Roma antica (età repubblicana)

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Testo

Roma antica (età repubblicana)
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INTRODUZIONE
Roma antica (età repubblicana) Periodo della storia di Roma antica compreso fra il 510 e il 27 a.C., che seguì la caduta della monarchia.
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LE MAGISTRATURE REPUBBLICANE E LA CONQUISTA DELL'ITALIA (510-264 A.C.)
Mentre nell'età monarchica il potere era attribuito unicamente al re, in età repubblicana venne affidato a due magistrati eletti annualmente dall'intera cittadinanza, riunita nei comizi centuriati, dapprima chiamati pretori e in seguito consoli. Il popolo romano, infatti, trasferiva loro l'imperium (la forza congiunta di dei e popolo di Roma), attributo necessario per comandare l'esercito. La collegialità e l'annualità di queste magistrature debbono intendersi in aperto contrasto con la natura monarchica del potere, che il popolo romano non voleva che fosse ripristinata; dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo per opera dei nobili Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino – considerati i primi magistrati della Roma repubblicana – il nome di re divenne infatti sinonimo di sopruso, e accuratamente evitato: l'unico suo uso linguistico fu nella funzione sacerdotale di rex sacrorum, officiante dei pubblici sacrifici.La composizione del senato, la più autorevole assemblea decisionale dello stato romano, venne progressivamente trasformata grazie all'inserimento di membri di estrazione plebea, chiamati conscripti (da cui la successiva denominazione dei senatori come patres conscripti): ciò venne decretato in seguito a un aspro conflitto tra patrizi e plebei. Non è facile cogliere la vera origine di questi distinti ordines, anche perché le risposte date finora dagli studiosi sono state estremamente diverse; patrizi e plebei, se ebbero tra loro profonde differenze di carattere economico, sociale e religioso (professavano infatti culti diversi) dovettero inizialmente (nel periodo monarchico) distinguersi soprattutto per motivi etnici. C'è chi ha voluto vedere, ad esempio, nei patrizi i latini che si imposero sull'etnia sabina, cioè i plebei; oppure individuare nei patrizi gli etruschi conquistatori (etruschi erano i re Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo) che sottomisero la componente etnica latino-sabina, riducendola a plebe; e non mancano teorie innovative, che tendono a ridimensionare di molto il ruolo del patriziato in epoca arcaica. Certo è che la lotta che si sviluppò tra patrizi e plebei nelle prime fasi dell'età repubblicana portò alla progressiva abolizione di numerosi privilegi politico-sociali del patriziato.Nel 494 a.C. la secessione della plebe guidata da Menenio Agrippa diede luogo all'elezione dei tribuni della plebe (tribuni plebis). Eletti annualmente, godevano dell'inviolabilità personale (sacrosanctitas) e del diritto di veto sulle deliberazioni dei magistrati patrizi (intercessio) e rappresentavano per i plebei il punto di riferimento politico nei conflitti con il patriziato: avevano cioè ufficialmente il diritto di soccorrere la plebe (ius auxilii ferendi plebi).Oltre all’elezione dei tribuni, vennero concessi l'istituzione di edili plebei, nonché il diritto di riunirsi in assemblea nel concilium plebis. Nel 451 a.C. fu nominata una commissione composta da dieci uomini (decemviri legibus scribundis), prima tutti patrizi e poi metà patrizi e metà plebei, allo scopo di fissare il primo codice di leggi della storia romana (legge delle Dodici Tavole), ove furono raccolti i principi del diritto romano arcaico. Con la legge Canuleia, del 445 a.C., fu legalizzato il matrimonio fra patrizi e plebei, mentre le leggi Liciniae-Sextiae, del 367 a.C., stabilirono che uno dei due consoli eletti doveva essere plebeo. Queste ultime leggi sancirono la legalizzazione di una diffusa prassi, che aveva visto già dal 444 a.C. la frequente sostituzione del consolato con un tribunato militare "dalla potestà consolare", carica cui era consentito l'accesso ai plebei. Progressivamente, anche l'accesso alle altre magistrature fu aperto ai plebei: la dittatura, nominata nei momenti di grave pericolo esterno per lo stato romano (356 a.C.); la censura (350 a.C.); la pretura (337 a.C.); le magistrature connesse ai collegi pontificali e augurali (300 a.C.).Questi cambiamenti politici segnarono la nascita di una nuova aristocrazia. Il senato, che originariamente possedeva solo una serie di limitate prerogative amministrative, divenne il fulcro del governo della repubblica, poiché a esso spettava ogni decisione in materia di pace e di guerra, nella scelta delle alleanze e delle colonie da fondare, nel controllo delle finanze statali. Sebbene l'emergere di questa nuova nobilitas patrizio-plebea avesse posto fine alle lotte fra i due ordini, la situazione delle famiglie plebee più povere non subì alcun miglioramento.
La politica estera di Roma, in questa fase della sua storia, fu caratterizzata da una serie di guerre di conquista che diedero luogo a una notevole espansione territoriale. Con la grande vittoria ottenuta presso il lago Regillo nel 497 o 496 a.C. contro latini e volsci alleati, Roma divenne la città egemone della Lega latina (l'antica confederazione che univa tra loro le città del Lazio), imponendo nel 493 a.C. il celebre trattato detto foedus Cassianum; condusse poi una serie di altre guerre contro etruschi, volsci ed equi: guerre nelle quali si affermò, tra gli altri, Lucio Quinzio Cincinnato, dittatore nel 458 a.C.Tra il 449 e il 390 a.C. la politica espansionistica di Roma divenne particolarmente aggressiva: con la presa di Veio (396 a.C.) da parte di Marco Furio Camillo, l'Etruria iniziò a perdere la propria indipendenza. Intorno alla metà del IV secolo a.C., nell'Etruria meridionale vennero stanziate alcune guarnigioni romane. Le vittorie su volsci, latini ed ernici assegnarono a Roma il controllo dell'Italia centrale, facendola nel contempo entrare in contatto con i sanniti, stanziati più a sud, che vennero affrontati e vinti nel corso di tre durissime guerre (guerre sannitiche), tra il 343 e il 290 a.C. Stroncata una rivolta di latini e volsci, nel 338 a.C., la Lega latina fu sciolta; due potenti coalizioni si formarono allora per cercare di contrastare l'ascesa di Roma: etruschi, umbri e galli (che già avevano attaccato i romani saccheggiando l'Urbe nel 390 a.C.) a nord; lucani, bruzi e sanniti nel sud, che riuscirono a contrastare l'espansionismo romano fino al 283 a.C.Nel 281 a.C. la colonia greca di Tarentum (l'odierna Taranto) chiese aiuto contro la minaccia costituita da Roma, della quale si temevano le mire espansionistiche in Magna Grecia, a Pirro, re dell'Epiro; dal 280 al 276 a.C. egli condusse la guerra in Italia meridionale e in Sicilia infruttuosamente – nonostante potesse contare sull'utilizzo bellico degli elefanti, sconosciuti ai romani – e dovette fare ritorno in Grecia. Durante i dieci anni successivi i romani completarono la sottomissione dell'Italia meridionale, riuscendo dunque a controllare l'intera penisola, dallo "stivale" fino ai fiumi Arno e Rubicone.
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LE GUERRE PUNICHE E MACEDONICHE (264-133 A.C.)
Nel 264 a.C. Roma entrò in guerra con Cartagine per il controllo del Mediterraneo: la città punica rappresentava in quel momento la più forte potenza marittima dell'Occidente, capace di controllare pressoché totalmente il settore centrale e occidentale del bacino del Mediterraneo, mentre Roma rimaneva ancora padrona del solo territorio italiano.La prima delle tre guerre puniche scoppiò per la crescente rivalità politica ed economica tra Roma e Cartagine. Dopo le guerre tarantine, infatti, Roma aveva posto sotto la propria diretta influenza le città della Magna Grecia, minacciando in questo modo la supremazia cartaginese nel Mediterraneo meridionale, consolidata negli anni grazie a vasti insediamenti punici in Sicilia. L'occasione fu data dai mercenari campani mamertini, assediati a Messana (Messina), che chiesero aiuto a entrambe le città contro Gerone II di Siracusa. Cartagine, come si è detto, controllava già parte della Sicilia e i romani accolsero la richiesta con l'intenzione di cacciare i cartaginesi dall'isola.Approntata la loro prima grande flotta, i romani dichiararono guerra e sconfissero i cartaginesi nella battaglia di Milazzo (260 a.C.), sotto la guida del console Caio Duilio. Nonostante altre vittorie, nelle acque di Tindari e al largo del promontorio Ecnomo (presso Licata), essi non riuscirono però a impadronirsi della Sicilia. Nel 256 a.C. un'armata romana guidata dal console Marco Attilio Regolo stabilì una base in Nord Africa, ma l'anno seguente i cartaginesi la costrinsero a ritirarsi, dopo averla duramente sconfitta presso Tunisi: Regolo stesso fu fatto prigioniero e molti dei soldati romani superstiti morirono travolti da una tempesta l'anno successivo.La guerra continuò a lungo, combattuta in gran parte attorno alla Sicilia, e si concluse dopo alterne vicende solo nel 241 a.C. con una battaglia navale presso le isole Egadi, vinta dai romani guidati dal console Caio Lutazio Catulo; essa fruttò a Roma il controllo della Sicilia (prima regione a essere organizzata in provincia romana) e nel 237 a.C. la conquista della Sardegna e della Corsica, a loro volta costituite in provincia. Le condizioni di pace imposte ai cartaginesi dai vincitori furono durissime: oltre alle perdite territoriali e all'impegno di non belligeranza, essi dovevano restituire senza riscatto i prigionieri romani e impegnarsi a pagare una forte indennità di guerra.Ora che Roma era in grado di competere sui mari, Cartagine cominciò a organizzarsi per una ripresa delle ostilità, attraverso l'acquisizione di una serie di punti d'appoggio in Spagna, dove volutamente i cartaginesi provocarono i romani attaccando la città di Sagunto, loro alleata. La seconda guerra punica prese avvio nel 218 a.C. con la spedizione di Annibale in Italia, dalle basi spagnole attraverso le Alpi. Dopo aver vinto i romani presso i fiumi Ticino e Trebbia, egli si spinse verso sud ottenendo successivamente due importanti vittorie, al lago Trasimeno (217 a.C.) e a Canne (216 a.C.).I condottieri romani di maggior spicco in questa prima parte della guerra furono il dittatore Quinto Fabio Massimo, detto "il Temporeggiatore" poiché dopo la sconfitta romana del Trasimeno cercò di tenere a distanza il nemico e di logorarlo con una tattica attendista, e il console Caio Terenzio Varrone, sfortunato comandante dell'esercito romano a Canne. La guerra proseguì ancora a lungo, e vide da un lato una progressiva riconquista da parte dei romani del terreno perduto in Italia meridionale (presa di Siracusa, 212 a.C. e di Capua, 211 a.C.), dall'altro frequenti saccheggi e devastazioni da parte di Annibale, che depauperarono severamente l'agricoltura italica.Dopo circa quindici anni il conflitto si spostò in Africa, dove Annibale fu chiamato per affrontare nel 202 il giovane generale romano Scipione Africano, che puntava su Cartagine. Annibale venne sconfitto in maniera definitiva nella battaglia di Zama (202 a.C.), in conseguenza della quale Cartagine fu costretta a consegnare la sua flotta, a cedere la Spagna e i suoi possedimenti insulari nel Mediterraneo, oltre a pagare una nuova indennità di guerra. Roma rimase così la sola dominatrice del Mediterraneo occidentale e ampliò il suo dominio verso nord. Fra il 201 e il 196 a.C. le popolazioni galliche della Pianura Padana furono soggiogate e il loro territorio venne progressivamente romanizzato. La Spagna fu mantenuta in regime di occupazione militare, e successivamente costituita in provincia.La terza guerra punica, originata dal timore che la potenza cartaginese potesse tornare a prosperare, in virtù di una fiorente economia, fu condotta rapidamente a termine fra il 149 e il 146 a.C. da Scipione Emiliano, che conquistò e distrusse Cartagine dopo tre anni di assedio, trasformandone il territorio circostante nella provincia d'Africa.Nel corso del III e del II secolo a.C. Roma fu anche impegnata in un lungo conflitto con la Macedonia per il dominio del settore orientale del Mediterraneo, che si svolse nel corso di tre guerre; nelle prime due le forze macedoni combatterono sotto il comando di Filippo V, sconfitto nel 197 a.C. a Cinoscefale. Nel frattempo, con l'aiuto degli stati della Grecia meridionale, suoi alleati, Roma combatté contro Antioco III di Siria, che fu vinto nella battaglia di Magnesia (189 a.C.) e obbligato a cedere i suoi possedimenti in Europa e in Asia. Il figlio di Filippo V, Perseo, continuò la resistenza contro Roma, provocando lo scoppio della terza guerra macedonica; nel 168 a.C. il suo esercito fu sgominato a Pidna dal generale Lucio Emilio Paolo: la Macedonia divenne provincia romana nel 146 a.C. In quello stesso anno l'ultima rivolta della Lega achea contro Roma si concluse con la presa e la distruzione della città di Corinto: da quel momento la libertà della Grecia ebbe fine.In poco più di un secolo, Roma divenne un impero che dominava il bacino del Mediterraneo dalla Siria alla Spagna. Conseguenza di tali imprese furono i contatti con la cultura greca, di cui Roma poté apprezzare le arti e le lettere, la filosofia e i culti religiosi. Non a caso la letteratura latina ebbe un grande impulso a partire dalla seconda metà del III secolo a.C., con la traduzione di opere dell'epica greca e lo sviluppo di un teatro che su quello greco era modellato; nel secolo successivo queste tendenze si enfatizzarono, e si diffusero a Roma le prime scuole filosofiche greche. Se è vero che questa ellenizzazione della cultura romana dispiacque ai più conservatori, come al vecchio Catone il Censore, il filoellenismo divenne invece uno dei tratti distintivi dell'autorevole famiglia degli Scipioni.
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LA LOTTA POLITICA A ROMA: DAI GRACCHI A SILLA
Nello stesso periodo in cui Roma stava creando un impero di vasta portata, si accrebbe il livello dello scontro politico al suo interno. Le più ricche famiglie plebee e le antiche gentes patrizie conquistarono, grazie a un accordo, le più alte magistrature e il controllo totale dell'accesso al senato; inoltre, la graduale estinzione dei piccoli proprietari terrieri, dovuta a uno sviluppo – ancorché parziale – del latifondo e alle devastazioni delle guerre (soprattutto di quella annibalica), provocò la formazione di un proletariato, in larga parte inurbato, il cui malcontento era incapace di tradursi in organizzazione politica. Divenne così inevitabile lo scoppio di un duro conflitto tra l'aristocrazia più conservatrice, organizzata nella fazione degli optimates, e uomini politici con maggiore attenzione verso le fasce più basse della società, organizzati nella fazione dei populares: tra questi ultimi, i fratelli Tiberio Sempronio Gracco e Caio Sempronio Gracco, tribuni della plebe rispettivamente nel 133 e 123 a.C., che promossero riforme agrarie che non sopravvissero però alla morte violenta dei loro fautori.
Si stava inoltre sviluppando, all'interno della società romana, un nuovo soggetto sociale: l'ordine equestre. I cavalieri, infatti, si erano avvalsi delle nuove conquiste in Oriente – che avevano ampliato l'orizzonte mercantile di Roma – per imporsi come ceto imprenditoriale e commerciale; inoltre, in molte delle nuove province, l'esazione degli appalti fu appannaggio di cavalieri, detti pubblicani, che con questa attività costruirono enormi fortune. Alla crescita economica dei cavalieri non corrispose però un adeguato ruolo politico e l'ordine equestre restò escluso dalle funzioni di governo dello stato, eccezion fatta per qualche suo isolato esponente che accedeva al senato come homo novus (non proveniente cioè da famiglie senatorie). La lotta più dura che combatterono i cavalieri fu quella – iniziata nella seconda metà del II secolo d.C., e caratterizzata da fasi alterne – per accedere alla quaestio de pecuniis repetundis, commissione di controllo sull'operato dei governatori e amministratori delle province; se non potevano essere ceto di governo gli equites pretendevano almeno una funzione di controllo su chi governava, a tutela dei propri crescenti interessi economici.Le comunità italiche alleate di Roma, che stavano perdendo progressivamente peso politico e privilegi, chiedevano il riconoscimento del loro decisivo contributo alle guerre di conquista. In questa situazione, il tribuno Marco Livio Druso propose leggi agrarie e distribuzioni di grano per le classi meno agiate, e promise la cittadinanza romana agli italici. Ma, quando anche Druso venne ucciso (nel 91 a.C.), gli italici insorsero, creando un proprio esercito e un proprio stato, che ebbe la sua capitale provvisoria nella città di Corfinium, nel territorio dei marsi. Il conflitto che ne seguì (90-88 a.C.) fu detto guerra sociale, cioè "guerra degli alleati" (in latino socii), e si concluse con la sconfitta degli italici, ai quali venne però concessa la cittadinanza romana. Nell'89 a.C., inoltre, il console Pompeo Strabone concesse la cittadinanza agli abitanti della Pianura Padana, regione da tempo in bilico tra la condizione di provincia e quella di appendice dell'Italia.Nel frattempo, gravi problemi continuavano a caratterizzare la politica interna di Roma. Durante la prima guerra combattuta contro Mitridate VI, re del Ponto, scoppiò un violento conflitto tra Caio Mario, rappresentante della fazione dei populares, e Lucio Cornelio Silla, il capo della fazione aristocratica degli optimates, per il comando delle forze di spedizione; entrambi valenti militari, avevano già dato prova delle loro capacità belliche. Mario aveva infatti già ricoperto per cinque volte il consolato, e si era distinto per le vittorie contro i teutoni nel 102 a.C. (ad Aquae Sextiae) e i cimbri nel 101 a.C. (ai Campi Raudii); aveva inoltre promosso una riforma che, favorendo gli arruolamenti volontari – anche tra i proletari – trasformava l'esercito in un corpo professionale, fedele più al generale che l'aveva reclutato che alla causa dello stato romano.Silla, console nell'88 a.C., aveva avuto un ruolo fondamentale nella guerra sociale, e proprio alla testa delle legioni che aveva guidato nel corso di quel conflitto marciò su Roma. La fuga di Caio Mario gli lasciò libero il campo: Silla fu rieletto console e partì per la guerra contro Mitridate nell'87 a.C. Durante la sua assenza, però, Caio Mario e Lucio Cornelio Cinna, rivestendo nuovamente il consolato, si reimpadronirono del potere, che mantennero finché morirono, Mario nell'86 a.C. e Cinna nell'84 a.C. Quando Silla, nell'83 a.C., ritornò dall'Asia Minore, marciò di nuovo su Roma, stroncò la resistenza dei suoi avversari e instaurò un regime senza precedenti nella repubblica romana. Nominato dittatore, egli eliminò i suoi nemici mediante proscrizioni, e le terre appartenenti agli oppositori politici furono confiscate e distribuite ai veterani delle sue legioni; emanò poi numerose leggi (leges Corneliae) che restituivano all'aristocrazia senatoria il pieno controllo della vita politica dello stato, limitando non poco le prerogative dell'ordine equestre, cui Mario aveva concesso alcuni privilegi. Silla si ritirò dalla politica nel 79 a.C., lasciando un pericoloso esempio alle generazioni immediatamente successive: quello, cioè, di un potere che – pur nell'ambito di una struttura costituzionale repubblicana – aveva i caratteri autocratici della monarchia.
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LA LOTTA POLITICA A ROMA: DALL’ASCESA DI CESARE ALLA FINE DELLA REPUBBLICA
Nel 67 a.C. Pompeo Magno, uomo politico e generale che aveva combattuto i seguaci di Mario in Africa, in Sicilia e in Spagna, liberò il Mediterraneo dai pirati e fu incaricato di condurre una nuova guerra contro Mitridate. Nel frattempo il suo rivale, Caio Giulio Cesare, acquistò progressivamente una notevole influenza politica come capo della fazione dei populares e si alleò con il ricchissimo Marco Licinio Crasso.
Pompeo, tornato vittorioso dall'Oriente, chiese al senato di ratificare le sue conquiste e distribuire le terre ai suoi veterani. Le sue richieste si scontrarono con una serie di veti da parte del senato, fino a che Cesare, presentandosi come amico, formò con lui e con Crasso il primo triumvirato, nel 60 a.C.: si trattava non già di una magistratura, ma di un patto privato tra i più potenti uomini politici del tempo, ciascuno dei quali aveva propri interessi da proteggere e promuovere. Il grande oratore Marco Tullio Cicerone, di tendenze politiche conservatrici, si era accorto della sua pericolosità e lo avversò fieramente: il processo di "personalizzazione" della vita politica romana, che aveva avuto nelle figure di Mario e Silla i più illustri precedenti, stava per assumere così una strada senza ritorno, che avrebbe minato la natura stessa della repubblica; quella stessa repubblica che solo pochi anni prima (63 a.C.) aveva anche dovuto fronteggiare, sotto il consolato di Cicerone, un tentativo di colpo di stato di natura demagogica capeggiato da Lucio Sergio Catilina.
L'accordo triumvirale consentì a Cesare di ottenere il consolato e a Pompeo di far accettare le proprie richieste. Gli interessi dei cavalieri – sul cui appoggio Cesare contava – vennero soddisfatti, garantendo ai pubblicani condizioni vantaggiose negli appalti per la riscossione dei tributi nelle province orientali; fu inoltre introdotta una legge agraria per consentire a Pompeo di ricompensare adeguatamente le sue truppe con donativi di terre. Il coronamento dei successi di Cesare fu il comando militare ottenuto in Gallia cisalpina, in Illiria e più tardi anche nei possedimenti romani nella Gallia d'oltralpe; di qui, nel 58 a.C., mosse alla conquista di tutta la Gallia transalpina, portandola a termine nel 51 a.C., dopo una serie di lunghe e faticose campagne (vedi Guerre galliche).
Nel 55 a.C. i triumviri rinnovarono la loro alleanza, e mentre a Cesare venne prorogato il comando della Gallia ancora per cinque anni, Pompeo e Crasso furono eletti consoli: al primo venne affidato il controllo di Spagna e Africa, mentre Crasso ricevette la Siria; ma la morte di quest'ultimo, nel 53 a.C., sconfitto a Carre, presso l'Eufrate, mentre combatteva contro i parti, pose Pompeo in aperto conflitto con Cesare. Mancando un governo efficiente, a Roma scoppiarono violenti tumulti: il senato persuase Pompeo a restare in Italia, affidando le sue province a legati, e lo elesse unico console nel 52 a.C. decidendo di sostenerlo contro Cesare, a cui venne imposto di rinunciare al comando militare (per impedire la sua elezione a console).
Cesare rifiutò e, nel 49 a.C., dalla Gallia cisalpina scese verso sud attraversando in armi il fiume Rubicone, confine del pomerium sillano; presa Roma, obbligò Pompeo e i membri più in vista dell'aristocrazia a ritirarsi in Grecia. Continuò quindi la guerra contro i pompeiani, sbaragliandoli prima in Spagna e passando poi in Grecia, dove vinse la battaglia di Farsalo (48 a.C.). Pompeo fu ucciso poco dopo in Egitto, ma la guerra contro i suoi partigiani continuò finché questi non vennero sconfitti duramente nella battaglia di Tapso (46 a.C.) e definitivamente in quella di Munda (45 a.C.). Cesare, dopo avere progressivamente accentrato nella sua persona numerosi poteri e funzioni (la ripetuta assunzione della dittatura e del consolato; l'attribuzione di alcune prerogative dei tribuni della plebe; la praefectura morum, che sostituì la censura), si proclamò dittatore a vita: l'eccezionalità della sua posizione politica venne ribadita da forme di culto della personalità del tutto estranee alle consuetudini della repubblica romana.
Il nuovo "leader" della politica romana aveva però sottovalutato il peso delle tradizioni repubblicane e si creò numerosi nemici nell'ambito dell'aristocrazia dell'Urbe: il 15 marzo del 44 a.C. venne quindi assassinato a seguito di una congiura, proprio mentre stava ideando una spedizione militare in Oriente che avrebbe eguagliato il suo prestigio militare a quello di Alessandro Magno. Cicerone cercò di restaurare la vecchia costituzione repubblicana, ma Marco Antonio, già luogotenente di Cesare, unì le proprie forze a quelle di Marco Emilio Lepido e del pronipote e figlio adottivo di Cesare, Ottaviano (il futuro imperatore Augusto), per formare il secondo triumvirato, che questa volta fu una vera e propria magistratura straordinaria dello stato.
Fra le prime scelte dei triumviri vi furono le proscrizioni e l'eliminazione degli oppositori, fra cui Cicerone. Nel 42 a.C. Ottaviano e Antonio sconfissero gli assassini di Cesare, Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino a Filippi, in Tracia, dopodiché i triumviri si divisero il controllo dei domini romani: Ottaviano ebbe l'Italia e l'Occidente, Antonio l'Oriente e Lepido l'Africa. Ottaviano cercò l'aiuto di quest'ultimo nella guerra contro Sesto Pompeo (il figlio di Pompeo Magno), ma Lepido cercò di impossessarsi della Sicilia, con il risultato di venire privato della sua provincia e del suo ruolo all'interno del triumvirato (36 a.C.).
Alla morte di Sesto Pompeo il possesso del Mediterraneo rimase una questione privata fra Ottaviano – che aveva nel frattempo rafforzato notevolmente la sua posizione in Occidente – e Antonio, ormai suo unico rivale; quest'ultimo, infatti, viveva ormai in Egitto alla corte della regina Cleopatra, mirando a trasformare l'insieme dei domini romani in una monarchia, su modello dei regni ellenistici. Con la battaglia di Azio (che vinse nel 31 a.C.), e il suicidio di Antonio, Ottaviano estese il suo dominio anche in Oriente (29 a.C.), divenendo in tal modo il solo padrone di tutti i territori di Roma.
Sia lo storico greco Polibio che l'oratore latino Cicerone avevano definito la repubblica romana il sistema politico migliore, poiché armonizzava in sé caratteristiche proprie della monarchia (il potere esecutivo e militare dei consoli), dell'oligarchia (il potere consultivo del senato) e della democrazia (il potere legislativo e la funzione elettorale dei comizi). Ma già con Silla, poi con Cesare e ancor più con Ottaviano era chiaro che il primo dei tre poteri stava prendendo il sopravvento, e quando, nel 27 a.C., il senato tributò a Ottaviano il titolo di augusto, la repubblica romana – che di nome continuava a esistere – si poteva dire finita. In tale titolo, accompagnato alle altre prerogative e funzioni che egli assunse, era infatti insita l'idea di un potere che non scaturisse dalla delega dell'imperium da parte del popolo romano, ma che fosse prerogativa individuale, personale, in alcun modo limitabile dalle annualità e collegialità tipiche delle magistrature repubblicane; che fosse, insomma, un potere di tipo monarchico.

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SOCIETÀ ED ECONOMIA DELLA ROMA REPUBBLICANA
Non è semplice fare un quadro complessivo della società e dell'economia della Roma repubblicana, non solo perché questa fase comprende cinque secoli di storia, ma anche perché durante questo periodo Roma si trasformò da piccolo centro del Lazio, abitato da pastori, agricoltori e modesti mercanti di sale, a potenza politica ed economica egemone nel Mediterraneo. Sulla distinzione arcaica tra patrizi e plebei e sulla successiva nascita di un'aristocrazia senatoria, che si opponeva ad associare al potere politico l'emergente ordine equestre, già si è detto; nulla si è però anticipato su un'altra fondamentale componente della società romana, la schiavitù.Il numero degli schiavi, soggetti cioè senza alcuna personalità giuridica e vero e proprio "possesso" dei loro padroni, e che solo col permesso di questi potevano emanciparsi diventando liberti, fu inizialmente limitato. I prigionieri di guerra catturati nel III e nel II secolo a.C. andarono però ad accrescere notevolmente questo numero, se è vero che intorno alla metà del I secolo a.C. dovevano esistere in Italia oltre un milione di schiavi, su un totale di cinque-sei milioni di abitanti (si tratta comunque di cifre ipotetiche e opinabili, anche se tendenzialmente accettabili).L'economia romana, che nel II secolo a.C. si sviluppò sensibilmente, non poteva fare a meno di loro: erano infatti schiavi i lavoratori agricoli dei possedimenti terrieri dei membri dell'aristocrazia senatoria, ove si producevano vino e olio; e spesso schiavi erano anche i lavoranti delle botteghe artigiane di proprietà dei cavalieri, o i marinai che portavano oltremare le loro merci; ma nondimeno schiavi erano talora i dotti precettori greci o orientali che curavano l'educazione dei giovani aristocratici.Non è dunque scorretto parlare, a proposito dell'economia romana, di un'economia schiavistica. Ciò ebbe come conseguenza una progressiva proletarizzazione dei cittadini romani delle classi inferiori, che vedevano così ridursi le loro opportunità lavorative; e le riforme di Mario, che trasformarono l'esercito romano in un corpo professionale, avevano anche il fine di arruolare questi soggetti sociali e limitarne il malcontento. Dovendo dunque sintetizzare il quadro socio-economico dell'età repubblicana, si ebbero un'attività agricola – nelle mani dell'aristocrazia senatoria – e una serie di attività imprenditoriali, gestite dai membri dell'ordine equestre: in entrambi i casi ci si avvalse preferibilmente di manodopera schiava, mentre i ceti inferiori andarono sempre più a rimpolpare i ranghi dell'esercito.
Dal punto di vista degli istituti sociali, comune a tutti gli ordini e le classi (ma particolarmente sentito negli ambiti aristocratici) fu il rispetto della famiglia, che nella scala gerarchica dei valori imposta dal mos maiorum (l'insieme di leggi non scritte tramandate oralmente di padre in figlio, patrimonio comune del popolo romano) era seconda solo allo stato. In origine la famiglia romana era una specie di "monarchia privata" di natura patriarcale; tutti i poteri erano infatti nelle mani del marito-padre detto pater familias, cui erano ugualmente sottomessi la moglie e i figli.Già il rito del matrimonio faceva capire che concezione ci fosse alla sua base; infatti, dopo una cerimonia di tipo rituale (confarreatio) che consisteva nel cibarsi, da parte dei due sposi, di una focaccia di farro, la donna, attraverso il rito della coemptio (che significa "acquisto") veniva praticamente "comprata" dal futuro marito, insieme con i beni che portava in dote: da questo momento cessava di essere proprietà della famiglia d'origine per diventarlo del marito. La sua persona fisica, i suoi beni, come pure le persone fisiche e i beni dei figli che fossero nati dal matrimonio, erano sotto l'assoluto arbitrio del pater familias. La donna che avesse tradito il marito poteva essere da lui uccisa; colpe meno gravi come, ad esempio, la sottrazione all'uomo delle chiavi della cantina (alle donne era proibito bere vino) potevano portare invece al ripudio, mentre alla donna non era in nessun caso consentito di chiedere il divorzio.
Non meno forte era l'autorità che il padre esercitava sui figli che, anche se maggiorenni o addirittura divenuti magistrati, dovevano – se in casa del padre – obbedirgli e portargli rispetto; e in caso di morte o lontananza del padre la funzione di tutela sui figli veniva affidata allo zio paterno, cioè al fratello più anziano del padre stesso. I figli disobbedienti potevano persino essere venduti come schiavi o venire condannati a morte. Terribile invece era la pena che la legge romana sanciva per i figli che avessero ucciso il padre: i parricidi venivano infatti chiusi dentro un grande sacco di tela e buttati in mare, non essendo ritenuti degni di sepoltura.
È però necessario dire che questi poteri del padre-marito non venivano quasi mai, nonostante la legge lo consentisse, esercitati davvero: erano più che altro una minaccia che pesava su moglie e figli, e, ovviamente, sugli schiavi, anch'essi considerati parte della familia sulla quale il pater aveva autorità. Oltre al ruolo di vero monarca, egli aveva però l'importantissimo compito di ricordare a figli e nipoti le imprese politiche o militari degli antenati illustri, far sì che le loro tombe fossero venerate e le loro statue – gelosamente custodite in casa – oggetto di sacrifici e preghiere, tanto che al culto religioso ufficiale e pubblico, se ne affiancava uno familiare e privato: ciascuno doveva cioè essere orgoglioso di appartenere a una determinata gens, tanto più se i suoi avi si erano distinti per imprese valorose delle quali il pater familias rappresentava la memoria storica.

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