Sviluppi, idee e organizzazioni del socialismo in Europa

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Testo

1. Sviluppi, idee e organizzazioni del socialismo in Europa
Nascita
L'idea di socialismo nasce dalla mente di due brillanti pensatori europei, Karl Marx e Frederich Engels, che si impegnarono ad esprimere il loro rivoluzionario pensiero nel Manifesto del Partito comunista, pubblicato a Londra nel 1848.
Pensiero
Marx ed Engels si erano resi conto dell'enorme rivoluzione economico-sociale che aveva promosso il XIX secolo con il capitalismo. Il capitalismo è un modello di politica economica che porta al massimo sfruttamento di un prodotto, fonte di guadagno, ma, nello stesso tempo, genera la formazione di una nuova classe necessaria al lavoro del prodotto, la classe proletaria. Con questa nuova classe, chiamata il becchino del capitalismo, si avvia una rivoluzione sociale che porta all'inevitabile crollo del sistema di produzione capitalistico aprendo la strada all'azione rivoluzionaria proletaria.
Manifesto
1. La società contemporanea è dominata da sistemi di produzione imposti dalla borghesia, responsabile dell'abbattimento dei privilegi feudali, ma anche della nascita di una società in cui il potere è concentrato nelle mani di un'unica classe, la borghesia stessa.
2. Il capitalismo porta allo sfruttamento del prodotto, seguito dalla concorrenza mondiale che genera il monopolio che, a sua volta, provocherà guerre catastrofiche. Tutto ciò evidenzia la grande contraddizione del capitalismo: grande produzione in grado di soddisfare la domanda con la conseguenza dell'abbassamento dei prezzi e quindi la possibilità di consumo da parte di tutti; accentramento del potere economico-politico nelle mani dei proprietari dei mezzi di produzione.
3. Il capitalismo non si limita a generare il proletariato, ma tende ad accrescere la massa ed il suo sfruttamento. Lo sfruttamento consiste nell'appropriazione di una parte del valore dei prodotti, che equivale a una parte non pagata del lavoro necessario per produrli (plusvalore).
4. Necessaria rivoluzione del proletariato che deve inizialmente promuovere una società socialista in cui avviene una socializzazione dei mezzi di produzione con la conseguente spartizione degli incassi in base al lavoro prodotto. In questo periodo il proletariato dovrà trasformarsi da classe economica sfruttata, in classe politica dominante attraverso una dittatura. Soltanto in seguito si passerà alla nascita di una società comunista in cui avverrà l'annullamento di classe, ogni uomo sarà uguale ad un altro evitando così lo sfruttamento.
L'internazionale
Nel 1864 venne fondata a Londra l'Associazione internazionale dei lavoratori, detta poi Prima Internazionale. L'Internazionale costituiva un organismo di collegamento e di coordinamento sindacale più che politico, molto composito e dai programmi mal definiti. Il compito di formulare una piattaforma comune venne affidata a Marx che dettò i fondamentali principi:
1. l'emancipazione della classe operaia doveva essere operata dalla stessa classe operaia;
2. la conquista del potere politico era divenuto il compito principale della classe operaia.
La Prima Internazionale ebbe però vita breve, fu sciolta nel 1876, in seguito ai grandi contrasti interni che si erano formati fra diverse fazioni, tra cui, socialisti moderati (i seguaci di Lasalle), marxisti, anarchici (Proudhoun, Bakunin) e mazziniani. Solo nel 1889 venne riorganizzata l'associazione, con il nome di Seconda Internazionale, diretta da un ufficio con sede permanente a Bruxelles.
La diffusione in Europa
Socialismo in Francia
Nel 1871 viene istituita la Comune di Parigi, esperimento rivoluzionari contro il governo di Thiers e l'espansione tedesca nel territorio nazionale. La Comune propone l'abolizione della polizia e dell'esercito permanente, interessando anche una riforma dei salari degli ufficiali pubblici troppo retribuiti. Questo stato di tipo giacobino non poteva essere ammesso dalla maggioranza conservatrice e monarchica che sorreggeva Thiers. Fu condotta quindi una repressione da parte dell'esercito, appoggiato dalle milizie tedesco, che porta nel braccio della morte più di 14000 persone. Dopo la Comune il Partito dei lavoratori socialisti aderì ad un programma redatto dallo stesso Marx, ma dovette fare i conti con i propri dissensi interni. Si formarono due ali, quella di tipo possibilista e quella che fece nascere il Partito operaio francese. La carenza di un partito socialista forte fece sì che il movimento sindacale procedesse per conto proprio sviluppando la concezione dello sciopero generale che divenne il programma della nuova Confederazione generale del lavoro (CGT). La CGT era una vera forza politica più vicina all'anarchismo che al socialismo. Solo nel 1905 i diversi rami del socialismo francese, pur mantenendo intatte le loro differenze ideologiche, si accordarono per dar vita al Partito socialista unificato. Uno scrittore francese, Sorel, indicò nello sciopero generale rivoluzionario il nuovo mito che avrebbe permesso la trasformazione radicale del sistema sociale vigente, non giudicato da Sorel ingiusto, quanto mediocre e corrotto. Sorel accusava la democrazia "borghese" in termini simili a quelli del socialismo, nascondendo un vago rimpianto per la funzione storica delle aristocrazie, e ritenendo la violenza come la vera "levatrice della storia".
Socialismo in Germania
Dopo la morte di Lasalle che fu l'unico in grado di formare un movimento socialista di ampiezza nazionale (Associazione generale dei lavoratori tedeschi), i membri interni si divisero in due gruppi, uno di questi era il Partito socialdemocratico dei lavoratori. Una piattaforma programmatica piuttosto moderata, che puntava molto sulla lotta parlamentare e non escludeva la collaborazione con altri partiti borghesi, permise alla socialdemocrazia una costante ascesa elettorale, non arrestata neppure dalle misure antisocialiste messe in atto da Bismarck. Eduard Breinstein, membro del partito, propugnò una revisione del marxismo, considerato ormai superato, che criticava l'idea della dittatura del proletariato che contrastava i valori di libertà insiti nell'idea di socialismo. Si tratta, secondo Bernstein, di conquistare lo Stato e il controllo della società attraverso il controllo della società con l'organizzazione sindacale ed il voto politico.
Socialismo in Inghilterra
L'obiettivo del socialismo inglese fu, anziché la conquista rivoluzionaria del potere, la riforma della società attraverso le vie costituzionali. Solo dopo una crisi economica del 1879, il pensiero di Marx riuscì ad entrare nell'isola, in quanto prima era considerato superato ed antiproduttivo dalla società più industrializzata del mondo. L'azione di un nuovo sindacalismo pose le basi per la fondazione nel 1893 del Partito laburista indipendente (ILP), con un programma moderato di riforme tutt'altro che marxiste, ma tale da provocare una prima frattura tra i sindacati raccolti nelle Trade Unions e il Partito liberale (Whings). L'ILP riuscì in seguito a collegarsi con altre forze politiche e sindacali presentando si con grande successo alle elezioni dei primi anni del novecento. Nacque così il Partito laburista (Labour Party). Ad esso detto il maggior contributo dottrinale una delle associazioni aderenti, la Società Fabiana (da Fabio Massimo, il temporeggiatore della seconda guerra punica), sorta per opera di un gruppo di intellettuali, tra cui, Shaw e Webb. I fabiani erano dei socialisti riformisti, influenzati dalle teorie economiche del liberalismo radicale. Essi credevano in un passaggio graduale della società capitalista a quella socialista e consideravano lo Stato un ente neutrale che poteva e doveva essere conquistato dai lavoratori attraverso la lotta parlamentare e non con la rivoluzione.
Socialismo in Italia
In Italia ci fu inizialmente, soprattutto, un'influenza anarchica (con principali sedi a Massa e Carrara) sotto la guida di forti personalità rivoluzionarie, come Cafiero e Malatesta. L'anarchismo respingeva l'idea di un organizzazione politica di classe e operava, invece, nel tentativo di suscitare azioni spontanee di ribellione popolare, provocando moti e scontri cruenti (Bologna, Imola). Il fallimento dei tentativi anarchici indusse un ex capo anarchico, Andrea Costa, a presentarsi alle elezioni schierandosi a favore di un partito socialista. Iniziò così l'ascesa del socialismo in Italia che vide la nascita nel 1882 del Partito operaio, fondato da alcuni amici di Costa. Seguì l'esempio anche un altro grande esponente dell'anarchia, Filippo Turati, e il tutto culminò con la nascita del Partito socialista Italiano nel 1893. Il programma di Turati fu di tipo gradualista, che dava molto peso alla conquista di strumenti democratici per una trasformazione della società dall'interno, piuttosto che per via rivoluzionaria. A differenza del socialismo tedesco e francese, quello italiano riscontrò grandi consensi anche tra le campagne, con numerose adesioni di braccianti agricoli, a causa della bassa industrializzazione del paese.
Socialismo in Russia
Anche in Russia l'anarchia riscontrò inizialmente più successo del socialismo, fino a quando un aumento del costo della vita colpì l'enorme nazione. L'avvento del pensiero marxista si deve a Plechanov che diede la spinta per la formazione di diversi gruppi di spunto socialista. Solo nel 1898 venne fondato clandestinamente il Partito socialdemocratico russo. Il capo era Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin.
2. SOCIALISMO E DEMOCRAZIA IN ITALIA
Agli inizi degli anni 90 l'esperienza comunista Sovietica implode malamente su se stessa. Il passaggio ad un capitalismo efficiente e moralmente decente si rivela laggiù molto difficile. La speranza di vita dei Russi si accorcia in poco tempo di quasi dieci anni, ed ancora oggi un ricupero della qualità media di vita, nell'ambito di nuovi assetti e nuovi equilibri, appare non facile.
Saranno soprattutto le socialdemocrazie Europee a salvare per la storia il messaggio che la solidarietà verso le classi e gli individui più deboli è sostanzialmente coniugabile non soltanto con la democrazia, ma anche con l'efficienza, in altre parole che è una scelta politica che può funzionare.
Concedetemi di aprire una parentesi non del tutto fuori posto: a livello di vicende del villaggio globale, credo che sarà compito imminente delle socialdemocrazie contribuire a riequilibrare progressivamente situazioni di assai brillante competitività basate su forze lavoro largamente prive di tutele della dignità umana, nei casi più estremi operanti in condizioni di semi-schiavitù. Mi dicono che nella Cina di oggi, formalmente Comunista, sostanzialmente Capitalista, non esistono Sindacati degni di questo nome.
Riavvicinandoci al nostro Paese, verso la fine degli anni 90 i terribili sanguinosi avvenimenti Europei immediatamente alle porte ad Est dell'Italia rinfrescano a molti la memoria dell'implicita pericolosità dell'equazione:
[Stato = Nazione (cioè Stato fondato su un'unità di lingua, di sangue, di territorio, non di rado persino di religione, secondo elaborazioni maturate già nella seconda metà dell'ottocento)], anziché:
[Stato = impegno di ogni individuale cittadino verso la comunità, espresso nei vincoli (diritti e doveri) di un patto costituzionale; Stato articolato poi nella ricchezza concreta di molteplici e variegate realtà locali].
Quanto sopra configura certamente un eccesso di sintesi e di semplificazione, ma ho anche cercato di mantenere un equilibrio con le dimensioni di questo testo.
Queste vicende, Internazionali sì, ma guarda caso anche Europee, hanno portato in Italia alla caduta di due duplici "conventio ad excludendum":
A destra, del "popolo" dell'ex MSI, che diviene "Alleanza Nazionale" (e che, nonostante l'aggettivo "Nazionale", nei fatti smorza progressivamente e talvolta anche abbandona le antiche impostazioni ideologiche dure, per molti versi insostenibili, cui accennavo sopra); a sinistra, del "popolo" dell'ex PCI, che divengono gli odierni "Democratici di Sinistra". Il 6 - 8 % di elettori di Rifondazione Comunista sono un po' dei Comunisti Utopistici, un po', a livello più popolare, dei Genoani nostalgici della vecchia bandiera?
Sarebbe oggi ingeneroso verso Alleanza Nazionale e verso i Democratici di Sinistra, e soprattutto contrario agli interessi stessi del nostro Paese, non considerare questi nostri due "popoli" sufficientemente integrati nelle dialettiche della tolleranza democratica e dell'alternanza.
Naturalmente, per ovvie ragioni elettorali, il nostro Primo Ministro è più illuminato e generoso verso il popolo che viene dagli antichi fascisti, che verso il popolo che viene dagli antichi comunisti, ma in questo caso lui fa i suoi interessi elettorali, non necessariamente gli interessi del Paese.
Naturalmente ad un Berlusconi in difficoltà a livello di "delivery" può far molto comodo trasformare la competizione elettorale nell'equivalente emotivo di uno scontro fra tifosi del Milan e tifosi dell'Inter, o qualcosa del genere. Un'impostazione astuta, perché, anche per me, se per "Inter" dovessi davvero intendere il Comunismo di Stalin, allora il "Milan" di Berlusconi apparirebbe il minore dei mali. Purtroppo un'impostazione astuta, che si rifà ad antiche giuste emozioni, ma oggi diventata intellettualmente disonesta.
Se invece andiamo indietro nella storia del nostro Paese, personalmente ritengo che, pur con luci ed ombre, debba venire assegnato un segno positivo ad un bilancio storico del ruolo da protagonista giocato dalla Democrazia Cristiana in quasi cinquant'anni di democrazia bloccata (quando, sia per le eredità politiche che ci portavamo dietro, sia per il contesto internazionale, un'alternanza era di fatto impossibile).
L'emergere anche in Italia di una possibile alternanza fra due poli sufficientemente ben definiti, ha indubbiamente creato problemi di schieramento agli ex Democristiani. A mio avviso, non vi è nulla di negativo se l'opportunità di una reale alternanza democratica ha spinto alcuni Democristiani a privilegiare un maggiore rispetto dell'ortodossia Cattolica che appariva meglio garantito dal polo di centro-destra, altri Democristiani a privilegiare in un certo senso la carità verso il prossimo di un eretico come il buon Samaritano, a cui sentivano più sensibile (non proprio sempre) il polo di centro-sinistra. Anche qui chiedo venia per l'eccesso di semplificazione. Tra l'altro per la Gerarchia Cattolica di oggi, ciò che uno fa è spesso non meno importante di ciò in cui uno crede. Nei rapporti con i non-Cattolici, specialmente con i non-Cristiani, ciò che uno fa verso il prossimo tende a diventare criterio dirimente, e ciò le fa onore.
Spero che la memoria non mi inganni, ma certi vecchi socialisti ricordano il ruolo di De Michelis in opposizione a Giolitti ed a sostegno di Craxi nel Congresso di Torino del 1978, il Congresso, se non vado errato, della riabilitazione di Cicchitto, ex Piduista. E' ipotizzabile che questo tipo di passato ed altre vicende personali vincoleranno irreversibilmente De Michelis ed altri al polo di centro-destra.
Provo ad avanzare alcune proposte ed alcune considerazioni:
• A mio avviso, oggi che finalmente anche in Italia si è creata l'opportunità di un'alternanza democratica, ed il polo di centro-sinistra ha un baricentro di idee così vicino al baricentro di idee del Partito Socialista Europeo, ed al flusso di idee che provengono dalla nostra storia, la naturale collocazione del Partito Socialista delle Regioni e di ogni vecchio Socialista appare quella del polo di centro-sinistra. Le ragioni storiche per un tal tipo di scelta sono così più forti e prevalenti su ogni altra valutazione contingente, da lasciare a mio avviso ben pochi dubbi. Ciò mi pare peraltro in sintonia con gli orientamenti emersi durante le nostre riunioni romane degli ultimi mesi.
• E' certamente un bene auspicabile per la governabilità del nostro Paese che sia il polo di centro-destra che il polo di centro-sinistra siano il più possibile ben strutturati e ragionevolmente identificabili in definite progettualità ed intenti, concordati fra le rispettive forze politiche. E' molto importante che dietro ai due schieramenti vi siano programmi di governo ragionevolmente definiti. In questo concordo pienamente con il nostro Primo Ministro.
• A titolo di esempio, se penso per un momento al mio mondo di professore universitario di una Facoltà di Medicina, vi vedo coinvolti problemi scottanti concernenti la ricerca, la formazione avanzata delle giovani generazioni, l'Università, l'assistenza sanitaria. E' dunque fondamentale che una coalizione abbia concordato linee guida per un coerente programma di governo.
• La promessa demagogica del presente Governo di diminuire le tasse, promettendo nel contempo di accontentare un po' tutti, ha portato ad una serie continua di tamponamenti "una tantum", ad irrisori investimenti a lungo termine per la formazione giovanile sia media che avanzata, inclusi investimenti nella ricerca sia accademica che industriale. Una correzione netta di rotta è indispensabile ed urgente. Il contributo di un moderno riformismo socialista può essere di grande rilevanza, anche perché viene da lontano, non da improvvisazioni.
Detto questo, ritengo che l'alleanza di centro-sinistra debba mantenere la visibilità delle sue principali componenti. Penso, a titolo di esempio, ai Cattolici Popolari: hanno dietro di sé una fetta di storia importante del nostro Paese. Ritengo che i loro elettori debbano poterli ritrovare. Benché non sia un Cristiano, ma piuttosto un monoteista alla Mordecai Kaplan, ci andrei cauto con il rispetto dell'inizio di vite umane. Le mie figlie sanno che io e mia moglie non ritenevamo di aver diritto di decidere della loro sorte, fin da quando erano un ovulo fecondato, e forse per questo mi guardano con altri occhi.
1. Volutamente non sono partito subito dalla nostro Partito Socialista delle Regioni, o dal nuovo nome che il nostro movimento vorrà magari darsi. Anche per noi vale lo stesso logico discorso. L'elettore deve poter riconoscere un filone storico Socialista, che correttamente si colloca nel contesto delle Socialdemocrazie Europee.
2. Nell'ambito del polo di centro-sinistra, temo non più nel Nuovo-PSI di De Michelis, saldamente ancorato al polo di centro-destra (finalmente ha le idee chiare come dice un suo manifesto), ritroveremo più di un filone storico Socialista. Questo potrà aprire una proficua stagione di futuri dialoghi e confronti.
3. Penso che DS e SDI sbaglino nel non insistere per un simbolo Europeo di identità Socialista, una sorta di Sezione Italiana del Partito Socialista Europeo, a cui anche a me, come vecchio Socialista, piacerebbe emotivamente appartenere.
4. Prodi, di cui ho stima, potrebbe diventare una specie di Delors Cattolico Socialista, oppure rimanere in un partito dei Cattolici Italiani di Centro-Sinistra, che potrebbe chiedere un'affiliazione indipendente al Partito Socialista Europeo. Ciò potrebbe essere di grande significato per un'identità Europea proiettata nel futuro, capace del superamento di vecchi e dannosi steccati!
5. Alcuni ex compagni socialisti hanno scelto di apportare il loro contributo alla vita politica del nostro Paese nell'alveo del polo di centro-destra. Ritengo che le idee che abbiamo del mondo che ci circonda debbano sempre evolvere e possano anche cambiare in modo netto. Guai ad applicare verso le complessità della vita un atteggiamento irreversibile da tifoso di squadra di calcio (succede regolarmente anche in politica, è connaturato purtroppo alla natura umana, ed il nostro Berlusconi, sia detto senza cattiveria, lo sa meglio di tutti noi, così come conosce assai bene le tecniche pubblicitarie di vendita di un prodotto, e di svalutazione del prodotto concorrente altrui). In conseguenza di quanto appena detto, rispetto la scelta di questi ex-compagni, ma ritengo che, sia in un contesto Europeo che nel contesto del nostro Paese, vadano ormai considerati dei Conservatori (ho in mente i rispettabilissimi Conservatori Inglesi). Potranno talvolta dare contributi illuminati al polo di centro-destra, e questo mi fa molto piacere, ma sono oggi fuori dal filone storico sia del Socialismo Italiano che Europeo.
Prof. SILVIO PARODI
3. Il socialismo liberale: un unicum italiano?
La nascita di "Giustizia e libertà"
Arrivare a Parigi significò per Rosselli ricominciare quell'attività politica interrotta dall'arresto. Pur collocandosi all'interno della "Concentrazione antifascista", nata per raccogliere gli antifascisti, Rosselli capì che era necessario costruire un movimento in grado di organizzare le tendenze di rinnovamento presenti nelle forze politiche italiane prima dell'esilio. Fu cosi che venne fondata da Rosselli, Lussu, Salvemini e Tarchiani, "Giustizia e Libertà ", un movimento che tuttavia non si definiva socialista perché alla sua origine stava un progetto più vasto. Se in un primo tempo " Giustizia e Libertà " promosse una politica antifascista fondata su azioni esemplari (attentati, lanci di volantini da aerei) e sul collegamento con il lavoro nelle fabbriche torinese e milanesi (soprattutto ad opera di militanti rimasti in Italia come Vittorio Foa, Carlo Levi, Rodolfo Morandi, Mario Levi, che continuarono le riflessioni gobettiane sul "controllo operaio", Riccardo Bauer e Ernesto Rossi e infine il giovane musicologo Massimo Mila ), a partire dal 1932, resisi conto dell'impraticabilità di questa soluzione, i giellisti iniziarono un discorso di più lunga lena. Venne cosi creato una rivista i " Quaderni di Giustizia e Libertà ", nei quali trovò luogo il progetto di un socialismo liberale.
Il programma di GL, steso all'inizio del '32, si fondava sulla convinzione, di origine gobettiana, che il fascismo più che la causa, fosse l'effetto di una "crisi di istituzioni e di ordinamento sociali ", che aveva investito l'Italia nei decenni precedenti. Contrariamente a quanto pensavano gli altri componenti della Concentrazione, l'antifascismo non doveva porsi come obiettivo la sola caduta del fascismo, ma anche una rivoluzione sociale, che introducesse un nuovo regime politico e sociale rispetto a quello dell'Italia pre-bellica; una rivoluzione dai caratteri tuttavia assai diversi da quelli propagandati dai comunisti. La via collettivista non era secondo GL possibile in Italia, dati i caratteri strutturali della sua economia, mentre era necessaria una rivoluzione che combinasse il "criterio della socializzazione con quello della gestione privata corretta dal controllo della collettività e dei lavoratori". Il che significava rifiutare la statizzazione dei mezzi di produzione, e lasciare una spazio di autonomia alle imprese piccole e medie. Dal punto di vista istituzionale, si trattava poi di abbattere lo Stato centralistico cosi come si era costruito con l'unità d'Italia e lasciare grande spazio alle autonomie locali, sulla base di una costituzione di tipo federalista.
Il socialismo liberale, che ora Rosselli preferiva definire "liberalismo rivoluzionario", prevedeva dunque un'alleanza tra classe operaia e ceti medi, nella convinzione che il fascismo non fosse una semplice reazione capitalistica, ma qualcosa di ancorato nel costume degli italiani. Ne derivava il rifiuto del presupposto classista avanzato da comunisti e ad socialisti, secondo cui il proletariato sarebbe stata l'unica classe interessata alla rivoluzione antifascista. La stessa classe operaia non era da considerarsi, per Rosselli, come un blocco unico: occorreva rendersi conto dell'esistenza di
"differenze assai sensibili di psicologia, di orientamento politico e sociale tra operai specializzati e non specializzati, tra oprai di regioni a tradizione industriale e operai di regioni prevalentemente rurali, tra operai fissi e stagionali, tra operai di industrie protette e di industrie liberare, tra operai, soprattutto, della grande e piccola industria ? Anche ponendosi da un rigoroso punto di vista marxistico si scoprirebbero che non è metodologicamente corretto fare del proletariato un blocco monolitico la cui rappresentanza spetta a priori al PC".
Da qui la necessità, per lo stesso socialismo riformista, di ripensare la propria tradizione, giudicata da Rosselli eccessivamente statalista. In occasione della morte di Turati, Rosselli ripercorse le critiche degli anni precedenti al socialismo riformista e rivendicò la necessità per il socialismo di rompere con lo statalismo. Dopo la rivoluzione, in Italia,
" il governo non dovrà allora esser consegnato nelle mani del solo partito, sempre propenso a trasformarsi in setta, ma alla rappresentanza organica della classe lavoratrice, dell'intero mondo del lavoro che attraverso la sua reste di istituzioni sindacali, cooperative, culturali, costituirà il nuovo Stato. Solo un contatto organico, permanente, intimo tra socialismo politico ed economico, tra partito e sindacati, tra élite e massa, impedirà le possibili degenerazioni oligarchiche, burocratiche e settarie del partito, favorendo il sorgere di una democrazia sostanziale"
Di fronte alle difficoltà del socialismo europeo occorreva un rinnovamento radicale. La sconfitta della classe operaia in Germania di fronte al nazismo venne infatti letta da Rosselli non solo come l'incapacità dei partiti della classe operaia di allearsi tra loro, ma anche come conseguenza della loro burocratizzazione: da un lato la SPD si era strutturata come partito sul modello dello Stato weimeriano, dall'altra i comunisti avevano creato una organizzazione altrettanto burocratica agli ordini di Mosca. Da qui la necessità, per un movimento antifascista, di porsi sul terreno socialista, ma nello stesso tempo di superare le divisioni tra le diverse tendenze per arrivare ad "una fusione tra gli elementi più vivi e maturi delle tre correnti (socialista, anarchica e comunista), che andranno scoprendo che ciò che li unisce è vitale e degno di sopravvivere ; mentre ciò che li divide è condannato, eredità di un passato morto, ramo secco". Questa nuova organizzazione non doveva per Rosselli essere un partito, perché
"il partito moderno, [...] è dentro lo stato, parte costitutiva, organo dello Stato, anche se suo scopo ultimo è rovesciarlo per sostituirlo con un altro (rovesciamento che del resto nessun partito politico moderno, inteso nel senso che abbiamo detto, è riuscito ad operare, appunto perché lo stato entro cui agiva non era qualcosa di rigido ed immutabile esterno ai partiti, ma il prodotto di rapporti reali delle forze politiche in gioco). L'opposizione, salendo al governo, o rafforzandosi, mutava la natura stessa dello stato. Se invece o partito è tutto fuori dello stato, è in contraddizione flagrante con lo stato e in nessun punto riesce ad aderirvi, non si ha più un partito, ma un movimento rivoluzionario, un antistato".
I "Quaderni di Giustizia e Libertà" furono una palestra di discussione sul socialismo liberale, e in qualche modo ripresero il discorso intrapreso dalla "Rivoluzione liberale" prima e dal "Quarto Stato " poi. Essi fecero emergere figure che rappresentavano delle proposte originali, come quella di Emilio Lussu, il più vicino a Rosselli, che tenne in questo periodo posizioni assai prossime a quelle dell'amico, approfondendo lo stimolo federalista di GL. Lussu manifestò però una idea diversa da Rosselli sulla questione del partito, che il primo riteneva utile costruire subito, seguendo la sua cultura giacobina ed insurrezionalista.
Una delle figure preminenti di GL era poi Andrea Caffi. Nato nel 1887 a Pietroburgo da famiglia italiana, Caffi aveva seguito le lezioni di Simmel a Berlino, si era trasferito in Francia, arruolandosi volontario nell'esercito francese nel 1914. Dopo la guerra era rientrato in Italia fino al 1926, quando si esiliò in Francia. Quando nel '32 si ebbe in GL un dibattito sulla rivoluzione russa, egli, a differenza di Rosselli, non riconobbe un qualche statuto socialista all'URSS. L'esempio dell'URSS e della rivoluzione bolscevica, che Caffi era stato uno dei primi in Italia a studiare, gli permetteva di dimostrare il carattere intrinsecamente statalista del socialismo, da cercarsi nelle origini stesse del socialismo marxista della Seconda Internazionale. Recuperando Proudhon e gli studi del sociologo russo, menscevico emigrato in Francia, George Gurvitch, Caffi sosteneva che il socialismo nuovo, ancorché continuare ad interessarsi del cittadino come lavoratore, avrebbe dovuto organizzare quella che Proudhon chiamava "costituzione sociale ".
Un'altra figura importante di GL fu Silvio Trentin. Nato nel 1885, giurista, dopo aver partecipato alla guerra come volontario, era entrato in politica prima come deputato della Democrazia sociale poi a fianco di Giovanni Amendola. Rifiutandosi, in quanto professore universitario (insegnava diritto all'Università di Venezia) di aderire al fascismo, si esiliò nel 1926, trasferendosi non a Parigi ma a Tolosa, dove prima esercitò lavori manuali e poi aprì una libreria che fu per tutto il decennio vivo centro di antifascismo. Nel 1930 aveva dato alle stampe, per la casa editrice di Georges Valois, il libro Antidémocratie, ove spiegò come il carattere principale del fascismo consistesse nella distruzione dell'ideologia democratica e come si potesse opporre a tale processo solo recuperando, su un piano europeo, la forza della democrazia. Il che significava frenare il processo europeo di decadenza delle libertà individuali allargando i diritti dei cittadini soprattutto nei confronti dell'intervento del governo centrale, cosa che si doveva ottenere partendo da una riorganizzazione di carattere federalistico dello Stato.
Se le posizioni di Trentin fino a questo momento non possono dirsi socialiste, ma piuttosto liberal-democratiche avanzate, dal 1932 egli iniziò una revisione che lo condusse al socialismo. Nelle Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione, il giurista veneto recuperò la critica di Rosselli al marxismo, sostenendo che un nuovo socialismo avrebbe potuto fondarsi solo sul rispetto della libertà dell'individuo, inteso come agente autonomo, spiritualmente capace di decidere della propria vita. Ma secondo Trentin, a partire dal dopoguerra l'economia aveva preso il sopravvento sul diritto, finendo per ledere la stessa autonomia degli individui. Da qui, nonostante la critica al marxismo e al sistema sovietico, l'idea di ispirarsi, per la rivoluzione socialista futura da promuovere in Occidente, a un "capitalismo di Stato" che regolasse il mondo economico. Beninteso lo Stato avrebbe dovuto essere organizzato in forma completamente diversa da quella sovietica, sul modello federalista, lasciando la proprietà privata all'individuo, in quanto garanzia di libertà. Per il resto, nello Stato futuro disegnato da Trentin, il cittadino avrebbe potuto intervenire in tutti gli ambiti dell'amministrazione e avere garantiti i pieni diritti civili e politici . La posizione di Trentin finiva cosi per apparire più radicale di quella di Rosselli: se ad esempio il programma di GL prevedeva una socializzazione parziale dei mezzi di produzione e l'indennizzo dei proprietari, Trentin riteneva inutile tale proposta e sosteneva una socializzazione totale delle grandi imprese.
I "Quaderni di GL" ospitarono poi in quegli anni altre discussioni di grande importanza (basti ricordare quelle sull'analisi del fascismo, sul totalitarismo, sull'eredità del Risorgimento) che videro l'intervento di figure non certo di secondo piano come Umberto Calosso, Nicola Chiaromonte, Aldo Garosci, Leone Ginzburg, Alberto Tarchiani, lo storico dell'arte Lionello Venturi e suo figlio Franco, allora ventenne e già studioso del Settecento francese, Gino Ludovico Luzzato, Angelo Tasca, tutti gravitanti, più o meno direttamente, nell'area di "Giustizia e Libertà".
4. Ricerche da encarta
Socialismo Dottrina politica associata sin dagli inizi alle istanze della classe operaia, il cui programma può essere riassunto nel seguente modo: abolire le classi, giungendo così a una reale eguaglianza sociale; porre le risorse economiche sotto il controllo diretto delle classi lavoratrici; limitare il diritto di proprietà; incoraggiare una nuova morale basata sulla solidarietà e la cooperazione. Benché nel corso dell'Ottocento e del Novecento il fine ultimo del socialismo sia stato spesso descritto come il raggiungimento di una società senza classi, il movimento socialista si è orientato sempre più verso una politica riformista, tesa alla realizzazione di sostanziali modifiche del sistema capitalista piuttosto che alla sua abolizione.
Le Origini Il termine entrò nell'uso tra gli anni Venti e Trenta del XIX secolo, con riferimento ai programmi cooperativi e comunitari dei cosiddetti socialisti utopisti (Robert Owen, Pierre-Joseph Proudhon, Charles Fourier), i quali criticavano il sistema capitalista da due punti di vista: innanzitutto perché esso era profondamente ingiusto, in quanto sfruttava e degradava i lavoratori, mentre arricchiva nel contempo le altre fasce della popolazione; inoltre perché era inefficiente, in quanto andava soggetto a crisi cicliche causate da sovraproduzione o sottoconsumo, non garantiva il lavoro a tutti, permettendo che risorse umane fossero sprecate, e produceva beni di lusso invece che beni necessari. Il socialismo era una reazione all'individualismo sfrenato del liberalismo, che trascurava la dimensione del benessere collettivo; ma del liberalismo condivideva l'aspirazione al progresso universale e l'istanza dell'abolizione di tutti i privilegi giuridici e istituzionali.
Il socialismo scientifico Con Karl Marx e Friedrich Engels il socialismo acquistò una nuova dimensione teorica, al cui centro veniva posta la concezione materialistica della storia. Marx ed Engels consideravano il capitalismo il risultato di un processo storico caratterizzato da un'incessante lotta di classe. Creando un'ampia classe di operai espropriati, il capitalismo creava le premesse del proprio superamento, cui avrebbe fatto seguito una società comunista. Marx criticò con asprezza i socialisti "utopisti". L'adozione di un metodo scientifico nell'analisi delle leggi della storia e dell'economia avrebbe dimostrato che il socialismo, lungi dall'essere un ideale da proporre alla parte illuminata della società, era invece un risultato necessario della stessa evoluzione storica e che sarebbe stato inoltre imposto dallo stesso proletariato impegnato in un processo di autoemancipazione. Secondo Marx, la sua teoria segnava quindi il passaggio del socialismo dal regno dell'utopia a quello della scienza. Nella seconda metà del XIX secolo la versione marxista del socialismo divenne l'ideologia dominante nei partiti operai europei, con l'eccezione del movimento dei lavoratori dei paesi anglosassoni (vedi Marxismo).
L’avvento della socialdemocrazia Le critiche al marxismo suggerirono tuttavia nuove prospettive. In Germania Eduard Bernstein sviluppò un approccio revisionista alle teorie di Marx, convinto che l'idea marxiana di un'imminente crisi economica di grandi proporzioni che aprisse la via al socialismo fosse sostanzialmente errata. Nel programma di Erfurt (1890) redatto da Bernstein e Karl Kautsky per il Partito socialdemocratico tedesco, accanto al "programma massimo" di passaggio al socialismo venne indicato anche un "programma minimo", i cui obiettivi erano il suffragio universale, la parità giuridica tra donne e uomini, un sistema di sicurezza sociale, le pensioni, la giornata lavorativa di otto ore, la legalizzazione dei sindacati. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento gran parte dei partiti socialisti europei accettò, a prezzo di gravi lacerazioni interne, una prospettiva gradualista, ritenendo che le loro richieste potessero essere ottenute pacificamente nei paesi democratici, mentre nei paesi dispotici, come la Russia, avrebbe potuto rivelarsi necessario il ricorso alla violenza. I socialisti non rinunciarono al marxismo, accettandolo ancora nella sua globalità, ma lo inserirono in un contesto di sostanziale accettazione dei valori della democrazia parlamentare. Il successo della Rivoluzione russa, insieme al fallimento della Seconda Internazionale, aggravò la crisi di molti partiti socialisti, provocando divisioni che ebbero come risultato la fondazione di partiti comunisti di stretta osservanza marxista e di partiti socialisti più moderati o socialdemocratici. In seguito tra queste due componenti del movimento socialista si stabilì una sempre maggiore distanza; mentre i "socialisti" diventarono convinti sostenitori della democrazia parlamentare e delle riforme, le componenti comuniste si strinsero intorno al processo rivoluzionario sovietico, aderendo alla teoria del "socialismo in un solo paese" e alla Terza Internazionale.
Tuttavia, negli anni Trenta, nel tentativo di contrastare l'affermarsi dei movimenti fascisti in Europa, i partiti socialisti e comunisti si ritrovarono ancora insieme, prima nei fronti popolari (in Francia e in Spagna), poi nella Resistenza e in seguito, in alcuni paesi dell'Europa dell'Est e in Italia, nelle alleanze che tentarono di imporsi nelle prime elezioni del dopoguerra. In Italia il Fronte democratico popolare fu battuto nelle elezioni del 1948, nell'Europa dell'Est i fronti si affermarono, favorendo il successivo insediamento di regimi comunisti.
5. SOCIALISMO:
dal lat. societas ("società") e dal derivato socialitas. Nel secolo XVIII "socialista" è il fautore delle dottrine contrattualistiche e di derivazione giusnaturalistica, che pongono all'origine della società l'istinto sociale, la benevolenza, il potenziale progresso (Jean-Jacques Rousseau, Cesare Beccaria, Pietro Verri), in contrasto con le interpretazioni basate sull'origine ferma dell'uomo e sulla necessità della lotta primitiva come base della convivenza politica. Il termine S., però, non attecchisce e non si diffonde al di fuori dell'ambiente dei sostenitori e dei confutatori delle idee illuministe, assumendo una connotazione polemica e non di rado negativa. Dopo la Rivoluzione francese, S. diviene vocabolo che, perdendo di incisività, finisce per designare solo la corrente antihobbesiana del diritto naturale. Intorno al 1830 sorgono le dottrine più consistenti riferibili al S., dove il termine deriva dal fr socialistique, socialisme (1831). Tali dottrine, in concomitanza con lo sviluppo industriale inglese e francese e con le sue contraddizioni sociali, verranno poi definite "utopistiche", proprio perché elaborano l'ideologia egualitaria illuminista e rivoluzionaria riferendola a un ordinamento sociale perfettibile indefinitamente.
Il S. non coincide più, allora, con la generica opposizione all'individualismo, ma assume il significato di dottrina compiuta, di movimento che persegue il fine della democrazia politica, dell'uguaglianza sociale e di una nuova organizzazione del sistema economico, fondata sull'associazionismo cooperativo e sul controllo ; pubblico dei mezzi di produzione. Gli aspetti comuni a tali dottrine sono: a) la trasformazione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio; b) il controllo delle risorse economiche da parte delle classi lavoratrici; c) l'eguaglianza sociale come complemento a quella politica e giuridica.
Già nel 1825 il termine fiorisce fra i seguaci di Robert Owen (autore dell'opuscolo Cos'è il Socialismo?), espandendosi in Inghilterra e Francia (poi in Germania, anche attraverso l'opera di Lorenz V. Stein). Oltre alle utopie sansimoniane (industriets e scienziati devono guidare la società favorendo le classi più povere) e fourieriste (il lavoro deve essere proporzionato alle capacità S. è quella di Louis blanc in modo illuminato), la teoria più compiuta del Blanc, che riprendendo e sviluppando l'idea degli ateliers - progettati nel 1793 -perviene al progetto di un'economia collettivista pianificata e centralizzata. il termine S. viene a confondersi con quello di "comunismo" (ittienne Cabet), fino a quando, negli anni Quaranta, il secondo non qualifica una variante autonoma nella denuncia della condizione operaia. Friedrich Engels oppone le due dottrine, sostenendo ne il Manfesto che "il socialismo era un movimento borghese, il comunismo un movimento della classe operaia".
La distinzione si stempera nel periodo delle Internazionali operaie del secolo scorso e finisce poi per riaffiorare con la concezione leninista (in contrapposizione alle posizioni riformistiche maggioritarie dei partiti socialisti europei). Il S. marxista ha assunto invece la denominazione di "scientifico" in quanto fa riferimento a una tendenza del processo storico ritenuta oggettiva (il tramonto del modo capitalistico di produzione), che porterà all'autoemancipazione del proletariato, instaurandone la dittatura e abolendo il lavoro salariato. Nel passaggio dal sistema capitalistico alla società comunista occorre però distinguere due fasi: quella socialista e quella comunista (Lenin), entrambe comunque caratterizzate dalla proprietà sociale dei mezzi di produzione.
Alla fine dell'Ottocento il nuovo interrogarsi sulla "crisi" del sistema capitalistico porta Eduard Bernstein a dichiarare sorpassato il marxismo grazie alla dinamica della società moderna. Il suo "revisionismo" sostiene che la lotta di classe sia in via di estinzione e che le migliori condizioni di vita delle classi lavoratrici, dovute alle conquiste stesse del movimento operaio, lasciano intravedere un nuovo assetto sociale consentendo così un S. di tipo nuovo "con un partito delle riforme socialiste e democratiche". Questa dottrina provoca la spaccatura con l'ala sinistra del S. internazionale (Rosa Luxemburg, bolscevismo russo) e la definitiva organizzazione autonoma dei partiti comunisti, poi confluiti nella Terza Internazionale.
Il dibattito teorico più recente sul S. è stato catalizzato dalle esperienze dei cosiddetti Paesi del "S. reale", i quali, dopo la fase della costruzione per vie nazionali (e imperiali) dell'S. stesso, hanno visto il crollo ideologico, economico e politico della fine degli anni ottanta. Dalla critica di quei regimi (a partire dall'analisi trockiana della rivoluzione tradita fino alle teorie sulla nuova classe e sul crollo dell'esperienza cinese e sovietica in quanto crollo del marxismo), si è passati oggi a una analisi dell'S. come ideologia, non divera da altre fortemente aggreganti ma poi tramontate.
6. LA "SOCIALIZZAZIONE" DELLE IMPRESE TRA FASCISMO E ANTIFASCISMO
Nell'autunno del 1943 al Congresso di Verona del P.F.R. si è riaffacciata, sia pure in modo molto generico, per la prima volta dopo anni, la vecchia idea mussoliniana di una partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. In realtà, la burocrazia politica del risorto Partito Fascista ha deciso di ridare consistenza a questa idea solo nel tentativo di conquistare alla propria causa la classe operaia italiana, ormai stufa di una classe dirigente che l'aveva condotta nel baratro della guerra. L'inesistenza di una reale volontà della burocrazia politica fascista di fare reali concessioni alle classi subalterne si può rilevare anche nella genericità degli enunciati di principio formulati al Congresso. In ogni caso, pur tra mille tentennamenti, il fascismo repubblicano con legge del 12/2/1944 ha elaborato una riforma del diritto d'impresa che comportava l'introduzione dei lavoratori nella gestione dell'impresa: i fascisti volevano così contrapporre un loro modello di socialismo, fondato sulla socializzazione parziale della gestione delle imprese pubbliche e private, al socialismo sovietico che si configurava come una forma di capitalismo di Stato.
Ora, che il socialismo sovietico fosse una forma di capitalismo di Stato e che la burocrazia politica sovietica si configurasse come una nuova forma di borghesia non ci sono dubbi (lo avevano già capito più di vent'anni prima i rivoluzionari di Kronstadt!), ma che la riforma fascista prefigurasse la costruzione di una nuova forma di capitalismo di Stato è altrettanto certo: nelle poche fabbriche in cui è stata sperimentata la socializzazione fascista, infatti, i rappresentanti dei lavoratori eletti nei consigli di gestione erano quasi tutti fascisti, cioè persone che dovevano rendere conto del loro operato direttamente alla burocrazia politica del partito-Stato di cui facevano parte.
Il partito fascista entrava così direttamente nella gestione del settore privato della economia nazionale. Non solo, ma la "socializzazione" della gestione delle imprese di Stato non si accompagnava al loro passaggio ad un regime di autonomia finanziaria: neanche in questo settore, che i "socializzatori" si proponevano di rendere dominante nel panorama dell'economia italiana, si sarebbe potuto, quindi, parlare della introduzione di germi di una futura autogestione sociale dei mezzi di produzione. La cogestione fascista si configurava, insomma, soprattutto come un modo per la burocrazia politica fascista di mettere le mani sul settore privato dell'economia a danno tanto della borghesia tradizionale quanto della classe operaia. La classe operaia ha compreso immediatamente che non ci sarebbe stata una reale democratizzazione del sistema economico in caso di vittoria delle forze nazifasciste, ma solo nuove più sofisticate forme di dominio di classe e di sfruttamento di Stato. La lotta di classe tra la classe operaia e la burocrazia politica nazifascista, quindi, è riesplosa immediatamente dopo il varo della legge-quadro sull'impresa del 12/2/44 con uno sciopero generale che ha paralizzato tutto l'apparato produttivo della Repubblica Sociale Italiana e, pur rimanendo allo Stato latente per la situazione bellica, non si è più assopita fino all fine della guerra: ne è un chiaro esempio il boicottaggio da parte dei lavoratori delle elezioni dei consigli di gestione fascisti alla FIAT.
Il 25/4/45, il C.L.N.A.I. ha assunto temporaneamente le funzioni di governo nel nord Italia. I lavoratori, intanto, hanno occupato molte fabbriche, abbandonate dai propri padroni, accusati di collaborazionismo, e vi hanno fondato dei nuovi consigli di gestione, ben diversi, per il loro carattere realmente democratico, da quelli voluti dal fascismo repubblicano.
Il C.L.N.A.I., costituito da esponenti della rinata burocrazia politica "democratica", stretto tra la necessità di disinnescare la pericolosità potenziale che rivestiva la legge-quadro sulla socializzazione in un momento di accesa lotta sociale dai connotati accentuatamente rivoluzionari e, allo stesso tempo, di non perdere l'appoggio della classe operaia, si è preoccupata di abolirla immediatamente e di sostituirla con una nuova legge dai contenuti più moderati.
In realtà, anche per le pressioni della burocrazia di Stato militare americana, la prima legge è stata abolita e la seconda non è stata convertita dal governo nazionale.
Se ci fosse stata buona fede, come i governi post-fascisti, mutate le condizioni politiche, hanno mantenuto gran parte dell'ordinamento giuridico fascista - penso in particolare al codice civile e al codice penale -, nulla avrebbe vietato loro di mantenere in piedi una legge sull'impresa (la legge 12/2/'44), che, liquidata la burocrazia politica fascista e i suoi consigli di gestione, poteva tornare a solo vantaggio dei lavoratori. In quei giorni, il governo si è preoccupato solo di eliminare ogni riferimento normativo che avrebbe potuto cristallizzare la situazione sorta dalla Rivoluzione Antifascista, rimandando ad un momento successivo la liquidazione reale dei consigli di gestione.
I nuovi consigli di gestione liberi, organi che mediavano realmente la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, sorti un po' in tutte le fabbriche all'indomani del 25 aprile, non sono stati immediatamente soppressi: la situazione era troppo pericolosa!
In quei giorni per lo stravolgimento che si è avuto nei rapporti sociali di produzione vi è stata non solo una semplice rivolta contro lo straniero e la burocrazia politica di un partito-Stato che aveva fatto il suo tempo, ma un'autentica rivoluzione sociale! Negli anni successivi gradualmente i consigli di gestione, sorti in tutte le imprese - anche all'Iri -, sono stati svuotati di tutti i loro poteri e le loro stesse modalità di elezione sono cambiate, in modo tale che in breve tempo, proprio come era successo sotto la Repubblica Sociale, la burocrazia politica - questa volta "democratica" - ha fatto dei consigli di gestione degli organi che mediavano il proprio controllo sulla produzione : i partiti presentavano proprie liste di candidati alle elezioni dei consigli di gestione…
La vittoria del P.C.I. nelle elezioni per i consigli di gestione prima, la graduale trasformazione da parte dei rappresentanti del P.C.I. di questi organi in organi di lotta, anziché di semplice partecipazione alla gestione delle imprese, poi e, infine, l'uscita dei comunisti dall'area di governo hanno spinto la burocrazia politica democristiana a tentare l'impossibile e a lanciare l'attacco finale ai consigli di gestione, che si è risolto, col tacito assenso delle burocrazie sindacali che vedevano in questi organi una fastidiosa forma di controllo sul proprio operato, con la loro eliminazione nel corso degli anni '50.
Di quella grande rivoluzione sociale, la rivoluzione dei consigli di gestione, che, per dirla con Togliatti, prefigurava una via italiana al socialismo resta solo un articolo della Costituzione (l'art. 46) e tanta rabbia, anche perché l'eliminazione dei consigli di gestione, intesi come organi del controllo sociale sulla gestione delle imprese, ha aperto la strada al sorgere di quell'intreccio tra politica, affari e mafia che è stato alla base di Tangentopoli. Non è un caso, infatti, che, negli stessi anni in cui in Italia la cogestione veniva eliminata, in altri paesi, si pensi alla Germania, essa veniva introdotta nel tentativo di costruire un capitalismo pulito… In quei paesi la partecipazione alla gestione delle imprese non veniva vista tanto come un diritto, quanto come un dovere dei lavoratori nei confronti della comunità nazionale.
Roma, 28/1/2000

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