraiche contro la dominazione romana. Tuttavia è possibile leggere rivolte servili contro gli oppressori, oppure rivolte guidate dalle élite locali per conquistare l'indipendenza.
Quasi tutte le nazioni hanno al loro interno minoranze etniche, diverse religioni e divisioni ideologiche, ma non tutte conoscono la guerra civile. I moderni sociologi hanno discusso e cercato le ragioni di queste conflitti. Oggi molti conflitti civili scoppiano nelle nazioni povere, autocratiche, regionalmente divise. Tuttavia, anche i democratici e ricchi Stati Uniti hanno fatto l'esperienza della guerra civile, che secondo alcuni sarebbe stata originata dal crescente potere economico del Nord rispetto a quello del Sud. Secondo alcuni sarebbero quindi i periodi di transizione a favorire la scoppio di guerre civili. Così ad esempio anche in Inghilterra, dove i conflitti civili del XVII secolo si spiegherebbero con il crescente potere della borghesia mercantile. E gli esempi potrebbero continuare. Alcune ricerche hanno affermato che le guerre civili aumentano in stati che conoscono molti regimi di transizione e cambiamenti politici.
In una guerra civile le due fazioni in lotta all'interno della stessa nazione hanno come obiettivo la distruzione totale dell'avversario, distruzione fisica e ideologica. Questa è la caratteristica principale della guerra civile: una fazione non si arresta fino a che non ha eliminato l'altra.
Esempio
L'integrità dello stato jugoslavo, garantito dal governo comunista di Josip Broz Tito, si sbriciola in modo sconcertante ai primi anni novanta. La morte del grande capo nel 1980 non intaccò il sistema di potere basato sul dominio del partito unico e dell'esercito ma anche su forme di decentramento per unità produttive e comunità nazionali. Le varie religioni [1] erano inquadrate in una sostanziale laicità istituzionale, che riconosceva in modo paritario le varie festività. In particolare la Bosnia-Erzegovina era la regione dove si era realizzata una vera e propria comunità multietnica, con tantissimi matrimoni misti e con una visione molto aperta e moderna dell'islam.
Una prima avvisaglia si ha nel 1981, quando la regione del Kosovo (80% di albanesi) vide delle sommesse di ragazzi che rivendicavano lo status di repubblica all'interno della Federazione. Fino al 1991 la Jugoslavia era uno stato federale di cui facevano parte, da nord a sud: Solvenia – Croazia – Serbia – BosniaErzegovina – Macedonia. Kosovo e Montenegro erano organi amministrativi autonomi all'interno della Repubblica di Serbia , la più grande e la più rappresentata negli organi federali tra le repubbliche.
La sommossa dei giovani kosovari è repressa con facilità. Il crollo avviene dopo la caduta del muro di Berlino e coincide con l'ascesa di Slobodan Milosevic ai vertici del partito comunista e dello stato. Le pressioni esterne per un'apertura indiscriminata ai mercati internazionali trova stato e popolo impreparati e innesca meccanismi centrifughi per cui le province più ricche e legate all'occidente (Slovenia e Croazia) sostengono una riforma istituzionale che trasformi la federazione in confederazione.
Quale fu la scintilla? La guerra civile in Jugoslavia scoppia con la dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia nel 1991. Riconosciute da Germania e Unione Europea i nuovi stati sono aggrediti militarmente dall'esercito federale jugoslavo, in realtà divenuto esercito della repubblica serba, dando vita ad una guerra vera e propria. Il conflitto entra in una spirale tragica alimentandosi dei peggiori fantasmi della storia balcanica: tornano i miti di tutte le precedenti guerre, da quelle medievali a quelle della seconda guerra mondiale; vengono riscritti i libri di storia; reinventata la lingua….la propaganda nazionale diventa un unico inno all'odio etnico . L'escalation del fanatismo panslavo induce la Bosnia a proclamare l'indipendenza (1992). Il 6 aprile dello stesso anno inizia il cannoneggiamento di Sarajevo e l'assedio della capitale della Repubblica della Bosnia Erzegovina. Ufficialmente la guerra in Bosnia riguardava i serbi-bosniaci che avevano dichiarato una propria repubblica indipendente “Republika Srpska”: in realtà si trattava di un tentativo di conquista mano militare del territorio da parte dell'esercito di Serbia.
Il conflitto che ha disintegrato la federazione jugoslava rappresenta una specie di “buco nero” per la civiltà europea del dopoguerra. Non c'era infatti un esercito che perseguiva precisi obiettivi strategici, né – come succedeva in Somalia e Afganistan – bande di irregolari che si spartivano il controllo del territorio. In Bosnia agivano eserciti pressoché regolari con l'obiettivo di uccidere e far scappare le popolazioni di etnia rivale, di compiere cioè un genocidio . Tornarono i cetnici e gli ustascia, tornarono i campi di concentramento, le fosse comuni, le deportazioni e le stragi. E divenne familiare il pericolo del cecchino: ovvero del militare che, nascosto dietro una finestra, spara ai civili inermi – meglio se donne e bambini – intenti ad attraversare la strada, fare la spesa, comprare il pane o riempire bottiglie d'acqua.
Inoltre bisogna aggiungere che la guerra assunse presto una forma di “tutti contro tutti”: Serbia contro Croazia e Bosnia; ma anche Bosnia contro Croazia poiché all'interno della Bosnia la minoranza croata aveva rivendicato l'annessione con lo stato-madre. La guerriglia era fatta casa per casa, villaggio per villaggio, dove ogni esercito che prevaleva provvedeva alla “pulizia etnica”: bruciava o confiscava le abitazioni, cacciava o uccideva le persone di etnia sbagliata.
Le Nazioni Unite gestivano l'assistenza umanitaria e molti contingenti internazionali agivano sul territorio per proteggere i progetti di assistenza. L'incapacità dei paesi di trovare una soluzione e di fare qualcosa segnò una sconfitta storica per la politica dell'Unione Europea. Fu soltanto nel 1995, dopo 200 mila morti e molti milioni di profughi e rifugiati, che la guerra vide la sua fine con gli accordi di Dayton (Stati Uniti),
LA GUERRA DI POSIZONE
La guerra di posizione non è altro che la trasformazione quasi obbligata della guerra lampo. Dopo i primi veloci attacchi e avanzamenti in particolare nella prima guerra mondiale essi si stabilizzarono andando a creare complessi sistemi di cunicoli e gallerie soprannominati trincee. La guerra di trincea ha rappresentato una caratteristica tipica e unica del primo conflitto mondiale, anche se era gia' stata adottata secoli addietro durante le operazioni d'assedio. La vera novita' venutasi a creare alla fine del 1914 era che le trincee degli opposti schieramenti correvano lungo tutto il fronte, impedendo di fatto ogni possibilita' di condurre una guerra di movimento. All'inizio furono usate le buche da granate collegate tra loro con corridoi e rinforzate con filo spinato per protezione; ma dopo un anno tutto cio' si era trasformato in un sistema complesso costituito, da fossati scavati a zigzag e muniti di muretti, postazioni di tiro e rinforzati con piastre d'acciaio per il tiro da cui i soldati potevano sparare al riparo. Oltre la prima trincea, reticolati di filo spinato, e "cavalli di Frisia", e la distanza tra le trincee degli opposti schieramenti, la cosiddetta "terra di nessuno" variava in funzione del terreno. Nelle retrovie si sviluppò un complesso di infrastrutture comprendenti posti di comando, centri di medicazione, strade e ferrovie. Nelle trincee invece i soldati vivevano in ricoveri sotterranei, resi un pò più comodi per gli ufficiali. Naturalmente la costruzione e la disposizione delle trincee variò anche dalla dislocazione del fronte; basti pensare al fronte dolomitico o carsico, dove la costituzione del terreno impediva quasi sempre la costruzione in profondità nel terreno, e quindi l'uso di aggiungere ad esso massi rocciosi e dove lo permetteva l'aggiunta di bassi muretti a secco e mucchi di sassi e a volte manufatti in cemento. Oltre a questo, le differenze di costruzione dipendevano anche dalla differente filosofia bellica.
Esempio
Primo esempio storico che si rifà all’utilizzo di trincee fu certamente la Grande Guerra. L´Agosto 1914 vide per la prima volta nella storia tutto il mondo impegnato in una guerra. Si trattava di una guerra diversa da quelle combattute fino ad allora, sia per la sua entità spaziale e temporale, sia per il numero di uomini coinvolti. Si trattava di una guerra moderna, con nuove armi (alcune delle quali uscirono durante la guerra stessa) e nuove strategie di combattimento. Al momento dell´esplosione del conflitto si prevedeva una guerra lampo. Ben presto le previsioni dovettero essere smentite.
La guerra iniziò come guerra di movimento, ma nel giro di un anno divenne una GUERRA DI POSIZIONE. Da ciò derivò la GUERRA DI TRINCEA, l´aspetto più innovativo della Grande Guerra, un´esperienza terribile e disumana. I soldati erano esposti al sole, alla pioggia, alla neve. Erano costretti a vivere nella polvere o nel fango, a contatto con feriti e morti. Molti soldati furono per anni gravemente sconvolti da questa esperienza.
Dietro la trincea più avanzata, la prima linea, si trovavano parecchie linee di trincee. Servivano soprattutto a contenere gli attacchi che fossero riusciti a superare la prima li. Le trincee erano collegate per mezzo di camminamenti. Attraverso essi passavano i soldati che portavano alla prima linea ordini, viveri o altri rifornimenti. Le trincee avversarie distavano normalmente 100-400 metri. In mezzo, nella Terra di nessuno, erano sistemati dei reticolati. Prima dell’assalto dovevano essere tagliati con grave pericolo per gli uomini con questo incarico: un attacco o un bombardamento potevano avvenire in qualunque momento.
Furono due, in Europa, i fronti principali su cui si combatte: quello Carnico, le cui linee si estendevano per 800 km con la forma di una grande s disposta orizzontalmente sulle alpi venete e articolata nei salienti del trentino e dell’Isonzo, collegati con un tratto quasi rettilineo; e quello Occidentale, una lunga "Esse" estesa per più di 1000 Km al confine tra la Francia e la Germania (tra le zone più calde del conflitto). Di minore rilevanza il fronte orientale, tra le steppe nevose della Russia.
GUERRA LAMPO
Essa definisce una particolare tecnica di guerra utilizzata per la prima volta nella Grande Guerra dall’impero tedesco e successivamente nella seconda guerra mondiale sempre dalla Germani nazista. La guerra lampo prevedeva un massiccio e concentrato utilizzo di tutta l’artiglieria disponibile e un’efficiente organizzazione dell’enorme macchina bellica. Punto di forza furono proprio i reparti aerei con il compito preventivo di bombardare il fronte nemico e incutere così grande paura. A questo si accompagnava l’azione di particolare reparti di “sfondo” con il compito di avanzare oltre le linee nemiche, lasciandosi alle spalle contingenti nemici da sconfiggere definitivamente solo in un secondo momento. Questa tecnica appariva estremamente efficiente proprio per questa sua velocità di avanzata. La guerra lampo nasceva da un’esigenza strettamente economica, infatti come fu nel caso della Germania, essa non poteva sostenere per lungo tempo spese militari e risorse umane per lungo tempo, era dunque necessaria l’applicazione di questa particolare strategia che teoricamente avrebbe potuto segnare le sorti dell’Europa in brevissimo tempo.
Esempio
Agli albori del secondo conflitto mondiale, quando ancora l’Europa non soccombeva sotto il tallone nazista, molti intravedevano nella forza svastica come un movimento che si sarebbe ben presto fermato davanti a eserciti possenti come quello francese e successivamente quello inglese. Tuttavia la macchina bellica tedesca si dimostrò spaventosamente possente e, sfruttando i principi della "guerra lampo" (blitzkrieg), un’azione militare che prevedeva il concentrico utilizzo di artiglieria, mezzi corazzati ed aviazione, in appoggio alla fanteria, nel giro di pochi mesi pose l’intera Europa sotto l’egemonia della svastica.
Dopo aver liquidato, in poche settimane, la Polonia e dopo l’invasione di Danimarca e Norvegia, anche Belgio, Lussemburgo, Olanda e soprattutto Francia, furono costrette a capitolare di fronte alla straripante superiorità degli eserciti nazisti.
Il 14 giugno 1940, poteva sfilare, trionfalmente, a Parigi e lo stesso giorno Hitler in persona, accompagnato dal suo architetto personale Speer, attraversò le strade deserte della capitale francese, estasiato dalla sue grandiosità e dalle meraviglie che si ponevano ai suoi occhi.
Nei suoi propositi, Berlino, una volta vinta la guerra, una volta assicurato, ai figli ariani, il dominio sui popoli, avrebbe dovuto essere ricostruita ed assurgere così a degna cornice e al rango della capitale della razza dominatrice, assumendo contorni talmente maestosi da far impallidire la stessa Parigi.
La fine della guerra appariva solo una questione di tempo visto che la sola Inghilterra si frapponeva tra Hitler ed il trionfo; i vertici militari del reich convennero che l’invasione del regno di sua maestà sarebbe stata possibile solamente dopo aver conquistato la supremazia aerea ma, clamorosamente, la cosiddetta "battaglia d’Inghilterra", vide soccombere una Lutwaffe in schiacciante superiorità numerica, nei confronti di una RAF che ottenne la salvezza grazie all’impiego di un nuovo apparecchio, il radar, in grado di segnalare ed a questo punto Hitler commise un errore che si sarebbe rivelato tragicamente fatale per le sorti del III reich: senza aver domato l’impero britannico, decise di sferrare l’attacco al vero nemico del popolo tedesco, rappresentato dall’Unione Sovietica di Stalin, accettando di combattere su due fronti, convinto come era di schiantare, nel giro di breve tempo, la resistenza dell’armata rossa e di infliggere il definitivo colpo di grazia all’odiato movimento bolscevico.
Il 22 giugno 1941, nello stesso fatidico giorno in cui, nel 1812, Napoleone muoveva le sue armate contro la Russia zarista, la grande Germania, al culmine della sua potenza decise, dunque, di sferrare, a sorpresa, l’attacco all’Unione Sovietica, in quella che fu denominata "Operazione Barbarossa".
La Wehrmacht poteva contare su un apparato militare spaventosamente potente al quale si aggiungeva l’apporto fornito dagli alleati, tra cui spiccavano le divisioni inviate da Mussolini, che andarono a costituire lo CSIR (corpo di spedizione italiano in Russia); nonostante i tentativi dei vertici militari di convincerlo a desistere, il duce fu irremovibile, volendo partecipare anch’egli a quella che doveva essere la certa distruzione del nemico bolscevico ed anzi, al primo contingente, fece poi seguito l’VIII armata, denominata ARMIR (armata italiana in Russia).
Fu così che decine di migliaia di soldati italiani si affiancarono ai loro alleati tedeschi, in quella che inizialmente fu un’avanzata inarrestabile ed incontenibile.
Stalin fu colto letteralmente di sorpresa dalla decisione di Hitler ed altrettanto lo fu un’Armata Rossa ancora frastornata dalle purghe degli anni precedenti, che avevano portato alla decapitazione dei vertici dell’esercito. I tre gruppi di armate tedesche, nord, centro, sud, rispettivamente dirette a Leningrado, Mosca e Caucaso, sfondarono ripetutamente le linee sovietiche facendo incetta di prigionieri e materiale.
Ben presto furono conquistate le principali città, mentre Leningrado venne cinta d’assedio.
Hitler era convinto di essere ormai sul punto di trionfare ma commise tutta una serie di errori che gli furono poi fatali: la popolazione russa era di certo esasperata dalle persecuzioni di Stalin e, forse, avrebbe gradito un liberatore, sia pure nelle vesti del nemico, ma il fuhrer ordinò, di agire senza nessuna pietà nei confronti di un popolo che avrebbe dovuto scomparire per far posto alla suprema razza ariana; le barbarie e la crudeltà delle SS dunque furono agghiaccianti e man mano che la Wehrmacht avanzava, alle sue spalle si faceva terra bruciata tra la popolazione civile, con il massacro di interi villaggi.Fu così che gli orrori nazisti contribuirono, in maniera decisiva, a rinsaldare il sentimento patriottico dei russi: essi fecero, infatti, quadrato attorno al loro capo supremo Stalin il quale, dal canto suo, si lanciò in appassionati proclami radiofonici al fine di salvare la "santa madre Russia" dalla ferocia del nemico tedesco.
Ma l’errore più madornale fu commesso sul piano militare: la macchina da guerra germanica continuava infatti ad avanzare con estrema facilità nel cuore del territorio sovietico ma Hitler e i suoi generali furono troppo indecisi sulla tattica da seguire, ossia se puntare dritti su Mosca o proseguire verso il bacino del Don; si trattò però di un’ indecisione fatale per la Germania Nazista visto che, a causa di quei tentennamenti, entrò ben presto in gioco quello stesso alleato che in passato già aveva permesso ai Russi di sconfiggere le truppe napoleoniche, ossia il "cosiddetto generale inverno".
Le truppe tedesche, già in difficoltà per gli estenuanti trasferimenti lungo le sterminate pianure sovietiche e alle prese quindi con evidenti problemi di collegamento tra le prime linee e le retrovie, vennero fermate, alle porte di Mosca, dalla strenua resistenza dell’armata rossa e, soprattutto, dal terribile inverno sovietico, che rese impossibile l’avanzata.
Dopo diversi mesi, dunque, quella che sembrava un lampo senza fine, una marcia trionfale si arrestava, mentre, al contrario, Stalin approfittò dell’immobilismo forzato delle operazioni belliche per riorganizzare l’esercito, che poteva contare su un inesauribile numero di effettivi e di riserve e rifornito di materie prime e materiali militari nuovi di zecca, prodotti dalle fabbriche trasferite, all’inizio dell’invasione, al di là degli Urali e che marciavano a pieno ritmo, guidate dal rinnovato sentimento patriottico e dalla ritrovata unità nazionale, minacciata dallo spettro nazista.
Le operazioni militari dell’asse ripresero in primavera ma Hitler decise di cambiare obbiettivo, abbandonando Mosca e puntando, verso sud, ai pozzi petroliferi del Caucaso e a Stalingrado, la città simbolo del comunismo e del regime, situata sul fiume Volga, al fine di aggirare la capitale da est e tagliare la ritirata all’armata rossa.
Si trattava di infliggere un colpo mortale al nemico, ma Stalingrado si rivelò, viceversa, fatale alle armate naziste, in quella che fu la battaglia che decise le sorti del secondo conflitto mondiale.
GUERRA TECNOLOGICA
Per guerra tecnologica si intende quella nuova guerra che fa da sfondo agli scenari di guerra futuri. È quella guerra basata sulle più sofisticate tecnologie. Si pensi alle bombe intelligenti, ai razzi guidati da terra e a tutti quegli strumenti creati da follia umana e utili solo alla distruzione e al dispendio di risorse umane. Spesso il concetto di guerra tecnologica è stato un concetto che ha fatto discutere politici e capi di stato. Molti ne parlano come se fosse una sorta di guerra pulita, una guerra che mira all’evitare il pericolo per le vite umane. Questo è certamente un concetto puramente falso, da eliminare proprio in ambito di geopolitica, Bisogna continuare pensare che la guerra è una cosa orrenda e che la gente muore. Se un governo credesse che la guerra ha solo un costo economico, senza la perdita di vite umane, avrebbe meno scrupoli ad avviare sempre nuovi conflitti. Appare dunque chiaro come lo scopo delle armi intelligenti non è mai stato quello di far morire meno gente sul fronte nemico, caso mai nell'evitare perdite interne. L'obiettivo è la razionalizzazione delle risorse, di mezzi e l'accelerazione dei tempi.
Esempio
Il più grande esempio di guerra tecnologica può essere creato citando in causa i cosiddetti signori della guerra tecnologica.
Hanno sede in Virginia, negli Usa, succursali in tutto il mondo, e sono nati poco più di quindici anni fa diventando in pochi mesi, stupendo rivali e committenti, un vero e proprio colosso. Ma chi sono? Sono i nuovi signori della guerra tecnologica e privatizzata: questa è la storia della Mpri, oggi la più potente e diffusa agenzia di sicurezza e di consulenze militari al mondo. Questa è la storia di un gruppetto di alti ufficiali statunitensi che, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, si sono ritrovati a dover affrontare una delle più drastiche riduzioni di personale mai affrontate da un ente pubblico americano. Si doveva liquidare un intero esercito, ripensarlo, ridimensionarlo. I tempi stavano cambiando, i modi di combattere, addestrare e gestire i rapporti di forza con gli alleati andava profondamente trasformato. E dopo cinquant'anni un'intera casta di alti ufficiali provenienti dalla marina all'aviazione, dall'esercito ai servizi, andava ricollocata in qualche modo. Questo gruppo di soldati accettò un prepensionamento anticipato in cambio di una non troppo velata promessa di accedere a contratti e appalti da parte del Pentagono e delle agenzie di inteligence (Nsa per prima). Promessa che non ha tardato a realizzarsi. Riporta il New York Times: "Mpri ha tenuto corsi di addestramento militare in 200 università Usa, Il Pentagono ha persino assunto Mpri per partecipare alla stesura della sua dottrina militare e del manuale di campo Contractors Support on the Battelfield che stabilisce le regole secondo cui l'esercito interagisce con i privati come Mpri".
Fin dall'inizio degli anni `90 il Pentagono ha usato la Mpri per aggirare l'embargo Onu di vendita di armi nella ex Jugoslavia e rifornire di materiale bellico la Croazia. Inoltre la Mpri, con il cosiddetto Croatian Armed Forces Readiness and Training System (Carts) ha addestrato le truppe e la polizia croata che poi nel 1995 lanciò l'"Operazione Temporale", uno dei peggiori episodi di pulizia etnica verificatosi durante il conflitto, in cui più di 200.000 serbi rimasero senza tetto dopo un'offensiva che durò meno di una settimana.
Il portavoce della Mpri, generale Soyster, ha dichiarato recentemente al New York Times che la Mpri non è stata coinvolta nella preparazione dell'Operation Storm, ammettendo però che "vi hanno partecipato alcuni ufficiali addestrati dalla compagnia". Questo dato però viene smentito da fonti croate che dichiararono nel corso degli anni che il ruolo dell'Mpri fu invece determinante nel successo dell'operazione. E non solo. L'addestramento alla pulizia etnica delle truppe croate si dimostrò così efficiente che, quando pochi mesi dopo nel dicembre 1995 si arrivò a discutere la pace di Dayton, i bosniaci pretesero le stesse armi e lo stesso addestramento dei croati, e tra le clausole di pace chiesero, ottenendolo, il diritto di assumere la Mpri. La Mpri fu pagata con fondi illimitati versati ai bosniaci dalle opere pie islamiche (di Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Kuwait, Brunei e Malesia). E ancora: le truppe croate addestrate dalla Mpri hanno in seguito addestrato e assistito negli anni successivi la violentissima polizia montenegrina.
Pochi anni dopo il colpo di genio. Assistere tutte e due le parti di un conflitto con contratti separati. Quando scoppiò il conflitto in Kosovo, con il "Stability and Deterrence Program" la Mpri ottenne l'appalto per equipaggiare e addestrare l'esercito della Macedonia e aiutarlo a difendersi dagli attacchi dell'Uck kosovaro. Nello stesso tempo, con un altro contratto, la Mpri aveva ricevuto la delega dal Pentagono per addestrare ed equipaggiare l'Uck.
Ma il grande successo della Mpri arriva con la guerra in ex-Jugoslavia all'inizio degli anni '90. Il governo Usa, non potendo e non volendo intervenire direttamente nel conflitto decise comunque di esercitare appoggio a una delle fazioni sul campo, il governo Croato, per poi potersi garantire alla fine del conflitto tutti gli appalti relativi alla ristrutturazione dei nuovi eserciti nazionali nati dalla frantumazione del paese. E quindi subappaltò alla neonata Mpri il ruolo di riorganizzare, armare e addestrare il nascente esercito nazionale dopo il disastro dell'assedio di Vukovar. E quello dell'Mpri non si rivelò solo un intervento passivo, tecnico, anzi. La Mpri spesso si trova a determinare le azioni politiche e militari sia dei paesi appaltatori che degli stessi Stati Uniti.

Per quanto riguarda invece la questione degli armamenti, la Mpri ha negato più volte di avere aiutato i croati ad armarsi dal '91 al '95, ma anche in questo caso si trovava in una posizione per svolgere come minimo un ruolo indiretto. Secondo un funzionario governativo in pensione, che oggi fa da intermediario per gli accordi relativi agli acquisti di apparecchiature militari per conto dei croati, Zagabria ha comprato armamenti da un commerciante di armi tedesco, Ernst Werner Glatt. Il signor Glatt è un personaggio molto particolare nella storia dei conflitti degli ultimi trent'anni: entrando a conoscenza della sua storia sembra di immergersi nella sceneggiatura di un pessimo film di spionaggio di serie B. Negli anni '80, Glatt era il mercante d'armi preferito dalla CIA, che lo ha scelto per vendere armi ai contras in Nicaragua e ai mujahedin in Afghanistan; Glatt è arrivato a fornire 200 milioni di dollari di armi all'anno, denaro che gli è servito per acquistare una tenuta in Virginia, che ha chiamato Aquila Nera, riferendosi esplicitamente a un simbolo della Germania nazista e da qui ha continuato a dirigere i suoi affari. Durante lo stesso periodo Soyster, che poi andò a ricoprire un incarico ai massimi livelli nella Mpri, lavorava per la DIA (una delle agenzie di servizi segreti statunitensi), che assegnava anch'essa appalti milionari a Glatt. Quest'ultimo ha ricevuto somme enormi dalla DIA nel corso degli anni '80 affinché si procurasse armi sovietiche da spedire negli Stati Uniti, da dove venivano in seguito inviate a strutture militari che lavoravano per gli USA in America Latina, Asia e Africa. Dopo che Soyster si è ritirato, lui e Glatt sono diventati soci d'affari in almeno un contratto per la vendita di armi per conto della stessa Mpri e proprio nel periodo del conflitto nei Balcani.
Oggi la Mpri cresce e allarga i suoi orizzonti di intervento dopo un decennio di buoni affari nei Balcani, a Timor, in Medio Oriente. Questi prestanti pensionati sono oggi attivi in Afghanistan e Iraq. Non lo nascondono affatto (come tentarono di fare nel periodo della guerra Juogoslavia), anzi, gli annunci di lavoro aggiornati settimanalmente sono eloquenti. Si cerca ogni tipo di personale, dalla sicurezza ai sistemi d'arma e agli strateghi. La politica estera dell'amministrazione Bush rappresenta un pozzo senza fine per questa azienda. Gli affari non sono mai andati così bene.
Alla Mpri non ci si ferma mai, si cercano e si trovano sempre nuovi mercati da esplorare. E come era prevedibile oggi l'azienda lavora anche nel paese considerato il più violento del mondo, la Colombia: si è infatti inserita nel gruppo di aziende specializzate nel fornire 'assistenza tecnica' e 'consiglieri militari' alle forze armate colombiane, grazie ai buoni auspici del Pentagono, per eludere le limitazioni degli emendamenti del Congresso che fissano il personale statunitense in Colombia a 250 addetti militari e 100 impiegati civili nella cosiddetta "guerra della coca". Ma in realtà il principale compito della Mpri è come al solito quello dell'addestramento, in questo caso dei "battaglioni della morte" in azione in particolare nel sud del paese al confine con l'Ecuador. Protagonisti, quindi, di una delle tante guerre non dichiarate ma combattute (o come in questo caso appaltate) dagli Stati Uniti.
IMPERIALISMO
La politica che mirava alla conquista di colonie è stata chiamata genericamente colonialismo. Nei secoli precedenti, la conquista e la colonizzazione erano state realizzate prevalentemente da avventurieri, come Cortes e Pizarro, o da gruppi di emigranti, come quelli che inizialmente popolarono l'America del Nord o l'Australia. Invece nella seconda metà dell'Ottocento la politica coloniale venne organizzata e condotta direttamente dagli Stati, che impegnavano le proprie truppe e i propri armamenti, o talvolta da grandi compagnie private, appoggiate dai governi: il colonialismo fu quindi un aspetto della politica estera e militare delle grandi potenze.
Tale politica fu definita anche imperialismo, perché il suo scopo era quello di costituire dei veri e propri imperi, anche economici, organizzati in modo che le colonie fornissero materie prime abbondanti e a basso costo alle industrie dello Stato dominante. Tali industrie, a loro volta, avrebbero potuto beneficiarne per mantenere basso il prezzo dei loro prodotti finiti e così diffonderli conquistando i mercati mondiali.
L'imperialismo marcia sempre di pari passo col nazionalismo, che divenne un movimento di massa, in quanto raccoglieva larghi consensi in molte classi sociali:
- tra gli antisocialisti;
- tra i partiti conservatori e reazionari;
- tra le categorie più coinvolte dall'industrializzazione (ceti borghesi);
- tra i ceti popolari meno consapevoli.
Questo perché l'adesione ai miti della superiorità della civiltà occidentale, della cultura europea, dei valori borghesi, della razza bianca, della forza militare e delle potenza tecnico-scientifica, ecc., servivano per compattare un paese che voleva imporsi a livello mondiale. L'esempio più classico è il pangermanesimo (l'unificazione di tutti i popoli di lingua tedesca in una grande Germania).
Protagoniste dell'imperialismo sono: Francia, Inghilterra, Olanda, Belgio, Italia, Germania, Giappone, Stati Uniti e in parte la Russia zarista.
Ogni nazione capitalistica, per evitare il fenomeno della sovrapproduzione di merci, causato dal fatto che la produzione è meccanizzata e non risponde ad esigenze riproduttive ma ad accumulare profitti, in quanto la proprietà dei mezzi produttivi è privata, ha bisogno di colonie ove esportare i propri manufatti, e ha altresì bisogno di acquistare materie prime a buon mercato e di sfruttare una manodopera a basso costo, al fine di reggere la concorrenza di altri paesi che da tempo hanno intrapreso la stessa strada dello sviluppo capitalistico.
Quando una nazione diventa "imperialistica", scatta subito, a livello di politica economica interna, l'esigenza di proteggere le proprie merci dalla concorrenza straniera: è il fenomeno del "protezionismo".
Oltre a questo si assiste a una progressiva concentrazione della produzione nelle mani di pochi gruppi o cartelli industriali monopolistici (trust) e a una progressiva centralizzazione dei capitali nelle mani di pochi istituti finanziari. Sia gli uni che gli altri gruppi hanno dimensioni enormi.
Come noto la fase moderna del colonialismo, quella che caratterizza la nascita dell'epoca borghese e capitalistica, inizia con l'espansione della Spagna e del Portogallo nel XVI secolo, anche se queste nazioni non rappresenteranno l'esempio paradigmatico della potenza coloniale e imperiale borghese, in quanto il loro colonialismo fu sostanzialmente una forma di saccheggio e di rapina i cui proventi non furono investiti in uno sviluppo industriale vero e proprio. Al massimo il loro colonialismo si caratterizzò sul piano commerciale, analogamente al colonialismo belga e olandese, che vennero superati da quello delle nazioni più industrializzate.
La fase dell'imperialismo si conclude negli anni '20 del secolo XX, cioè dopo la fine della I guerra mondiale, che porterà alla spartizione dell'impero ottomano tra le potenze europee.
Gli anni compresi tra il 1870 e il 1915 apparentemente rappresentano un periodo di pace in Europa solo perché si era avviato un processo di forte egemonia coloniale a livello mondiale e anche perché la Germania non era ancora pronta per dimostrare ch'era in grado di partecipare alla spartizione delle colonie. In realtà nei maggiori Stati europei, proprio negli anni formalmente di pace, venivano preparati eserciti volti principalmente a scatenare conflitti bellici, nella convinzione, rivelatasi poi erronea, che chi avesse colpito per primo, avrebbe ottenuto i migliori risultati.
Esempio
La prima vera e propria politica imperiale e coloniale ottocentesca fu attuata dall' Inghilterra.
L'impero britannico impose alle colonie l'uso della propria lingua e un sistema di governo che si basava su funzionari inglesi efficienti e ben pagati, sull' organizzazione militare della Royal Navy, la marina da guerra di gran lunga più potente dell'epoca, e su un esercito poco numeroso, ma ben equipaggiato. L'impero britannico si estese nell'Ottocento su circa 33 milioni di chilometri quadrati ed ebbe il controllo di 450 milioni di abitanti.
Alle colonie più antiche (Canada, Australia, Nuova Zelanda) fu riservato un trattamento di particolare favore: ottennero infatti una larga autonomia politica ed economica per tutti gli affari interni e i loro abitanti furono riconosciuti come cittadini dell'impero britannico con diritti pari agli Inglesi.
Nel corso dell'Ottocento la politica coloniale inglese si indirizzò soprattutto, ma non esclusivamente, verso l'Africa. Qui l'Inghilterra voleva assicurarsi sia i rifornimenti di materie prime sia soprattutto il controllo su alcuni punti strategici per il commercio inglese. Nel 1882 occupò l'Egitto, importante per controllare il canale di Suez. Seguirono le colonie create nel Sudan, in Nigeria, nel Kenya, in Rhodesia, nella Costa d'Oro e nel Sudafrica. Quest'ultima fu sottratta con una sanguinosa guerra a coloni di origine olandese (i Boeri).
Sul finire del secolo, tutta l'Europa, e non solo l'Inghilterra, partecipò alla conquista di colonie africane. Il Belgio ebbe il Congo, ricchissimo di miniere di rame e lo sottopose a un durissimo e rapace sfruttamento. La Francia, che possedeva l'Algeria dal 1830, occupò la Tunisia, il Ciad, il Dahomey (oggi Benin), la Mauritania. Anche la Germania intervenne occupando il Toga, il Camerun e l'attuale Namibia. Restarono indipendenti in Africa solo l'Etiopia e la Liberia, un piccolo Stato creato appositamente per dare una patria a ex schiavi provenienti dagli Stati Uniti.
Nei confronti delle due maggiori nazioni asiatiche, India e Cina, l'imperialismo britannico ebbe manifestazioni differenti. L'India entrò a far parte dell'impero britannico nel 1876 quando la regina Vittoria fu proclamata imperatrice delle Indie. A governare quell' enorme territorio fu inviato un alto funzionario, che ebbe il titolo di viceré. Il dominio inglese sull'India ebbe due fasi. Dapprima fu soltanto un duro sfruttamento: ad esempio, la fiorente manifattura indiana che produceva tessuti di cotone venne completamente rovinata dalla concorrenza di quella inglese. Successivamente, dopo alcune ribellioni, l'Inghilterra modificò il proprio modo di governare l'India, impegnandosi anche a modernizzare la sua economia e a creare una classe media di funzionari indiani istruiti e ben addestrati che collaborassero nell' amministrazione del paese.
Si può sostenere che quella degli Inglesi in India fosse una politica coloniale più intelligente e di larghe vedute rispetto a quelle generalmente in uso nell'Ottocento, ma comunque essa mirò soprattutto a mantenere il controllo di quel vastissimo dominio. Tuttavia il governo britannico realizzò oltre 50.000 km di ferrovie, 60.000 km di strade la costruzione di scuole, ospedali, ponti, dighe, e grandi bonifiche agricole. E non soltanto sorsero grandi piantagioni per produrre materie prime, ma vennero anche create numerose industrie locali per trasformarle in prodotti finiti.
Il volto più brutale e aggressivo dell'imperialismo fu invece quello che la stessa Inghilterra mostrò nei confronti della Cina, costretta, dopo una vera e propria guerra, ad accettare l'infame commercio dell'oppio, una droga dagli effetti assai dannosi sull'organismo umano.
Tale droga veniva importata in Cina, in grandi quantità, proprio da mercanti inglesi che la scambiavano con prodotti cinesi. Essa produsse in pochi anni conseguenze catastrofiche sulla popolazione. Ma alle proteste e alle resistenze del governo cinese l'Inghilterra rispose con una guerra che durò tre anni, dal 1839 al 1842 e fu chiamata appunto guerra dell'oppio.
La sconfitta della Cina portò all'insediamento inglese a Hong Kong e a una lunga serie di trattati commerciali ingiusti, vantaggiosi solo per gli occidentali e imposti con la forza.
Il grande, antico e civilissimo impero cinese divenne un semplice mercato per la vendita dei prodotti occidentali. Le grandi potenze non fecero della Cina una colonia vera e propria, ma divisero il suo territorio in varie zone, ciascuna sotto l'influenza di un paese europeo, che usava i suoi porti per commerciare con l'interno.
INFLAZIONE &DEFLAZIONE
Inflazione e deflazione sono due termini che In economia sono utilizzati per designare, rispettivamente, la diminuzione o l'aumento del valore della moneta, in rapporto ai beni e servizi che essa può acquistare.
L'inflazione è l'aumento dilagante e prolungato del livello aggregato dei prezzi, calcolato secondo un indice del costo dei vari beni e servizi. L'aumento dei prezzi intacca il potere d'acquisto del denaro e di altre attività finanziarie con valori fissi, creando gravi distorsioni economiche e incertezza. L'inflazione si verifica quando pressioni economiche effettive e la previsione di futuri sviluppi provocano un'eccedenza dei beni e servizi rispetto all'offerta ai prezzi esistenti, o quando la produzione disponibile viene ridotta da un andamento negativo della produttività e da vincoli di mercato. Storicamente, i continui aumenti dei prezzi sono stati legati alle guerre, agli scarsi raccolti, alle turbolenze politiche o ad altri avvenimenti del genere.
La deflazione si riferisce a una prolungata diminuzione del livello dei prezzi, come avvenne durante la Grande Depressione degli anni Trenta; generalmente è associata a una prolungata riduzione dell'attività economica e a un'elevata disoccupazione. Drastiche e diffuse riduzioni dei prezzi sono però diventate alquanto rare, e l'inflazione risulta ora la principale variabile macroeconomica, che influenza la pianificazione economica sia privata sia pubblica.
Quando la tendenza al rialzo dei prezzi è graduale e irregolare, contenuta mediamente entro pochi punti percentuali all'anno, tale inflazione, detta "strisciante", non viene considerata una seria minaccia al progresso economico e sociale. Può addirittura stimolare l'attività economica: l'illusione della crescita del reddito personale oltre l'effettiva produttività può incoraggiare il consumo; l'investimento edilizio può aumentare in previsione di una futura rivalutazione dei prezzi; l'investimento aziendale in impianti e attrezzature può accelerare dato che i prezzi salgono più rapidamente dei costi e che i debitori (privati, imprese, enti pubblici) prevedono che i prestiti saranno ripagati con denaro che ha un potere d'acquisto potenzialmente minore.
Un problema maggiore è rappresentato dall'attuale modello d'inflazione cronica caratterizzato da un aumento dei prezzi molto maggiore, con tassi annuali che vanno dal 10 al 30% in alcune nazioni industrializzate e fino al 100% o più in alcuni paesi in via di sviluppo. L'inflazione cronica si avvia a diventare permanente e tende sempre più a salire con l'accumularsi della distorsione economica e delle previsioni negative. L'inflazione cronica altera inoltre il normale svolgimento delle attività economiche: i consumatori acquistano beni e servizi per evitare prezzi più alti in futuro; la speculazione edilizia aumenta; le aziende si limitano agli investimenti a breve termine; gli incentivi a risparmiare, a stipulare assicurazioni, a costituirsi pensioni e ad acquistare obbligazioni a lungo termine si riducono in quanto l'inflazione diminuisce il loro futuro potere d'acquisto; i governi espandono rapidamente le spese in previsione di entrate inflazionate e i paesi esportatori risentono di svantaggi sul terreno della concorrenza che li obbligano a ricorrere al protezionismo e al controllo dei cambi.
L'inflazione da domanda si verifica allorché la domanda aggregata supera le scorte disponibili, forzando aumenti dei prezzi e incrementando le spese per salari e materie prime, e i costi d'esercizio e finanziari. L'inflazione da costi si verifica quando i prezzi aumentano per coprire le spese totali e mantenere margini di profitto. Una diffusa spirale costo-prezzo si presenta, a lungo andare, non appena gruppi e istituzioni rispondono a ogni nuova tornata di aumenti. La deflazione appare quando gli effetti della spirale si invertono.
Per spiegare perché gli elementi fondamentali della domanda e dell'offerta variano, gli economisti hanno indicato tre fattori: la quantità disponibile di moneta; il livello aggregato del reddito; e un insieme di elementi che deprimono la produttività. I sostenitori del monetarismo ritengono che le variazioni nel livello dei prezzi riflettano quelle nell'offerta di moneta. Essi suggeriscono che, per creare prezzi stabili, l'offerta di moneta dovrebbe aumentare a un tasso stabile commisurato alla reale capacità produttiva dell'economia. I detrattori di questa teoria ribattono che le variazioni nell'offerta di moneta sono una risposta ad aggiustamenti dei livelli dei prezzi, e non la causa degli stessi.
La teoria dell'inflazione basata sul livello aggregato del reddito è quella dell'economista inglese John Maynard Keynes. Secondo la scuola che ne è derivata, il keynesismo, sono le variazioni nel reddito nazionale che determinano i tassi di consumo e investimento; pertanto, le spese statali e le politiche di imposizione fiscale dovrebbero essere utilizzate per mantenere una piena produttività e alti livelli di occupazione. L'offerta di moneta dovrebbe venire regolata in modo da finanziare il livello desiderato di crescita economica evitando crisi finanziarie e alti tassi di interesse che scoraggiano il consumo e l'investimento. Le spese statali e le politiche fiscali possono venire utilizzate per sconfiggere inflazione e deflazione regolando la domanda e l'offerta in base a questa teoria.
La terza teoria si concentra su taluni fattori suscettibili di erodere la produttività, quali, ad esempio: mutamenti nella composizione ed età della forza lavoro; l'eccessiva proliferazione di regolamentazioni pubbliche; il dirottamento di investimenti di capitale a usi improduttivi; la crescente scarsità di alcune materie prime; gli eventi sociali e politici che hanno ridotto gli incentivi lavorativi ecc.
Gli effetti specifici dell'inflazione e della deflazione sono molteplici e fluttuano nel tempo.
La deflazione è tipicamente causata dalla produzione economica depressa e dalla disoccupazione. Ribassi dei prezzi possono incoraggiare aumenti di consumo, investimento e commercio estero, ma solo se vengono corrette le cause principali del deterioramento originario.
L'inflazione, inizialmente accresce i profitti aziendali, dato che salari e altri costi rimangono indietro rispetto agli aumenti dei prezzi, con l'effetto di incrementare investimenti di capitale e pagamenti di dividendi e interessi. Le spese personali possono aumentare per la tendenza a comprare prima che i prezzi dei beni salgano ulteriormente; la potenziale rivalutazione delle proprietà immobiliari potrebbe attirare compratori. L'inflazione interna può temporaneamente migliorare la bilancia commerciale se il medesimo volume di esportazioni può essere venduto a prezzi più alti.
Nonostante questi guadagni temporanei, l'inflazione alla lunga distrugge le normali attività economiche, specialmente se fluttua. I tassi di interesse solitamente aumentano per compensare aumenti previsti dell'inflazione, e tali aumenti scoraggiano la spesa dei consumatori e riducono il valore di azioni e obbligazioni.
Il quadro che si presenta in situazioni d'inflazione è piuttosto articolato. L'inflazione erode il reale potere d'acquisto dei redditi correnti e delle proprietà finanziarie accumulate, risolvendosi in una riduzione del consumo, specialmente se i consumatori non possono, o non desiderano, ridurre i propri risparmi e aumentare i propri debiti personali. L'investimento risente del declino dell'attività economica e i profitti vengono limitati non appena i dipendenti chiedono l'applicazione delle clausole di scala mobile. Molti costi operativi e di materie prime rispondono rapidamente ai segnali inflazionistici. Prezzi d'esportazione maggiori alla lunga limitano le vendite all'estero, creando deficit commerciali e problemi valutari. L'inflazione è un elemento fondamentale nei cicli economici che causano distorsioni di prezzi e occupazione e una diffusa incertezza economica.
Alcuni studiosi hanno raccomandato l'uso di varie politiche dei redditi per combattere l'inflazione. Queste variano dalle disposizioni vincolanti su salari, prezzi, canoni e tassi di interesse, agli incentivi e disincentivi fiscali fino alle semplici indicazioni di applicazione facoltativa. I sostenitori di tali politiche affermano che le autorità dovrebbero adottare le misure monetarie e fiscali fondamentali, mentre i critici sottolineano l'inefficacia dei precedenti programmi di controllo nelle nazioni industrializzate e mettono inoltre in discussione l'opportunità di accrescere il controllo statale sulle decisioni economiche private. Le future politiche di stabilizzazione si concentreranno, con ogni probabilità, sul coordinamento delle politiche monetarie e fiscali e sugli sforzi volti a ripristinare la produttività e a sviluppare nuove tecnologie.
Tutte le questioni nazionali di inflazione, deflazione e politiche connesse sono state rese ancora più importanti dalla mobilità degli investimenti e dalla speculazione nei mercati deregolamentati e mondializzati del tardo XX secolo. Quando la finanza internazionale può cambiare il valore di una valuta in pochi minuti, o far piombare un paese nella recessione con massicci esodi di capitali, politiche economiche solide divengono essenziali per la stabilità dell'economia.
Esempio
Esempi di inflazione e deflazione si sono verificati nel corso della storia, ma non si dispone di dati che consentano di misurarne l'andamento prima del Medioevo. Gli storici dell'economia ritengono che il XVI e il XVII secolo abbiano costituito un periodo di inflazione a lungo termine in Europa, sebbene il tasso medio annuo, dall'1 al 2%, fosse modesto per i canoni moderni. Cambiamenti più significativi ebbero luogo durante la guerra d'indipendenza americana, quando i prezzi negli Stati Uniti aumentarono mediamente dell'8,5% al mese, e durante la rivoluzione francese, quando aumentarono del 10% al mese. Queste impennate relativamente brevi erano seguite dall'alternarsi di lunghi periodi di inflazioni e deflazioni internazionali, legate a precisi eventi politici ed economici.
Nella forma più estrema, l'aumento cronico dei prezzi diventa "iperinflazione" e causa la rottura dell'intero sistema economico. L'iperinflazione verificatasi in Germania in seguito alla prima guerra mondiale, ad esempio, fece sì che il volume della moneta circolante si espandesse di oltre 7 miliardi di volte e i prezzi aumentassero 10 miliardi di volte durante i 16 mesi che precedettero il novembre del 1923. Altre iperinflazioni si erano verificate negli Stati Uniti e in Francia nel tardo 1700, e si verificarono nell'ex URSS e in Australia dopo la prima guerra mondiale; in Ungheria, Cina e Grecia dopo la seconda; e in qualche paese in via di sviluppo in anni recenti. In regime di iperinflazione, la crescita della quantità di moneta e del credito risulta esplosiva, distrugge ogni legame con i valori reali e obbliga ad affidarsi a complesse forme di baratto. I governi tentano di coprire le spese in continuo aumento espandendo rapidamente l'offerta di moneta, ma questo modo di finanziare i disavanzi (o deficit) di bilancio aggrava la spirale dell'inflazione e compromette la stabilità economica, sociale e politica.
Una forma di inflazione storicamente importante nel periodo del bimetallismo o del regime monetario aureo fu lo svilimento, che consisteva nel ridurre la quantità di metallo prezioso nelle monete coniate. Ciò assicurava guadagni allo stato, che con lo stesso quantitativo di metallo prezioso poteva coniare più monete, ma a lungo andare faceva aumentare i prezzi.
L'epoca successiva alla seconda guerra mondiale è stata caratterizzata da livelli di inflazione relativamente elevati in molti paesi e verso la metà degli anni Sessanta si è manifestata una tendenza all'inflazione cronica in molte nazioni industrializzate. Dal 1965 al 1978, ad esempio, i prezzi al consumo americani aumentarono mediamente del 5,7% all'anno, con una punta del 12,2% nel 1974. In Gran Bretagna l'inflazione toccò un picco del 25% nel 1974, in seguito al quadruplicarsi dei prezzi del petrolio. Altre nazioni industrializzate registrarono un'analoga accelerazione nell'aumento dei prezzi, ma alcuni paesi, come la Germania Occidentale (ora parte della Repubblica Federale Tedesca), evitarono l'inflazione cronica. Considerando l'integrazione di molti paesi nell'economia mondiale, questa diversità di risultati rifletteva la relativa efficacia delle politiche economiche nazionali.
La tendenza inflazionistica sfavorevole s'invertì tuttavia nella maggior parte dei paesi industrializzati verso la metà degli anni Ottanta. Politiche fiscali e monetarie statali d'austerità iniziate nella prima parte del decennio, sommate a rapidi declini nei prezzi mondiali del petrolio e dei prodotti, riportarono il tasso di inflazione al 4% circa.
POGROM
POGROM in lingua russa il termine significa “distruzione” esso in effetti intende una sommossa popolare, scatenata con l'appoggio o con la tolleranza delle autorità, contro le proprietà e la vita di minoranze religiose, razziali o nazionali. In modo specifico il termine viene riferito al massacro organizzato di ebrei. Il primo pogrom della storia avvenne nella Russia zarista nel 1881, in seguito all'assassinio dello zar Alessandro II per mano di terroristi rivoluzionari. Un altro massacro di ebrei ebbe luogo nel 1903 nella città di Chisimaio in Bessarabia. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 in Russia, circa seicento villaggi e città subirono un'ondata di pogrom: migliaia di ebrei furono massacrati e le loro proprietà saccheggiate e distrutte. In apparenza, questi pogrom sembravano risposte spontanee di cristiani indignati dalle pratiche religiose ebraiche, in particolar modo dal supposto rito dell'assassinio di bambini cristiani, legato alla festività della Pasqua ebraica; tuttavia dai documenti risulta con chiarezza che i pogrom furono deliberatamente organizzati dal governo zarista per incanalare il malcontento dei lavoratori salariati e dei contadini, dovuto alle condizioni politiche ed economiche, deviandolo sull'intolleranza religiosa e sull'odio etnico. Durante la guerra civile che seguì alla rivoluzione bolscevica del 1917, i pogrom, che provocarono centinaia di migliaia di vittime, furono organizzati in Ucraina dai capi dell'Armata bianca.
Esempio
Romania.
Il 21 Giugno 1941 la Romania prese parte all'offensiva contro l'Unione Sovietica con l'obiettivo di riconquistare la Bessarabia e la Bucovina, due regioni che erano state occupate l'anno prima dall'URSS. L'offensiva dell'esercito rumeno veniva accompagnata da pogrom e massacri di inaudita ferocia. I territori venivano praticamente "liberati" da tutti gli ebrei. La prima misura che i rumeni mettevano in atto in ogni villaggio e città in cui entravano era quella di rastrellare e ammazzare gli ebrei e i comunisti. Limitiamoci qui ad un paio di esempi che risaltano per le enormi dimensioni e l'efferatezza. Immediatamente dopo l'entrata dell'esercito rumeno a Cernáuti, il capoluogo della Bucovina, piú di 2000 ebrei vennero assassinati in meno di 24 ore dalla soldatesca scatenata, da bande di legionari armati e dalla canaglia locale. A Chisinu, il capoluogo della Moldavia, piú di 10.000 ebrei vennero massacrati solo nei primi due giorni dell'occupazione rumena. Durante l'offensiva in Ucraina persero la vita nel pogrom di Mogiljov 4.000 ebrei. Dopo la presa di Odessa il comandante di un Lager di raccoglimento costituito in tutta fretta diede ordine di appiccare fuoco a un complesso di stalle dove erano alloggiati 5.000 ebrei vecchi e malati, i quali bruciarono vivi. I restanti 43.000 ebrei in salute vennero invece fucilati in un bosco dei dintorni. 200 tra loro vennero risparmiati per ammucchiare i cadaveri. Dopo che le guardie ebbero dato fuoco alle pile di corpi, vennero fucilati anche gli "aiutanti".
Dietro la linea del fronte era la plebaglia locale ad incaricarsi dello sterminio. L'amministrazione militare rumena coordinava insieme alle autorità locali la deportazione degli ebrei sopravvissuti nei campi di concentramento aperti nelle regioni occupate.
Nel Settembre del 1942, piú o meno sei mesi dopo l'apertura dei Lager della morte in Polonia, Hitler diede istruzioni ad Antonescu di deportarvi gli ebrei della Romania. Antonescu dapprima esitò e alla fine si rifiutò di obbedire, non per scrupoli di coscienza, ma perché gli era chiaro che la guerra era ormai persa. Allorché nel Marzo del 1944 l'Armata Rossa cominciò ad avvicinarsi ai territori "liberati", i Lager dovettero essere trasferiti in territorio rumeno. Piú di 300.000 ebrei rumeni, il 40% del totale, perirono durante la deportazione, nei Lager e nei pogrom. Ad essi vanno aggiunti i 150.000 ebrei ucraini trucidati durante l'occupazione. I Rumeni non ebbero bisogno dell'aiuto tedesco, riuscirono a realizzare tutto questo con le proprie forze.

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