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Categoria: | Storia |
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STORIA D’ITALIA (DALL’ETA` DEI COMUNI AL 1713
L’ETA DEI COMUNI
Il fenomeno comunale fu la manifestazione di un'impetuosa volontà di autonomia delle città padane e toscane anzitutto, espressa dalla piccola nobiltà locale contro la grande, e appoggiata per lo più dai vescovi e dalle ancora rare, ma potenti personalità della produzione e del commercio. Il Comune, nella sua fase primitiva, fu in sostanza il regime imposto alle città da un'aristocrazia di piccoli signori consorziati, rappresentati dai consules, confortato dal consenso popolare; e l'attività di questo regime fu volta, oltre che ad amministrare liberamente la città, secondo le esigenze locali, e gli interessi della classe, o meglio del partito dominante, a sottomettere il territorio circostante. Milano, a partire dagli scorci dell' XI sec., e Firenze, poco più tardi, avviarono questa politica con grande energia, sino a raggiungere, in meno di un secolo, l'egemonia rispettivamente in Lombardia e in Toscana. Contemporaneamente la lotta delle investiture impegnava Impero e papato, obbligandoli entrambi a guadagnarsi, con la concessione di privilegi, le città, e mandava in rovina molti grandi signori feudali, e la prima crociata apriva all'intraprendenza dei cavalieri e dei mercanti ampi orizzonti di gloria e di ricchezza in Oriente. Nei primi anni del XII sec., l'Italia marinara e comunale si proiettava in Oriente con una costellazione di colonie veneziane, genovesi, pisane, e il Mezzogiorno normanno col principato di Antiochia, conquistato in crociata dagli Altavilla (1098) a pochi anni di distanza dalla cacciata dalla Sicilia dei musulmani (1091).
Enrico V, succeduto al padre, riprese la lotta delle investiture contro Pasquale II, che costrinse con le armi a una formale rinuncia al potere temporale (privilegio di Sutri, aprile 1111); rinuncia rimasta tuttavia senza effetto, e seguita dalla scomunica e da un riaccendersi della guerra, complicata dalla questione dell'eredità della contessa Matilde la quale, spentasi nel 1115, aveva lasciato per testamento tutti i suoi beni alla Chiesa, senza distinguere tra beni allodiali, di cui poteva liberamente disporre, e beni feudali, che, in mancanza di eredi diretti, dovevano tornare all'Impero. I beni matildini si estendevano dalla Val Padana al Mezzogiorno; rimasti praticamente acefali durante la contesa per l'eredità, si punteggiarono di Comuni, dove l'autonomia confinava con l'indipendenza; tra questi, cominciò a emergere Firenze. Pasquale II finì i suoi giorni a Benevento, mentre Enrico V opponeva a Roma, al suo successore, Gelasio II, un antipapa, e lo costringeva a rifugiarsi a Cluny, dove moriva poco dopo (1119). A Cluny fu eletto Callisto II (1119-1124), che rovesciò con inattesa rapidità la situazione: con l'aiuto normanno si liberò dell'antipapa e rientrò a Roma, poi si riconciliò con Enrico V, col quale stipulò il concordato di Worms, che pose fine alla lotta delle investiture e, sia pure con un compromesso, assicurò al papa, e solo a lui, il diritto di conferire le investiture episcopali e abbaziali (1122). Il principio gregoriano della libertas Ecclesiae ebbe così attuazione, ma in un clima spirituale, politico ed economico-sociale molto diverso da quello dei tempi della sua formulazione, quando il potere imperiale e pontificio erano ben più forti e senza alternative. Ora, nel quadro dei due sommi poteri mondiali, altri poteri erano emersi: grandi principi in Germania, re nazionali in Francia, nei paesi iberici e in Inghilterra, Comuni in Italia settentrionale e centrale, e una forte monarchia, anche se ancora senza corona, nel Mezzogiorno. La morte di Enrico V (1125), con cui si estinse la dinastia di Franconia, mise in drammatica evidenza queste forze nuove: la discorde potenza dei principi tedeschi provocò una lunga guerra civile per la successione imperiale, in cui comparvero per la prima volta i nomi dei partiti guelfo e ghibellino, sostenitore il primo di Lotario II di Supplimburgo, dei fratelli Corrado e Federico il Guercio di Svevia il secondo. La vittoria di Lotario, appoggiato da Onorio II, portò, alla morte di questo, a una duplice elezione pontificia, Innocenzo II (1130-1143) contro Anacleto II (1130-1138), e alla conseguente divisione dell'Italia. Grazie a san Bernardo di Chiaravalle, Innocenzo II e Lotario ebbero un effimero successo, isolando gli Svevi, che avevano seguito tra i Comuni padani, e i Normanni, minacciati dal nuovo imperatore; nel corso di questa crisi Ruggero II d'Altavilla ottenne dall'antipapa Anacleto II il titolo di re di Sicilia (1130), riconosciutogli poi, a scisma concluso, anche dal legittimo Innocenzo II (1139).
Lotario II (1125-1137) non lasciò tracce positive in Italia; la sua politica inconcludente gli alienò il papato, del quale si era presentato come amico e difensore, e i Comuni, e favorì, con le sue infondate ambizioni mediterranee, il consolidamento dello Stato normanno. Al tempo stesso la sua politica portò a indebolire anche il papato; poco dopo ìa fine dello scisma, a Roma si costituì infatti tumultuosamente il Comune (renovatio Senatus, 1143), creando gravi difficoltà ai successori di Innocenzo II, Celestino II, Lucio II ed Eugenio III (1145-1153). Quest'ultimo cercò l'appoggio del nuovo re di Germania ad imperium promovendum, Corrado III di Svevia (1138-1152); ma, se ebbe la soddisfazione di vederlo partire crociato, non poté ottenere il suo aiuto a Roma contro il Comune, più che mai risoluto a ottenere la piena indipendenza, sotto lo stimolo della predicazione antitemporalistica di Arnaldo da Brescia.
Chi ebbe una visione unitaria dei problemi italiani fu Federico I di Svevia, il Barbarossa (1152-1190). Egli avviò la sua politica italiana con la rivendicazione dei diritti sovrani usurpati dai Comuni, ed ebbe dapprima alleati i papi, Eugenio III e Adriano IV (1154-1159), che liberò dall'assillo del Comune romano con l'eliminazione di Arnaldo da Brescia e confortò nei confronti dell'irrequieto re di Sicilia Guglielmo I (1154-1166), e dal quale ebbe la corona imperiale. Ma la lotta contro i Comuni padani, culminata con la distruzione di Milano (1162), provocò la concentrazione intorno al nuovo papa Alessandro III (1159-1181) di un poderoso sistema con i suoi punti di forza nella Lega lombarda (più esattamente, Societas Lombardiae, Marchiae et Romaniae, nata dalla fusione delle precedenti leghe veronese e lombarda, 1167) e nel regno di Sicilia, e come ausiliari l'imperatore bizantino Manuele I Comneno oltre mare e i principi guelfi di Germania, sotto la guida di Enrico il Leone, oltre le Alpi.
Questo sistema logorò a poco a poco le forze imperiali e le rovinò del tutto con la battaglia di Legnano (1176), che da episodio puramente militare si trasformò in un successo politico, e divenne immediatamente il simbolo del trionfo della causa della libertà (libertà dei Comuni e del popolo che ne era l'anima, libertà della Chiesa, tormentata da una serie di antipapi suscitati dall'imperatore) contro, non l'Impero, ma la persona dell'imperatore. Il quale al convegno di Venezia (1177) ottenne una tregua di sei anni per negoziare con quei Comuni della Lega che egli avrebbe voluto cancellare dalla storia, e concluse la pace con papa Alessandro III, col nuovo re di Sicilia Guglielmo II e con Manuele Comneno; poté così riprendere quota in una Germania di cui aveva perso il controllo. La tregua coi Comuni della Lega, che intanto si era alquanto assottigliata, si concluse con la pace di Costanza, dove Federico Barbarossa legittimò con un privilegio le libertà comunali (1183). I diritti regali usurpati nel corso di un secolo, dall'autonomia amministrativa allo ius belli et pacis, dall'immunità giudiziaria alla facoltà di fare alleanze, furono riconosciuti in cambio di un formale vassallaggio e di un contributo in danaro.
Morto Federico (1190), il suo programma imperiale fu raccolto dal figlio Enrico VI (1190-1197), che aveva sposato Costanza d'Altavilla, erede del regno di Sicilia. In Italia, la prima impresa di Enrico fu l'insediamento in Sicilia, contro il partito normanno, che contrappose a lui e a Costanza Tancredi di Lecce, poi il figlio di questo Guglielmo III, sostenuti dal papato, atterrito dal profilarsi di un accerchiamento, sottopose la Toscana, dove ferveva la vita comunale, al regime vicariale di suo fratello Filippo di Svevia; intimidì i Comuni padani, rimettendo in discussione la pace di Costanza. Anche in Germania si creò una posizione solidissima. Si preparavano febbrili resistenze in Lombardia, in Toscana, a Roma che sarebbero state certamente stroncate, come quella siciliana, se Enrico non fosse morto d'improvviso a poco più di trent'anni, a Messina, alla vigilia di una crociata; il suo unico erede, Federico II, era nato a Iesi meno di tre anni prima.
La guida dell'Europa cristiana passò allora, immediatamente, al papa Innocenzo III (1198- 1216); tutore del fanciullo per volontà della madre, il papa si pose arbitro della successione imperiale, contesa tra il guelfo Ottone IV di Brunswick e il ghibellino Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI, e sollevò il primo; al piccolo Federico II intendeva lasciare soltanto il regno di Sicilia, vassallo e sostegno della Chiesa. Ma l'inconcludente politica di Ottone IV e la resistenza di Filippo di Svevia (uno dei promotori della quarta crociata, voluta da Innocenzo III, donde derivò, anziché la liberazione della Terrasanta, un impero franco-veneto in Levante) indussero il papa a sconfessare Ottone IV, già coronato imperatore (1209) e a preferirgli il giovane Federico II (1212), a patto che, re di Germania, d'Italia e imperatore, rinunciasse alla Sicilia, e conducesse, finalmente, una vera crociata contro gli infedeli. Ma la morte di Innocenzo III (1216) produsse un improvviso vuoto di potere, di cui Federico II approfittò immediatamente. Il nuovo papa Onorio III (1216-1227) lo incoronò imperatore (1220), senza peraltro ottenere da lui né la rinuncia formale alla Sicilia né la crociata; lo vide anzi consolidare la sua posizione nel Mezzogiorno, stroncando le ricorrenti rivolte arabe e in Toscana, nel Veneto e in Lombardia, svolgendo una sistematica azione per demolire i Comuni; fu allora che, intorno a Milano, si ricostituì, ma con ben minor vigore della prima, la cosiddetta seconda Lega lombarda (1226). La politica dilatoria dell'imperatore fu bruscamente interrotta da Gregorio IX (1227-1241), che costrinse Federico II a partire per la crociata (1227), la quale conseguì la restituzione di Gerusalemme e degli altri Luoghi santi ai cristiani, ma coi mezzi diplomatici anziché con le armi (1229); così che Federico II rientrò in Italia con moltiplicato prestigio, e costrinse a sua volta il papa a lasciargli il regno di Sicilia (1230) e ad assistere al riordinamento e al potenziamento di esso (Costituzioni di Melfi, 1231), tanto da emulare le monarchie più salde dell'Occidente, anzi superarle per la modernità e l'efficienza delle istituzioni politiche e amministrative, militari e culturali. Si trattava di strutture assolutistiche, che l'imperatore svevo mirava a estendere a tutta l'Italia, frantumata viceversa nella moltitudine dei Comuni, in lotta l'uno contro l'altro e lacerati all'interno dai partiti, guelfi e ghibellini. La minaccia di Federico II provocò una serie di guerre, nelle quali Gregorio IX, coadiuvato dagli ordini mendicanti, cercò di polarizzare intorno a sé il mondo comunale padano e toscano, contro Federico II, come già Alessandro III contro Federico I; ma con minor successo, poiché Federico II aveva alleati potenti, e tra gli stessi Comuni e tra i grandi signori come Ezzelino da Romano, che aveva in mano quasi tutto il Veneto. La seconda Lega lombarda, e anzitutto Milano, fu infatti sconfitta dall'imperatore in una grande battaglia, che parve cancellare il ricordo di quella di Legnano (Cortenuova sull'Oglio, 1237).
L'imperatore, già sulla via di Roma, offrì la pace al successore di Gregorio, Innocenzo IV (1243-1254), ma le trattative fallirono: un concilio, voluto da Gregorio IX, che non si era potuto tenere a Roma e che si svolse a Lione (1245), ribadì la condanna e la crociata contro Federico II, la cui fortuna declinò rapidamente: gli si ribellò Parma (1247); il re Enzo, suo figlio, cadde prigioniero dei Bolognesi alla Fossalta (1249); in Germania, gli venivano meno familiari e vassalli e gli disconoscevano la corona; i suoi collaboratori si staccavano da lui, come Pier delle Vigne. Federico II si spense in questo clima sinistro: l'ultimo tentativo di dare all'Italia un assetto unitario, troncando la tradizione delle autonomie cittadine protette dal papato, falliva con l'ultimo Svevo. Per un quindicennio, il papato, con Innocenzo IV, Alessandro IV, Urbano IV, Clemente IV, condusse un'implacabile battaglia per soffocare i tentativi di ripresa svevo- ghibellini nel Mezzogiorno, in Toscana, nella valle del Po: fu una battaglia vittoriosa, sia per l'orientamento guelfo, sempre più nettamente delineantesi nel mondo comunale lombardo, veneto, emiliano e toscano, sia per l'intervento di Carlo d'Angiò, conte di Provenza e fratello di Luigi IX di Francia, che da Clemente IV ebbe la corona di Sicilia perché conquistasse il regno e ne scacciasse il figlio di Federico II, Manfredi. Con la battaglia di Benevento (1266), nella quale Manfredi incontrò la morte, s'instaurò in Sicilia il dominio, in Italia il predominio angioino, cioè francese di nazione e guelfo di parte.
L'insediamento francese in Italia, reso possibile dal favore di papi francesi, dalla crisi dell'Impero (il “grande interregno”) e dall'appoggio della grande borghesia d'affari, anzitutto fiorentina, divenuta l'anima del guelfismo, non tardò a divenire il cardine di una politica imperialistica, contrastante anche col papato, che pure l'aveva provocato. Ma subì una violenta scossa dall'insurrezione siciliana dei Vespri, sfociata in una guerra ventennale (1282-1302) tra i re d'Aragona, da Pietro III a Giacomo II, e gli Angioini, da Carlo I a Carlo II, e nel definitivo passaggio della Sicilia alla dinastia aragonese. Si apriva così tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento il conflitto gallo-íberico per il predominio sul Mediterraneo, che doveva far infine cadere l'Italia, estenuata, sotto l'egemonia spagnola.
STATI SIGNORILI E PRINCIPESCHI
Mentre l'unità del Mezzogiorno continentale e insulare si spezzava, il resto dell'Italia soggiaceva alla forza centrifuga dei particolarismi locali: i Comuni maggiori si trasformavano in signorie (monarchie embrionali a base popolare), quali Milano dei Della Torre poi dei Visconti, Verona degli Scaligeri, Mantova dei Bonacolsi e dei Gonzaga, Ferrara degli Estensi, Ravenna dei da Polenta, Rimini dei Malatesta, ecc.; o si dibattevano tra il regime comunale e quello signorile, come Pisa, Lucca, la stessa Firenze, che tuttavia conservò la forma repubblicana, superando una serie di crisi, tra le quali quella gravissima del 1302; il medesimo processo si compiva anche nelle Marche, in Umbria, nel Lazio. Con metodi diversi s'illusero di sottoporre queste energie scatenate alla propria disciplina un grande papa, Bonifacio VIII (1294-1303) e un imperatore visionario, Arrigo VII di Lussemburgo (1308-1313). Bonifacio VIII impostò la sua politica italiana in funzione di una più ambiziosa politica ecumenica, fidando nella monarchia angioina e nelle forti fazioni guelfe di molte grandi città d'Italia; ma le sue armi, politiche e spirituali, furono spezzate dalla Francia di Filippo IV il Bello, che gli inflisse l'oltraggio d'Anagni (1303) e, alla sua morte, trascinò il papato nella cosiddetta cattività avignonese (1309-1376). Arrigo VII di Lussemburgo credette di poter riprendere la politica italiana dei grandi imperatori germanici; ma se pure credette o lasciò credere di voler “drizzare l'Italia” imponendovi la pace e resuscitandovi il culto dell'Impero, fu sin dal suo ingresso nella penisola (1310) trascinato nel gioco dei partiti e trasformato egli stesso in uomo di parte, di quella parte ghibellina che esisteva ormai meno come realtà e idealità politica che come rancore contro la parte guelfa, sorretta questa dal prestigio della monarchia napoletana di Roberto d'Angiò e dalla ricchezza della borghesia di Firenze e delle altre città a essa legate. Incoronato a Milano e a Roma, ripiegò davanti alla minacciata offensiva di Roberto d'Angiò, e nulla poté fare contro Firenze; morì improvvisamente a Buonconvento nel Senese (1313), segnando la catastrofe di quell'Impero universale, sacro e romano, che ebbe allora in Dante l'ultimo credente, teorico e poeta.
D'altronde, la storia dei Comuni, nel suo complesso, era stata la storia di una lotta contro l'Impero, anche se non sempre apertamente dichiarata; Federico I, Enrico VI, Federico II avevano combattuto per un secolo i Comuni e avevano perduto; e in quel secolo i Comuni erano divenuti più forti e aggressivi, e, insieme, più civili; e i maggiori avevano raggiunto la maturità politica, consistenza economica ed estensione territoriale tali da poter operare ormai come Stati sovrani. Tra quelli che erano evoluti in signorie, primeggiava Milano, dove la parte popolare, la credenza di Sant'Ambrogio, fin dall'indomani della rotta di Cortenuova, aveva dato amplissima balia a Pagano Della Torre, signore della Valsassina. I Della Torre governarono Milano dal 1240 al 1277; rovesciati dalla parte nobiliare, capeggiata dall'arcivescovo Ottone Visconti, tornarono al potere dal 1302 al 1311, quando Arrigo VII, con un infelice esperimento di pacificazione, fece il gioco dei loro avversari, e Matteo Visconti, nipote di Ottone, li scacciò e gettò le basi di una signoria, destinata a regnare per oltre un secolo. Matteo e la sua dinastia allargarono i domini milanesi in tutte le direzioni, e prepararono a Gian Galeazzo il terreno per aspirare a un regno italico dalle Alpi agli Appennini, con espansioni nel Veneto e avamposti a Genova, a Pisa, a Perugia, ad Assisi, e mire su Firenze. Gian Galeazzo ricevette l'investitura imperiale da Venceslao re dei Romani, diventando duca di Milano (1395); morì sul punto di attaccare Firenze (1402), e lo Stato si frantumò. Ma, nonostante la pressione di Venezia e di Firenze, fu ricostituito da Filippo Maria, ultimo della dinastia, e salvato superando una grave crisi (la Repubblica Ambrosiana, tardiva rivendicazione di inattuali libertà) dal genero di Filippo Maria, il condottiero Francesco Sforza (1450). Sotto la dinastia sforzesca (1450-1535), il ducato di Milano dovette rinunciare alla politica di egemonia che aveva condotto con tanta fortuna nella seconda metà del Trecento: si cristallizzò nel sistema di equilibrio degli Stati italiani, inaugurato nel 1454 (pace di Lodi tra Milano, Venezia e Firenze), ebbe una stupenda vita culturale e rovinò infine sotto l'urto straniero.
Mentre cresceva Milano, cresceva Venezia: venuta nel XIII sec. in possesso, con la quarta crociata, di un impero coloniale imponente a spese di Bisanzio e in acerba concorrenza con Genova, nel XIVsec. era costretta a iniziare una politica di espansione nel Veneto, per contenere l'avanzata delle signorie locali, i Della Scala di Verona anzitutto, che frenò con l'aiuto visconteo, acquistando i primi domini continentali (1337), poi i Visconti. Minacciata da Gian Galeazzo alle spalle e dai Genovesi nel golfo, nella guerra di Chioggia (1378-1381), Venezia superò la crisi e, nella prima metà del Quattrocento, con la costante alleanza di Firenze, portò avanti i suoi confini raggiungendo Brescia e Bergamo. La sua avanzata nella Val Padana, coincidente con la crisi dell'impero coloniale sottoposto all'urto ottomano e con quella del ducato di Milano sotto gli ultimi Visconti, fu arrestata all'Adda dall'inatteso mutamento della politica di Firenze, che ruppe l'alleanza con la Repubblica e la strinse con Francesco Sforza; la pace di Lodi del 1454 fissò così il limite del dominio veneziano come quello del dominio milanese, gettando le basi per un sistema d'equilibrio. Nel corso del XIV sec., la Repubblica consolidò il regime oligarchico (già affermatosi con la serrata del Maggior consiglio nel 1297), e il patriziato veneziano monopolizzò per cinque secoli il potere, preservando la Repubblica dagli attentati alla sua integrità territoriale. Diverso fu il destino della repubblica di Genova, sotto tanti aspetti simile alla sua grande rivale nell'imperialismo mercantile in Oriente. Impegnata nel XIII sec. a contrastare a Venezia il predominio nell'area bizantina e a eliminare la concorrenza di Pisa (battuta alla Meloria nel 1284), nei secc. XIV e XV Genova cercò stabilità interna e sicurezza nelle signorie esterne: i Visconti, poi gli Sforza, e i re di Francia. La sua politica rimase così subordinata a quella di tali maggiori potenze dalle quali d'altronde dipendeva per ragioni geografiche la sua attività mercantile.
Altro grande Stato era la repubblica di Firenze, potenza mercantile di importanza europea, dominata dalla borghesia d'affari; il regime oligarchico tuttavia, dopo le intransigenti affermazioni della fine del Duecento, venne temperandosi, nel senso di una più aperta democrazia di produttori, artigiani e mercanti. La sua floridezza economica resistette integra fino a mezzo il Trecento, nonostante le ininterrotte lotte di parte tra guelfi e ghibellini nel XIII sec. e, dopo la vittoria dei guelfi, tra i Bianchi e i Neri agli inizi del XIV sec., poi tra magnati e popolani, e tra popolo e plebe, sino al tumulto dei Ciompi (1378). Correlativamente i suoi ordinamenti si trasformavano, oscillando tra l'oligarchia borghese e la democrazia vera e propria, con momentanee signorie, fino alla definitiva affermazione della casa dei Medici con Cosimo il Vecchio (1434). Nel quadro generale della politica italiana, Firenze tenne quasi ininterrottamente la parte di roccaforte del guelfismo che, nell'accezione locale, significò sostegno della monarchia angioina da Carlo I a Roberto il Saggio (1266-1343), gestione degli interessi franco-papali in Italia (mentre il papato era ad Avignone) e opposizione intransigente a ogni tentativo di egemonia sull'Italia. La Repubblica, che intanto realizzava il predominio su tutta la Toscana, veniva così assumendo la veste di paladina dell'equilibrio tra gli Stati italiani, e al tempo stesso della libertà dell'Italia nei confronti delle potenze transalpine; in questa veste Cosimo de' Medici patrocinò la pace di Lodi del 1454, e sull'equilibrio tra la potenza veneziana e la milanese imperniò un regime di convivenza pacifica, fragile ma durato quarant'anni grazie alla vigile e intelligente attività diplomatica sua e del suo successore, Lorenzo il Magnifico.
Gli Stati della Chiesa, in assenza dei papi, si frazionarono in irrequiete e ambiziose signorie, e Roma stessa, sollevata da Cola di Rienzo, fu sul punto di sottrarsi alla potestà pontificia (1347). La missione restauratrice del cardinale Egidio di Albornoz (1353-1367) esercitò bensì una benefica influenza sui domini pontifici, e consentì a Urbano V, e infine a Gregorio XI, di ritornare a Roma; ma lo Scisma d'Occidente, apertosi alla morte di quest'ultimo, rigettò gli Stati nel disordine e nella guerra, fino alla lenta restaurazione, iniziata alla chiusura dello Scisma (concilio di Costanza), da Martino V (1417- 1431) e continuata dai suoi successori nel corso di tutto il Quattrocento. Niccolò V patrocinò la pace e la solidarietà tra gli Stati italiani, e li raccolse in Santa lega; ma la sua linea politica venne in seguito abbandonata da Sisto IV (1471-1484) e da Innocenzo VIII (1484-1492) che praticando largamente il nepotismo turbarono l'equilibrio della penisola l'uno con gli interventi a Firenze (in occasione della congiura dei Pazzi contro Lorenzo e Giuliano de' Medici) e a Ferrara (per la progettata spartizione del ducato), l'altro con l'intervento nel regno di Napoli (in occasione della congiura dei baroni contro Ferdinando I [Ferrante] d'Aragona).
Nel Mezzogiorno, l'insurrezione e la guerra dei Vespri (1282-1302) separarono il regno di Sicilia, divenuto dominio aragonese, dal regno di Napoli, conservato dagli Angioini; e solo quest'ultimo continuò a svolgere una parte, talora di primo piano, nella storia d'Italia. Durante il regno di Roberto il Saggio (1309-1343), esso fu certamente lo Stato più prestigioso e influente della penisola, grazie alla figura del sovrano, capo del guelfismo trionfante in Italia, tutore degli interessi del papato in esilio, garante della libertà della penisola di fronte alle rivendicazioni imperiali di Enrico VII e di Ludovico il Bavaro, cardine ideale di un Impero franco-angioino con propaggini in Oriente, impeccabile cavaliere, letterato e prodigo coi letterati (forse il primo principe-mecenate d'Europa). Ma la floridezza di Napoli fu dovuta anche, in buona parte, al largo appoggio concesso al regno dalle finanze fiorentine. Il regno infatti non aveva fondamenti saldi, e non solo nelle finanze e nell'economia, ma anche nelle strutture, prevalendo ancora una società essenzialmente feudale in cui le istituzioni statuali avevano scarso peso. Ciò determinava le incertezze e le deficienze del programma politico, su cui pesava la perdita, onerosissima, della Sicilia. Alla morte del re, il Napoletano precipitò in una serie di guerre civili per la successione, che toccò infine ad Alfonso V il Magnanimo, re d'Aragona e di Sicilia (1442); così anche l'Italia meridionale finì nell'orbita iberica, come la Sicilia e, dal terzo decennio del XIV sec., la Sardegna. Morto Alfonso, il regno tornò indipendente sotto il figlio naturale Ferdinando I (Ferrante) [1458- 1494], si inserì nel sistema d'equilibrio e prese parte attiva alla vita politica e alla civiltà intellettuale della Rinascenza; ma il dominio franco-angioino e quello aragonese insinuarono nella società locale, già dissestata, fermenti di ulteriori discordie e di dissoluzione (tipica, la congiura dei baroni del 1485-1486), i quali predisposero il paese a divenire, tra la fine del XVsec. e il principio del XVI, campo di battaglia tra l'imperialismo francese e quello spagnolo, destinato a prevalere.
Alla fine del medioevo l'Italia si configurava come un sistema di cinque Stati maggiori: Napoli, Roma, Firenze, Venezia e Milano, legati da un fragile patto di non aggressione che, nonostante alcuni attentati interni, resistette per un quarantennio (1454-1494). Tale “sistema di equilibrio” rappresentava l'epilogo di un secolo e mezzo di lotte di predominio, durante le quali avevano sfiorato il successo gli Angioini di Napoli nella prima metà del Trecento, i Visconti di Milano nella seconda, Venezia nella prima metà del Quattrocento; Firenze, dopo aver concorso a sventare tutte le egemonie incipienti, si pose infine ad arbitra dell'equilibrio, identificandone le ragioni con quelle della libertà, ossia dell'indipendenza, della penisola. Molti Stati minori sopravvivevano incuneati tra i maggiori, grazie soprattutto alle loro gelosie: Ferrara degli Estensi, Mantova dei Gonzaga, Rimini dei Malatesta, Urbino dei Montefeltro, le repubbliche di Lucca e di Siena, altri anche minori. Ai margini del sistema, oltre a Genova con la costa ligure e la Corsica, vi erano i domini dei conti e, dal 1416 (con Amedeo VIII), duchi di Savoia, a cavaliere delle Alpi, ma, sebbene largamente estesi in Piemonte, e con sbocco al mare (Nizza, 1388), ancora gravitanti più verso la Francia che verso la valle del Po, e gli antichi marchesati aleramici del Monferrato e di Saluzzo; all'estremo opposto dell'arco alpino, gli antichi domini friulani e giuliani del patriarcato di Aquileia erano invece venuti nella prima metà del XV sec. in possesso di Venezia. Mentre sulla penisola non pesava alcuna pressione tedesca o slava, gravavano sempre più le pressioni francesi, per le aspirazioni dei re di Francia a rivendicare il Mezzogiorno e la Sicilia, e quelle spagnole, per la presenza degli Aragonesi in Sicilia, Sardegna e Napoli. Tali pressioni si manifestavano direttamente o indirettamente, ed erano sensibili anche nell'ambito della curia romana che, dopo la lunga preponderanza francese nel XIV sec. e il travagliato ripristino di quella italiana nella prima metà del XV sec., si aprì successivamente anche all'influenza spagnola coi due papi di casa Borgia, Callisto III e Alessandro VI.
LE GUERRE DI DOMINIO E LA PREPONDERANZA SPAGNOLA
DALLA DISCESA DI CARLO VIII ALL’AVVENTO DI CARLO V
L'equilibrio tra gli Stati italiani non resistette all'attacco di Carlo VIII di Francia, col quale si iniziarono le guerre per il predominio sulla penisola durate dal 1494 al 1559: protagonisti principali la Francia, la Spagna e l'Impero, fiancheggiati od osteggiati dall'uno o dall'altro degli Stati italiani; conclusione, il predominio della Spagna, mantenuto sino ai primi anni del XVIII sec. La Francia possedeva a fine Quattrocento in Italia la contea d'Asti (degli Orléans), e per vari titoli teneva nella sua sfera d'influenza la Savoia e gran parte del Piemonte occidentale; la dinastia regnante inoltre vantava diritti su Napoli (e sul regno, puramente nominale, di Gerusalemme), pervenuti a essa da Renato, ultimo degli Angiò, morto nel 1480. Mentre Luigi XI si era astenuto da ogni rivendicazione, suo figlio Carlo VIII (1483-1498), contando sulle rivalità tra gli Italiani, rispose a un appello di Ludovico Sforza, detto il Moro, usurpatore del ducato di Milano contro il nipote Gian Galeazzo Maria, legittimo duca, i cui diritti erano sostenuti da Ferdinando d'Aragona re di Napoli, avo della duchessa sua sposa. La spedizione di Carlo VIII, diretta contro Napoli, fu facile quanto inattesa: entrato in Italia dal Piemonte col favore dei Savoia (autunno 1494), il re di Francia attraversò, debitamente aiutato, i territori sforzeschi, ottenne larghe concessioni da Piero di Lorenzo de' Medici, intimorito dalla forza dei Francesi, e si insediò a Pisa, che s'era ribellata al dominio di Firenze, mentre gli giungevano per mare rinforzi, muniti di eccellenti e nuovissime artiglierie, che avevano già sconfitto gli Aragonesi in Liguria, ed entrò a Firenze. La città aveva intanto scacciato Piero de' Medici e, sotto lo stimolo della predicazione di frate Girolamo Savonarola, istaurato una repubblica democratica sotto i segni della libertà e dell'indipendenza, ma non poté imporsi a Carlo VIII più del Medici scacciato, e gli lasciò, sia pure con maggiore dignità, la via libera verso Siena e Roma. Neanche il papa, Alessandro VI, gli fece opposizione, così che da Roma il re entrò senza difficoltà nel regno di Napoli. Il re Alfonso II aveva ceduto la corona al figlio Ferdinando II, ma l'esercito si sfaldò, e Carlo VIII ebbe in mano Capua e infine Napoli senza colpo ferire (febbraio 1495); di là dichiarò che avrebbe preso la via dell'Oriente. Ma fu un successo senza radici: si costituì subito contro il re una lega tra Milano (cioè lo stesso Ludovico il Moro, rimasto senza rivali nel ducato per la morte del nipote), Venezia e il papa, a cui aderirono anche l'imperatore Massimiliano I d'Absburgo, Ferdinando il Cattolico di Spagna ed Enrico VII d'Inghilterra (i primi due, nonostante i trattati stipulati col re di Francia alla vigilia della spedizione). Carlo VIII risalì la penisola per riguadagnare la Francia, che raggiunse nell'ottobre dopo essersi aperta faticosamente la strada contro i collegati italiani (battaglia di Fornovo sul Taro, 6 luglio 1495). Mentre era ancora in Italia, Ferdinando II, con aiuti spagnoli e veneziani, batté la guarnigione francese e ricuperò Napoli, e la liberazione del regno fu condotta a termine, dopo la sua morte, dal successore Federico I (1496-1501). Fallita la spedizione francese, la situazione politica dell'Italia tornò apparentemente quella della vigilia, salvo la caduta dei Medici a Firenze. Ma, in realtà, la spedizione francese aveva messo in evidenza l'estrema vulnerabilità della penisola e aperto la gara per la sua conquista; una gara diplomatica e militare, che fu ripresa dalla Francia stessa, non appena Luigi XII succedette a Carlo VIII, morto prematuramente nel 1498. Duca d'Orléans e nipote di Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo, il nuovo re rivendicò subito diritti sul ducato di Milano, in possesso di uno Sforza, oltre che sul regno di Napoli; s'intese con papa Alessandro VI favorendone il figlio Cesare Borgia con l'investitura del ducato di Valentinois e promettendogli aiuti per la conquista della Romagna, e con Venezia, offrendole un'ulteriore espansione nella Lombardia (Cremona e Ghiara d'Adda); si assicurò della neutralità di Firenze e isolò così Milano e Napoli. Calato in Italia, occupò facilmente Milano col sostegno dei Veneziani: Ludovico il Moro, fuggito presso l'imperatore Massimiliano (1499), tentò una controffensiva, ma fu sconfitto e condotto prigioniero in Francia (1500), dove morì. Nel corso di questa guerra gli Svizzeri, assoldati da entrambe le parti, ma attivi soltanto a favore del re di Francia, cominciarono a insediarsi nell'alta valle del Ticino, che non tornò più all'Italia. Conquistato il Milanese, Luigi XII, dopo un accordo segreto con Ferdinando il Cattolico, mosse con lui alla conquista del regno di Napoli: il re Federico finì con l'arrendersi ai Francesi (1501) e il suo regno fu spartito tra i due vincitori: approssimativamente, al re di Francia toccarono la Campania e l'Abruzzo, al re di Spagna la Puglia, il Molise, la Basilicata e la Calabria. Ma la spartizione diede luogo ben presto a dissidi tra i condomini che vennero a conflitto (1502-1504): vinsero gli Spagnoli, grazie al valore di Consalvo di Cordova e nonostante le prodezze di Baiardo al Garigliano (1503); e in virtù di successivi accordi il regno di Napoli, dopo quelli di Sardegna e di Sicilia, passò sotto la sovranità del re di Spagna; al re di Francia restava il ducato di Milano. Si istaurava così un nuovo equilibrio italiano, basato sul contrappeso delle influenze straniere. Durante le campagne di Luigi XII, e col suo appoggio, ebbe luogo il più famoso episodio di nepotismo: Cesare Borgia, figlio del papa, si costituì, a spese dei territori pontifici in possesso di numerosi tiranni locali, un ducato di Romagna, destinato, nelle intenzioni del papa e sue, a essere retaggio dei Borgia. Fu una costruzione impetuosa e fortunata quanto effimera, condotta con la più spregiudicata tecnica della frode e della violenza, che era tuttavia ordinariamente impiegata dai signori del tempo. La conquista di Cesare Borgia si attuò nel triennio 1500- 1503, e crollò con la morte di Alessandro VI, a cui succedette l'avversario Giuliano Della Rovere (Giulio II, 1503-1513); fu immortalata dal Machiavelli, che vide in essa un paradigma dell'arte della conquista e della conservazione del potere.
Il vuoto lasciato dal disfacimento del ducato di Romagna richiamò verso la regione i Veneziani, che si scontrarono con Giulio II, risoluto a rivendicarla alla Chiesa. Il papa promosse allora una lega antiveneziana, alla quale aderirono Luigi XII, che, col dominio di Milano, aveva ereditato la tradizionale politica di rivalità con Venezia, l'imperatore Massimiliano I, interessato a restringere il confine orientale d'Italia, Alfonso d'Este, duca di Ferrara, e Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova, paralizzati dalla potente vicina, Ferdinando il Cattolico e Ladislao VII Iagellone III d'Ungheria, per rivalità adriatiche. Attaccata su più fronti e minacciata anche da ribellioni interne, Venezia (doge Leonardo Loredan) uscì salva dalla prova dopo aver sfiorato l'estrema rovina (battaglia di Agnadello, 1509) ottenendo la pace col papa e con Ferdinando il Cattolico mediante la cessione di quanto essi reclamavano, l'uno in Romagna, l'altro in Puglia, e raccogliendo tutte le forze contro gli altri avversari, fino alla loro rinuncia a continuare la guerra. Poco dopo Giulio II, in vista dell'annessione di Ferrara alla Chiesa, si urtò con Luigi XII, e, come questi portò il conflitto sul terreno religioso (tentando di creare uno scisma: conciliabolo di Pisa, 1511), si pose a capo di una Lega santa contro la Francia, a cui aderirono Venezia, Ferdinando il Cattolico, Enrico VIII d'Inghilterra e la Confederazione Svizzera, rappresentata dal cardinale di Sion, Matteo Schiner, mentre con Luigi XII si posero, oltre al duca di Ferrara, quello di Mantova e la repubblica di Firenze. Il papa nobilitò la guerra come santa (per l'unità della Chiesa) e nazionale (per la cacciata dall'Italia dei Francesi, nuovi “barbari”); ma erano pur barbari, nel senso di stranieri, i suoi alleati spagnoli, svizzeri e inglesi. Dopo un imponente successo iniziale a Ravenna, dove il nipote del re di Francia, Gastone di Foix, sbaragliò un agguerritissimo esercito ispano-pontificio, per la morte sul campo del valoroso capitano le sorti della lotta si rovesciarono e i Francesi abbandonarono disordinatamente il suolo italiano (aprile 1512). I collegati, riunitisi a Mantova poco dopo, modificarono la carta politica d'Italia: ne trassero vantaggi il papa, a cui toccarono, oltre a Modena e Reggio estensi, Bologna tolta ai Bentivoglio, Parma e Piacenza, già annesse al Milanese; Venezia, che ebbe confermato il suo confine occidentale; gli Svizzeri che, già insediati nell'alto Ticino e a Bellinzona, occuparono Domodossola, Lugano e la Valtellina; gli Sforza infine, poiché a Massimiliano, nipote di Ludovico il Moro, fu restituito il ducato di Milano, e aggiunta Asti, sotto una sorta di tutela, tuttavia, delle forze svizzere (1512). Firenze dovette abbandonare l'ordinamento repubblicano e accettare la signoria del cardinale Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Fu allora che il Machiavelli dovette troncare l'attività politica, a cui si era dedicato durante la repubblica, andare al confino e dedicarsi soltanto agli studi.
Alla morte di Giulio II, e appena eletto a succedergli il cardinale Giovanni de' Medici, cioè Leone X (1513-1521), Luigi XII, alleatosi con Venezia, attaccò ancora una volta il Milanese; ma fu sconfitto dagli Svizzeri (Novara, 1513), mentre la Francia stessa correva gravi rischi sotto l'urto inglese e imperiale. Si riconciliò allora con la Chiesa, ma morì poco dopo. Il suo successore, Francesco I (1515- 1547), temerariamente sognatore e bellicoso, sconvolse subito ogni cosa, riprendendo la politica italiana con rinnovate energie. Pacificato con gli Inglesi e alleato coi Veneziani, venne in Italia e in una sola battaglia (Marignano, oggi Melegnano, 13-14 settembre 1515) batté gli Svizzeri e si impadronì del ducato di Milano, spossessandone Massimiliano Sforza. Con questa vittoria all'attivo, trattò con Leone X a Bologna (1516) la restituzione di Parma e Piacenza al ducato di Milano e un concordato per la Francia molto vantaggioso alla corona; il papa ebbe in cambio riconosciuti i diritti dei Medici, a danno dei Della Rovere, su Urbino; ma questo negozio ebbe breve effetto. Successivamente, il re rinunciò, a favore di Carlo d'Absburgo, appena divenuto re di Spagna, a ogni rivendicazione sul regno di Napoli, mentre Venezia definì con l'imperatore Massimiliano le questioni pendenti dal tempo della lega di Cambrai. L'apparente equilibrio nascondeva tuttavia propositi fieramente aggressivi: tra Francia e Impero, proprio in questo periodo, si disegnava una spartizione dell'Italia settentrionale e centrale. Leone X, che non ne era all'oscuro, s'adoprava a rendere forti i suoi Stati, non solo Roma, ma anche Firenze, senza peraltro trascurare la magnificenza mecenatesca, a cui il suo nome rimase specialmente legato.
Nel 1519, alla morte di Massimiliano I d'Absburgo, la corona imperiale, contesa tra Francesco I di Francia e Carlo d'Absburgo, nipote di Massimiliano per parte di padre, fu conferita dagli elettori a quest'ultimo, che già aveva ereditato dai genitori i Paesi Bassi e dal nonno materno, Ferdinando II il Cattolico († 1516), i regni di Spagna (Aragona e Castiglia), di Napoli, di Sicilia e di Sardegna. Questo imponente, anche se incoerente, coacervo di domini accerchiava la Francia da ogni parte: così che Francesco I fu costretto dalla necessità a riprendere contro Carlo d'Absburgo (Carlo V, 1519-1556) quella politica imperialistica che Carlo VIII aveva intrapresa per magnificenza e Luigi XII continuata per prestigio. Ne derivò una guerra europea (la prima dell'età moderna), che durò poco meno di quarant'anni (1521-1559), per oltre la metà dei quali si combatté quasi esclusivamente in Italia.
DALL’AVENTO DI CARLO V ALLA PACE DI CATEAU - CAMBRESIS
Il ducato di Milano fu da Francesco I perduto nel 1521, riconquistato nel 1524, di nuovo perduto dopo la battaglia di Romagnano Sesia (aprile 1524) e definitivamente dopo la sconfitta di Pavia (24 febbraio 1525), che costò al re, sopraffatto dagli Ispano- imperiali, la libertà personale, finché non ebbe sottoscritto, prigioniero a Madrid, la rinuncia all'Italia e alla Borgogna (1526). Ma, contemporaneamente, sotto l'egida del papa Clemente VII de' Medici, veniva stipulata a Cognac (1526) un'alleanza tra la Francia (reggente la regina madre, Luisa di Savoia), l'Inghilterra, Venezia, Firenze (di cui era signore il papa) e Milano (Francesco II Sforza), che aveva tra i suoi principali obiettivi la liberazione dell'Italia dagli Ispano-imperiali. Che la lega di Cognac potesse avvantaggiare anzitutto l'Italia era pensiero di alcuni politici insigni, come Francesco Guicciardini, consigliere di Clemente VII; d'altra parte, poco prima, anche da Milano era partita un'iniziativa antimperiale e antispagnola, la cosiddetta congiura di Girolamo Morone, di cui era stato consapevole il duca e partecipe, per poi tradirla, il marchese di Pescara, vale a dire il vincitore della battaglia di Pavia. Le cose presero invece una piega ben diversa. La lega attaccò il ducato di Milano, caduto nel frattempo in mano agli imperiali, ma perdette tempo prezioso per l'irresolutezza politica e le deficienze militari delle operazioni. Ciò permise la discesa dal Tirolo di un potente esercito di lanzichenecchi, condotti dal luterano fanatico Frundsberg, diretto su Roma; esso fu aiutato nel passaggio dal duca di Ferrara Alfonso I d'Este, si congiunse con le forze imperiali milanesi comandate dal conestabile Carlo di Borbone (un principe francese passato al servizio dell'Impero), sconfisse le forze collegate intervenute per sbarrargli la strada (battaglia di Borgoforte, dove fu mortalmente ferito il condottiero Giovanni dalle Bande Nere), minacciò seriamente Firenze e si riversò su Roma. La città, indifesa per l'imprevidenza del papa, fu devastata e messa a sacco (maggio 1527). È incerto se Carlo V sia stato complice di questo delitto; comunque l'impresa, che destò l'esecrazione universale, gli tornò di vantaggio: approfittando della crisi romana, Venezia tolse al papa Ravenna, e Firenze gli si rivoltò, abbattendo il regime dei Medici e restaurando una repubblica democratica di ispirazione savonarolesca (1527); Francesco I, tornato intanto dalla prigionia spagnola in Francia, inviò una spedizione in Italia per occupare il Milanese e Genova, da dove, grazie ai servigi di Andrea Doria, si spinse fino nel regno di Napoli, avviandone l'invasione (1527-1528); ma tutto ciò non ebbe decisive conseguenze, perché l'improvviso passaggio di Andrea Doria, con la relativa flotta, a Carlo V, costò al re di Francia la perdita immediata di tutte le posizioni in Italia. La lega di Cognac era così del tutto fallita.
Stremata la Francia, ma non meno stremati l'Impero (in seno al quale divampava la guerra di religione tra cattolici e luterani, mentre da sud avanzavano minacciosamente i Turchi) e gli Stati italiani, tra Carlo V e Clemente VII fu concluso un accordo (Barcellona, 1529) che prevedeva, da parte del papa, il conferimento all'imperatore dell'investitura del regno di Napoli (che era feudo della Chiesa) e il riconoscimento di una sua eventuale annessione del ducato di Milano (che era feudo dell'Impero, e come tale tenuto da Francesco II Sforza); da parte dell'imperatore, l'appoggio al papa per assicurargli Modena e Reggio contro gli Estensi, Ravenna contro i Veneziani, e per promuovere la restaurazione dei Medici a Firenze. Nello stesso anno, a Cambrai, le “due dame”, Margherita d'Austria (zia di Carlo V) e Luisa di Savoia (madre di Francesco I), sottoscrivevano in nome dei due sovrani una pace generale, che contemplava anche gli affari d'Italia, nel senso che la Francia si impegnava a disinteressarsene. Nessuno Stato italiano fu consultato circa questi negoziati.
La passività dell'Italia rispetto alla potenza austro-spagnola apparve nel successivo congresso di Bologna (1529-1530), nel quale l'imperatore e il papa riformarono di nuovo la carta della penisola. Venezia cedette al papa Ravenna, e all'imperatore i porti pugliesi; ai duchi di Milano, Francesco II Sforza, e di Urbino, Francesco Maria Della Rovere, fu confermato il possesso dei rispettivi Stati; a Carlo III di Savoia fu assegnata Asti; ai Cavalieri Gerosolimitani, che avevano dovuto abbandonare Rodi (1522), Malta, a titolo di feudo; furono invece rinviate le due delicate questioni di Firenze e di Modena e Reggio, che interessavano soprattutto il papa. Alla fine del congresso, Clemente VII incoronò Carlo V re d'Italia e, nella basilica di San Petronio, imperatore (febbraio 1530). Poco dopo, Carlo V favorì Alfonso I d'Este, investendolo di Modena e Reggio (e altresì di Carpi, che era stata dei Pio); ma secondò Clemente VII nella questione di Firenze. Già attaccata fin dall'autunno del 1529 da truppe papali e imperiali, la repubblica si difese valorosamente per quasi un anno, ma, dopo la battaglia di Gavinana, eroicamente perduta da Francesco Ferrucci, capitolò, e si affidò a Carlo V; il quale vi nominò governatore con pieni poteri (agosto 1530), e poco dopo duca (1532), Alessandro de' Medici. La fine della repubblica e la definitiva restaurazione dei Medici come principi dell'Impero non suscitarono importanti reazioni; la congiura ordita da Lorenzino de' Medici contro il cugino Alessandro, che vi perdette la vita, e l'appello alla libertà lanciato da Lorenzino lasciò freddi i Fiorentini, che chiamarono a succedere ad Alessandro Cosimo de' Medici, figlio di Giovanni dalle Bande Nere (1537). Cosimo strinse vincoli che lo legavano a Carlo V e trasformò rapidamente l'antica repubblica in un principato assoluto.
Nello stesso periodo, la morte di Francesco II, ultimo degli Sforza, determinò l'avocazione all'Impero del ducato di Milano (1535), che Carlo V conferì poi al figlio, il futuro Filippo II re di Spagna (1540). Ma subito Francesco I invase il Piemonte, scacciandone il duca Carlo III di Savoia (1536). Si aprì così un nuovo fronte di guerra tra le forze ispano-imperiali e quelle francesi in Piemonte e nel Nizzardo (dove coi Francesi collaborarono i Turchi, venuti dal mare). La guerra finì con una vittoria francese (Ceresole Alba, 1544), rimasta tuttavia senza effetti perché contemporanea a un'offensiva imperiale e inglese, che mise in pericolo la stessa Parigi. Donde una pace affrettata che lasciò le cose com'erano: Francesco I in Piemonte, Carlo V nel Milanese (pace di Crépy, settembre 1544).
L'anno seguente (1545) Paolo III inaugurò il concilio di Trento, destinato a protrarsi sino al 1563; ma i suoi rapporti con l'imperatore, che ne condizionavano il programma (la fine dell'eresia luterana), non tardarono a raffreddarsi, compromettendo anzitutto la restaurazione dell'unità religiosa e, in Italia, creando una situazione d'incertezza. Nel giro di pochi anni si ebbero nella penisola singolari manifestazioni di violenza, nelle quali si assommavano confusamente ambizioni particolari e aspirazioni a una libertà in campo politico e religioso, d'altronde non mai ben definita, che si espresse in correnti di simpatia per la Francia.
A Lucca, piccola repubblica sopravvissuta alle tempeste della Toscana, in un ambiente ricco di fermenti sociali (rivendicazioni proletarie), politici (antimedicei) e religiosi (filoluterani), Francesco Burlamacchi cospirò per una rivoluzione che doveva sottrarre la Toscana al predominio fiorentino e imperiale e trasformarla in una federazione di libere città, sotto l'egida della Francia. La cospirazione fallì (1545-1548). A Genova, una congiura ordita (1546) da Gian Luigi Fieschi per scalzare il predominio dei Doria sostenuti da Carlo V, e instaurarvi quello francese, cadde nel nulla: Giannettino Doria (nipote di Andrea) fu assassinato, ma il Fieschi, vittima di un incidente, gli sopravvisse di poco, e nessuno raccolse i suoi progetti (1547). Alla congiura genovese aveva dato il suo consenso Pier Luigi Farnese, figlio di Paolo III e da questo fatto duca di Castro (1537), poi di Parma e Piacenza (1545), a dispetto di Carlo V, che rivendicava queste città ai domini milanesi in suo possesso, ai quali erano appartenute fin dalla metà del XIV sec. Il duca finì assassinato da una fazione nobiliare appoggiata dai Gonzaga e da Carlo V (1547), e Piacenza venne occupata dalle forze imperiali del Milanese; Parma evitò la stessa sorte grazie alla difesa opposta dall'erede di Pier Luigi, Ottavio Farnese (che ricuperò più tardi anche Piacenza, 1556); ancora nel 1547, a Napoli, vi fu una rivolta contro il viceré, senza successo.
La presenza della Francia in Italia fu più attiva sotto il successore di Francesco I, Enrico II (1547-1559), che fu incoraggiato in patria da risolute correnti favorevoli alle rivendicazioni sul Milanese e sul Napoletano e, fuori, dalla situazione critica di Carlo V nella lotta contro i protestanti e dell'Inghilterra in crisi di potere. Così i Francesi prevennero gli Ispano-imperiali nell'occupazione del marchesato di Saluzzo (che durò dal 1548 al 1588); salvarono a Ottavio Farnese il dominio di Parma, contesogli da Carlo V e dal nuovo papa Giulio III; appoggiarono la sollevazione della Corsica contro la repubblica di Genova, guidata da Sampiero d'Ornano o da Bastelica (1553-1559). La repubblica di Siena, apertamente postasi sotto la protezione di Enrico II, subì l'attacco congiunto delle armi medicee e imperiali e perdette la sua indipendenza con l'annessione a Firenze (1554-1555, assedio e resa di Siena). Francesco di Guisa, fiero assertore della politica francese in Italia, occupò Casale (marzo 1555) e intraprese una spedizione contro Napoli, interrotta tuttavia dalla contemporanea sconfitta di San Quintino in Piccardia (1557), che espose Parigi all'attacco di un esercito spagnolo al comando di Emanuele Filiberto, duca di Savoia.
Carlo V intanto aveva abdicato (1556), a favore del figlio Filippo II per Milano, i Paesi Bassi, la Franca Contea e la Spagna con tutte le sue dipendenze, e del fratello Ferdinando I per l'Impero: questo fatto concorse alla conclusione della pace di Cateau-Cambrésis (aprile 1559). Per quanto riguarda l'Italia, Cateau-Cambrésis vi sanzionò il predominio spagnolo progressivamente impostosi dal XIV sec. in poi; rimasero domini diretti della Corona spagnola i regni di Sardegna, di Sicilia e di Napoli, il ducato di Milano e alcuni porti della costa tirrenica (Talamone, Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano), oltre a Piombino e l'isola d'Elba, già appartenenti alla repubblica di Siena, il cui complesso ebbe il nome di Stato dei Presidi. Il resto del territorio senese passò a Cosimo de' Medici, che ne fu investito come di un feudo dal re di Spagna. I Francesi restituirono il Piemonte a Emanuele Filiberto di Savoia, mantenendovi però come gli Spagnoli delle guarnigioni militari, mentre conservarono il marchesato di Saluzzo; Casale e il Monferrato, estintasi la dinastia dei Paleologhi, erano passati ai Gonzaga di Mantova; Genova ristabilì il suo dominio sulla Corsica; Ottavio Farnese fu confermato nel ducato di Parma e Piacenza. Oltre ai diretti domini, il re di Spagna aveva, negli Stati italiani, altrettanti satelliti, fatta eccezione per gli Stati della Chiesa, per la repubblica di Venezia e, più tardi, per il ducato dei Savoia, che per diversi motivi poterono rimanere, o rendersi, immuni (sia pure entro limiti più o meno estesi) dalla sua egemonia.
La civiltà intellettuale dell'Italia non fu immediatamente offuscata dal lungo periodo di guerre combattute sul suo suolo tra il 1494 e il 1559; vissero e produssero in quei decenni Leonardo, Raffaello e Michelangelo, Ariosto, Machiavelli e Guicciardini, Cardano e Tartaglia. Insieme con l'arte, la letteratura e la scienza, prima del concilio di Trento fiorirono libere iniziative religiose sia nell'ambito dell'ortodossia cattolica sia ai margini e fuori di essa, al livello, per la spontaneità, la serietà e il fervore, di quelle analoghe dei paesi transalpini; ciò che vale a sfatare, o almeno ad attenuare di molto, il pregiudizio di un'Italia rinascimentale tiepida o senz'altro indifferente al sentimento e al pensiero religioso. Si svilupparono allora gli oratori del Divino Amore, i somaschi, i barnabiti, le orsoline, i cappuccini, infine i gesuiti, tutti con finalità sociali oltre che strettamente religiose. E parallelamente, in altri ambienti, non insensibili al nascente protestantesimo, si formavano circoli non perfettamente ortodossi, come quello napoletano di Juan de Valdés, dal quale uscirono poi autentici riformatori come Pietro Carnesecchi, Pietro Martire Vermigli, Bernardino Ochino o senz'altro eterodossi come quello ferrarese, favorito dalla duchessa Renata di Francia, di fede calvinista, fede che fu abbracciata e predicata qua e là con un certo seguito da numerosi adepti, tra i quali primeggiò il senese Lelio Socini. I movimenti ortodossi prosperarono, e trovarono conforto nel concilio di Trento; gli altri furono soffocati non senza spargimento di sangue; ma molti eretici italiani si rifugiarono all'estero, partecipando in esilio alla diffusione degli ideali di tolleranza e libertà di coscienza.
L'economia volgeva invece al declino, di pari passo col progressivo declassamento del Mediterraneo e con lo spostamento a nord degli assi dell'industria, del commercio e delle finanze mondiali; il fatto tuttavia che da tutta Europa si chiedessero agli Italiani i prodotti di un artigianato, salito nel Rinascimento a dignità spesso di grande arte, compensava in parte l'inaridirsi dei traffici con l'Oriente. L'agricoltura restava stazionaria, con tendenza a regredire, specialmente nell'Italia centrale e nel Mezzogiorno, che per tutto il medioevo era stato tra i più importanti paesi produttori ed esportatori di cereali del Mediterraneo; nonostante l'impulso dato dagli Aragonesi a una pastorizia qualificatissima, la povertà tradizionale della sua popolazione tendeva ad aggravarsi.
Da notare, infine, come le guerre che i re francesi condussero in Italia, e che si conclusero con la pace di Cateau-Cambrésis, per gli influssi che ebbero sulla stessa civiltà d'oltralpe possono considerarsi l'ultimo sostanziale contributo dell'Italia alla storia francese tra la fine del medioevo e gli inizi dell'età moderna. Sul piano politico, la turbolenza e le ambizioni territoriali della nobiltà francese, scaricatesi sull'Italia, eliminarono in patria molte rivolte feudali accelerando a un tempo il consolidamento finanziario della monarchia francese. Ammaestrati dagli Italiani e dalla forza delle cose, i Francesi organizzarono una diplomazia permanente. Le difficoltà e la lunghezza delle campagne militari obbligarono inoltre l'esercito ad abbandonare anche le ormai sorpassate concezioni militari basate sul valore personale dei condottieri (come Baiardo, il Cavaliere senza macchia e senza paura) in favore di teorie basate piuttosto sulla strategia e sulla tattica. Le ingenti spese belliche, dissanguando l'erario francese, portarono gradualmente i sovrani a evolvere la loro politica dalle ambizioni dinastico-cavalleresche di un Carlo VIII alla consapevolezza di un Francesco I che avvertì l'utile economico ricavabile dalle prospere regioni italiane: non più, o almeno non solo, guerra feudale, ma conflitto economico-finanziario. Sul piano artistico, poi, vi fu la penetrazione dell'Umanesimo e del Rinascimento in Francia, per cui si può quasi assumere a simbolo il soggiorno dal 1515 al 1519 di Leonardo in Francia.
GLI STATI ITALIANI SOGGETTI ALLA SPAGNA
La storia d'Italia durante il predominio spagnolo si riduce, politicamente, alla cronaca dei suoi Stati, che non costituiscono più un sistema, ma un aggregato, soverchiato dal blocco dei paesi direttamente soggetti alla corona di Spagna. Per questi ultimi Filippo II istituì presso di sé un supremo consiglio d'Italia, di cui facevano parte membri spagnoli e italiani (1563); in realtà il potere rimase ai viceré di Sardegna, di Napoli (da cui dipendeva anche lo Stato dei Presidi) e di Sicilia, e al governatore di Milano. Viceré e governatore avevano poteri amplissimi, militari e civili e capacità di legiferare localmente per mezzo di ordinanze (gride), la cui esecuzione era però ostacolata dal privilegi ecclesiastici, nobiliari o corporativi e dalla inefficacia dei mezzi di coazione, non di rado resi inoperanti dalla resistenza, anche armata, dei privati più prepotenti.
Nei tre regni e nel ducato l'autonomia locale era formalmente salvaguardata da tre parlamenti e da un senato; il @19parlamento#535979Z234Z@*19 sardo, il siciliano e il napoletano erano divisi in sezioni (bracci, in Sardegna stamenti), che rappresentavano il clero, la nobiltà e le città libere; il senato milanese (istituito nel 1499 e rimasto in vita fino al 1798) era invece composto di soli nobili, parte lombardi parte spagnoli. Tali organi avevano il diritto, teoricamente efficacissimo ma praticamente debole, di convalidare le disposizioni del re, in particolare le richieste, continue e insistenti, di donativi, imposizioni straordinarie caratteristiche del sistema finanziario spagnolo, sempre dissestato. L'atteggiamento dei sudditi verso la Corona spagnola fu, in complesso, di lealtà e di devozione: la popolazione tendeva a scagionare i sovrani dal pesante fiscalismo, dagli arbitri della giustizia, dal disordine amministrativo, dagli oneri militari diretti e indiretti per incolparne i viceré o i governatori o i funzionari locali. Questi mali d'altronde, comuni a tutti i domini della Corona spagnola, compresa la stessa Spagna, erano compensati da indubbi benefici, dei quali i sudditi, più o meno chiaramente, si rendevano conto. La dominazione spagnola fu infatti, per l'Italia del XVI sec. e per una metà almeno del XVII, più positiva di quanto non apparve alla storiografia dell'età risorgimentale: essa, soprattutto, “sprovincializzò” gran parte del paese, inserendolo in circuito politico europeo, anzi più che europeo, qual era l'Impero di Carlo V e di Filippo II.
Sul ducato di Milano, base di continue operazioni di guerra ai margini del Piemonte, pesarono gravi servitù militari, più sensibili nelle campagne che nelle città, e oneri fiscali non sempre proporzionati alle possibilità economiche della popolazione; infierirono carestie ed epidemie di peste, due delle quali (1576 e 1630) di eccezionale gravità; non mancarono episodi di anarchia e di brigantaggio. Nonostante tutto ciò, il bilancio per il ducato e per la sua capitale non fu del tutto negativo. Vi concorse l'azione dell'autorità ecclesiastica ambrosiana a favore della popolazione, ora a fianco dell'autorità civile, ora sostituendosi a essa o fronteggiandola, forte di privilegi, in età di controriforma, inattaccabili e fatti intransigentemente valere: basterà fare i nomi dei due grandi arcivescovi Carlo e Federico Borromeo, che esercitarono una vera e propria signoria di fatto sulla città, in momenti assai difficili.
Nel regno di Napoli, pressione tributaria e servitù militari, sopportabili nel Milanese, soverchiavano una popolazione economicamente molto più debole e in condizioni di cronico squilibrio sociale, nella quale tra l'aristocrazia feudale ed ecclesiastica, coperta da privilegi, e le masse proletarie cittadine e rurali vi era una frattura profonda, non colmata da un adeguato ceto medio di piccoli proprietari, produttori, mercanti, artigiani. Senza sottovalutare l'opera svolta dal governo spagnolo per la protezione del territorio dagli attacchi esterni e per sottomettere a disciplina i baroni, né le provvidenze per il risanamento urbanistico della capitale e per l'incremento delle attività produttive (in particolare, la pastorizia), va notato che il disagio della popolazione venne sempre crescendo e, pur rimanendo vivo un sentimento di devozione verso la Corona, non mancarono sommosse. La più grave, quella legata al nome di Masaniello (1647), assunse in breve imprevedibili proporzioni politiche, in quanto vi si inserirono velleitari programmi di riforme radicali già da tempo elaborati dal giurista Giulio Genoino e da una ristretta cerchia di suoi seguaci. In poche settimane si succedettero, a capo del movimento, Masaniello (che fu assassinato), il Genoino, il principe di Massa (che fu pure assassinato), infine l'armaiolo Gennaro Annese. Presto la richiesta di riforme diventò rivoluzione: nell'autunno del 1647 fu proclamata la repubblica con il titolo confuso di Serenissima Repubblica del regno di Napoli, sotto la protezione della Francia, allora in guerra con la Spagna. Ma l'intervento francese mancò; sbarcò bensì a Napoli Enrico di Lorena, duca di Guisa, che viveva a Roma e vantava diritti sulla Corona napoletana, e riuscì anche a farsi eleggere “duca della repubblica”; ma il cardinale Mazzarino non gli mandò aiuti, né d'altra parte lo sostennero i Napoletani, compreso l'Annese. Questa caotica situazione giocò a favore della Spagna: di là giunsero rinforzi, che soffocarono la ribellione (primavera 1648); il duca di Guisa e il Genoino, e più tardi anche l'Annese, furono catturati dagli Spagnoli (e l'ultimo giustiziato). Durante la dominazione spagnola, nonostante il clima avverso, non si spense la grande tradizione culturale napoletana: nel regno, si formarono Giordano Bruno, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e, sul finire del XVII sec., Giambattista Vico.
La Sicilia fu per gli Spagnoli anzitutto una base di operazioni contro le flotte dei Turchi, alleati della Francia; tenuta essenzialmente per interessi politico-militari, non fu aiutata a sostenere le conseguenze economiche e sociali che ricaddero su di essa per il decadimento del Mediterraneo. Il dilagare del latifondismo, il conseguente impoverimento dell'agricoltura, il costante afflusso dei contadini nelle città, la decadenza delle rare industrie (soprattutto di quella, antichissima e un tempo florida, della seta) e l'impressionante rarefazione del denaro, tutto ciò predisponeva l'isola ad agitazioni, che si susseguirono a intermittenze nel XVI sec. e culminarono nel XVII in due episodi di particolare gravità. A Palermo, nel maggio 1647, una rivolta popolare provocata da un inasprimento delle gabelle fu prontamente repressa dal viceré, che ne mise a morte il capo, Nino della Pelosa; ma, alla notizia della rivolta napoletana di Masaniello, si riaccese sotto la guida dell'artigiano Giuseppe Alessi, che provocò la fuga del viceré e l'instaurazione di un governo popolare, salva sempre, e conclamata, la fedeltà alla Corona spagnola. Ma, retto da uomini privi di esperienza politica e di idee chiare, il governo popolare crollò con l'assassinio del suo capo (agosto 1647). Il regime vicereale fu ristabilito, né lo scosse una congiura ordita nel 1649 da due uomini di legge, Antonio Lo Giudice e Giuseppe Pesce, che furono giustiziati. Più gravi furono gli avvenimenti di Messina tra il 1672 e il 1678. Su turbolenze popolari provocate dalla cronica scarsezza di viveri, s'innestò un conflitto tra il rappresentante del governo spagnolo e il senato cittadino, che rivendicava antichi privilegi. La città si divise in due partiti: i Merli, disposti a transigere col governo, e i Malvizzi, in gran parte nobili, risoluti a difendere a oltranza i loro privilegi. Questi ultimi, dopo aver avuto ragione dei loro avversari, si posero sotto la protezione di Luigi XIV di Francia, allora in guerra con la Spagna; Luigi XIV fece entrare una sua flotta nel porto di Messina e la città, dopo qualche resistenza, si diede ai Francesi e accolse come viceré il duca di Vivonne (1676). Ma poco dopo Francia e Spagna conclusero la pace di Nimega, che prevedeva la restituzione di Messina (1678); gli Spagnoli vi rientrarono e operarono feroci rappresaglie. Del regno di Sardegna, basterà ricordare lo stato d'abbandono in cui la Spagna lo lasciò, smembrato in poco meno di quattrocento feudi quasi tutti in mani spagnole, in via di spopolamento per l'emigrazione. Emergevano però le città di Cagliari e Sassari, divenute in età spagnola sedi d'università.
Tra gli Stati indipendenti dalla dominazione spagnola, il più importante era quello della Chiesa, governato tra la metà del XVI sec. e la fine del XVII dai papi promotori ed esecutori della restaurazione cattolica. La politica ecclesiastica non distolse tuttavia i papi dalla cura degli affari temporali, e fu cura rivolta ad accrescere i domini territoriali e a garantire al complesso di essi la sicurezza di fronte ai pericoli sia di disgregazione interna sia di attacchi dall'esterno. Fieramente antispagnolo fu Paolo IV Carafa (1555-1559), assertore della “libertà d'Italia” (cioè di un'Italia senza stranieri nei suoi confini e senza preponderanza, all'interno, d'uno Stato sugli altri, quale era stata nel periodo di equilibrio tra 1454 e 1494) e promotore di un tentativo di liberare dagli Spagnoli il Napoletano, fallito drammaticamente, con un'incursione del duca d'Alba fin sotto Roma (1556). Dopo Paolo IV, nessun papa affrontò più per gran tempo direttamente la Spagna, sia per l'evidente sproporzione delle forze, sia per i vantaggi che la collaborazione tra papato e Spagna offriva alla causa della restaurazione cattolica. Ciò non toglie che papi e gerarchie si dimostrassero inflessibili difensori, anche nei domini spagnoli, dei privilegi e delle immunità che garantivano l'indipendenza dell'autorità ecclesiastica da quella civile. Pio IV Medici (1559-1565) condusse in porto il concilio di Trento (1563) e, conclusa una salda alleanza con Filippo II di Spagna, promosse l'applicazione dei decreti tridentini. Diede la porpora cardinalizia e l'episcopato milanese al nipote Carlo Borromeo, che sino alla morte (1584) fu, a Roma e a Milano, uno dei più valorosi artefici della restaurazione cattolica.
Pio V Ghislieri (1566-1572) continuò la politica del predecessore con maggiore severità e più larghe ambizioni, che possono riassumersi nella bolla In coena Domini, riaffermante la supremazia del papa su tutti i principi della Terra, e nella crociata contro i Turchi, che riportò la vittoria di Lepanto (1571). Aprì pure una grande campagna per il ricupero di feudi di dubbia legittimità e per la repressione delle guerre private tra feudatari, che funestavano i territori romani; campagna difficile, costosa e poco efficace, sia sotto di lui sia sotto il suo successore Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585). Sisto V Peretti (1585-1590), francescano, raggiunse invece lo scopo e ristabilì l'ordine e la disciplina; rinnovò anche le strutture del governo della Chiesa e dei suoi Stati, in base a criteri rimasti validi sino ai nostri giorni (riordinamento delle congregazioni cardinalizie). Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605) riprese le fila della politica di Sisto V, pericolosamente spezzate, soprattutto in materia di ordine pubblico. Dopo mezzo secolo di osservanza spagnola, Clemente VIII si accostò alla Francia, che la conversione di Enrico IV restituiva all'obbedienza romana, in vista di un equilibrio, a scapito della supremazia della Spagna; ciò produsse reazioni da parte spagnola e, in Roma, conflitti tra la parte favorevole e quella avversa alla svolta della politica pontificia, l'una facente capo agli Aldobrandini, l'altra ai Farnese. I buoni rapporti con la Francia giovarono tuttavia alla causa del papa, che poté realizzare l'annessione di Ferrara, a cui la casa d'Este, dopo l'estinzione del ramo diretto con Alfonso II, dovette rinunciare (1598).
Dopo l'austero governo di Sisto V, che non lo tollerò, rinacque in nuove forme il nepotismo, come scelta, tra i familiari (di solito nipoti) d'un personaggio che, fatto cardinale, dirigesse gli affari della curia, e d'un altro che, dotato di vasti patrimoni e imparentato con qualche grande famiglia, fondasse una casa principesca. Da questa pratica derivò il grande patriziato romano degli Aldobrandini, dei Borghese, dei Boncompagni Ludovisi, dei Barberini, ecc. Paolo V Borghese (1605-1621) legò il suo nome a una controversia con la repubblica di Venezia in materia di giurisdizione (1606-1607), e alle prime vicende della guerra dei Trent'anni (1618-1648), che inferse un colpo molto duro all'autorità del papato nel mondo; curò l'amministrazione dei suoi Stati con nuovi criteri, specialmente in materia finanziaria, continuò la bonifica delle campagne dal brigantaggio feudale e non feudale e fece compiere al Maderno la restaurazione della basilica di San Pietro, sulla cui facciata è scritto il suo nome. Gregorio XV Ludovisi (1621-1623) inutilmente tentò di evitare che, per la questione della Valtellina, la guerra dei Trent'anni si estendesse all'Italia. La stessa guerra fu motivo di costante preoccupazione per il suo successore Urbano VIII Barberini (1623-1644), che fu favorevole alla Francia, ma con le cautele necessarie per non rompere con la Spagna. Quali indizi dell'intolleranza controriformistica vanno ricordati la persecuzione e relegazione, per la prima volta, nel ghetto degli ebrei romani, ordinata da Paolo IV (1555), l'esecuzione di Giordano Bruno avvenuta sotto il pontificato di Clemente VIII (1600) e il processo e la condanna di Galileo (1633). Intanto lo Stato pontificio si espandeva con l'annessione del ducato d'Urbino (1631) e del ducato di Castro tolto ai Farnese nel 1649 da Innocenzo X Pamphili (1644-1655). Innocenzo X vide pure la conclusione della guerra dei Trent'anni (i trattati di Vestfalia), nefasta per il papato, che, escluso dal nuovo sistema d'equilibrio di un'Europa definitivamente divisa tra cattolici e protestanti, veniva a perdere l'influenza spesso determinante nella soluzione dei problemi internazionali. A questo scacco si accompagnarono a Roma gravi torbidi, che esprimevano malcontento e insofferenza verso un pontefice giudicato troppo prodigo e fiscale e maldestramente nepotista.
Sotto il pontificato di Alessandro VII Chigi (1655-1667), cominciarono, in forma sommessa, dissidi con la Francia, che, sotto Luigi XIV, cominciava a far sentire il peso della sua egemonia, ben più grave, nei confronti del papato, di quello della tramontata egemonia spagnola. Clemente IX Rospigliosi (1667-1669), già stretto collaboratore di Alessandro VII, si astenne da ogni forma di nepotismo, governò con prudenza, auspicò invano una crociata che salvasse Creta veneziana dai Turchi; designò a succedergli Clemente X Altieri (1670-1676). Questi sperimentò duramente l'avversione di Luigi XIV alle proposte di pace tra le nazioni cattoliche per arrestare l'avanzata turca nel cuore dell'Europa, che il re favoriva per nuocere agli Absburgo. Anche più drammatica si fece la situazione sotto Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), quando il Re Sole patrocinò la famosa Dichiarazione dei quattro articoli (1682) che istituiva la Chiesa gallicana, sulla quale il potere del pontefice veniva sostanzialmente sacrificato a quello del re, e rispose alla condanna papale con l'occupazione del Contado Venassino, poi con quella di Avignone, intercalate dall'invio a Roma, al seguito dell'ambasciatore di Francia, di un vero e proprio esercito. Una certa distensione si ebbe sotto Alessandro VIII Ottoboni (1689-1691), a cui Luigi XIV rese Avignone e il Contado; premessa della chiusura del conflitto, che ebbe luogo tra il 1693 e il 1695, regnante Innocenzo XII Pignatelli (1691-1700): l'episcopato francese sconfessò la Dichiarazione del 1682, Luigi XIV temperò la sua legislazione regalistica. Clemente XI Albani (1700-1721) si trovò coinvolto nella guerra di Successione spagnola, che determinò il crollo della dominazione spagnola in Italia, non risparmiò i domini della Chiesa e modificò radicalmente la situazione politica della penisola, senza che il papato potesse esercitare alcuna influenza sul corso degli avvenimenti: segno della generale decadenza della sua potestà temporale, sempre più intransigentemente negata dai sovrani nazionali, sorretti dalle nuove dottrine giurisdizionalistiche o regalistiche.
Il ducato di Toscana, creato da Carlo V, fu per quasi tutto il XVIsec. ligio alla Spagna, e all'avanguardia della vita culturale della penisola. Cosimo I de' Medici (1537-1574) impiantò una monarchia assoluta, ma illuminata. Per la sua fedeltà alla causa della restaurazione cattolica fu insignito da Pio V del titolo di granduca di Toscana (1569); istituì i cavalieri di Santo Stefano (Pisa, 1561), che difesero le coste dai pirati barbareschi, e rinvigorì la piccola flotta ducale; navi toscane parteciparono alla battaglia di Lepanto (1571). Cosimo I curò opere di bonifica agraria, si adoperò per risollevare l'economia di Siena e Pisa, restaurò le finanze. Nell'ultimo decennio, lasciò gli affari al figlio Francesco (Francesco I de' Medici), che gli succedette nel 1574, ma non fu pari a lui; cresciuto in Spagna, accorto mecenate e costruttore (a lui si deve la fondazione della città di Livorno, che prima era una fortezza), si rese però impopolare per l'indole autoritaria e sprezzante e corse il rischio di essere travolto da una congiura (1575). La sua ostentata, talvolta servile devozione a Filippo II di Spagna si raffreddò tuttavia negli ultimi anni della sua vita, proporzionalmente al declino di quel re e alla ripresa della Francia; suo fratello Ferdinando I (1587-1609), che gli succedette, si legò a Enrico IV, salito al trono di Francia, dandogli in moglie la nipote Maria; diede nuovo impulso alle opere civili, protesse gli studi (Galileo insegnò a Pisa tra il 1589 e il 1592), pensò a grandi imprese marinare. Cosimo II (1609-1621) e Ferdinando II (1621-1670) furono entrambi principi civilissimi: Galileo, dopo il soggiorno padovano, tornò in Toscana e v'insegnò dal 1610 al 1633, protetto dai granduchi finché fu loro possibile e anche dopo la condanna, profondamente rispettato; l'Accademia del Cimento, nel 1657, iniziò la sua feconda attività; tra le arti, la musica ebbe stupenda fioritura. Ma conservare una politica di equidistanza nella lotta fra gli Absburgo di Spagna e d'Austria e i Borboni di Francia divenne un'impresa sempre più difficile per i Medici, e perseguibile solo a prezzo di compromessi, e di prudenze talvolta umilianti. Finì che nel ducato furono effettivi padroni gli ecclesiastici, sottratti alla giurisdizione statale; e il clericalismo divenne soffocante sotto Cosimo III (1670-1723) e Gian Gastone (1723-1737), ultimo, inetto duca della dinastia medicea.
Anche meno liberi furono i tre ducati padani e la repubblica di Genova. Il ducato degli Estensi, dopo un quarantennio di quiete sotto Alfonso II (1559-1597), perdette Ferrara, e nel 1598 col duca Cesare (1597-1628) la corte fu trasferita a Modena, ma non si risollevò più all'antico splendore. Francesco I (1629-1658) subentrò ai da Correggio nel possesso del piccolo territorio omonimo e servì la Spagna combattendo contro il vicino duca di Parma che, con quello di Mantova, aveva aderito alla Lega franco-sabauda di Rivoli (1635), formatasi col prematuro intento di scacciare gli Spagnoli dall'Italia. Finita la guerra senza risultati, si riconciliò col Farnese e gli fu buon alleato nella guerra che questi sostenne col papato per il ducato di Castro; ma, alla vigilia dei trattati di Vestfalia (1648), passò opportunamente dagli Spagnoli ai Francesi, e al servizio della Francia combatté nel Mantovano e nel Milanese sino alla morte; come combatté suo figlio Alfonso IV (1658-1662), imparentato col cardinale Mazzarino, finché Francia e Spagna conclusero la pace dei Pirenei (1659). Francesco II (1662-1694) mantenne una prudente neutralità; Rinaldo (1694-1734) venne invece coinvolto nella guerra di Successione spagnola, servì gli Absburgo contro i Borboni (franco-spagnoli), combatté i Savoia e i Gonzaga, ed ebbe così il ducato occupato dai Francesi (1702-1706). Lo riottenne tuttavia, accresciuto della Mirandola, che l'imperatore, toltala ai Pico, gli concesse nel 1710.
I Gonzaga, duchi di Mantova e succeduti ai Paleologhi nel marchesato (poi ducato) di Monferrato (1536), se furono relativamente sicuri finché il predominio spagnolo in Italia fu incontrastato, dovettero poi affrontare i problemi, insolubili, derivanti dalla posizione dei loro domini, non solo separati, ma l'uno, lombardo, in piena area spagnola, l'altro, piemontese, nell'area antagonista sabaudo-francese. Questi problemi cominciarono a pesare sul ducato con Ferdinando (1612-1626), al quale Carlo Emanuele I di Savoia, armi alla mano, contestò il diritto di successione nel Monferrato, sostenendo che esso spettava a Maria, nata dalle nozze di sua figlia Margherita con il predecessore di Ferdinando, Francesco IV. L'intervento spagnolo lo salvò; ma quando, con suo fratello Vincenzo II (1626-1627), il ramo diretto dei Gonzaga si estinse, tutta l'eredità fu contesa tra Carlo I di Gonzaga-Nevers, sostenuto dalla Francia, e Ferrante II Gonzaga, duca di Guastalla, sostenuto dalla Spagna e da Carlo Emanuele I di Savoia (dopo la morte di Ferrante, nel 1630, gli succedette nelle pretese ereditarie il figlio Cesare II). Dopo tre anni di una guerra terribile (1628-1631), che colpì duramente Mantova e Casale, e fu aggravata dalla grande peste e dalla discesa dei lanzichenecchi imperiali, che misero a sacco Mantova, Carlo I di Gonzaga-Nevers (1627-1637) ebbe i due ducati; e fu un paladino della politica antispagnola (come si è visto sopra, partecipò alla lega di Rivoli del 1635). Carlo II (1637-1665) e Ferdinando Carlo (1665-1708) subirono passivamente le iniziative delle grandi potenze che si combatterono in Italia tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, di cui sofferse forse più il Monferrato che il Mantovano. La guerra di Successione spagnola segnò la fine degli Stati gonzagheschi: il Monferrato passò ai Savoia, Mantova all'Austria (1707).
Il ducato di Parma e Piacenza ebbe una storia simile a quella degli altri due confinanti. Ottavio Farnese, duca alla morte del padre Pier Luigi (1547), ma rientrato in possesso dello Stato solo nel 1550, ne salvò l'integrità barcamenandosi tra Spagna e Francia, ma soprattutto grazie ai servigi resi da sua moglie, Margherita d'Austria, a Filippo II di Spagna nel governo dei Paesi Bassi, e da suo figlio e successore Alessandro (1586-1592) nel medesimo ufficio e in altre imprese militari, vigorosamente condotte. Odoardo (1622-1646) aderì alla Lega antispagnola di Rivoli (1635), e ne uscì male; come uscì male dalla guerra contro Urbano VIII, che gli tolse i feudi di Castro e Ronciglione nel 1642, e glieli rese solo dopo tre anni. A suo figlio Ranuccio II (1646-1694) Innocenzo X tolse definitivamente Castro e gli altri territori vicini (1649), mentre il duca, alleato inutilmente con la Francia, subiva l'ostilità degli Ispano-imperiali. Durante la guerra di Successione spagnola, Francesco (1694-1727), penultimo rampollo della dinastia (spentasi con suo fratello Antonio nel 1731), benché passivamente neutrale, vide i suoi Stati occupati dalle truppe imperiali al comando del principe Eugenio di Savoia (1706), e impiegati come base delle operazioni contro Francesi e Spagnoli. Il continuo passaggio di soldatesche portò un'epidemia di vaiolo, che attaccò anche la giovane Elisabetta, unica nipote degli ultimi due duchi (in quanto figlia d'un loro fratellastro), futura regina di Spagna.
La repubblica di Genova, dopo la morte di Andrea Doria, ebbe un'esistenza molto travagliata: tramontata come potenza coloniale, sconvolta dalle croniche lotte civili, oggetto di mire da parte sabauda e francese, per conservare il dominio della Corsica sostenne una lunga guerra iniziata nel 1553 e conclusa nel 1569. Le rivalità tra i partiti cittadini (nobili vecchi, nobili nuovi, grandi borghesi) resero precaria l'indipendenza stessa, ma gli interventi stranieri (Spagna, Francia, Savoia) furono tuttavia scongiurati. Particolarmente ostinati furono i Savoia: Carlo Emanuele I aggredì la Repubblica tra il 1625 e il 1626 e vi appoggiò nel 1628 una congiura, legata al nome di Giulio Cesare Vachero; e pure alle armi e a congiurati ricorse Carlo Emanuele II nel 1672; ma entrambi fallirono. Luigi XIV di Francia, a sua volta, per sottrarre agli Spagnoli il miglior porto d'Italia, che prolungava al mare il ducato di Milano, provocò la Repubblica con richieste inaccettabili (smantellamento di navi, concessione di basi militari a Savona, ecc); queste furono respinte e Genova fu bombardata dal mare finché Luigi XIV ebbe soddisfazione (1684). La Repubblica si conservò “indipendente”, a questo prezzo, per oltre un secolo.
Ben altra cosa fu l'indipendenza della repubblica di Venezia, rimasta neutrale (ma in una neutralità attiva e negoziata) nelle guerre d'Italia dopo il 1530 e, dal 1540, in tregua coi Turchi. La sua posizione in Oriente, ancora forte benché scossa, rese la sua alleanza indispensabile a tutti gli Stati interessati a contenere i progressi dei Turchi stessi verso l'Occidente, alla Spagna anzitutto, sebbene potenzialmente nemica in quanto insediata in Lombardia. Perciò Venezia, quando perdette Cipro sotto l'urto della rinnovata offensiva ottomana (1570-1571), ebbe addirittura il soccorso di una crociata e, a fianco della sua flotta, di navi spagnole, genovesi, sabaude, toscane, pontificie e dell'ordine di Malta: quell'armata internazionale che, al comando di Giovanni d'Austria, fratello di Filippo II, batté i Turchi nelle acque di Lepanto (7 ottobre 1571). Dopo Lepanto, però, l'alleanza si dissolse e Venezia dovette abbandonare la guerra e la speranza di ricuperare Cipro; ma, per quasi tre quarti di secolo, non subì altri attacchi da parte dei musulmani. Nella prima metà del Seicento, i rapporti della Repubblica col papato e con la Spagna si fecero invece tesi: con Paolo V, la Repubblica ebbe una controversia di giurisdizione (1606-1607), lungamente maturata, che le attirò l'interdetto, e suscitò in tutta l'Italia, e anche fuori, vivacissime polemiche sul problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, intesi a Venezia nel senso più favorevole alla sovranità statale (tesi sostenuta dal consultore della Repubblica, fra Paolo Sarpi). La controversia fu composta con un compromesso, mediato da principi cattolici; ma il problema rimase aperto, per assumere poi, nel Settecento, proporzioni europee. Vennero quindi intermittenti conflitti con gli Absburgo d'Austria e di Spagna: la guerra contro i corsari (gli Uscocchi), che l'arciduca Ferdinando di Stiria, il futuro imperatore, proteggeva (1614-1618); la congiura attribuita all'ambasciatore spagnolo a Venezia, Alfonso de la Cueva, marchese di Bedmar, all'ombra del quale stavano il governatore di Milano e il viceré di Napoli, scoperta e sventata (1618); la guerra della Valtellina, in alleanza con Carlo Emanuele I di Savoia e con la Francia, contro l'Impero e la Spagna (1624-1626). Ma quando i Turchi ripresero l'offensiva contro l'isola di Creta, il più importante possesso conservato da Venezia nel Mediterraneo (1645), la causa della Repubblica divenne ancora una volta una causa internazionale e per ventiquattro anni i Veneziani poterono resistere ricevendo soccorsi dalla Spagna, dall'Impero, dalla Francia e dal rispettivi satelliti. Tutto fu vano, e i Veneziani perdettero l'isola, salvo qualche lembo (1669). Un segno della vitalità della Repubblica fu la controffensiva di fine secolo, promossa dallo sfortunato difensore di Candia Francesco Morosini in concomitanza con quella imperiale nei Balcani, grazie alla quale, con una serie di spedizioni tra il 1685 e il 1699, vennero in possesso di Venezia la Morea, alcune posizioni dell'Attica, del golfo di Corinto e del basso Adriatico. Ma il nuovo impero non ebbe domani: crollò dopo meno di un ventennio, quando già l'Austria si era insediata a Milano e a Mantova, circondando il dominio territoriale della Repubblica, per la quale incominciò da allora un processo irreversibile di decadenza politica, accompagnato tuttavia da uno stupendo autunno della sua civiltà artistica e scientifica, accentrata, quest'ultima, nello studio di Padova.
Gli Stati sabaudi, favoriti dalla loro posizione al di là e al di qua delle Alpi (con sbocco al mare), furono i meno toccati dalla preponderanza spagnola, tanto che, scomparso Emanuele Filiberto (1559-1580), devoto alla Spagna perché grazie a essa aveva ricuperato il Piemonte, suo figlio Carlo Emanuele I (1580-1630) credette possibile avventurarsi nella politica d'espansione. Tolse ai Francesi Saluzzo (1588-1601), aggredì (ma sempre senza successo) Ginevra, si associò al “gran disegno” di Enrico IV di Francia, che prevedeva la cacciata degli Spagnoli dall'Italia e l'assegnazione al duca di Savoia del Milanese e del Monferrato (trattato di Bruzolo, 1610). Il “gran disegno” cadde nel vuoto per la tragica fine di Enrico IV (1610) e l'immediata riconciliazione tra la regina vedova, Maria de' Medici, e Filippo III di Spagna; il duca rimase isolato ed esposto alle rappresaglie spagnole, che tuttavia gli furono risparmiate. Due anni dopo, con la rivendicazione del Monferrato a favore della nipote Maria e contro i Gonzaga, affrontò la Francia e la Spagna unite; sopraffatto, prima di rinunciare all'impresa si appellò alla nazione italiana, perché l'aiutasse a cacciare tutti gli stranieri, ma il suo appello incontrò diffidenza e fu accolto solo da pochi, per lo più letterati; il duca depose le armi solo dopo cinque anni (1612-1617). Cercò poi di rifarsi partecipando, insieme con la Francia e Venezia, alla guerra della Valtellina (1624-1626), una guerra politico-religiosa, scaturita dal fatto che gli Absburgo di Spagna e quelli d'Austria, sotto il pretesto di impedire l'annessione della Valtellina cattolica ai Grigioni protestanti, la occuparono, stabilendo la continuità territoriale tra il ducato di Milano, spagnolo, e l'Austria; il piano degli Absburgo fu fatto fallire, ed essi dovettero lasciare la valle. Questo successo incoraggiò Carlo Emanuele I al tentativo di isolare gli Spagnoli del Milanese anche dalla madrepatria strappando loro Genova: ma fallì, come s'è veduto, sia sul campo di battaglia sia con la congiura del Vachero (1628). L'ultima sua impresa fu un nuovo tentativo di entrare nel Monferrato (1628) durante la guerra di Successione scoppiata allo spegnersi della dinastia gonzaghesca di Mantova; combatté allora, alleato con Spagnoli e imperiali, contro i Francesi, che sostenevano Carlo di Gonzaga-Nevers, e morì nel corso della guerra. Questa finì rovinosamente per i Savoia: tra le desolazioni della guerra e della peste, Vittorio Amedeo I (1630-1637) dovette rassegnarsi ai trattati di Ratisbona e di Cherasco, che assegnarono Mantova e Monferrato al Gonzaga-Nevers, Pinerolo alla Francia, e al duca di Savoia, in cambio, Alba e qualche frammento del Monferrato (1631). Da quel momento la pressione della Francia non cessò di crescere. Vittorio Amedeo I, nell'interesse della Francia, si alleò, come s'è visto, coi duchi di Mantova e di Parma, nella lega di Rivoli contro la Spagna, con la prospettiva di ottenere il Milanese (1635); ma morì nel corso della guerra, lasciando erede il piccolo Francesco Giacinto (1637-1638) e, scomparso anche questo, un altro bimbo, Carlo Emanuele II (1638-1675) sotto la reggenza della madre Cristina di Borbone, chiamata “Madama Reale”, totalmente sottomessa al cardinale di Richelieu. Per ambizione di potere, si levarono allora contro di lei i cognati principe Tommaso e cardinale Maurizio, sostenuti dalla Spagna, e scoppiò una lunga guerra civile che portò gli Spagnoli a Torino (1638-1642). Dopo la guerra civile vi furono altri episodi bellici: la grande persecuzione dei valdesi (1655-1663) e gli attentati contro Genova del 1672. Morto il duca, diventò reggente la francese duchessa vedova Giovanna di Nemours, per i nove anni di minore età di Vittorio Amedeo II (1675-1730), che cominciò il suo governo personale avendo ai confini il Re Sole al culmine della potenza e della tracotanza. Il duca gli obbedì, riprendendo la persecuzione dei valdesi che Luigi XIV gli impose dopo la revoca dell'editto di Nantes (1685-1687); ma poco dopo (1689) aderì alla lega d'Augusta mentre ridava ospitalità e garanzie alla massa dei valdesi rientrati dalla Svizzera dove si erano rifugiati. La ritorsione francese costò al Piemonte orribili devastazioni, compiute dal generale Catinat, per cui il duca trattò una pace separata con Luigi XIV (1696), poco prima della pace generale di Ryswick, che lo reintegrò in tutti i territori perduti.
La pace fu rotta nel 1701, quando per la successione alla corona di Carlo II, ultimo degli Absburgo di Spagna, si contrapposero da una parte Luigi XIV e suo nipote Filippo V di Borbone (designato dallo stesso Carlo II come erede), coi rispettivi satelliti, tra i quali, in Italia, Vittorio Amedeo II e il duca di Mantova, dall'altra l'imperatore Leopoldo d'Absburgo, gran parte dei principi dell'Impero e l'Inghilterra, pure coi rispettivi satelliti, tra i quali il duca Rinaldo d'Este. Ma, appena fatta alleanza con Luigi XIV, Vittorio Amedeo II passò dall'altra parte, calcolando che per questa via gli fossero date più probabilità per un'eventuale successione agli Spagnoli in Lombardia. L'Italia fu solo uno dei settori d'una guerra universale, destinata a liquidare sia l'Impero spagnolo che l'imperialismo francese e a fare arbitra dell'Europa l'Inghilterra. Le forze imperiali, al comando del principe Eugenio di Savoia, tentarono per quattro anni invano di intaccare la Lombardia, tenacemente difesa fuori dai suoi confini dalle forze borboniche spagnole e francesi, mentre Vittorio Amedeo II veniva punito per la sua defezione con l'invasione di tutti i suoi domini, Savoia, Nizza e Piemonte, e ridotto a Torino, cinta infine anch'essa d'assedio. La salvezza gli venne dalle decisive vittorie anglo-olandesi e austriache sui Francesi nella valle del Reno, che consentirono al principe Eugenio di tornare in Italia e di recare al duca un soccorso tale da rovesciare nettamente la situazione (battaglia di Torino, 7 settembre 1706). I Francesi sgomberarono, oltre al Piemonte, la Lombardia, di cui prese possesso l'imperatore Carlo VI d'Absburgo, comprendendo tra i suoi nuovi possessi anche il ducato di Mantova (1707). Contemporaneamente forze imperiali, con l'appoggio di naviglio inglese, occupavano il Napoletano, lo Stato dei Presidi e la Sardegna (1707-1708).
I trattati di Utrecht (11 aprile 1713) e di Rastatt (6 marzo 1714) modificarono la carta d'Europa, in base a un nuovo principio d'equilibrio dettato dall'Inghilterra, e posero l'Italia sotto l'egemonia austriaca: Carlo VI ebbe il Milanese, il Mantovano, lo Stato dei Presidi, i regni di Napoli e di Sardegna, il marchesato di Finale; Vittorio Amedeo II, per volontà dell'Inghilterra, la Sicilia col titolo di re, il basso Monferrato, Alessandria, la Lomellina e la Valsesia, già appartenenti al Milanese, e le valli di Casteldelfino, Fenestrelle e Oulx, cedutegli dalla Francia in cambio di Barcelonnette; il duca di Modena, la Mirandola; Vincenzo Gonzaga, del ramo di Guastalla, unì al suo minuscolo ducato i principati di Sabbioneta e di Bozzolo. Gli altri Stati italiani non subirono mutamenti territoriali, ma dovettero rivedere la loro politica in funzione della nuova egemonia, e dipendere da Vienna anziché da Madrid o da Parigi.