Tre elaborati scritti su l'unificazione d'Italia

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Testo

Tre elaborati scritti su l’unificazione d’Italia
- Il 1848 in Italia: le insurrezioni popolari e l’iniziativa piemontese;
- Descrivi in una relazione le diverse impostazioni ideologiche e politiche che diedero vita al Risorgimento;
- Il processo d’indipendenza e di unificazione nazionale maturò rapidamente tra il 1857 e il 1861 con due protagonisti non proprio in sintonia: Cavour e Garibaldi.

1. Il 1848 in Italia: le insurrezioni popolari e l’iniziativa piemontese
Per sviluppare la relazione puoi seguire la seguente scaletta:
• La rivolta palermitana e il suo significato propulsivo;
• Le costituzioni moderate;
• Il significato emblematico delle “cinque giornate di Milano”;
• Il dibattito intellettuale intorno a casa Savoia;
• L’intervento di Carlo Alberto;
• Le varie fasi della prima guerra d’indipendenza:dalla dichiarazione di guerra all’Austria alla sconfitta di Novara;
• La caduta delle repubbliche democratiche e la repressione austriaca e francese.
Le sommosse e le rivolte che anche in Italia si svilupparono nel 1848 sono sicuramente la conseguenza dei moti rivoluzionari parigino e viennese, ma sono anche testimonianza del processo di crescita compiuto dai movimenti liberali. Il movimento liberale aveva avuto infatti un grande impulso in seguito all’elezione di papa Pio IX (1846), pontefice che si dimostrò molto più aperto dei suoi predecessori, che avviò una cauta ma chiara politica di riforme d’ispirazione liberale, concedendo un’ampia amnistia per i reati politici e istituendo una consulta di stato, una sorta di parlamento sia pure con semplici funzioni consultive. Questi provvedimenti, pur non avendo nulla di rivoluzionario, aprirono una nuova fase politica nel corso della quale anche in Italia le spinte innovatrici riuscirono a disgregare il compatto sistema politico della restaurazione.
In Piemonte e in Toscana i sovrani misero in atto le prime riforme istituzionali concedendo una limitata libertà di stampa. Questi provvedimenti infatti non fecero altro che interpretare orientamenti e stati d’animo assai diffusi nell’opinione pubblica. Infatti, dove i sovrani si opposero a questa moderata apertura liberale, come nel regno delle Due Sicilie, le rivolte non tardarono ad esplodere. A Palermo, con un mese d’anticipo rispetto a Parigi, si verificò una vasta sollevazione popolare che costrinse il sovrano, dopo che il moto si era esteso anche nel Cilento e nel Napoletano, a concedere la Costituzione. Questo avvenimento produsse in tutti gli stati italiani grandi aspettative. A Torino le pressioni popolari per ottenere una costituzione analoga a quella napoletana si fecero assai intense e Carlo Alberto, divenuto re nel 1831 in seguito alla morte di Carlo Felice, dopo notevoli incertezze fu spinto anche dai suoi ministri a concedere lo statuto (4 marzo 1848), subito imitato dal Granduca di Toscana.
I domini austriaci, alla vigilia della rivoluzione di marzo, erano così circondati non più da stati satelliti sottoposti al controllo dell’impero, bensì da monarchie costituzionali nelle quali era sempre più forte l’influenza degli ideali liberali.
Il Lombardo – Veneto aveva seguito con passione crescente gli avvenimenti italiani dall’elezione di Pio IX in poi, e il suo malcontento si era espresso in segni non dubbi, nonostante il pesante e poliziesco regime ultimamente inasprito da Radetzky, ottantenne energico comandante militare di Milano. Nel 1847 trionfali accoglienze ebbe il nuovo arcivescovo Romilli, succeduto al tedesco Gaysruck; nel settembre a Venezia il Congresso degli Scienziati fu occasione per vibranti manifestazioni a Pio IX; nel gennaio 1848 l’astensione dal fumo e dal lotto, monopoli di stato, dette luogo a tafferugli e colluttazioni con la forza pubblica a Milano, Padova, Venezia, dove furono arrestati anche i due capi più in vista dell’agitazione patriottica: Daniele Manin e Nicolò Tommaseo.
Quando giunsero a Venezia il 17, e a Milano il 18, le notizie della rivoluzione viennese e del licenziamento di Metternich, tutti sentirono il momento per l’azione decisiva. A Venezia i patriotti riuscirono ad ottenere pacificamente la liberazione dei prigionieri politici, lo sgombero delle truppe austriache, e costituirono un libero governo repubblicano con Manin. Come a Venezia così in tutte le altre città del Lombardo – Veneto le popolazioni si sollevarono: a Milano la cacciata degli austriaci rivestì il carattere di un’autentica guerra di popolo. Tutta la città si coprì di barricate, tutti i cittadini si trasformarono i soldati, e dopo una lotta durata dal 18 al 22 (le cinque giornate) il Radetzky con i suoi 15000 uomini dovette sgomberare la città. Ormai il territorio lombardo – veneto era libero; gli austriaci furono costretti a rifugiarsi nelle fortezze del Quadrilatero e da lì attendevano lo svolgersi degli eventi, che si prospettava per essi oscuro e minaccioso.
Infatti in Austria imperversava il disordine rivoluzionario, e in Italia, mentre Parma e Modena avevano cacciato i rispettivi sovrani, al soccorso dei lombardo – veneti si era mosso il Piemontese stavano per muoversi altri stati. Carlo Alberto decise quindi di dichiarare guerra all’Austria (23 marzo), da lui e dai patrioti tanto desiderata: un proclama ai popoli della Lombardia e del Veneto e l’adozione della bandiera tricolore (con la croce sabauda) doveva appunto esprimere il nuovo significato nazionale della vecchia guerra sabauda contro l’Austria. Anche gli altri sovrani costituzionali, trascinati dalla volontà dei loro popoli, inviarono truppe e lasciarono partire volontari.
Tra l’aprile e il maggio contro l’Austria erano in campo, oltre all’esercito piemontese forte di 60 mila uomini, 17 mila Pontifici, 16 mila Napoletani, sette mila Toscani, quasi tutti volontari. In tutto circa 100 mila uomini.
Dopo i primi successi, però, la condotta militare del conflitto suscitò, per lentezze ed incertezza, molte perplessità nei volontari e nel governo provvisorio lombardo, che con il Piemonte aveva la responsabilità della conduzione della guerra. Inoltre, l’eccessiva fretta con cui Carlo Albero puntava all’annessione della Lombardia al suo regno non solo creò fratture all’interno del fronte rivoluzionario, ma insospettì gli altri sovrani, che temevano un rafforzamento della monarchia piemontese. Uno dopo l’altro, a cominciare da Pio IX, i sovrani ritirarono le truppe, indebolendo così le possibilità offensive dell’esercito piemontese.
In realtà l’azione militare aveva subito un arresto perché il sovrano sabaudo era preoccupato soprattutto di concludere ogni spazio all’iniziativa popolare e ai democratici, paralizzando così la conduzione della guerra, resa già difficile dal fatto che gli ufficiali piemontesi, tutti aristocratici, non erano affatto convinti della causa nazionale ed antiaustriaca. In questo quadro, le prime sconfitte subite dai piemontesi fecero precipitare la situazione.
A Custoza, dopo tre lunghi giorni e sanguinosi combattimenti, il 25 luglio il grosso delle truppe piemontesi fu sconfitto e Carlo Alberto fu costretto a ritirarsi precipitosamente, lasciando Milano nelle mani degli Austriaci. A Vigevano, il 9 agosto, il generale Salasco firmò l’armistizio con l’Austria.
Carlo Alberto rientrato in Piemonte si trovò di fronte a una situazione confusa.
I democratici dai giornali, dalle piazze, dal parlamento insistevano per la ripresa della guerra. Sfruttavano il senso generale di umiliazione e di disagio per la sconfitta, della quale gettavano la responsabilità esclusivamente sui fattori tecnici e sui comandi, senza risparmiare lo stesso sovrano; additavano l’esempio di Venezia ancora in armi; parlavano di tradimento, di viltà, di ignominia. Agli antipodi dei democratici vi erano i conservatori: essi ammonivano Carlo Alberto che traesse una lezione dall’esito così disastroso dell’avventura nazionale e liberale in cui si era lasciato trascinare, e ristornasse, adesso che era ancora in tempo, alla politica dell’assolutismo e dell’interesse piemontese. La posizione più equilibrata era quella dei moderati; essi, senza escludere un’eventuale ripresa della guerra, erano contrari ad una ripresa immediata, che avrebbe significato peggiorare la sconfitta, non potendosi in poche settimane riparare ai difetti tecnici né, tanto meno, rifare il morale delle truppe. La posizione dei moderati era indebolita dall’essere stato il loro programma smentito dagli eventi, di cui essi però davano la maggiore responsabilità ai fattori politici e, precisamente, alle gelosie antipiemontesi dei patrioti lombardi e dei principi italiani. Per reazione essi avevano accentuato l’atteggiamento diffidente. Il che offrì l’occasione a Gioberti di attuare una violenta campagna contro di essi, i “municipali”, campagna che lo fece accostare ai democratici.
Carlo Alberto allora si rivolse a lui per tentare un esperimento di governo democratico (10 dicembre) che non corresse il rischio di pericolosi estremismi. Gioberti si prefisse di impedire il rafforzamento del potere dell’Austria, in quanto era ancora impossibile riuscire a sconfiggerla. E poiché il rafforzamento sarebbe automaticamente derivato a sostegno dei principi minacciati o cacciati dalla rivoluzione, così egli pervenne l’Austria offrendo l’aiuto delle armi piemontesi a Leopoldo II minacciato, e a Pio IX cacciato. L’aiuto piemontese avrebbe legato i due principi e contribuito indirettamente alla futura Confederazione: perché Gioberti continuava a lavorare per la Confederazione, per la quale aveva rilanciata la proposta di una Costituente italiana sul presupposto del mantenimento delle varie dinastie. Il piano di Gioberti fu sconfessato dai democratici, e Gioberti dovette dimettersi. Era un piano politico troppo sottile, per essere anche psicologicamente opportuno. E, certo, giudicando in rapporto agli eventi come poi effettivamente si svolsero, ebbe ragione piuttosto Carlo Alberto di voler riprendere la guerra, che Gioberti di voler rubare il mestiere all’Austria. Con quella il Piemonte ribadiva il significato di nazionale e liberale della sua politica, con questo veniva compromesso l’uno e l’altro.
Le dimissioni di Gioberti (21 febbraio 1849) segnarono la marcia verso la guerra. Il comando venne dato al generale polacco Adalberto Chrzanowsky; con la ripresa della guerra Carlo Alberto voleva smentire le accuse di tradimento, viltà, e se la sua incapacità era stata la causa della sconfitta, egli ora si toglieva di mezzo. Così, Carlo Alberto rivendicava la sincerità del suo ideale e, sacrificandosi, legava per sempre il Piemonte alla causa italiana. La guerra fu comunque ripresa senza entusiasmo. Tutte le operazioni si svolsero nell’arco di quattro giorni (20-23 marzo). Mentre i Piemontesi passavano il Ticino al ponte Buffalora, gli Austriaci lo passavano a Pavia, dove il gen. Ramorino non aveva mantenuto le posizioni prestabilite. I Piemontesi dovettero ripiegare dunque e prepararsi a sostenere l’urto nemico. Dopo qualche scontro preliminare alla Sforzesca e a Mortasa, il grosso dei eserciti si affrontò a Novara: battaglia accanita durata tutto il giorno. A sera Carlo Alberto sconfitto abdicava il trono e partiva subito per l’esilio, nel quale pochi mesi dopo, ad Oporto, si sarebbe spento (28 luglio 1849). Diventava re Vittorio Emanuele II. Tre giorni dopo firmava un armistizio con Radetzky.
La partita con l’Austria questa volta era definitivamente chiusa. Il Piemonte si reclinava sua se stesso a rimediare i mali del passato e a prepararsi per l’avvenire.
All’appello di Carlo Alberto qualche città si era mossa, ma la notizia di Novara aveva ricondotto la calma. Soltanto Cresci ostinatamente resistette benché gli Austriaci, padroni del castello, bombardassero senza posa la città. Dopo dieci giorni, il 1 aprile, capitolò. Anche a Modena e a Parma, i principi erano stati ricondotti dalle armi austriache, mentre nel regno delle Due Sicilie Ferdinando I dava gli ultimi colpi al costituzionalismo napoletano e al separatismo siciliano. Il colpo di stato del 15 maggio 1848 aveva ferito a morte la costituzione: era sì rimasto in vita un addomesticato parlamento, ma anche questo fu licenziato il 13 marzo 19849. Successivamente Ferdinando II proseguì all’assoggettamento del resto della Sicilia. Dopo il rifiuto della corona da parte di Ferdinando di Savoia, la situazione del regno indipendente della Sicilia era diventata equivoca e aveva offerto alla diplomazia anglo-francese il pretesto per ostacolare il ritorno della dinastia Borbone. In seguito ad un terribile bombardamento di Messina nel settembre 1848 tale diplomazia aveva indotto Ferdinando ad una tregua. Ma, dopo Novara, il Borbone aveva ripreso energicamente le operazioni per l’assoggettamento dell’isola, terminato con la resa di Palermo il 15 maggio.
Dopo il Veneto e la Lombardia, dopo Modena e Parma, anche Napoli e Sicilia erano state ricondotte alla condizione primitiva: la rivoluzione aveva fallito le sue mete, e il governo assoluto era ritornato in tutta la sua pienezza. Governi costituzionali erano rimasti a Firenze e a Roma ma anche essi poco dopo vennero demoliti. Caduta Roma il 3 luglio, cessata la resistenza in Ungheria il 13 agosto, anche Venezia capitolò, il 23 agosto: ultima in Italia e in Europa ad abbassare la bandiera, innalzata con tanto ardore nei giorni pieni di speranza della primavera del ’48.
2. Descrivi in una relazione le diverse impostazioni ideologiche e politiche che diedero vita al Risorgimento.
Per sviluppare la relazione puoi seguirvela seguente scaletta:
• Il ruolo svolto dai mezzi di comunicazione dell’epoca nella formazione di un’opinione pubblica nazionale;
• Il neoguelfismo e la proposta di Gioberti;
• Le posizioni di Cesare Balbo e di Massimo d’Azeglio;
• Il pensiero di Mazzini e la Giovine Italia;
• La posizione “originale” di Cattaneo;
• Definizione e significati del termine “Risorgimento”.
In Italia il clima era in grande cambiamento. Il problema dell’indipendenza, il sentimento nazionale, il patriottismo insomma, non erano più problemi e sentimenti di un’élite. Essi interessavano ormai una cerchia sempre più larga di italiani. Essi penetravano un po’ tutto l’ambito della vita collettiva, e segnavano ormai in modo inconfondibile ogni manifestazione culturale.
Così l’indagine e la narrazione storica, già tanto favorite dal movimento romantico, trovano nuovo alimento in questo clima. Dal 1836 escono a Torino i Monumenta historiae patriae e dal 1842 a Firenze l’Archivio storico italiano: nei vecchi documenti si cerca il volto della patria. I lineamenti di questo volto vogliono ritrarre alcune opere famose, come la Storia d’Italia nel Medioevo di Carlo Troya (dal 1839), la Storia del Vespro Siciliano di Michele Amari (1842), il Sommario della Storia d’Italia di Cesare balbo (1846). Anche romanzieri e poeti attingono alla storia degli Italiani del passato spunti e temi per presentarli come esempio e stimolo agli italiani del presente. L’interpretazione che essi danno dai fatti risulta sollecitata, e spesso alterata, dalle loro preoccupazioni patriottiche: e Arduino d’Ivrea diventa campione dell’indipendenza, ed Ettore Fieramosca del valore italiano contro lo straniero, e tutto il medioevo è percorso da fremiti nazionalistici e indipendentistici. La stessa fredda scienza non rimane estranea al generale risveglio patriottico. I congressi degli scienziati italiani, che si incominciano a tenere nel 1839, sono meno palestra di discussioni scientifiche che occasione per incontri e fucina di idee politiche. Per questo caddero in sospetto di taluni principi, che ne impedirono la partecipazione ai loro sudditi. L’interesse per le dottrine e per i problemi economici si ravviò nella discussione sul nuovo mezzo di trasposto, le ferrovie. Le prime ferrovie furono costruite in servizio dei sovrani e della corte (Napoli-Portici nel 1839, Milano-Monza nel 1840); ma i patrioti le intesero invece subito come un mezzo efficacissimo per “cucire lo stivale”. In generale la risoluzione dei problemi economici fu vista nella sua ripercussione politica e orientata a realizzare un’intesa e un’unità di mercato, premessa all’intesa e all’unità politica. La scuola pedagogica toscana si allarga ora con il contributo delle dottrine di Gioberti e di Rosimini e accentua il carattere civile, liberale e patriottico, mentre si moltiplicano le iniziativa per aprire scuole popolari e per diffondere la cultura fra il popolo. Tutta scossa da vibrazioni patriottiche è anche la musica in generale e il dramma lirico in particolare. Il teatro diventa un convegno di patrioti e l’arte contrabbanda le aspirazioni, gli odi e gli amori degli italiani. Con pronta immediatezza, negli argomenti e nelle circostanze messe in scena lo spettatore vede l’allusione alle condizioni presenti, e gli applausi o i fischi, gli “evviva” o gli “abbasso” trapassano dalla finzione alla realtà. Non solo le opere in questo clima, come il Nabucco (1842), i Lombardi alla prima Crociata (1843), e più tardi, la Battaglia di Legnano (1849) e i Vespri Siciliani (1855), ma anche opere nate prima, come la Norma (1831) o il Guglielmo Tell (1829), fanno vibrare le platee.
Tutto questo movimento spirituale e culturale trovò la sua espressione politicamente più efficace nell’opera di Vincenzo Gioberti, Del Primato civile e morale degli Italiani, pubblicata a Bruxelles nel 1843. In essa egli sviluppa la tesi della supremazia spettante all’Italia nella civiltà europea, e perciò mondiale: supremazia nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, in ogni attività spirituale. Questa supremazia risulta dall’indole stessa degli italiani, la più ricca ed equilibrata indole pelagica, come egli dice, ossia mediterranea, e dal custodire essi il cattolicesimo romano. Già il Medioevo vide in atto questa supremazia, perduta poi da quando Lutero in religione e Cartesio in filosofia compromisero l’ortodossia religiosa e laverà filosofica. Tale supremazia occorre oggi restaurare, rifacendo l’unità dell’Italia attorno al suo centro naturale, il Papato. Non con le rivoluzioni – di importazione straniera – ma con le riforme – secondo il genio indigeno – l’Italia si farà unita, e sul principio interno religioso, incarnato nel Papato, essa ripiglierà la sua missione universale. Gioberti propone, in concreto, una confederazione di principi riformatori sotto la presidenza moderatrice del pontefice. Il successo del Primato fu fulmineo e travolgente: tutta l’Italia fu giobertiana. Ciò perché in esso trovano espressione perspicua, in un concreto programma politico, le idee e le aspirazioni già nell’aria.
Il Primato si riconnette sia con il moderatismo italiano, sia con il cattolicesimo liberale francese. Del primo coglie la tendenza riformista; del secondo la tesi della conciliabilità di cattolicesimo e di Papato con idee e progresso moderni. Sancisce poi la persuasione, ben radicata nella cultura e nello spirito pubblico dell’Italia e del romanticismo, la persuasione cioè dell’indissolubile connessione fra cristianesimo e civiltà e, subordinatamente, della indipendenza delle fortune d’Italia della religione cattolica, e dell’intesa e collaborazione, anche nel campo politico, tra la Nazione e il Papato, quale si erano realizzate nell’età comunale. Per l’Italia perdere il cattolicesimo o divorziare dal Papato sarebbe come tradire il proprio genio nazionale e rinunciare alla propria missione di primato del mondo.
Questa maniera di intendere il problema italiano fu allora detta neoguelfismo, e il neoguelfismo diventò il credo e l’anima del patriottismo intorno al 1848. Il suo grande merito fu quello di aver apportato all’azione patriottica la grande massa dei moderati e dei cattolici italiani, ai quali fino allora tale azione sembrava preclusa, perché di fatto sequestrata da carbonari e mazziniani, che la legavano a condizioni inaccettabili per una coscienza cattolica: congiure, insurrezioni, disordini, rivoluzione; senza dire dello sfondo anticattolico del mazzinianesimo. Gioberti, in tal modo, sbloccò il gran fiume della coscienza cattolica dalla diga del settarismo carbonaro e mazziniano.
Il programma giobertiano dette il tracollo a quello mazziniano: esso aveva colto meglio il carattere della concreta e storica religiosità della politica che sembrava più facilmente attuabile, la confederazione dei principi riformatori (federalismo riformista). I due programmi, mazziniano e giobertiano, si contrapponevano, del resto, punto per punto: alla rivoluzione la riforma, all’unità la federazione, a una nuova religione il cattolicesimo, alla democrazia l’aristocrazia. L’orientamento di Gioberti era aristocratico nel senso che, diffidando dell’attitudine del popolo a darsi una patria prima e a governarsi poi, attribuiva l’una cosa e l’altra alle élites capaci (che non erano però necessariamente le élites del privilegio, nobili e clero). Quanto alla federazione, sembrava l’univa via realizzabile: come altrimenti scacciare i sovrani? Tanto più che essi erano, in generale, ben voluti dai loro subiti.
Senza dubbio il neoguelfismo peccava di ingenuità e di ottimismo, e, più ancora, nascondeva un grosso equivoco, fra la sua parvenza conservatrice e la sua sostanza rivoluzionaria: equivoco che spiegherà la rapida catastrofe del neoguelfismo stesso messo alla prova dei fatti.
Esso tuttavia esprimeva profonde esigenze e autentici valori: tali che, contribuirono però in maniera decisiva al Risorgimento stesso, e segnarono così caratteristicamente l’anima risorgimentale, da dover essere reintegrati, come lo furono, anche se dapprima lentamente, sin dagli anni stessi della loro eclisse.
Si comprende come il libro di Goderti dovesse apparire rivoluzionario, e perciò sospetto e infido, negli ambienti reazionari e conservatori predominanti nelle corti e nella curia, e ne venisse perciò ostacolata la diffusione. Ma le idee del Primato rispondevano troppo ai bisogni contemporanei per venire soffocate: in esse il patriottismo degli Italiani si riconosceva, acquistando chiara coscienza. Non per nulla il Primato fu all’origine di una serie di scritti che vi si riconnettono idealmente.
Gioberti, esplicito nel programma neoguelfo, era però stato meno esplicito nel programma federalista: aveva lasciato in ombra le due questioni dell’Austria e del Papato.
Che l’Austria non dovesse far parte della Confederazione era cosa intesa: come, diversamente, si sarebbe potuta dire indipendente l’Italia, e italiana la Confederazione? La tradizione, l’esperienza recente, il sentimento comune, erano su questo punto intransigenti. Ma come eliminare l’Austria dal Lombardo – Veneto. Una guerra non avrebbe avuto alcuna probabilità di successo. Ed ecco Cesare Balbo in Le speranze dell’Italia proporre il baratto delle province italiane con province balcaniche, che avrebbe potuto aver luogo in occasione di un ulteriore sviluppo della questione d’Oriente facilmente prevedibile. L’abbinamento dei due problemi, italiano e balcanico, non era un’invenzione di Balbo, ma egli ebbe il merito di darne la trattazione più pertinente. Quanto al Papato, esso era in grado di svolgere il compito politico connesso con la presidenza della Confederazione? Poteva esso, come governo temporale, superare i riguadagni e i limiti che gli derivano dalla natura spirituale della sovranità religiosa? Balbo ritiene, per esempio, che la presidenza della Confederazione meglio convenga a Carlo Alberto. Altri scrittori pensano invece che la soluzione del problema venga facilitata riducendo l’estensione dello Stato pontificio, dal momento che si deve pur rivedere la carta politica d’Italia per irrobustire la compagine eliminandone i piccoli Stati di origine e di ragione puramente dinastica.
Il neoguelfismo dall’accordo civile e spirituale deduce l’accordo politico, il neoghibellismo, respingendo questo, è portato a respingere o minimizzare anche quello. Se il neoguelfismo può venire accusato di confusionarismo, perché poggia su una equivoca mescolanza della religione con la politica, e di ingenuità, perché ritiene che l’accordo politico, realizzatosi una volta, possa senz’altro ripetersi in circostanze storiche del tutto mutate, il neoghibellismo può venire accusato di anacronismo, perché giudica la storia remota con le categorie politiche della storia recente, nelle quali, per giunta, rifonde e addirittura annulla le categorie spirituali, civili, culturali.
La schiera dei neoghibellini si separa da Gioberti anche nella formulazione del programma politico. Sono essi, in generale, repubblicani, sia unitari, sia i federalisti, come i milanesi Carlo Cattaneo, uomo d’azione e pensatore robusto, e Giuseppe Ferrari, storico e filosofo. Se si eccettua Cattaneo, questo neoghibellinismo quattrocentesco non ha prodotto nessuna opera di pensiero. Prevalsero in esso gli atteggiamenti declamatori, come nelle tragedie di Piccolini, o nei romanzi Guerrazzi. In Cattaneo, poi, l’esigenza della libertà è talmente sentita, che ad essa viene subordinata quella stessa dell’indipendenza. Egli è infatti disposto a lasciare l’Austria nel Lombardo – Veneto, purché conceda istituzionali liberali.
Un lato interessante di questa corrente neoghibellina sta piuttosto nel suo orientamento democratico. Il moderatismo in generale, e anche quello neoguelfo, si rivolge alla classe media, in cui ha fiducia. Non ritiene che la gran massa del popolo sia capace di pensare e di agire politicamente. Potrà diventarlo un giorno, se sarà istruita ed educata. Non per nulla i moderati hanno dedicato tanto interesse ai problemi pedagogici in genere e alla pedagogia popolare e nazionale in specie. Di fronte a questo atteggiamento, che non ha smesso del tutto l’abito del paternalismo illuministico, sta l’atteggiamento dei democratici, che risente ancora molto del giacobinismo rivoluzionario. I democratici hanno fiducia nelle masse popolari, ma si illudono sulla loro immediata attitudine politica, o la riducono alla loro disponibilità come elementi di manovra e di pressione: la massa popolare è dunque considerata sotto un punto di vista politico, con scarso interesse per i suoi problemi economico-sociali: è chiaro che democrazia e socialismo sono cose diverse.
Precursore di questi ideali fu sicuramente Mazzini. L’insuccesso dei moti del 1820-21e del 1830-31 aveva fatto cadere in discredito la Carboneria, i cui programmi e metodi venivano ormai da più parti criticati. Una delle critiche più decisive venne da un giovane genovese che, prendendo le mosse da tale critica, passò poi ad impostare l’azione patriottica su altre basi e su altri principi, ed ebbe una risonanza e un’efficacia immensa, non solo sul Risorgimento italiano,ma anche sulla riscossa nazionale europea. Per Mazzini, a differenza dei moderati, la rivolta contro il dominio straniero e contro il potere assoluto doveva avere come obiettivo la libertà di tutto il popolo e di tutti i popoli. Per la prima volta, nell’ambito del movimento liberale, il popolo assumeva un particolare rilievo. Le moltitudini oppresse dall’aristocrazia e immiserite dalla pesante politica fiscale degli stati italiani aspiravano a profonde trasformazioni delle loro condizioni di vita.
Il “popolo” di Mazzini non era rappresentato dal proletariato di fabbrica, che in Italia era una realtà quasi sconosciuta; era piuttosto formato dalla piccola borghesia urbana, dagli artigiani e anche dai ceti medi operanti nell’industria e nei commerci.
All’Itali Mazzini riconosce una funzione esemplare e guidatrice. Il momento della Francia rivoluzionaria è passato: le sue conquiste, ossia la libertà civili e politiche dell’individuo, saranno conservate e instaurate nell’ambito di un concetto più comprensivo e più profondo, quello della nazione e della comunità delle nazioni. L’individualismo infatti è il limite più grave della rivoluzione francese, cui bisogna contrapporre l’idea di associazione e di nazione. L’amore che Mazzini nutre per l’Italia diventa ammirazione e culto incentrato nei due simboli: Dante e Roma. Appassionato studioso di Dante, non dubitava di farne oggetto di lezioni e conferenze e di diffonderne la conoscenza nel popolo. Vedeva la gloria di Roma rinnovarsi secondo una successione di tre momenti: c’era stata la Roma dei Cesari, e c’era la Roma dei Papa: doveva nascere ora la Roma del Popolo.
Attorno a Roma capitale l’Italia avrebbe formato un solo stato, libero e repubblicano. Il primo passo verso l’indipendenza doveva essere la guerra all’Austria; il secondo la cacciata dei principi e la fusione di tutte le regioni in un solo stato; l’ultimo, l’instaurazione di un regime repubblicano. La repubblica era, del resto, per Mazzini, ben più che una forma di governo; era la formula stessa della vita politica della nazione. Se ne è visto sopra la ragione filosofica. Vi concorreva però anche il ricordo della gloriosa storia d Genova e delle altre repubbliche marinare, che fecero già un tempo prospera, potente, invidiata, l’Italia. Per diffondere le sue idee e prepararne la realizzazione, Mazzini costituì successivamente e occasionalmente varie associazioni, di cui la più importante fu la Giovine Italia, fondata nell’agosto del 1831 a Marsiglia, una delle sue prime dimore del suo lungo esilio. Il programma è quello di dedicare pensiero e azione per restituire l’Italia in nazione di liberi ed eguali, una, indipendente, sovrana. Pensiero ed azione è un altro dei moti programmati che Mazzini preferiva: il giornale da lui fondato a Milano nel 1848 portava appunto quel titolo. La stampa fu il grane strumento della propaganda mazziniana. A Marsiglia fondò il giornale La Giovine Italia, di cui il primo numero uscì nel marzo del 1832 e l’ultimo, il sesto, nel 1834. Fondò e diresse altri giornali, tutti in varie occasioni e di breve durata, ma soprattutto scrisse opuscoli, fogli volanti, libelli, che i soci della “Giovine Italia” clandestinamente leggevano e clandestinamente diffondevano. Nell’aprile del 1834, a Berna, con altri sedici compagni, esuli italiani, tedeschi e polacchi, fondò il Patto di fratellanza, che dette origine alla Giovine Europa, embrione senza sviluppo, ma affermazione significativa di una volontà e di un impegno europeistici. “Giovine Italia”, “Giovine Europa”: ai giovani si rivolgeva Mazzini per preparare la nuova Italia e la nuova Europa.
Se per l’Italia egli fu il profeta delle nazioni, per l’Italia fu essenzialmente l’educatore della coscienza nazionale si può dire che gli italiani, i quali presero parte alle vicende degli anni eroici del Risorgimento, sentirono, in qualche modo, l’efficacia di Mazzini, in cui ebbero esempio di carattere e di fede nella patria. Né smentirono l’efficacia di Mazzini qui molti che lo abbandonarono a un certo punto del cammino. Bisogna riconoscere che Mazzini mentre si adattava alla collaborazione con tutte le forze, anche monarchiche, per realizzare l'indipendenza e l’unità dell’Italia, non rinunciò mai alla pregiudiziale repubblicana, soltanto rimettendola a un momento ulteriore o a una diversa circostanza. Questo spiega come, man mano che l’unità dell’Italia si andava facendo in senso monarchico e sabaudo, egli si irrigidiva sempre più nel suo repubblicanesimo.
E mentre il progressivo affermarsi della monarchia sabauda come capace di fare l’indipendenza e l’unità d’Italia convertiva sincerante al programma monarchico un numero sempre più grande di repubblicani, sia federalisti sia unitari, Mazzini, al contrario, si sentiva tanto più impegnato al programma repubblicano quanto meno temeva di compromettere per esso l’unità e l’indipendenza ormai realizzate e rassodate. E così egli si distaccò sempre più dal movimento vivo che portò all’’unità del regno italiano nel 1861 nel 1870. Morì conservando intatte e difendendo intransigentemente quelle ragioni del repubblicanesimo che solo l’Italia di molti anni dopo avrebbe riconosciute.
Il merito di Mazzini come educatore della coscienza nazionale, ha però un grave limite: quello di aver sancita la violenza spirituale e alimentata la fiducia nel pugnale, fino a giustificare, se pure eccezionalmente, il tirannicidio. Tenace residuo della mentalità carbonare degli anni dell’adolescenza.
Detto ciò, possiamo affermare che il “risorgimento” sia l’insieme degli avvenimenti politici e militari in virtù dei quali, nel XIX secolo, l’Italia riuscì a conquistare l’indipendenza e a formare uno stato unitario. In questa accezione possiamo dire che iniziò con i moti di Napoli del 1820 e si concluse con la conquista di Roma. In senso più generale il Risorgimento fu un movimento culturale e ideologico di portata ben più vasta. Ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, con la diffusione, tra gli intellettuali italiani, di nuovi valori civili, legati ai concetti di dignità morale e libertà politica introdotti dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, di cui furono testimoni Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri. Gli ideali di libertà e d’indipendenza si imposero più concretamente dopo la breve ma significativa esperienza dei regimi napoleonici dei primi anni del XIX secolo, che aveva portato alla sia pur effimera costituzione di strutture statali unitarie. Per questo la frammentazione del paese voluta dal Congresso di Vienna (1815), con il riprestino dell’egemonia austriaca e la restaurazione dei regimi assoluti, diede nuovo impulso al movimento, al quale contribuì la riflessione di storici come Vincenzo Cuoco, e Francesco Lo monaco e di letterati come Ugo Foscolo, cultori delle glorie nazionali. A ciò si aggiunse la diffusione della cultura romantica che, esaltando il concetto di nazione, contribuì nell’ambito dell’agire politico le nuove tensioni ideali.
3. Il processo d’indipendenza e di unificazione nazionale maturò rapidamente tra il 1857 e il 1861 con due protagonisti non proprio in sintonia: Cavour e Garibaldi.
Per stendere la relazione utilizza la seguente scaletta:
• Torino, città guida del processo unitario;
• Ruolo svolto dalla Società nazionale italiana;
• La diplomazia di Cavour e gli accordi di Plombiéres
• La seconda guerra d’indipendenza;
• I plebisciti dl 18600;
• L’iniziativa dei democratici in Sicilia e il ruolo di Garibaldi;
• Il programma di Garibaldi e la spedizione dei Mille;
• I problemi irrisolti e i fenomeni dei repressione in Sicilia;
• Il conflitto tra Garibaldi e Cavour e le paure di quest’ultimo;
• Il “capolavoro “ di Cavour;
• I nuovi plebisciti e l’incontri di Teano;
• Vittorio Emanuele II re d’Italia.
Dopo Custoza e Novara il regno sabaudo era in gravissime condizioni materiali e morali. Il duplice insuccesso aveva colpito particolarmente gli elementi moderati, la gran maggioranza cioè degli uomini politici che sedevano in parlamento, reggevano il governo e, dal marzo 1848, guidavano la politica piemontese. Il loro smarrimento favorì l’audacia della minoranza democratica e le permise di acquistare un peso superiore a quello che effettivamente aveva in Italia.
Il problema urgente, posto dal Parlamento, era quello dell’armistizio di Vignale, trasformato in Pace di Milano (6 agosto 1849): dura, ma non umiliante. L’Austria aveva dovuto finire per concedere la richiesta amnistia tutti gli esuli che rientrassero; i confini tornavano quelli di prima del 1848; il Piemonte pagava 75 milioni di indennità. La camera, dominata dai democratici e dimostratasi ostile, era stata sciolta il 30 marzo 1849. La nuova camera non fu dissimile dalla precedente: elesse anzi ostentamente a suo presidente Lorenzo Pareto, uno dei capi della rivolta genovese. Vittorio Emanuele II la sciolse una seconda volta, ma non cedette alla facile tentazione di sbrigarsene modificando la legge elettorale e imbavagliando la stampa, come gli veniva suggerito da più parti.
Il giovane sovrano, aveva solo trent’anni (nato nel 1820), non colto, non esperto nelle arti diplomatiche, rivelò in questi anni difficilissimi quella lealtà di comportamento e quella sicurezza d’intuito su persone e su cose, che lo accompagnarono poi per tutto il regno e ne fecero uno dei principali, se non il principale, artefice dell’indipendenza e dell’unità dell’Italia. Molto adatta fu la scelta del marchese Massimo d’Azeglio alla presidenza dei ministri, tipico rappresentante di un moderatismo aperto ed intelligente. Egli confermò il re nella lealtà allo statuto e gli suggerì di rivolgersi direttamente agli elettori con un appello (proclama di Moncalieri, 20 novembre 1849). In esso il re, ribadita la fedeltà alla costituzione e l’impegno di salvare la nazione alla tirannia dei partiti, invitava gli elettori a non disertare le urne. Il successo dei democratici nelle elezioni precedenti era infatti legato all’astensionismo dei moderati. Gli elettori non mancarono, e la nuova camera approvò la pace di Milano. Ebbero allora inizio i dieci anni di feconda collaborazione tra corona, governo e parlamento.
Successore di D’Azeglio fu il conte Camillo Cavour che, indicato dallo stesso D’Azeglio come suo successore al re, il 4 novembre 1852 assunse la presidenza che avrebbe tenuto, tranne alcuni mesi del 1859, fino ala sua morte.
Cavour si dimostrò un ottimo governatore per quanto concerne la politica interna, ma la grandezza di Cavour sta essenzialmente nella politica estera. Seppe fare del problema italiano un problema europeo, e assicurare al Piemonte la simpatia e le forze internazionali, che gli permisero di superare l’inferiorità nei confronti dell’Austria e riprendere con fortuna il duello interrotto nel 1849.
La grande politica cavouriana prese le mosse dal riaprirsi, nel 1853, della questione d’Oriente. Il risultato della guerra fu per il Piemonte duplice: uno militare, essersi riscattati dall’onta che pesava sul suo esercito dopo Novara; ed uno, più importante, politico: non solo aver scongiurato un avvicinamento dell’Austria alle due Potenze occidentali, Francia ed Inghilterra, ma essersi sostituito ad essa, rovesciando così nettamente la situazione: non più il Piemonte era isolato, ma l’Austria. Ma l’opera di Cavour continuò durante le trattative di pace. Cavour, infatti, non era stato inoperoso. Vinta, contro le opposizioni austriache, la prima battaglia (di partecipare cioè, come le grandi potenze, a tutte le riunioni del congresso) aveva poi lavorato tra le quinte prendendo contatto con gli uomini politici inglesi e francesi, i quali, già ben disposti dall’opinione pubblica dei loro paesi su cui avevano largamente influito gli esuli, non tardarono a simpatizzare con il diplomatico piemontese, ed accettarono così di mettere sul tappeto, in una seduta supplementare, la questione italiana.
Il programma unitario e monarchico si andava così profilando sempre più nettamente. Negli ambienti mazziniani era sempre stato tenuto vivo l’ideale unitario: il fatto nuovo era la sua dissociazione dall’ideale repubblicano. È forse la conseguenza politica più importante dell’azione svolta fin qui da Cavour; la conversione di gran numero di mazziniani alla formula monarchica, intesa come condizione unica e possibile, nelle circostanze concrete, per il raggiungimento della meta suprema, l’unità. Per opera dei mazziniani e dei repubblicani sorse nell’agosto del 1857 la Società Nazionale Italiana, con programma “Italia e Vittorio Emanuele”. Il merito principale spettò a Daniele Manin, ma grande efficacia vi ebbe Garibaldi, e grande prestigio venne dato da Giorgio Pallavicini, attivissimo segretario ne fu il siciliano Giuseppe La Farina. Unità monarchica: è una sintesi o un compromesso fra le due grandi correnti che si erano disputate il 1848, mazziniana e giobertiana, democratica e moderata. I primi danno l’unità e rinunciano alla repubblica, i secondi danno principato e rinunciano alla federazione.
L’ambizioso programma dell’unità d’Italia era ancora troppo lontano per poter determinare la linea politica di Cavour, per il quale il problema italiano era finora soltanto il problema dell’indipendenza della Penisola ossia della guerra all’Austria. Egli si limitò di approvare, lasciar fare, aiutare un movimento che, anche prescindendo dal programma, era pur sempre una forza disponibile in favore del Piemonte contro l’Austria. Ufficialmente Cavour doveva piuttosto trascurare e rinnegare la Società e il suo programma, se non voleva compromettere il sottile lavoro che stava facendo alla corte delle Tuileries: Napoleone III era infatti disposto ad aiutare il Piemonte, non certo a fare l’Italia. Le trattative con Napoleone III si conclusero il 20 luglio 1858, in un incontro segreto a Plombiéres, dove furono concordate le linee di fondo per una soluzione definitiva della questione italiana e la Francia si impegnò ad intervenire militarmente a fianco del Piemonte nel caso di un’aggressione dell’Austria. Il piano prevedeva un regno italiano settentrionale comprendente Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sotto la casa Savoia; una monarchia al centro, retta da un sovrano ancora da precisare (ma Napoleone III sperava di affidarla al cugino Gerolamo Napoleone); un regno meridionale, dove l’imperatore francese avrebbe visto bene un figlio di Murat; al papa sarebbe rimasta Roma, su cui Napoleone non intendeva transigere. Il Piemonte, per parte sua, avrebbe dovuto cedere Nizza e la Savoia alla Francia. Era senza dubbio un audace disegno, che avrebbe assicurato alla Francia un indiscusso predominio sull’Italia e avrebbe dato a Napoleone un incalcolabile prestigio in Europa. A pensare così in Francia era però solo Napoleone, gli uomini politici e l’opinione pubblica erano meno ottimisti: non volevano che il sangue francese venisse buttato via per una causa non francese, l’ingrandimento del Piemonte.
Ma Napoleone, allora nella fase ascendente del suo astro, impose la sua politica, e il 18 gennaio 18559, a Torino venne firmato l’atto di alleanza: non si parlava della sistemazione dell’Italia, ma solo della guerra all’Austria, precisandosi che nessuna apertura di trattative con il nemico sarebbe stata accettata, se non di comune accordo. Il 30 gennaio il principe Gerolamo Bonaparte, quarantenne volterriano e libertino figlio dell’ex re di Westfalia, sposava la quindicenne religiosissima principessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II. Essa, conscia del significato esclusivamente politico delle nozze, aveva acconsentito al grande sacrificio, voluto da Napoleone III e soprattutto da Cavour. Intima amarezza provò il re e grande risentimento verso quel ministro, che gli aveva impegnato sia la terra avita, sia la figlia diletta.
La notizia del convegno di Plombiéres aveva messo in allarme la diplomazia europea. I segni dell’alleanza franco-piemontese e dell’inasprimento dei rapporti con l’Austria si erano ripetuti chiarissimi nel gennaio 1859.
Fu una gara d’astuzia e di velocità tra i governi d’Europa e Cavour solo: solo, dal momento che dovette vincere le titubanze che, a un certo punto, si impadronirono Napoleone III. Cavour preparò la guerra e fece di tutto per provocare l’Austria. Fece votare dal parlamento un prestito straordinario di 50 milioni; invitò Garibaldi ad organizzare (come maggior generale dell’esercito sardo) i volontari; chiamò uomini sotto le armi.
Proprio quando Cavour era giunto al limite delle risorse della sua capziosità diplomatica e non avrebbe più potuto rifiutarsi di accettare il congresso, proprio allora anche il governo di Vienna era giunto al limite della sua sopportazione, e rompendo, maldestramente, il cerchio soffocante delle trattative internazionali, si rivolse direttamente a Torino con un ultimatum (23 aprile): disarmo unilaterale preventivo; tre giorni di tempo per rispondere. L’Austria con l’Ultimatum si poneva dalla parte del torto e diventava Stato aggressore, fornendo il pretesto tanto cercato da Cavour e alienandosi le simpatie delle altre potenze e della stessa Inghilterra. Nessun intervento era prevedibile in suo favore: non dall’Inghilterra, non della Prussia, ugualmente avversa a Francia e Austria, non dalla Russia, ancora amareggiata dal comportamento austriaco nella guerra di Crimea. Intanto a Torino il parlamento aveva concesso al re i pieni poteri aveva respinto l’”ultimatum” (26 aprile). La guerra incominciava.
Mentre le armate austriache passavano il Ticino, Napoleone III costretto a mantenere i suoi impegni, inviò a Genova 100.000 uomini. L’esercito franco-piemontese si scontrò con le truppe austriache in violente battaglia campali, riportando decisive vittorie a Palestro, Montebello e Magenta, che gli aprirono la strada verso Milano. Nel frattempo Garibaldi, alla testa di Cacciatori delle Alpi, sferrava un’offensiva nelle Prealpi lombarde e, dopo la vittoria di San Fermo, liberava Como, Varese, Bergamo e Brescia. Gli austriaci tentarono un’estrema difesa sul Mincio ma, dopo una lunga e sanguinosa battaglia, il 24 giugno 1859 subirono una dura sconfitta a San Martino e Solforino. Galvanizzate da questi successi militari, nel granducato di Toscana, nei ducati di Parma e Piacenza, e di Modena, le popolazioni insorsero contro i rispettivi sovrani, dando vita a governi provvisori che, guidati da gruppi liberali filopiemontesi, chiesero come primo atto l’annessione al regno di Sardegna. Anche a Venezia la liberazione pareva imminente.
Ma a questo punto avvenne un fatto nuovo, imprevisto e di grande importanza: Napoleone III, l’11 luglio 1859, a Villafranca, stipulò in gran segreto un armistizio con l’imperatore d’Austria, senza tenere conto dell’aspirazioni dei patrioti italiani.
In realtà, in Italia, la partita si stava facendo ancora più complessa di quanto avesse previsto l’imperatore francese. Innanzitutto le continue manifestazioni popolari a favore della monarchia sabauda rendevano di fatto impossibile realizzare nelle zone liberate dei regni filofrancesi, che garantissero la supremazia francese sull’Italia e aumentassero il potere della Francia in Europa, mentre si face concreto il rischio di acuire le ostilità con il Papato. Inoltre, la Prussia minacciava di allearsi con l’Austria in funzione antifrancese, aprendo un altro fronte sul Reno.
Con l’armistizio di Villafranca l’Austria cedeva alla Francia la Lombardia, perché la consegnasse al regno sabaudo, e si stabiliva il ritorno dei sovrani spodestati negli stati dell’Italia centrale.La delusione fu enorme, tanto che Cavour, dopo violentissime proteste, rassegnò le dimissioni da primo ministro.
I preliminari di Villafranca diventarono pace di Zurigo il 10 novembre. In essa si demandava a un prossimo congresso la definizione dell’assetto italiano sulla basi stabilite fin da Villafranca, e cioè restaurazione dei principi e Confederazione. Ma poiché le restaurazioni erano previste rispettando i principi di non intervento (come voleva l’Inghilterra e come risultava, del resto, dagli opposti interessi di Francia e Austria) di fatto la situazione se era venuta cristallizzando in una maniera paradossale.
Di conseguenza ai preliminari, Vittorio Emanuele II aveva ritirato i suoi commissari; ma le regioni insorte si erano subito date dei dittatori nelle persone di Bercio Ricasoli la Toscana, e di Luigi Carlo Farini Modena prima, Parma poi, e infine anche Bologna. L’opera di questi personaggi portò alla soluzione del problema: essi convocarono assemblee, elette con largo suffragio, e fecero votare l’unione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Non solo, ma per iniziativa di Ricasoli organizzarono un comune esercito di 40.000 uomini al comando del gen. Manfredo Fanti e con la collaborazione di Garibaldi.
Alla fine del 1859 la situazione era questa: gli Stati Europei, e soprattutto la Francia, volevano la restaurazione dei principi; i principi non avevano la forza per ritornare; i sudditi non volevano i principi e volevano invece Vittorio Emanuele II; Vittorio Emanuele non poteva accettare i loro voti, né venire in loro aiuto.
Lamarola, nei sei mesi del suo governo, non si era dimostrato abbastanza deciso, sicché il ritorno di Cavour, nel gennaio del 1860, fu sentito da tutti come una cosa improrogabile.
Il miglioramento della situazione internazionale fu determinante; consisté in ciò: l’Inghilterra si era ormai schierata nettamente in favore di Vittorio Emanuele II e delle annessioni, per opera del nuovo ministro liberale Palmerston-Russel, in carica dalla fine di giugno. Era evidente, infatti, che le medesime ragione avevano indotto Napoleone III a troncare i rapporti con il Piemonte e a insistere per fermare il movimento unitario, dovevano indurre il governo inglese a favorire Piemonte e movimento unitario: un grande stato nella Penisola era gradito dall’Inghilterra, anche soltanto perché dispiacente alla Francia; il governo inglese doveva assicurarsi le simpatie che il governo francese stava perdendo, favorendo quello che Napoleone III cercava di ostacolare.
Anche Napoleone II si fronte alla fermezza delle popolazioni italiane e all’atteggiamento inglese si era convinto dell’impossibilità , non solo di varare il progetto federalistico, ma persino di raccogliere il progettato congresso, che di fatto non si raccolse mai. Pensò quindi di allentare la sua intransigenza sul punto delle annessioni, preparando un’eventuale ripresa delle trattative con Torino. Nel dicembre lasciava pubblicare un opuscolo Le papa et le congrés in cui il dominio temporale del papa veniva ridotto al Lazio; inviava una lettera a Pio IX invitandolo a cedere le provincia a Vittorio Emanuele II.
Cavour, ripreso il potere in questo momento, non ebbe che da sfruttare abilmente il contrasto tra le due potenze occidentali e far crollare le ultime resistenze di Napoleone accettando di rimettere sul tappeto la questione di Nizza e Savoia. Queste, non ottenute come compenso della guerra del 1859, interrotta prima che il Piemonte ottenesse il Veneto, venivano reclamate ora come compenso per l’ingrandimento del Piemonte nell’Italia centrale. Cavour aveva già subito proposto che le annessioni fossero di nuovo confermate per votazione plebiscitaria: cosa simpatica al governo inglese e dimostrazione perentoria a Napoleone, il cui trono si basava appunto sui plebisciti. L’11 e il 12 marzo si fecero i plebisciti di Toscana, Parma, Modena, Emilia e Romagna. Il 24 Cavour firmava il trattato di cessione di Nizza e Savoia. Egli aveva cercato d salvare Nizza – la vecchia fedele suddita dei Savoia, la patria di Garibaldi – ma l’imperatore fu irremovibile: doveva pur dimostrare che la sua politica italiana era stata fruttuosa.
Pochi giorni dopo, il 2 aprile, il re inaugurava a Torino il nuovo parlamento, in cui sedevano anche rappresentanti delle nuove province dell’Italia settentrionale e centrale.
Mentre si chiudeva la questione dell’Italia centrale, si apriva quella dell’Italia meridionale.
In realtà lo scossone dato dalla seconda guerra d’indipendenza aveva avviato il processo ormai inarrestabile dell’unità e dell’indipendenza. In molte zone della penisola, , ancora soggette all’Austria e all’assolutismo borbonico, crescevano infatti fermenti per accelerare i tempi dell’unificazione, che si scontravano però con l’indecisione e la prudenza di Cavour e del governo sabaudo. Attenti a non sforzare troppo la delicata situazione internazionale.
Da questa fase di esitazione riprese l’iniziativa dei democratici, guidati da Mazzini. Animati dall’obiettivo ei realizzare “con la forza” quello che i diplomatici, preoccupati dai loro equilibri, volevano impedire, essi tentarono di organizzare le aspettative popolari, per portare a compimento l’unità nazionale in tempi brevi e aprire la strada a un governo repubblicano. Senza questa spinta, capace di suscitare l’iniziativa e la partecipazione popolare, ben difficilmente il processo di unificazione sarebbe uscito dalla situazione di immobilismo e di attesa in cui l’armistizio di Villafranca l’aveva confinato.
La rivolta scoppiata a Palermo nell’aprile 1860, organizzata dai democratici Francesco Crispi e Rosolino Pilo, concentrò verso il Mezzogiorno gli interessi e le energie politiche dei democratici, che avviarono i preparativi per una campagna di liberazione del sud. Soprattutto Garibaldi cominciò ad arruolare volontari senza che il governo sabaudo intervenisse a bloccare l’iniziativa, sia perché Cavour e Vittorio Emanuele II avevano manifestato segretamente il loro assenso all’impresa, sia perché, comunque, il governo moderato sabaudo non aveva la forza politica per impedire l’azione di Garibaldi e dei democratici.
Tra il 5 e il 6 maggio salparono dallo scoglio di Quarto, presso Genova, un migliaio di volontari alla volta delle coste siciliane. L’11 maggio, i Mille guidati da Garibaldi sbarcarono a Marsala e subito si scontrarono con le truppe borboniche a Calatafimi, riportando un decisivo successo. Dopo questa vittoria i Mille diventarono un vero e proprio esercito di liberazione grazie ai continui arruolamenti di giovani siciliani che vedevano i Garibaldi colui che li avrebbe potuti liberare dall’oppressione secolare dei Borbone e dei latifondisti.
Dopo aver sconfitto i Borbone a Milazzo, il 6 agosto l’esercito garibaldino sbarcò in Calabria e, travolgendo ogni resistenza, entrò dopo un mese a Napoli (7 settembre 1860). L’azione di Garibaldi parve incredibile agli occhi del mondo: in un paio di mesi, senza un esercito regolare, egli era riuscito ad avere ragione di una monarchia secolare, forse di un’armata di 100.000 soldati: lo stato meridionale era talmente antiquato che bastò un piccolo urto per farlo crollare.
Sarà opportuna rifarci all’atteggiamento di Cavour di fronte all’impresa garibaldina. Ufficialmente ignorandola, lasciò che venisse preparata e venisse effettuata, pronto a sconfessarla se fosse fallita, pronto a trarne i vantaggi se fosse riuscita. A mano a mano che il successo si profilava, le preoccupazioni di Cavour si precisavano: preoccupazioni di politica estera e di politica italiana.
La Francia diventava sempre più esigente e intransigente sui risultati della spedizione, e tempestava Torino perché sconfessasse l’impresa. Quando Garibaldi sembrò deciso a passare il continente, Napoleone III sembrò deciso a impedirlo con la forza, e non lo fece solo perché Londra non si mostrò disposta ad acconsentire. Garibaldi, nonostante gli inviti anche da parte del re a desistere continuò la conquista, voleva occupare, dopo Napoli, anche Roma: se era caduto Francesco II, perché non sarebbe caduto anche il regno di Pio IX, molto meno forte e meno protetto? Cavour si vide quindi costretto a usare la forza per fermare sia Napoleone sia Garibaldi. Alla fine d’agosto fu deciso l’intervento delle truppe regie. Questo intervento non solo avrebbe evitato complicazioni internazionali, ma avrebbe anche assicurato alla monarchia l’Italia meridionale.
L’esercito regio per raggiungere il regno meridionale, doveva attraversare lo Stato pontificio: ottima occasione per ampliare ulteriormente il regno sabaudo. Vennero quindi occupare l’Umbria e le Marche, dove l’esercito pontificio cercò di sbarrare il passo nella battaglia di Castelfidardo (18 settembre).
Garibaldi comprendeva che l’intervento era contro di lui, che la sua missione era terminata, che lui e i suoi volontari erano sentiti come un inciampo all’opera di unificazione.
Vennero fatti i plebisciti nel regno meridionale il 21 e 22 ottobre. Pochi giorni dopo Garibaldi incontrava il re a Taverna Catena, lo accompagnava a Napoli (7 novembre), e gli consegnava solennemente il risultato dei plebisciti. Con quell’atto cessava ufficialmente il suo incarico, ed egli ridiventava privato cittadino e, come tale, due giorni dopo, partiva per Caprera.
Il 18 marzo 1861 a Torino si aprila il nuovo parlamento, con i rappresentanti di tutta Italia, tranne che del Veneto e del Lazio.
Il primo atto fu la proclamazione del regno d’Italia. Il decreto regio è del 17 marzo: con esso Vittorio Emanuela II assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di “re d’Italia per grazia di Dio e per volontà della nazione”. Al compimento dell’unità territoriale e politica mancavano solo Roma e Venezia. Molto più mancava al compimento dell’unità civile, morale, economica e spirituale.
Immediatamente dopo la felice realizzazione del suo progetto politico, a soli 51 anni, Cavour moriva. Era a il 6 giugno 1861. Sulla tomba volle scritto: “Sono figlio della libertà, ad esso debbo tutto quello che sono”.

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