Le tre rivoluzioni industriali

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Testo

La Prima Rivoluzione Industriale
Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX l’Inghilterra subì una serie di trasformazioni nella società e nell’economia tali da prendere il nome di “rivoluzione industriale”. Il termine ‘rivoluzione’ indica quel processo irreversibile e radicale, che ha mutato l’economia e la vita dei cittadini inglesi e successivamente dell’intero continente. Le cause di questo straordinario evento sono da ricercare nella storia e nella vita sociale inglese. La flotta navale della Gran Bretagna era la più forte ed esperta del mediterraneo e riuscì a sostenere l’improvvisa richiesta d’esportazioni. La colonizzazione di zone dell’America settentrionale aveva permesso di importare tabacco e cotone, quest’ultimo utilizzato nell’industria tessile. Gli scambi commerciali internazionali trasformarono la Gran Bretagna nella nazione più ricca d’Europa. La prosperità inglese era espressa anche culturalmente; nello stato in cui regnava la monarchia costituzionale erano straordinariamente presenti libertà e tolleranza. Il processo di rivoluzione fu amplificato dall’applicazione delle scoperte scientifiche nel sistema produttivo. Furono costruite macchine utensili per il settore tessile, le quali consentirono la meccanizzazione della filatura. Fu perfezionata la tecnica per lo sfruttamento del vapore come forza motrice. La nuova tecnologia, che utilizzava il carbone, sostanza di cui il sottosuolo inglese è molto ricco; fu decisiva per lo sviluppo dell’industria siderurgica. Successivamente la macchina a vapore fu utilizzata per costruire i primi mezzi di locomozione. Con la realizzazione di strade ferrate si poterono trasportare merci e uomini. Ben presto il treno sarebbe diventato il mezzo terrestre più veloce a disposizione dell’uomo. Alla costruzione delle ferrovie, seguirono le nuove pavimentazioni dei manti stradali ed il miglioramento dei canali fluviali. Lo scorrere delle acque si rilevò importante per il trasporto di materiali particolarmente pesanti. Nel corso del ’700 le strutture produttive dell’agricoltura inglese ebbero cambiamenti tanto profondi da generare una vera rivoluzione agricola. Il possesso delle terre passò dalle mani di piccoli agricoltori a grossi proprietari terrieri. L’agricoltura era diventata imprenditoriale, il piccolo contadino diventò bracciante alle dipendenze di un fittavolo. Nuove tecniche di coltivazione migliorarono il prodotto agricolo: la rotazione agraria; metodologia che consiste nel coltivare ciclicamente un terreno per non impoverirne la fertilità, le scoperte chimiche consentirono raccolti più abbondanti ed inoltre l’introduzione di macchine per la trebbiatura alleggerì il lavoro dei braccianti. L’aumento del lavoro, della ricchezza e di maggiori risorse alimentari portò ad un imponente aumento demografico ed al cambiamento della società. Molte famiglie lasciarono le campagne per recarsi nelle città dove le imprese artigiane furono sostituite con le fabbriche. Nacquero nuove classi sociali: il proletariato, vale a dire il lavoratore salariato, che si contrappose al borghese proprietario dei mezzi di produzione. In Inghilterra dopo il 1800 i lavoratori impiegati nelle manifatture e nelle fabbriche erano circa 3.000.000 tra i quali molte donne e bambini, spesso costretti a turni di lavoro massacranti. In questo periodo storico nella liberale Gran Bretagna e successivamente in altri stati europei, si costituirono organizzazioni operaie, che s’imposero all’attenzione dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti per migliorare le condizioni sociali della loro categoria. La questione operaia preoccupò anche per l’addensarsi di numerose masse proletarie nelle periferie delle città. In queste zone urbane dilagava l’alcolismo e la prostituzione, aumentavano le nascite illegittime e salivano gli indici di criminalità.
La rivoluzione industriale crebbe più lentamente in Francia dove il tenore di vita della popolazione era più basso che in Gran Bretagna. I maggiori sviluppi si ebbero nei settori tessile, siderurgico, meccanico. L’economia decollò più lentamente a causa della diffusione della piccola e media proprietà contadina, che teneva legati alla terra capitali e forza lavoro. Nell’Italia meridionale l’industrializzazione era sconosciuta; solo il settentrione ebbe un tenue miglioramento nel settore agricolo ed industriale. Le cause di quest’arretratezza sono da attribuire al frazionamento territoriale della penisola, ed ai saccheggi che devastarono la nostra nazione durante le guerre del secolo. L’Italia avrebbe in ogni modo tentato, ispirandosi al modello tedesco, di rientrare nel giro economico internazionale, ma le conseguenze del ritardo si sarebbero fatte sentire per molto tempo.
Conseguenze della
Prima Rivoluzione Industriale
Rivoluzione agricola e industriale, conseguenze demografiche
Le principali cause della rivoluzione agricola furono:
• la fine dei legami feudali e delle proprietà ecclesiastiche, che fecero aumentare il terreno a disposizione
• l’affermazione di nuove tecniche di coltivazione e di rotazione delle colture
• l’introduzione di macchine (soprattutto negli Stati Uniti a causa della scarsità di manodopera)
Tra la rivoluzione agricola e quella industriale non si può stabilire una relazione di causa ed effetto, bensì tra le due vi è una correlazione. Infatti, le città industriali non sarebbero sorte senza l’incremento della produzione agricola; ma allo stesso modo essa per svilupparsi ebbe bisogno di grandi centri d’assorbimento.
Lo sviluppo demografico nella prima metà del 1800 fu ininterrotto, e dovuto non solo all’aumento del tasso di natalità, ma alla diminuzione del tasso di mortalità e al prolungamento della durata media della vita. Il calo della mortalità fu determinato dai progressi della medicina e dell’igiene e dal miglioramento dei sistemi d’allevamento. Il rapporto tra incremento demografico e Rivoluzione Industriale varia secondo i contesti: in Inghilterra ed in Germania l’industrializzazione permise ed implicò l’aumento della popolazione, negli U.S.A., invece, la mancanza di manodopera alimentò l’innovazione tecnologica influendo sull’industrializzazione, mentre in America Latina l’eccessivo aumento della popolazione pone un freno al decollo industriale.
Innovazioni tecniche
Il settore dove vi furono le prime invenzioni fu il settore tessile con l’invenzione della spoletta volante e della macchina filatrice, che diede un impulso immediato alle industrie tessili che cominciarono ad abbandonare il lavoro a domicilio per costruire nuove fabbriche vicino a corsi d’acqua per sfruttarne la sua energia potenziale. L’invenzione più importante fu la macchina a vapore di Watt (1769), realizzata perfezionando un modello di Newcomen. La macchina a vapore fu rivoluzionaria perché permetteva di costruire le fabbriche non vicino alle zone ricche di materie prime, ma vicino alle zone di consumo e vendita del prodotto finito. Così ci fu una richiesta sempre maggiore di carbone, che spinse allo sviluppo l’industria estrattiva e dei trasporti. Infatti, furono costruite le prime ferrovie, su progetto di Stephenson (1830), che collegavano i bacini carboniferi con le città per trasportare il carbone in quantità maggiori e più velocemente. Altre innovazioni furono il telegrafo perfezionato da Morse (1845), il cemento a presa rapida (1824) e la vulcanizzazione del caucciù (1843).
Conseguenze sociali
Le conseguenze sociali della Rivoluzione Industriale sono state inizialmente negative, infatti, le città si sono ingrandite enormemente senza tenere conto ai bisogni della popolazione, sono così sorti degli squallidi quartieri dormitorio, senza acqua corrente né fognatura, in cui le persone (bambini, donne e uomini) vi andavano solo la sera per dormire. Infatti, i turni in fabbrica erano uguali per tutti ed erano in media di quindici ore al giorno, l’operaio entrava in fabbrica la mattina e ne usciva distrutto la sera. molto spesso il pranzo e la cena avvenivano in fabbrica, mancando il tempo per tornare a casa. Le condizioni degli operai hanno cominciato a migliorare grazie all’intervento dei sindacati e alla politica dei lavoratori stessi. Tuttavia questo precorso non fu rapido né semplice e in alcuni casi la reazione alle novità assunse forme violente e vandaliche.
Il sistema capitalistico e il ruolo dello stato
Il capitalismo è un sistema economico sviluppatosi assieme alla Rivoluzione Industriale e che si basa su tre elementi:
• libertà di produzione e di scambio, che ha come scopo il profitto dell’imprenditore, per ottenere questa libertà deve intervenire lo stato per modificare le leggi precedenti riguardo al mercato, ai dazi e che limiti i diritti reclamati dagli operai, ma che non intervenga sui prezzi.
• proprietà privata dei mezzi di produzione
• divisione tra capitale e lavoro; il proprietario dei mezzi di produzione non partecipa direttamente alla produzione dei beni, che è affidata agli operai, ma è quello che se gli affari vanno bene ne trae maggiori profitti.
I grandi profitti del lavoro in fabbrica sono dovuti alla divisione del lavoro, che permette all’operaio di imparare rapidamente la propria parte di lavoro e di svolgerla rapidamente senza perdite di tempo.
Il termine capitalismo deriva dai capitali che sono investiti, però bisogna ricordare che inizialmente i capitali investiti non furono molti, perché le macchine e le fabbriche erano semplici, ma poi con il progresso sono stati sempre maggiori a causa dell’aumento di complessità dei macchinari e di tutto l’apparato necessario per mantenerli.

Le teorie economiche e sociali
Dalla Rivoluzione industriale sono derivate due teorie economiche: l’utilitarismo e il liberismo. L’utilitarismo sta alla base del nostro sistema economico, infatti, il capitalista investe i suoi capitali e cerca di frali fruttare al massimo per il proprio interesse e questo porta anche un’utilità per lo stato. Secondo A. Smith (1723-1790), l’economia è il terreno adatto alla conciliazione tra egoismo individuale e pubblica utilità, in questo settore gli individui perseguendo al loro utile contribuiscono al vantaggio generale. Il liberismo come dottrina economica è conseguenza diretta del capitalismo: perché se la ricchezza è data dal capitale, dal suo essere investito, dal suo prodursi, ne deriva che il presupposto al progressivo miglioramento economico è la libertà economica. Le caratteristiche del liberismo sono due:
• l’indipendenza dell’economia da privilegi ed interventi dello stato
• la relazione diretta tra l’interesse del singolo e quello dello stato.
Lo stato deve solo fare da garante, da giudice, il mercato si autoregola, il costo del salario e delle merci vengono stabiliti dalla libera contrattazione.
Partendo da queste due teorie D. Ricardo (1772-1823) un esperto in economia, e Th. Maltus (1776-1834) un pastore anglicano, ne hanno sviluppato una loro.
Con Ricardo l’ottimismo di Smith muta e vengono messi in luce i veri problemi dell’industrializzazione:
• il capitale è il lavoro accumulato
• il valore del lavoro è dato dal salario, i soldi indispensabili al mantenimento della famiglia del lavoratore, che tendono al ribasso fino a livelli minimi di sussistenza
• il profitto tende a diminuire con l’aumentare dei salari
• la disoccupazione tende ad aumentare con l’aumento del numero delle macchine
La teoria di Maltus è marcatamente negativa: la produzione agricola aumenta in progressione aritmetica (1,2,3,4…), mentre l’incremento demografico segue una proporzione geometrica (1,2,4,8…), quindi ne risulta che all’incremento della popolazione non corrisponde un incremento analogo della produzione agricola con il conseguente aumento delle persone sottoalimentate. Quindi bisogna regolare l’incremento demografico con l’andamento della produzione, evitando forme di carità intervenendo in modo selettivo sulla popolazione, permettendo la riproduzione solo a quegli individui che sono realmente in grado di mantenere i propri figli.
Conclusione
La Rivoluzione Industriale è stata un evento molto importante non solo per il XVIII secolo, ma anche per il nostro, perché da allora si sono formati gli equilibri che regolano il mondo moderno. Infatti, i problemi che ci sono oggi riguardo alcune categorie di lavoratori sono sorte già da allora (cfr. teoria di Ricardo), e in duecento anni non si è arrivati ad una soluzione. La teoria di Maltus, che non c’è una produzione di cibo sufficiente per tutti, si è rivelata vera e poco o nulla è stato fatto per arginare questo problema. Nel frattempo il progresso è andato avanti senza aspettare nessuno, e quelli che allora erano in testa, lo sono anche oggi; mentre gli stati ultimi, oggi sono più ultimi, perché ormai il divario che si è creato tra le due società è troppo grande.
INGHILTERRA
fine XVIII – inizi XIX sec.
AL PROCESSO DI INDUSTRIALIZAZZIONE
HANNO CONTRIBUITO
MIGLIORAMENTO INCREMENTO
AGRICOLTURA ORGANIZAZZIONE POPOLAZIONE
POLITICA
RIVOLUZIONE
R CONCENTRAZIONE DEMOGRAFICA
DELLA PROPRIETA’ STABILITA’ POLITICA
PRIVATA (recinzioni).
RAFFORZAMENTO SVILUPPO DEL
INTRODUZIONE DEL PARLAMENTO COMMERCIO
TECNICHE NUOVE
CIVILTA’ APERTA
ALLE
INNOVAZIONI
RIVOLUZIONE
AGRICOLA CONTROLLO
DEL COMMERCIO
INTERNAZIONALE
SOPPERIMENTO DEL MERCATO
FABBISOGNO VENDITA
ALIMENTARE MANIFATTURE
TESSILI
VIVACE MERCATO MIGLIORAMENTO VIE
INTERNO DI COMUNICAZIONE
E CANALI
NAVIGABILI
NASCITA SISTEMA DI FABBRICA
TRASFORMAZIONE
DEL LAVORATORE
IN OPERAIO
DIVISIONE CONDIZIONI
DEL LAVORO DI LAVORO
DURE
(IMPIEGO ANCHE DI DONNE E BAMBINI)
REAZIONE DI OPPOSIZIONE ALLA TRASFORMAZIONE
DI LAVORANTI A DOMICILIO E ARTIGIANI
LUDDISMO
(Ned Ludd)
INIZIO ‘800 IL LUDDISMO
LASCIÒ POSTO A
NUOVE ORGANIZAZZIONI
( Società di mutuo soccorso e
leghe di categoria)
Riconoscimento dei diritti politici e
miglioramento condizione di lavoro
TRASFORMAZIONI ECONOMICHE E SOCIALI
PORTARONO A
RIFLESSIONE TEORICA SU POLITICA E RIFORMA SOCIALE
INIZIO ‘800 RADICALISMO INGLESE
UTILITARISMO
(L’UTILE COME PARAMETRO PER ATTIVITÀ SINGOLE O COLLETTIVE)
PRINCIPALE ESPONENTE
JEREMY BENTHAM (1748 - 1832)
(“ L’UTILITÀ È ALLA BASE DELL’AZIONE MORALE…”)
UTILE COMUNE
(MASSIMA FELICITÀ DEL MAGGIOR NUMERO DI PERSONE)
JEREMY BENTHAM
CONTRASTATO DA

ADAM SMITH DAVID RICARDO
“L’interesse generale Analizzò
non scaturisce • la struttura
automaticamente e il funzionamento
da buoni interessi della produzione
dei singoli” avviata dalla riv.
industriale
• constatazione di squilibri • la distribuzione
e costi sociali fra le varie classi
del sistema economico sociali e rispettivi
ricavi.
• ricerca sulla ricchezza • proprietari rendita
delle nazioni capitalisti
• industriali profitto
• lavoratori
salariati salari

TRA I GRUPPI SOCIALI SI DISTRIBUISCE
LA RICCHEZZA GLOBALE
CONFLITTUALITA’ ECONOMICA
(Secondo Ricardo, infatti, i profitti dovevano essere
più o meno equi per non intralciare lo sviluppo
economico generale)
Già alla fine del ‘700 quando Ricardo scriveva,
erano visibili i cambiamenti del sistema produttivo
circa nel 1830 tale sistema produttivo si
affermò nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti

e portò alla progressiva affermazione del
CAPITALISMO INDUSTRIALE
Aspetti più significativi dei mutamenti avvenuti a partire dalla fine ‘700
SISTEMA DI
FABBRICA
MACCHINE
INDUSTRIA E
SERVIZI
AGRICOLTURA
NUOVI STRATI
SOCIALI
( classe operaia
e ceti medi )
RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
RIVOLUZIONE FRANCESE
ETÀ CONTEMPORANEA
( PROGRESSO, MUTAMENTI, RICCHEZZA, BENESSERE )
La Seconda Rivoluzione Industriale
Nella seconda metà del XIX sec. in tutta Europa avviene un profondo mutamento sociale ed economico, grazie a due fattori fondamentali: le scoperte scientifiche e l’avvento del Capitalismo. Infatti, dopo la prima Rivoluzione Industriale ci fu un grande avanzamento tecnologico dovuto in larga parte al “sistema industriale americano”, che ricorreva alle catene di montaggio ed ai supporti elettromeccanici nelle fasi lavorative della costruzione e dell’assemblaggio. Questo causò una modificazione del ruolo degli operai e quindi un mutamento sociale. Oltre a ciò ci fu l’incremento della produzione aiutato dalla politica economica capitalista.
Lo sviluppo politico ed economico fu favorito dai miglioramenti scientifici e tecnologici che portarono ad un capovolgimento della visione del mondo. Ad esempio la macchina a vapore di Watt e i motori a scoppio ed elettrico di nuova concezione favorirono sia i trasporti che il lavoro in fabbrica. Queste scoperte derivarono dagli studi teorici eseguiti in questo periodo; alcuni gruppi di intellettuali, infatti, indicarono nella natura e nelle sensazioni, nel ritorno al passato barbarico e guerriero, nei miti della catastrofe e della rigenerazione, il rifugio e la salvezza dell’umanità minacciata dall’avanzata dell’industrializzazione, dai guasti e dai rischi della lotta sociale e politica, dal grigiore della vita quotidiana. Questi diversi inviti alla “liberazione” rappresentano indicazioni e scelte irrazionali e trovano manifestazioni nei messaggi letterari e artistici di d’Annunzio e Nietzsche, ma anche in autori figurativi come Anton Gaudì o medici come Freud. Anche gli studi fisici furono importanti poiché aumentarono la velocità delle scoperte e delle invenzioni scientifiche.
Sorse la cosiddetta questione sociale, che fu la conseguenza del grande sviluppo industriale del secolo, effetto a sua volta delle invenzioni scientifiche (pila di Volta) e dei progressi delle comunicazioni. Questo sviluppo della grande industria, sostituendo alla bottega dell’artigiano (in cui datore di lavoro e lavoratore coincidono) l’organizzazione della fabbrica (in cui datore di lavoro e lavoratore sono separati), pose il lavoratore, costretto a vendere la sua opera, in una condizione di inferiorità rispetto al datore di lavoro, tanto più che per il principio della libertà di lavoro sancito dalla rivoluzione francese, gli era severamente vietata ogni forma di associazione. Ciò portò, specie nei primi tempi, allo sfruttamento operaio (lunghe giornate di lavoro, salari molto scarsi, lavoro delle donne e dei bambini) suscitando l’odio contro gli industriali e le classi ricche; quindi anche al sorgere di movimenti che combattevano la proprietà privata, come il socialismo (che vuole la socializzazione dei mezzi di produzione mediante graduali riforme) e il comunismo (che vuole la socializzazione dei mezzi di produzione mediante la rivoluzione).
Ci fu anche una larghissima emigrazione di masse da un continente all’altro contemporaneamente all’urbanizzazione e quindi allo spostamento di un gran numero di persone dalle campagne alla città; questo portò conseguenze non solo economiche ma anche sociali e politiche. Importante fu anche lo sviluppo dei trasporti (con l’espansione in tutto il mondo della rete ferroviaria e l’aumento del numero delle navi a vapore) e delle comunicazioni (con la diffusione delle reti telegrafiche) che modificarono il senso delle distanze ed introdussero una nuova dimensione nel commercio internazionale: le frontiere fra i singoli stati sembravano destinate a scomparire, invece in questo periodo più che mai le aree di influenza economica si trovarono al centro dei conflitti.
Infatti, con il fenomeno dell’Imperialismo iniziò una corsa sfrenata all’accaparramento delle terre africane e asiatiche, ancora lontane dalla civiltà europea. Il pianeta fu distrutto ancora una volta da una serie di conflitti ed imprese militari, nei luoghi in cui confinavano le aree in cui i paesi industrializzati avevano diviso il globo. Questo periodo preparò l’entrata in scena di quello che sarebbe stato il Terzo Mondo, già da allora sottomesso alle grandi potenze economiche come l’Europa. In un’età di crisi economica (la “grande depressione”) la dinamica del capitalismo monopolista tentò di arrestare il calo dei profitti con l’affannosa ricerca di nuovi campi d’investimento.
L’industria pesante prevalse su quella leggera e si diffusero nuovi materiali grazie alle scoperte che riducevano tempi e costi della produzione di materiali ferrosi e dell’elettricità. Lo sviluppo dell’industria pesante richiese l’investimento di grandi capitali e portò al concentrarsi della produzione in gruppi ristretti di imprenditori. Crebbe il numero delle grandi imprese che emarginarono molte aziende minori, ormai inadeguate rispetto alle esigenze del mercato. I gruppi di capitalisti riuscivano a porre sotto il proprio controllo una notevole parte della produzione nei settori di rispettiva competenza. I legami di scambio tra le banche ed i capitalisti divennero sempre più stretti, la fusione del capitale bancario con quello industriale creò il capitale finanziario. A differenza del vecchio capitalismo del primo ottocento che esportava soprattutto merci, il nuovo capitalismo finanziario esporta capitali ed investe nelle aree sottosviluppate dell’intero pianeta, là dove i capitali sono scarsi e abbonda invece la manodopera che può essere retribuita con bassi salari.
L’espansione del capitalismo e l’ingigantirsi della produzione determinarono la crescita impetuosa del proletariato industriale, che finì per trovare una propria adeguata espressione politica nei partiti socialisti. La prima fase dell’organizzazione del movimento operaio iniziò, in quasi tutti i paesi europei dopo il 1860 ed ebbe caratteristiche proprie a seconda delle diverse esperienze storiche nazionali. Comunque le basi comuni di questa lotta furono l’abolizione della proprietà privata, trasferimento alla collettività della gestione del capitale industriale. Oltre alla formazione del partito socialista nel 1893 va ricordato il Manifesto del Partito Comunista del 1848 di Marx, il quale cerca di spingere alla rivoluzione il popolo. Il crescente sviluppo organizzativo dei movimenti operai nei vari paesi d’Europa fece sentire la necessità di dar vita ad un organismo internazionale capace di coordinarne l’azione e di definire un comune linea politica. Nacque così a Londra, per opera di Marx, che ne stese la carta costitutiva, l’Associazione internazionale dei Lavoratori, ovvero la Prima Internazionale, che ricercava l’emancipazione dei lavoratori attraverso la loro stessa opera, considerando questo l’unico modo per eliminare in futuro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’avversario più irriducibile di questa visione politica fu il Russo Bakunin, che negava l’utilità dei partiti politici e contestava la validità delle parziali conquiste economiche. Puntava, infatti, alla distruzione totale di tutte le istituzioni dell’ineguaglianza, rivolgendosi al sottoproletariato miserabile. I contrasti fra gli anarchici di Bakunin e i socialisti, quando nel congresso dell’Aia del 1872 i primi furono espulsi, portarono alla fine della Prima Internazionale.
La dissoluzione della Prima Internazionale non segnò la scomparsa dei vari partiti socialisti ed operai che continuarono a sviluppare in modo autonomo la loro attività. Ciò rese possibile, nel 1889, la resurrezione a Parigi dell’Internazionale, questa volta guidata dai socialdemocratici tedeschi, i quali esclusero nuovamente gli anarchici. Due anime, in sostanza, quella rivoluzionaria e quella riformistica, convivevano nell’ambito dei singoli partiti socialisti. In realtà sulla linea rivoluzionaria prese il sopravvento quella legalitaria e si cominciò a ritenere possibile la collaborazione con le correnti progressiste della borghesia, cosa impensabile fino ad allora.
I governi combatterono la Seconda Internazionale come avevano combattuto la prima, ma non poterono rifiutarsi di promuovere almeno alcuni dei provvedimenti richiesti dai socialisti: la riduzione della giornata lavorativa ad otto ore e l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Sembrava quindi che in qualche modo, da una parte e dall’altra si accorciassero le distanze, per cui sembrò che ci si stesse avviando sulla via della collaborazione più che su quella dello scontro. Il 1° Marzo 1913, quando le nubi della guerra si facevano minacciose, il francese Jean Jaurès, che cercava di spingere i socialisti a combattere contro i “fratelli” per il senso patriottico, fu ucciso da un fanatico nazionalista. Ma né i compagni francesi né quelli tedeschi si mossero per vendicarlo innalzando la bandiera dell’internazionalismo pacifista; anzi si disposero a combattere contro i “fratelli” per gli interessi di stato, nonostante la lezione socialista ispirata all’unità degli oppressi. La Seconda Internazionale crollò nel fragore della guerra.
La Seconda Rivoluzione Industriale
Differenze sostanziali con la 1°:
1. Carattere generale (interessa tutta l'Europa e non solo una nazione).
2. Danneggiamento nei confronti dell'agricoltura (produzioni abbondanti per via dei nuovi territori disponibili e conseguente calo dei prezzi).
3. Innovazioni tecnologiche (petrolio, elettricità, acciaio, telefono, motore a scoppio, telegrafo senza fili, dinamite, ricerca chimica, linee ferroviarie transcontinentali).
4. Capitalismo finanziario (nascita di nuovi grandi istituti di credito per rendere disponibili maggiori capitali). Si creano nuovi contatti tra società:
• cartelle: accordi tra imprese che producono le stesse merci per fissare i prezzi;
• trust: concentrazione di aziende legate ad un identico ciclo di produzione.
5. Protezionismo invece di liberoscambismo (gli imprenditori nazionali volevano essere tutelati con dazi verso l'esterno).
La Civiltà Industriale
L’industria si diffonde e diventa il settore trainante dell’economia
Il fenomeno più importante della seconda metà dell’Ottocento, denominato “il secolo dell’industrializzazione", fu appunto il diffondersi dell’economia industriale. L’Inghilterra, che alla fine del Settecento aveva dato inizio alla rivoluzione industriale, era l’unico Paese in cui l’industria si era sviluppata sensibilmente, mentre in tutti gli altri Stati europei prevaleva un’economia di tipo agricolo. I primi a seguire l’Inghilterra nell’industrializzazione furono la Francia e il Belgio nei primi decenni dell’Ottocento; poi, attorno alla metà del secolo, emersero anche Germania, Olanda, Svezia e, fuori dall’Europa, Stati Uniti e Giappone. L’Austria, la Russia e l’Italia invece dovettero aspettare gli ultimi decenni dell’Ottocento per veder sorgere le industrie.
L’industrializzazione portò un grande cambiamento nella società e nell’economia dei Paesi che toccò: l’industria divenne il settore trainante dell’economia che, da agricola che era, si trasformò in economia industriale, e venne introdotto un nuovo metodo per stabilire la ricchezza degli Stati, a seconda delle tonnellate d’acciaio prodotte e dell’energia (cavalli vapore) impiegata nelle fabbriche. I Paesi così misurati venivano poi suddivisi in Paesi ricchi (grado di industrializzazione alto) e Paesi poveri (produzione industriale bassa o nulla).
L’industria si trasforma e si sviluppano nuovi settori
Nella seconda metà dell’Ottocento l’industria non solo si diffuse, ma si trasformò; per questo gli storici indicano questo fenomeno come seconda rivoluzione industriale, per distinguerla da quella avvenuta in Inghilterra alla fine del Settecento.
Se l’industria tessile era stata il motore della prima rivoluzione, nella seconda presero questo ruolo due nuovi settori: la siderurgia e la chimica. Questo fu un fatto importante in quanto: l’industria tessile produce beni di consumo, merci cioè che sono destinate ad un consumo rapido e che poi vengono sostituite; l’industria siderurgica e chimica invece producono merci (come l’acciaio, i fertilizzanti, la soda) che non vengono consumate direttamente, ma che vengono trasformate prima di essere immesse sul mercato.
Alcuni prodotti derivati dall’acciaio: macchine industriali, binari, scafi navali e impalcature per grattacieli. Prodotti chimici: coloranti artificiali, materie plastiche (tra cui, importante, la celluloide, che permise la nascita del cinema), fibre artificiali, concimi, dinamite e soda, impiegata in grandi quantità nell’industria chimica, del vetro e nei detersivi.
Petrolio ed energia elettrica favoriscono l’industrializzazione
Alla fine dell’Ottocento si svilupparono anche nuove forme di energia; al carbone si affiancarono, infatti, l’energia elettrica e il petrolio. Quest’ultimo in particolare, che sarebbe poi diventato la più importante forma di energia nel nostro secolo, cominciò ad avere una grande importanza con l’invenzione del motore a scoppio (fine Ottocento). Le invenzioni che invece permisero di utilizzare, trasportare ed accumulare l’energia elettrica furono la turbina, la dinamo e il generatore. Le centrali elettriche erano alimentate col carbone o con l’energia idraulica; in questo modo, anche Paesi poveri di risorse minerarie ma ricchi di acqua come l’Italia, poterono prendere parte alla rivoluzione industriale.
I trasporti e le comunicazioni favoriscono lo sviluppo industriale
Nella seconda metà dell’Ottocento si espanse la rete stradale e vennero resi navigabili numerosi fiumi e canali. Le nuove locomotive, inventate verso il 1850 per sostituire il primo modello a vapore di Stephenson, viaggiavano a 50 chilometri orari, che divennero poi 80 alla fine del secolo. La rete ferroviaria più sviluppata era quella britannica, ma, dopo la metà del secolo, le ferrovie si diffusero rapidamente anche in Germania, in Francia e negli Stati Uniti.
Lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni fu molto importante per l’industria, per due motivi: in primo luogo perché permetteva alle fabbriche di commerciare i loro prodotti in breve tempo e a grandi distanze e analogamente di ricevere le materie prime rapidamente; in secondo luogo perché per costruire le ferrovie erano necessari l’acciaio e la ghisa, che venivano richiesti in grandi quantità alle industrie siderurgiche, le quali incrementavano la produzione e, di conseguenza, i guadagni. A lo sviluppo delle comunicazioni non interessò solamente le ferrovie; dopo il 1870 i battelli a vapore sostituirono le navi a vela, gli scafi in metallo presero il posto di quelli in legno e l’elica subentrò alle ruote a pale. Vennero costruiti dei canali navigabili che ridussero le distanze tra i continenti: il canale di Suez, inaugurato nel 1869, permise di andare dal Mediterraneo al Mar Rosso e all’oceano Indiano senza dover circumnavigare l’Africa, mentre il canale di Panama, aperto nel 1913, collegò l’oceano Atlantico all’oceano Pacifico.
Nella seconda metà dell’Ottocento altre due invenzioni contribuirono a far diventare il mondo sempre più piccolo: il telegrafo (1851) e il telefono (1876), con cui si poteva comunicare da una parte all’altra del globo dapprima con impulsi elettrici, poi con la voce. Tutte le invenzioni sopracitate non rivoluzionarono solo il mondo economico e il mondo degli affari, ma anche la vita quotidiana di ogni persona.
Il mercato e il libero scambio
L’espansione dei trasporti e delle comunicazioni ebbe anche altre conseguenze, ad esempio l’estensione e l’unificazione del mercato, ovvero l’insieme della domanda e dell’offerta delle merci. Il mercato si ampliò enormemente grazie ai nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, che permisero a ogni città, paese o villaggio di partecipare intensamente al commercio mondiale e contribuirono alla creazione di un mercato globale.
Tra il 1850 e il 1870 la quantità di merci commerciate nel mondo si triplicò, espansione dovuta anche al fatto che in questo periodo prevalsero le idee economiche del liberalismo.
I liberali sostenevano che il commercio mondiale dovesse diventare totalmente libero e che le merci, quando attraversavano le frontiere degli Stati, non dovessero essere soggette a tasse doganali (dazi), così da arricchire le nazioni e migliorare la vita di tutti.
I dazi erano delle tasse che gli Stati applicavano sulle merci straniere per aumentarne il prezzo e favorire quindi i prodotti nazionali. I liberali invece pensavano che la libera concorrenza, conseguenza dell’abolizione dei dazi, avrebbe migliorato il commercio, in quanto ogni produttore avrebbe dovuto immettere sul mercato merci di eguale qualità di quelle della concorrenza, ma a minor prezzo; per far questo avrebbe dovuto sperimentare mezzi di produzione nuovi e tecnologie più avanzate e meno costose, migliorando così la produzione e il commercio mondiale.
Secondo i liberisti, infine, lo Stato non deve intervenire nella vita economica, se non costruendo strutture che possano favorire il commercio. I prezzi dei prodotti devono essere dettati interamente dalla domanda e dall’offerta.
Gli industriali furono favorevoli al liberalismo, in particolare quelli inglesi, tedeschi e dei Paesi economicamente e tecnologicamente più avanzati, perché potevano vendere le loro merci, prodotte con tecnologie più avanzate e meno costose, sui mercati stranieri a minor prezzo di quelle locali, battendone così la concorrenza.
A mano a mano che si sviluppavano anche le altre nazioni europee seguirono l’esempio inglese e abolirono i dazi doganali; per questo motivo il periodo che va dal 1850 al 1870 è detto “l’età d’oro del libero scambio”.
1873 - 1896: la “grande depressione” dell’economia mondiale
Da come ne ho parlato fino ad ora, l’economia ottocentesca sembrerebbe quasi perfetta, ma ciò non è vero; nell’Ottocento, infatti, più volte si ebbero crisi economiche.
Per quanto riguarda l’agricoltura, le crisi erano causate da eventi naturali come siccità o, al contrario, piogge troppo abbondanti, neve o grandine. Quando si verificavano questi fenomeni, i raccolti di frumento, granturco, patate, che costituivano la principale alimentazione della maggior parte della popolazione, andavano distrutti e intere regioni rimanevano senza cibo. Una crisi agricola di questo tipo colpì l’Europa nel 1846-47: a causa del cattivo raccolto di grano e di patate, centinaia di migliaia di persone morirono, soprattutto nelle regioni agricole più povere come l’Irlanda; altrettante dovettero emigrare all’estero in cerca di un posto in cui poter sopravvivere.
L’industria fu soggetta fin dall’inizio della rivoluzione industriale, periodicamente, a frequenti crisi economiche. L’alternarsi di periodi di sviluppo ad altri di crisi era ritmico: prima si aveva un lungo periodo di rapido sviluppo, con aumento dei guadagni degli industriali e, seppur in forma minore, degli operai; poi sopraggiungeva una breve ma disastrosa crisi che portava alla chiusura di numerose fabbriche e, di conseguenza, alla disoccupazione e alla miseria.
La più grande crisi economica dell’Ottocento fu quella che durò, in varie fasi, dal 1873 al 1896 e che colpì sia l’economia europea sia quella statunitense. La crisi prese inizio dal settore agricolo: a causa dello sviluppo dei trasporti l’Europa venne invasa dal grano americano, prodotto a minor costo e quindi più economico di quello europeo.
Per battere la concorrenza statunitense allora i produttori europei diminuirono il prezzo del loro grano, diminuendo anche la percentuale del guadagno che andava agli agricoltori. Nello stesso periodo le fabbriche di tutto il mondo (ora anche quelle statunitensi e di altri Paesi neo-sviluppati) immisero sul mercato grandi quantità di merci, molto superiori alla domanda. In questo modo una parte di quelle merci rimase invenduta e gli industriali, come avevano già fatto gli agricoltori, abbassarono i prezzi per far sì che tra le merci vendute ci fossero le loro. Molti stabilimenti, di tutti i settori, fallirono, gettando sul lastrico migliaia di operai. A quel punto lo Stato, che con il liberalismo era stato estromesso dalle faccende economiche, intervenne pesantemente nell’economia (fatta eccezione che in Inghilterra). Vennero attuate politiche protezionistiche, vennero cioè aumentati in maniera esorbitante i dazi doganali per far diventare più care le merci estere e favorire quelle interne. Inoltre gli Stati europei (sempre Inghilterra esclusa) appoggiarono le industrie con commesse e appalti. Le commesse sono degli acquisti che lo Stato opera presso privati di prodotti che gli sono utili (navi, armi...); gli appalti invece sono concessioni che lo Stato dà alle industrie per la costruzione e la gestione di servizi e opere pubbliche (ferrovie, porti...).
Il capitalismo cambia: dalla libera concorrenza ai monopoli
La crisi del 1873 provocò il fallimento di molte industrie. Furono soprattutto le piccole industrie a chiudere, in quanto non disponevano di grandi capitali e quindi non erano in grado di rinnovarsi e di modernizzare i sistemi di produzione. Le industrie maggiori invece diventavano sempre più potenti ed erano avvantaggiate dalla diminuzione della concorrenza. Si verificò un fenomeno di concentrazione industriale (in inglese trust): molte aziende si fusero insieme e crearono grosse compagnie dirette da un’unica direzione. In questo modo si riusciva ad eludere, facendola diminuire, la concorrenza e ad ottenere la supremazia su alcuni settori. Negli ultimi venti anni dell’Ottocento quindi il capitalismo cambiò profondamente: dalla libera concorrenza si passò al monopolio di alcune aziende in dati settori. Più frequente del monopolio è però l’oligopolio (dal greco oligos = poco), in cui il mercato è controllato da poche industrie.
I trust decidevano liberamente i prezzi delle merci che esponevano, senza dover più tenere conto della concorrenza, ma solo regolandosi in base ai costi di produzione e alla convenienza. Quanto più le industrie si sviluppavano e si concentravano, tanto più avevano bisogno di denaro per i loro investimenti. Soprattutto nel settore meccanico e chimico, in cui le innovazioni si susseguivano senza sosta, le imprese necessitavano di capitali per rinnovarsi.
All’inizio della rivoluzione industriale le industrie nascevano coi finanziamenti dei proprietari; poi però, con lo sviluppo dell’industria, furono necessari i finanziamenti delle banche, le uniche che disponevano del denaro necessario per aprire un’industria. Per questo motivo le banche divennero sempre più importanti, fino a diventare comproprietarie delle fabbriche; questa dipendenza si accentuò con la crisi di fine secolo, in quanto l’unico mezzo che avevano le industrie per ottenere dei capitali era chiederli alle banche. In molti casi le industrie e le banche erano di proprietà della stessa famiglia, quella che aveva costruito la fabbrica o fondato la banca. Altre volte invece la proprietà era frazionata tra molti proprietari: si parla allora di società per azioni, una firma di società che cominciò a diffondersi nella seconda metà dell’Ottocento. Nella società per azioni (S.P.A.), ogni proprietario possiede un certo numero di azioni, in proporzione al denaro versato, e l’impresa è diretta da chi ne possiede la maggior parte. I guadagni dell’industria vengono divisi tra gli azionisti, proporzionalmente al numero di azioni che possiedono. Le azioni vengono vendute e comprate nelle borse, che nella seconda metà del secolo divennero i centri della vita economica delle nazioni. Molte banche comprarono le azioni di varie industrie e al tempo stesso le industrie ne compravano alcune delle banche. Industrie e banche, capitale industriale e capitale finanziario, si trovarono dunque ad essere sempre più collegati tra loro, sempre più dipendenti gli uni dagli altri.
La situazione Italiana
Colonialismo
Cambiano le motivazioni: prima si colonizzava per avere materie prime e per far emigrare e lavorare la popolazione in eccesso; ora invece, oltre a questi motivi si aggiungono la creazione di nuovi mercati ove collocare le merci nazionali, la tutela degli investimenti con gli eserciti e l'ideologia di potenza. Prima della nuova fase del colonialismo si intrapresero missioni esplorative in Africa, finanziate dai governi interessati ai territori (Livingstone, Stanley individuarono la sorgenti del Nilo, ecc…).
Ben presto agli scopi scientifici e umanitari si contrapposero quelli politici e militari.
• Gran Bretagna: si impossessa dell'Egitto, della Somalia e della Nigeria. Tenta, ma non riesce, di occupare il Sudan.
• Francia: occupa Tunisia (per accordi di Berlino), gran parte del Congo, Madagascar.
• Germania: conquista il Camerun, il Togo e il sud-ovest dell'Africa.
Nel 1885 Bismark convoca una conferenza sulla situazione africana e in particolare della parte restante del Congo. Il Congo fu dichiarato stato libero, ma la sovranità apparteneva a Leopoldo II del Belgio. Tra il 1894 e il 1895 si ebbe una ripresa del colonialismo di Francia e Inghilterra. Le loro mire espansionistiche finirono però per scontrarsi in Sudan, a Feshoda. Entrambe preferirono non combattere, per non avvantaggiare la Germania; i francesi si ritirarono ma nacque tra le due potenze un rapporto di distensione.
In Asia la situazione fu la seguente:
• Francia: occupa l'Indocina.
• Inghilterra: la Birmania, la Persia e il Turkistan, sui quali c'era l'attenzione della Russia.
Rimaneva insoluto il problema della Cina, nazione debole ma ancora autonoma.
Situazione della chiesa
La Chiesa muta i suoi atteggiamenti verso lo stato. Rinnega il comunismo e la lotta di classe ma condanna i capitalisti che accumulano ricchezze ai danni dei poveri operai sfruttandoli (Leone XIII, Rerum Novarum).
I cattolici cominciano a riunirsi e costituiscono associazioni.
Sinistra al potere
Caratteristica della destra fu il senso dello stato, della sinistra l'impegno democratico. La destra aveva svolto ormai i suoi compiti storici con l'unificazione d'Italia e non era in grado di risolvere i nuovi problemi. Nelle elezioni del 1874 la sinistra ebbe più voti; il suo programma era: diminuzione delle imposte, perequazione fondiaria, decentramento. In Italia c'erano due sinistre:
• meridionale, formata da piccola e media borghesia artigianale e commerciale, proprietari terrieri, ceti professionali che si vedevano svantaggiati dall'unità;
• settentrionale, formata da media borghesia.
Depretis (1875) propone il programma Stradella che vede tra l'altro:
1. elettività dei sindaci;
2. istruzione elementare obbligatoria;
3. allargamento del suffragio.
Col ministero Depretis sembrava si stesse formando un sistema di governo all'inglese, bipartitico, che alternava i partiti al governo.
Nel 1876 però si sciolse la destra a causa della fragilità della borghesia, dovuta alla mancanza di contrapposizione tra interessi diversi in una società industriale in espansione, ma, soprattutto, mancanza di partecipazione alla vita politica dei cattolici.
Al bipartitismo, quindi, si sostituì il trasformismo, cioè l'aggregarsi al centro di larghissima parte della classe politica. Agli estremi dei trasformisti si delineò una nuova destra (Di Rudinì) e un'estrema sinistra, che aveva tra le sue richieste il suffragio universale, la tutela dei diritti dei lavoratori, la libertà di associazione e la repubblica.
Riforme della sinistra
• Scuola elementare obbligatoria (rif. Coppino);
• soppressione tassa sul macinato;
• abolizione corso forzoso;
• riforma elettorale: votavano gli uomini con più di 21 anni con il biennio elementare o paganti almeno un'imposta annua di 19.80 lire;
• prime riforme sul lavoro: infortuni, sciopero, lavoro minorile e orari.
Nel frattempo gli industriali italiani pressavano il governo ad attuare provvedimenti protezionistici al fine di proteggere il già debole mercato interno dalle importazioni straniere. Se da un lato nascevano sempre più nuove industrie siderurgiche e industrie elettriche e cantieri navali (Edison e Navigazione Generale Italiana) dall'altro le strutture di credito restavano arretrate. Lo stato così doveva sostenere lo sviluppo industriale, tassando i cittadini. Le maggiori entrate venivano dall'agricoltura e quindi dal sud, ma finivano al nord. Erano contro il protezionismo:
• proprietari terrieri che esportavano merci (agrumi, olio, vino);
• industria tessile e meccanica (che importava materiali meno costosi e migliori).
Ma la crisi agraria dovuta al ribasso dei prezzi a causa dei prodotti importati, rese necessario il protezionismo, iniziando una guerra di dazi con la Francia.
Politica estera della sinistra
I rapporti con la Francia erano incrinati. La politica estera doveva essere estranea alla colonizzazione per il principio di nazionalità risorgimentale. La Francia invase la Tunisia, che subiva da sempre l'influenza italiana, e ciò ruppe definitivamente i rapporti tra le due potenze. L'Italia, ancora giovane non poteva rimanere isolate diplomaticamente, così il governo firmò la Triplice Alleanza con Austria e Germania, che impegnava le potenze a difendersi solo in territorio europeo.
Fattori positivi del patto:
• rottura isolamento diplomatico italiano;
• impegno dell'Austria a compensi territoriali in caso di sua espansione balcanica.
Fattori negativi del patto:
• l'alleanza con l'Austria sembrava sancisse una definitiva rinuncia a Trento, Trieste e all'Istria;
• si temeva il rafforzarsi di tendenze anti-parlamentari.
Sotto la pressione inglese, nel 1882 l'Italia acquista la baia di Assab e comincia la sua avventura coloniale (in contrapposizione ai principi risorgimentali), ma l’impreparazione dell'Italia, per mancanza di capitale e industrie non portò ai risultati desiderati, anche se i latifondisti meridionali vedevano finalmente risolto il problema delle terre ai contadini. Nel 1887 l'Italia tenta di conquistare l'Eritrea, ma a Dogali furono trucidati 500 soldati italiani.
Crispi: Riforma interna e colonialismo
Punti cardine della riforma di Crispi:
• nuovo codice penale;
• abolizione della pena di morte.
Modello da imitare per Crispi è Bismark: egli ai valori risorgimentali aggiunge il conservatorismo e il nazionalismo.
Vara la nuova legge comunale e provinciale, che comprendeva l'elettività del sindaco. Promulga il nuovo codice penale, con l'abolizione della pena di morte, garanzie per i lavoratori (libertà di associazione, pensiero, sciopero).
Inasprisce i rapporti con la Chiesa e il conflitto doganale con la Francia. Per tentare di risolvere i problemi relativi alla povertà nel mezzogiorno, riprende l'attività coloniale e firma il trattato di Uccialli con Menelik, in base al quale era riconosciuto il controllo italiano in Eritrea ed un ambiguo protettorato sull'Etiopia. A causa della crisi economica cade Crispi e sale Giolitti (1892). A sud intanto, prendono corpo i fasci dei lavoratori, che chiedevano un contratto di lavoro e una soluzione riguardante la questione dello zolfo siciliano, invenduto appannaggio di quello americano. Giolitti non interviene, neanche quando la situazione degenera in guerriglia. A contribuire al suo declino interviene lo scandalo della Banca Romana, anche se in realtà anche Crispi ne fu colpevole. Travolto dallo scandalo, Giolitti si dimette. Nasceva intanto la Banca d'Italia. Crispi tornò al governo con fare autoritario: represse nel sangue rivolte in Sicilia, tolse il diritto di voto a 800.000 persone attirando attorno a sé perplessità sul suo operato. L'ambiguità del trattato con Menelik fece scoppiare una guerra che si concluse con la disfatta italiana ad Adua, nel 1896, e con le dimissioni di Crispi.
La crisi di fine secolo
Durante il governo di Di Rudinì destò scalpore l'articolo di Sonnino "Torniamo allo statuto", che diceva di dar meno importanza al parlamento, e che il governo era responsabile solo nei riguardi del sovrano, non del parlamento.
Un altro problema era la necessità dei cattolici a partecipare alla vita politica italiana.
Tra il 1897-1898 scoppiarono a Milano rivolte per il prezzo del pane: Di Rudinì mando il generale Bava Beccaris, che le represse nel sangue e che fu addirittura insignito di medaglia. Fu scandalo e Di Rudinì si dimise.
Salì così al potere Pelloux che abolisce le leggi di Crispi (libertà di stampa, associazione, pensiero). Ma in parlamento le leggi liberticide non passano grazie all'ostruzionismo dell'opposizione, la quale si prende il consenso dell'opinione pubblica. Nelle elezioni del 1900 vista la sconfitta Pelloux si dimette e sale Saracco.
Nel frattempo viene ucciso il re Umberto I dall'anarchico Bresci che voleva vendicare i morti di Milano. Sale al trono Vittorio Emanuele III. A Genova viene sciolta la camera del lavoro, ma Saracco revoca lo scioglimento e si dimette. Il re affida il governo a Zanardelli che prende con sé Giolitti.
Origine delle teorie razziste e "L'affare Dreyfus"
Alcuni elementi avevano dato vita a teorie di razze superiori e inferiori, primo fra tutti la posizione egemonica che l'Europa aveva assunto nella storia degli ultimi secoli. I primi autori che si espressero con queste opinioni furono Arthur de Gobineau ("Sull'ineguaglianza delle razze") e H. S. Chamberlain ("Fondamenti del XIX secolo"). Chamberlain stesso poi identificava la razza germanica come migliore dei suoi tempi, destinata ad espandersi nel corso del Novecento. C'era però anche chi andava contro queste tesi, come Friedrich Meinecke, che scrisse un'opera liberale, "Cosmopolitismo e stato nazionale". Nel frattempo nel mondo la conflittualità tra le potenze europee stava prendendo il potere ed il lungo periodo di pace era destinato ad essere interrotto. Infatti, sia a causa delle rivolte socialiste sedate nel sangue, sia per le guerre coloniali, le teorie razziste non erano altro che una manifestazione del disagio crescente europeo, un disagio che avrebbe portato gravi conseguenze.
Nel 1894 la Francia fu colpita da una grave crisi politica denominata "affare Dreyfus". Alfred Dreyfus era un capitano dell'esercito di origine ebraica che fu accusato di spionaggio senza reali prove a suo carico. Scoperta più tardi la frettolosità con cui era stato trattato l'affare, l'esercito e l'opinione pubblica nazionalista, supportati dal clero francese, si opposero ad una revisione del processo, per non danneggiare le istituzioni. Contro di essi si scagliò il romanziere Emile Zola, con il suo celebre articolo "J'accuse", nel quale condannava tutte le più alte cariche militari di voler trattenere in carcere un innocente e soprattutto di voler attentare ai principi della legalità.
L'età giolittiana
Il primo quindicennio del XIX secolo vide prevalere la figura di Giovanni Giolitti, quasi ininterrottamente al governo dal 1903 al 1914. L'originalità del suo pensiero si capì subito quando, non ancora ministro degli interni, in un discorso al parlamento disse che era sbagliato lodare la frugalità dei contadini, in quanto chi non consuma non produce. Mantenendo bassi i salari, continuava Giolitti, si commetteva un'ingiustizia, un errore economico ed un errore politico:
• un'ingiustizia perché lo stato non dava a tutti i cittadini le stesse opportunità;
• un errore economico perché chi non ha soldi da spendere non può certo produrre ricchezze;
• un errore politico perché si mettevano contro lo stato le classi che ne costituiscono la maggioranza.
Per alzare i salari bisognava dunque non contrastare gli scioperi dei lavoratori: e questa fu, infatti, la sua politica, pur con qualche sanguinosa eccezione. L'altro mezzo con il quale Giolitti tentò di accelerare lo sviluppo economico furono le nuove leggi e riforme, sulle pensioni, sulla tutela del lavoro minorile e femminile. Istituì un commissariato per l'emigrazione, il Consiglio Nazionale del Lavoro; varò inoltre la legge sulla municipalizzazione dei servizi pubblici, onde rendere più agili questi ultimi. Ciò che indubbiamente favorì lo statista fu il suo organizzatissimo sistema burocratico, anche perché, senza di esso, il suo programma riformatore avrebbe sicuramente incontrato resistenze. Ovviamente Giolitti trovò oppositori sia a destra che a sinistra: non passò, infatti, in parlamento il progetto del ministro delle finanze Wollenborg, che prevedeva un aumento delle imposte dirette (che colpivano i ceti dirigenti) e una diminuzione delle imposte indirette (che colpivano invece la popolazione), dimostrando così gli industriali italiani di non essere in grado di assumersi la responsabilità dello sviluppo economico; ma, contemporaneamente, il leader dei socialisti Filippo Turati rifiutò un posto nel governo Giolitti, temendo ripercussioni dal suo partito. La mancanza di alleanze formali fece sì che Giolitti potesse attuare quella politica di favori, clientelismi, di trasformismo insomma più capillare e nocivo di quello di De Pretis. Ancora più spregiudicata fu la sua posizione nelle elezioni del 1904, che furono pilotate tramite una pressione operata sull'elettorato. Alla luce di questi fatti Giolitti fu definito da Gaetano Salvemini "Il ministro della malavita". Dopo un breve periodo di pausa, nel 1906 Giolitti tornò al governo, durante un periodo di prosperità economica che aveva portato la lira a "fare aggio sull'oro", cioè a valere più dello stesso equivalente in oro, e nel quale i tassi di interesse erano scesi dal 5 al 3,5 per cento. Ma già l'anno dopo le carenze di base dell'economia italiana, dovute sia a scarsità di materie prime sia a mancanza di capitali, si resero evidenti. La nuova crisi economica fece aumentare la resistenza alle sue riforme sia a destra che a sinistra. Nacquero la C.G.L (Confederazione Generale del Lavoro) e la confederazione italiana dell'industria. Dopo le nuove elezioni del 1909, che videro il rafforzamento soprattutto dei socialisti, Giolitti capì che non era il momento per tentare altre riforme e il governo andò in mano a Luigi Luzzatti. Il suo piano prevedeva il monopolio delle assicurazioni sulla vita, l'ampliamento dell'istruzione pubblica e soprattutto l'introduzione del suffragio universale maschile, nella speranza di avere l'appoggio dei socialisti.
Tornava intanto ad affacciarsi la questione coloniale e in particolare l'occupazione della Libia. Per fare questo però, bisognava tornare ad avere dei rapporti con la Francia. Ed, infatti, con gli accordi tra Prinetti e Barrère in cambio del riconoscimento degli interessi francesi in Marocco l'Italia aveva campo libero in Libia. Fu questo il giro di valzer cui si riferiva il cancelliere tedesco Bulow, a cui l'Italia era legata dalla triplice alleanza. La guerra di Libia aveva tra i socialisti i maggiori oppositori: essi sostenevano, infatti, che non ne valeva la pena ("Uno scatolone di sabbia" la definì Salvemini) e che non avrebbe dato neanche terra coltivabile ai contadini meridionali. Chi la sosteneva erano invece i settori nazionalisti, capeggiati da Gabriele D'Annunzio. Nel frattempo all'interno del partito socialista prevalse la corrente intransigente e rivoluzionaria, guidata dal giornalista Benito Mussolini e l'ala riformista, espulsa, creò il Partito socialista riformista al quale non aderì Turati. Intanto la guerra in Libia continuava e gli italiani, se pure formalmente avevano dichiarato la loro sovranità, si trovarono costretti a combattere con le agguerrite popolazioni locali. Per giungere ad una conclusione, l'Italia si decisa ad attaccare l'impero Ottomano direttamente: fu occupata Rodi e le isole del Dodecaneso e l'ammiraglio Millo arrivò persino a forzare i Dardanelli. La Turchia fu così costretta a firmare la pace di Losanna, con la quale riconosceva la supremazia italiana in Libia. La guerra fu più lunga e cruenta del previsto, dando ragione ai timori dei socialisti, e per riannodare i rapporti Giolitti fece approvare la legge sul suffragio universale maschile: votavano gli uomini con più di 21 anni (30 se analfabeti). Ma in quelle elezioni la novità fu la partecipazione dei cattolici a sostegno dei liberali, grazie al Patto Gentiloni: esso prevedeva appunto il voto dei cattolici in cambio dell'ostruzionismo su alcune leggi contrarie agli interessi cattolici (divorzio, laicità dell'insegnamento). Dopo le elezioni del 1913, il parlamento si ritrovò troppo frammentato e Giolitti preferì dare le dimissioni; al suo posto salì Antonio Salandra, che si dimostrò subito autoritario e d’indirizzo conservatore, reprimendo violentemente i moti della settimana rossa del giugno 1914.
La Prima Guerra Mondiale
Le cause della prima guerra mondiale non si possono individuare in modo preciso; tuttavia è possibile delineare i principali motivi di dissidio tra le potenze europee. In primo luogo la questione dei confini franco - tedeschi: la Germania nel 1970 si era annessa l'Alsazia e la Lorena, e la cosa non andava giù alla Francia, che voleva riprendersi le provincie. La Germania aveva anche il problema della Russia, che si era alleata con la Francia e che avrebbe potuto aprire un nuovo fronte orientale; contemporaneamente l'impero Turco aveva avuto appoggi dalla Germania e ciò aggravava i suoi rapporti con l'impero zarista; anche l'Austria aveva due potenziali fronti: l'Italia, che rivendicava le terre irredente, e la zona balcanica, in bilico tra espansionismo russo e spirito nazionalista.
La Germania inoltre era la più terribile concorrente economica della Gran Bretagna, anche se ad un grande sviluppo industriale corrispondeva una forte dipendenza alimentare, aggravata dalla mancanza di un vasto impero coloniale e da una flotta insufficiente; questo naturalmente non poteva andare bene alla Germania Guglielmina. Questione coloniale e riarmo navale furono i principali motivi di tensione tra Germania da un lato, Francia e Gran Bretagna dall'altro. Riguardo alla prima, la Germania, dopo aver subito molte sconfitte diplomatiche, riteneva che la forza fosse l'unica soluzione possibile per rompere questo accerchiamento delle altre potenze. Per fare questo però, bisognava rinforzare gli armamenti: la Germania, andando contro il principio inglese del "two - powers standard" (cioè la flotta inglese doveva essere pari alla somma delle prime due potenze a lei successive) varò nuove navi, alle quali l'Inghilterra rispose con il "two keels for one" (due chiglie per una ovvero costruì due navi, con enorme sforzo produttivo, per ognuna varata dalla Germania. Si assistette dunque ad una rivalutazione e ad un acquisto di potere da parte delle gerarchie militari e ad un irrigidirsi del sistema di alleanze europee che avrebbe impedito la soluzione diplomatica agli incidenti che si sarebbero sviluppati dopo.
EUROPA
fine XIX – inizi XX sec.
AUMENTO POPOLAZIONE
AUMENTO BENESSERE
INVENZIONE DI:
• MOTORE A SCOPPIO
• LAMPADINA
• PNEUMATICI
• STAMPA A BUON MERCATO
• PLASTICHE
E LORO AMPIA DIFFUSIONE ( grazie all’abbassamento dei costi )
AFFERMAZIONE DELLE INDUSTRIE:
• Siderurgiche (acciaio a buon mercato ottenuto dalla bauxite)
• Elettriche
• Chimiche (nuovi procedimenti produttivi che consentivano la produzione in massa di sostanze chimiche a buon mercato)
• Coloranti
• Concimi
• Esplosivi (dinamite)
• Farmaci (acido acetilsalicilico c aspirina Bayer)
• Insetticidi
• Petrolchimiche
• Plastiche
• Carburanti
ESTENSIONE TERRE COLTIVATE CON DISSODAMENTO E BONIFICA
Prefazione alla
Terza Rivoluzione Industriale
- scenario -
Duecento anni fa, la prima rivoluzione industriale pose termine ad ottomila anni di creazione di ricchezza agricola. L'agricoltura, nel XVIII secolo la sola attività economica per il 98% della popolazione americana, alla fine del XX secolo dà occupazione a solo il 2% degli americani. Fonte principale di ricchezza personale, imprenditoriale e nazionale divenne l'attività industriale. La macchina a vapore è stata una fonte energetica mobile di gran lunga superiore a quella umana o animale, offrendo la possibilità di compiere ciò che prima era impossibile. Leonardo da Vinci immaginò ogni tipo di geniale congegno meccanico, ma tutti (o quasi) i suoi progetti rimasero sulla carta, senza prendere forma, non essendo concepibile un motore per alimentare tali congegni. Fu con l'avvento della macchina a vapore che molte delle cose che poteva soltanto immaginare divennero rapidamente realtà. Cento anni dopo, alla fine del XIX secolo, l'elettrificazione e la ricerca e lo sviluppo industriali sistematici produssero la seconda rivoluzione industriale. Con la lampadina elettrica, la notte divenne letteralmente giorno. La curva del rapporto prezzo-rendimento della lampadina è simile a quella odierna del computer. Nel 1883, per ottenere l'illuminazione che oggi è possibile avere con una lampadina da 100 watt al costo di 33 centesimi, occorrevano 1.445 dollari. Le stesse elaborazioni di prezzi percentuali trasformerebbero un computer da 13 milioni di dollari in uno da 3mila dollari, situazione non dissimile da quella creatasi dagli anni 60 ad oggi. L'aver qualcosa da fare dopo il tramonto cambiò le abitudini principali. Le persone iniziarono a dormire molto meno e la media di nove ore di sonno scese fino a poco più di sette ore a notte. L'elettrificazione permise la nascita di nuove industrie, basti pensare a quella cinematografica, e modificò radicalmente i processi produttivi delle vecchie. Diversi piccoli motori elettrici erano molto più efficienti e flessibili di una grande macchina a vapore. Con l'elettricità nacquero i sistemi di trasporto (metropolitana, ferrovie di superficie, ascensori) che permisero la formazione di grandi città. L'elettricità, alimentando il sistema di comunicazione telefonica, permise anche ai mercati locali di trasformarsi in ampi mercati nazionali. La Germania, con la creazione dell'industria chimica, elaborò il concetto di ricerca e sviluppo industriali sistematici fondati sulla scienza. I progressi tecnici poterono essere programmati evitando così un ordine casuale. Non affidandosi più al caso, le frontiere tecnologiche si ampliarono molto più rapidamente che in passato. Alla fine del secondo millennio, e all'alba del terzo, è in atto un'interazione di sei nuove tecnologie - microelettronica, informatica, telecomunicazioni, nuovi materiali di sintesi, robotica e biotecnologia - per la creazione di ciò che gli storici dell'economia chiameranno la terza rivoluzione industriale. I progressi della scienza di base in queste sei aree hanno creato nuove tecnologie che hanno permesso la nascita, e stanno permettendo il rapidissimo sviluppo, di un insieme di nuove industrie, quali quella informatica. Mentre le vecchie industrie sono sottoposte ad un processo di re-invenzione. Il retailing via Internet sostituisce il retailing tradizionale. I telefoni cellulari sostituiscono i telefoni fissi e possono essere raggiunti nuovi traguardi. Nascono così piante e animali geneticamente modificati e gli occhiali da vista diventano una tecnologia obsoleta. Durante tutta la storia dell'uomo, la fonte di ricchezza è sempre stata il controllo delle risorse naturali: terra, oro, petrolio. Ora, improvvisamente, sta nel "sapere", nella "conoscenza". L'uomo più ricco del mondo, Bill Gates, non possiede risorse naturali e neppure eserciti. Per la prima volta nella storia dell'uomo, la persona più ricca del mondo possiede soltanto conoscenza. L'economia basata sul sapere prende quindi il posto dell'economia basata sull'industria. La trasformazione in atto è spesso descritta ingannevolmente come rivoluzione informatica. In realtà è molto di più. Le informazioni più rapide o meno costose non hanno di per sé un grande valore. Le informazioni sono soltanto uno dei numerosi nuovi input utilizzati per creare un'economia differente popolata di svariati prodotti e servizi. Ciò che realmente cambia non sono le informazioni su ciò che desideriamo acquistare, ma il modo in cui acquistiamo i beni essenziali e ciò che acquistiamo. I negozi fisici si avviano a cessare l'attività commerciale ed emergono i negozi elettronici. E in entrambi acquistiamo abiti in lycra e kevlar piuttosto che in cotone. Durante la prima e la seconda rivoluzione industriale, i lavoratori lasciavano l'agricoltura (settore con retribuzioni limitate e con un'ampia dispersione del reddito) ed entravano nelle attività manifatturiere e minerarie (settori con elevate retribuzioni e una distribuzione più equa del reddito). Nella terza rivoluzione industriale, i lavoratori stanno lasciando il settore manifatturiero per entrare nei servizi (settore con redditi più bassi e un'amplissima dispersione dei redditi). Le rivoluzioni che portavano a guadagni più alti e meglio distribuiti hanno ceduto il passo ad una rivoluzione caratterizzata da una distribuzione meno equa di guadagni inferiori. Come la seconda rivoluzione industriale ha trasformato le economie da locali a nazionali, così la terza rivoluzione industriale sta trasformando la nostra economia da nazionale a globale. Per la prima volta nella storia, le imprese possono acquistare e produrre dove i costi sono più contenuti e vendere dove i prezzi sono più alti. La più americana delle società americane, la Coca-Cola, vende l'80% dei propri prodotti fuori dagli Stati Uniti, e il più americano dei prodotti americani, l'automobile, è largamente composto di parti provenienti da tutto il globo. La storia del passaggio da economie locali a nazionali ci insegna che nella migliore delle ipotesi occorrerà parecchio tempo per imparare a far funzionare quest'economia globale, un apprendimento che sarà ostacolato da numerosi errori e sorprese. Per imparare a far funzionare le economie nazionali è occorso il primo cinquantennio del XX secolo. Per controllare le tendenze monopolistiche delle nuove società nazionali è stato necessario inventare le leggi antitrust. Le società, infatti, avevano imparato che facevano più soldi consorziandosi in monopoli e limitando la produzione piuttosto che aumentandola. La Standard Oil è stata smembrata nel 1911. Per la prima volta è nata l'esigenza di una moneta nazionale. La Federal Reserve Board è stata istituita nel 1913. Nei primi trecento anni di storia americana non era stato necessario creare una banca centrale, e furono le aspre vicende della Grande Depressione a insegnare agli americani che mercati finanziari senza freni possono implodere, trascinando nel crollo intere economie nazionali. La transizione da nazionale a globale sarà molto più turbolenta di quella da locale a nazionale. Quando il mondo è passato dalle economie locali a quelle nazionali, i Governi nazionali erano già pronti a imparare come gestire il processo. Al contrario, ora non vi è alcun Governo globale in grado di imparare a gestire l'economia globale. La risposta logica a questo problema gestionale potrebbero essere istituzioni globali che trasmettono ordini direttamente, senza dover ottenere il permesso dei Governi nazionali. Questo però non accadrà. Nessuno istituirà un Governo globale nel prossimo futuro, a prescindere dal fatto che ce ne sia o meno bisogno. Pertanto, il mondo avrà un'economia globale senza avere un Governo globale, il che significa un'economia globale senza una serie di norme e regolamenti applicabili e concordati. Non vi saranno sceriffi che applicano codici di buona condotta e neppure giudici o giurie ai quali appellarsi per chiedere giustizia. I Paesi stessi sono chiamati in gioco. Quindici Paesi costituiscono ciò che prima era l'Urss. La Cecoslovacchia si è divisa in due. La Jugoslavia si è scissa in cinque Stati, che forse diventeranno sette. Inoltre, gli inglesi stanno concedendo una semi-indipendenza alla Scozia, baschi e catalani chiedono l'indipendenza dalla Spagna e in Canada continua l'annoso dibattito sull'indipendenza del Quebec. Nel mondo in via di sviluppo è difficile che l'Indonesia torni a essere un solo Paese. E in Africa migliaia di gruppi etnici non vivranno certo per sempre in una manciata di Paesi definiti negli incontri fortuiti tra eserciti britannici e francesi nel XIX secolo. Gli inglesi hanno unificato l'India e la pianificazione centrale del socialismo l'ha mantenuta tale dopo l'indipendenza, ma oggi cosa la terrà unita? Nel contempo, vecchi Paesi d'importanza storica stanno lentamente dissolvendosi nell'Europa. Senza una propria moneta nessun Paese è pienamente indipendente e undici Paesi ne formeranno uno solo. Con il ridimensionamento delle prerogative, degli obiettivi e dei poteri dei Governi nazionali, il ruolo delle imprese globali si amplia. Le imprese possono, infatti, contrapporre sempre più un Paese a un altro per trarne vantaggi economici. Le grandi multinazionali si insediano nei Paesi che garantiscono i maggiori vantaggi in termini di efficienza globale, aiuti finanziari e sgravi fiscali (Israele, per esempio, ha "acquistato" un impianto di semiconduttori Intel per 600 milioni di dollari e il Brasile un impianto di assemblaggio Ford per 700 milioni).
Schema riassuntivo degli eventi che hanno portato alla
Terza Rivoluzione Industriale
Fasi storiche
Caratteri principali
Date
I° Rivoluzione Industriale
Utilizzo del vapore per controllare le macchine durante l'estrazione dei metalli. Uso della prima forma di automazione: il motore a vapore che sostituiva la forza animale.
1800 - 1850
II° Rivoluzione Industriale
Uso del petrolio per alimentare le macchine; imbrigliamento dell'energia elettrica per automatizzare il settore industriale.
In questa fase si denota ancora di più lo spostamento dell'attività economica dall'uomo alla macchina.
1860 - 1915
III° Rivoluzione Industriale
Organizzazione delle attività economiche della società.
Dominio della mente: uso di macchine a controllo numerico, software più potenti e sofisticati e Rete Internet
La Terza Rivoluzione Industriale
Intorno ai primi anni settanta un mutamento profondo cominciò a investire alcuni settori della grande industria. L'organizzazione del lavoro che per quasi mezzo secolo si era retta sui sistemi tayloristico-fordistici comincia a entrare in crisi. Quel sistema, ricordiamo, era stato pensato per produrre il più gran numero possibile, e nel tempo più breve, di merci standardizzate, adatte a un pubblico indifferenziato di massa. Ma col tempo, dopo decenni di consumismo, nelle società cosiddette affluenti la domanda dei consumatori era mutata. Sempre di più essi si mostravano volubili nel gusto, desiderosi di cambiare continuamente, e soprattutto attenti alla qualità e all'originalità del singolo bene, capace di distinguersi in mezzo alla straripante offerta di prodotti di massa. A questa e ad altre esigenze diede una risposta efficace e originale una fabbrica giapponese di automobili, la Toyota, grazie a una profonda trasformazione tecnologica e dell'organizzazione del lavoro in fabbrica. Dentro i vecchi stabilimenti fordisti l'organizzazione del personale soggiaceva a una rigida struttura gerarchica: in alto stavano i dirigenti, poi c'era lo strato intermedio dei tecnici e degli impiegati, infine la massa degli operai addetti al lavoro sulla linea - o catena - di montaggio: vale a dire incaricati di assemblare i vari pezzi che scorrevano sui nastri trasportatori nei vari reparti. Però già alla fine degli anni venti i sociologi dell'industria americana avevano provato sperimentalmente (esperimento di Mayo) che la disaffezione verso il lavoro di operai condannati a passare tutta la propria giornata nell'esecuzione affannosa, in tempi accelerati, di poche e ripetitive mansioni manuali, riduceva inevitabilmente la produttività. Negli stabilimenti Toyota questo schema venne spezzato. Alla struttura verticale venne sostituita un'organizzazione orizzontale, per gruppi, composti dalle figure che una volta erano disposte gerarchicamente. Manager, ingegneri, tecnici e semplici operai lavoravano tutti insieme, organizzati per squadre. Se si voleva produrre un bene che fosse curato in ogni sua parte e in qualche modo personalizzato, occorreva un lavoro di cooperazione di tutti in tutte le fasi della lavorazione. Gli operai, così come tutti gli altri operatori, non si occupavano più, come un tempo, di un singolo segmento di lavoro, ma si muovevano in gruppo, quasi gruppo, quasi come una singola impresa, ed erano al corrente di tutte le fasi di lavorazione dell'automobile. D'altronde oggi, all'interno della fabbrica, grazie all'elettronica, ogni membro può essere informato su quello che accade negli altri reparti e nell'intera azienda. Finisce così un'epoca dell'organizzazione del lavoro, durata mezzo secolo. Una tale trasformazione viene resa possibile dalle straordinarie innovazioni tecniche fondate sul computer. Ai robot azionati elettronicamente si fa un sempre più largo ricorso nelle lavorazioni particolarmente pesanti. Ma quella del toyotismo costituisce solo una prima avvisaglia delle radicali innovazioni che con l'ingresso del computer si sono avviate in tutti i campi della vita produttiva, dei servizi, della vita quotidiana, della cultura e della scienza. I mutamenti e le trasformazioni, prodotte direttamente o indirettamente dall'elettronica appena agli inizi, hanno riguardato prevalentemente il campo del lavoro, della ricerca e dell'informazione. Nel mondo industriale i computer hanno rivelato la loro straordinaria potenzialità nella capacità di sostituire lavoro umano, per la quale secondo alcuni si è verificato un passaggio storico dalla « manifattura» alla « macchino-fattura», una seconda o -meglio - terza rivoluzione industriale. Se infatti tanto nella prima rivoluzione industriale che nella seconda (di metà Ottocento) si realizzò la sostituzione su larga scala della forza fìsica dell'uomo con l'energia delle macchine, ora è avvenuto qualcosa di non meno rivoluzionario: le macchine sostituiscono non solo le mani ma anche il cervello dei lavoratori. La cosiddetta « intelligenza artificiale» entra sulla scena del lavoro industriale e fa sì che le macchine producano da sole le merci.
La capacità dell'elettronica di sostituire lavoro è alla base di un processo grandioso di rivolgimento sociale, oggi appena agli inizi: in ogni fabbrica, ma ormai anche in ogni ufficio, imprenditori e manager guardano sempre più all'impiego dei computer come allo strumento privilegiato per risparmiare sui costi e rendere più competitiva l'azienda licenziando lavoratori. Il cosiddetto re-engineering - cioè la riorganizzazione del lavoro resa possibile dai computer -espelle dalle imprese non solo semplici operai, ma anche tecnici, impiegati, perfino manager e dirigenti. Solo alcuni di essi riescono a trovare un nuovo impiego sulla base delle proprie competenze e qualifiche, mentre il resto è quasi sempre costretto ad accettare lavori dequalificati e precari, o a uscire per sempre dal mercato del lavoro. In realtà non si verifica, o avviene solo in parte, ciò che secondo alcune teorie economiche dovrebbe essere l'« effetto a cascata », per cui le innovazioni tecnologiche dovrebbero favorire l'espansione economica così da riassorbire progressivamente, in nuovi settori, gli operai espulsi dalla produzione.
Nei fatti, i nuovi lavori sorti intorno alla rivoluzione informatica sono appannaggio di una ristretta élite di scienziati, progettisti, disegnatori, programmatori: in nessun caso essi sembrano in grado di assorbire la grande massa di lavoratori che quotidianamente viene messa sulla strada. Probabilmente, quelle teorie economiche ottimistiche sono state costruite per una società che era in grado di moltiplicare i propri settori produttivi grazie alle dimensioni ancora limitate dal proprio sviluppo. Nel corso del Novecento l'agricoltura ha perso lavoratori, che hanno potuto trovare impiego nell'industria; l'industria, soprattutto dalla metà del secolo, ha ridotto progressivamente i propri occupati, e questi hanno trovato nuove occasioni nei servizi pubblici e privati. Ma oggi lo scenario è radicalmente nuovo rispetto al passato. Le macchine spazzano via il lavoro umano simultaneamente sia in agricoltura che nelle fabbriche, tanto nei servizi privati (banche, assicurazioni ecc.) quanto nella pubblica amministrazione. Nel frattempo, quella che una volta era la classe media, non solo degli Usa ma di tutte le società industrializzate, vede perdere progressivamente il proprio peso e la stratificazione sociale tende a ridursi. La massa degli occupati generici e precari continua a crescere, mentre si va lentamente restringendo quella dei lavori specializzati e meglio pagati. La distanza fra le classi tende ormai ad allargarsi e a formare nel corpo sociale, quasi come alle origini delle società capitalistiche, ceti di ricchi sempre più ricchi e di poveri sempre più poveri. La logica e l'ideologia della competizione internazionale a tutti i costi, che anima ogni impresa e che è penetrata profondamente nella politica e nel comportamento degli Stati, fa oggi in modo che i lavoratori, vale a dire gli uomini, in una forma del tutto nuova rispetto ai tempi di Marx, stiano ormai diventando gli strumenti flessibili delle macchine. Potenziali strumenti per alleviare o liberare il lavoro umano dalla fatica, le nuove tecnologie - divenute le armi di una «guerra economica» mondiale che guarda al profitto come al suo fine supremo - si sono in realtà trasformate nel contrario: esse contendono agli uomini il posto di lavoro e li hanno posti, in tutti i paesi industrializzati, di fronte a un avvenire di perenne e frustrante insicurezza. Ma il concetto di flessibilità è da applicarsi anche alla dislocazione geografica delle imprese. Oggi i vecchi polmoni dello sviluppo industriale basato sull'acciaio e sul carbone, la Liverpool dell'industrializzazione ottocentesca e la Detroit e la Detroit già capitale dell'industria automobilistica mondiale, sono sulla via della smobilitazione, con le loro fabbriche chiuse, e i loro quartieri operai trasformati in sacche di emarginazione. Questo processo di deindustrializzazione appare inarrestabile. Scompaiono le industrie vecchie e spuntano nuovi aggregati produttivi in altre aree, magari assolutamente «vergini », valorizzando nuovi settori merceologici. Oggi, ad esempio, i diversi materiali plastici hanno ampiamente sostituito i metalli; e, sull'onda della rivoluzione informatica, i grandi insediamenti industriali della Silicon Valley, in California, hanno preso il posto anche simbolicamente, oltre che materialmente, degli antichi bacini industriali.
Tecnologia
Elettronica, telematica, informatica sono le parole chiave di quella che già alcuni definiscono la . Sono parole che alludono al futuro, ma ad un futuro che è già cominciato. E non si può non parlarne, perché il mondo che noi oggi vediamo è già trasformato dalle nuove scienze e tecniche e, sempre più rapidamente, lo sarà nei prossimi anni.
SATELLITI
Cambia, innanzitutto, anche la nostra percezione della Terra: satelliti inviati in orbita tra i 200 e i 1000 km d’altezza scrutano ogni aspetto della superficie terrestre (fino al numero di automezzi di una certa località) grazie a strumenti ultrasensibili.
CARTOGRAFIA
La cartografia se ne serve per elaborare prodotti sempre più perfezionati. Ma i satelliti (con le loro appendici a terra) sono anche in grado di riconoscere ed indicare nuove risorse del sottosuolo e di guidare la coltivazione dei campi con tecniche avveniristiche in zone oggi incolte.
L’informatica modifica i dati del problema dell’educazione, della cultura, quelli stessi dell’analfabetismo.
Elettronica, telematica ed informatica modificano la vita quotidiana della gente, i suoi modi di coltivarsi e di divertirsi, le sue tendenze alla socialità oppure alla solitudine ed all’individualismo.
LAVORO
Ed ancora, esse modificano profondamente le tecniche lavorative, provocano un forte aumento di produttività, ma anche, come ogni grossa innovazione tecnologica, una vasta disoccupazione che dovrà essere assorbita da nuovi settori (e da un generale aumento del tempo libero).
Questo breve elenco di fenomeni, in grado comunque di mutare abbastanza rapidamente alcune caratteristiche del nostro presente, va preso in considerazione.
LA NUOVA CARTOGRAFIA
Negli ultimi anni la cartografia ha compiuto enormi progressi: gli USA sono oggi più avanti di qualsiasi altro paese nella nuova cartografia. Basti pensare che hanno ricavato qualcosa come 15 milioni di immagini di estrema precisione, dove si possono distinguere anche oggetti di grandezza 15-20 metri. La nuova cartografia sta migliorando in modo straordinario le nostre conoscenze per quanto riguarda la meteorologia , lo sfruttamento delle risorse e l’organizzazione delle attività umane.
TELECOMUNICAZIONI E SATELLITI SPIA
Alle nuove conoscenze degli spazi cosmici occorre aggiungere la grande quantità di innovazioni tecniche e di scientifiche elaborate in occasione dei viaggi interplanetari, ma dimostratesi utilissime anche nella vita di tutti i giorni.
Anche il sistema delle telecomunicazioni terrestri ha ricevuto, grazie ai satelliti un notevole impulso. A partire dal 1963, speciali satelliti ripetitori consentirono un collegamento televisivo mondiale.
Ricordasi che i nuovi satelliti furono sfruttati anche dalla milizia, per controllare il territorio nemico.
LE TELECOMUNICAZIONI
Una rivoluzione ancora più dirompente che quella dei trasporti delle persone e delle merci avvenne nel trasporto di informazioni, voci, immagini, parole. Nel nostro mondo è diventato ancora più facile viaggiare, ed ancora più facile ricevere il resto del mondo restandosene a casa propria. Una rete di cavi sottomarini e di satelliti consente di telefonare direttamente da un capo all’altro del mondo: alla fine del 1986 gli utenti telefonici sono stati abilitati a collegarsi, semplicemente facendo un numero sul loro apparecchio, con l’equipaggio della nave spaziale "Columbia". Le agenzie d’informazioni trasmettono i loro testi con telescriventi, impiegando solo il tempo meccanicamente necessario alla battitura; grazie ad un sistema di cavi, una fotografia viene riprodotta tale e quale a migliaia di chilometri di distanza. La televisione fa della grande maggioranza della popolazione umana un unico grande pubblico. Reti televisive vengono usate per la circolazione stradale, navale o aerea o per i servizi di polizia. Le transazioni commerciali o finanziarie vengono compiute per telescrivente o per telefono. L’associazione tra telefono e computer modifica profondamente la vita quotidiana. Il controllo della rete elettronica delle informazioni è l’obbiettivo più ambito delle grandi società multinazionali, e la posta di una concorrenza che vede misurarsi USA, Europa e Giappone. Tredici paesi sono associati nell’ESA, l’Ente Spaziale Europeo. L’Ente si vale di satelliti messi in orbita di un razzo francese, l’, lanciato per la prima volta nel 1979. Entro il 1995 era stata prevista la messa in orbita da parte dei paesi occidentali di 250 satelliti commerciali, oltre che ad alcuni finalizzati allo spionaggio. Ma il primato dello sfruttamento dello spazio è detenuto dall’Unione Sovietica che dispone di un razzo "Energia" capace di portare in orbita un peso molto superiore a quello degli altri modelli.
Inoltre i sovietici hanno battuto gli USA in tempi di progettazione e costruzione, realizzando nel 1986 la prima stazione spaziale orbitante in grado di funzionare come base di lancio per satelliti.
I PADRONI DELLE INFORMAZIONI
Il controllo delle informazioni è importante per due ragioni: una economica, poiché un’enorme ricchezza sarà investita nei prossimi anni nel settore delle telecomunicazioni; e una politica, poiché la scelta delle notizie e il modo di distribuirle da una grande potere. Per questo, contrasti accesi oppongono stati e compagnie. Sono americane ed europee la maggiori aziende d’informazioni. Le "banche dati", sono anch’esse prerogative dei paesi più ricchi, i quali gestiscono l’informazione a loro piacere, con molto malcontento dei paesi in via di sviluppo.
LA TELEMATICA
Telematica si chiama il campo di applicazione della combinazione fra computer, televisione e telefono. Con la telematica ci si potrà collegare (e ci si può collegare) con biblioteche, bar, scuole o altri svariati luoghi standosene a casa propria (un esempio di questo è il film "The Net" con Sandra Bullok). Con la telematica si potrà lavorare in posti distaccati dalla città, come si lavora nella stessa città. Insomma, anche in aperta campagna ci si potrà creare un proprio studio moderno, con la possibilità di vivere lontano dalla megalopoli. Riguardo a questo fatto ci sono due opinioni: i pessimisti che credono in uno spopolamento delle città e in un decentramento della popolazione, rendendo gli uomini ancora più passivi tra di loro. Invece, gli ottimisti credono in una diminuzione della passività data dall’uso di materiale multimediale. I più consistenti pericoli riguardo a questa rivoluzione sono quelli relativi alla discrezione, alla privacy.
Robotica
Come nel corso della seconda rivoluzione industriale si era verificato un mutamento dei settori economici dominanti, e l'affermarsi della chimica, della siderurgia, del petrolio e dell'energia elettrica aveva mutato radicalmente tutto il sistema produttivo, così la terza rivoluzione industriale ha ridisegnato il sistema produttivo in base allo sviluppo di settori profondamente innovativi: quelli dell'informatica e della telematica. Essi hanno influenzato l'organizzazione del lavoro e stimolato la produttività anche nelle attività economiche più tradizionali. Nel campo della produzione automobilistica l'introduzione dell'informatica ha determinato un rapido progresso dell'automazione, una riorganizzazione delle reti commerciali, e nuove modalità nella gestione delle scorte e delle forniture che è diventata più rapida e snella.
L'automazione Negli anni Settanta il sistema industriale della grande fabbrica, basato sulla meccanizzazione e sulla organizzazione in linea della produzione venne messo in crisi dalla utilizzazione di nuove tecnologie di automazione e informazione che introducono nuovi elementi di flessibilità nei cicli produttivi. L'automazione era stata introdotta in primo luogo nei processi continui, sostituendo il lavoro degli operai con macchine dotate di poca o nulla flessibilità: questo tipo di automazione restava interno alla logica di flussi predeterminati, per esempio in una raffineria o in una cartiera. L'automazione profondamente innovativa si è verificata, invece, con una particolare meccanizzazione, che ha introdotto l'uso di macchine intelligenti, in grado cioè di fronteggiare in modo automatico la complessità e la variabilità delle situazioni. La condizione indispensabile per introdurle é che la complessità sia strutturata in un codice. L'automazione è osservabile nei processi discontinui, per lo più nelle lavorazioni meccaniche per pezzi di grande e piccola serie. Gli esempi più rilevanti sono: le macchine utensili a controllo numerico, i robot, macchine dotate di manualità e mobilità entro raggi d'azione che possono essere fissi o non predeterminati, il CAM, Computer Aided Manufacturing, sistema di più macchine governato da un computer che ne coordina le operazioni e il CAD, Computer Aided Design, la progettazione assistita da computer. Il convergere e lo sviluppo di queste tecnologie porterà negli anni Ottanta alla nuova fabbrica automatizzata.
La fabbrica ad alta automazione
Negli anni Ottanta si cominciò a parlare di fabbrica integralmente automatizzata, con il compattamento di tutto il sistema nel governo centralizzato delle macchine, dei movimenti interni, degli input e output tra fabbrica e magazzino. Fin dagli anni Sessanta le aziende si erano impegnate in opere di risanamento ambientale (insonorizzazioni, ricambi d'aria) e con l'automazione il lavoro divenne meno gravoso e più flessibile. In alcuni reparti sono state introdotte radicali innovazioni, come Robogate e Digitron nelle officine di carrozzeria e il Lam nelle officine di meccanica. Gli stabilimenti Fiat di Termoli e di Cassino sono esempi di fabbriche ad alta automazione in Italia. Al loro interno si presentò il problema del dislivello tra le nuove tecnologie ad automazione spinta e l'assetto organizzativo rimasto ai tempi della tecnologia precedente. La fabbrica ad alta automazione comportava un'importante evoluzione nel lavoro operaio, con diminuzione nello sforzo fisico e diffusi miglioramenti ergonomici e ambientali. Tuttavia la produzione continuava ad obbedire al criterio di accumulare risorse per fronteggiare gli imprevisti, permaneva un taylorismo amministrativo con pesante gerarchia e suddivisione spinta delle competenze.

Il villaggio globale dell'informazione… Perché villaggio globale?
Il Novecento ha accorciato le distanze tra gli uomini grazie al poderoso sviluppo dei mass media: "È come se il mondo si fosse rimpicciolito" ha detto Marshall McLuhan, celebre teorico canadese dei mezzi di comunicazione. "La nuova risorsa strategica, il petrolio del ventesimo secolo, è l'informazione" ha scritto lo studioso americano John Naisbatt. Cinema, radio, telefono, televisione, computer, videoregistratori, cellulari, satelliti, sono tutti parte di un mosaico tecnologico contenuto in meno di cent'anni di ricerche, di scoperte e di sperimentazioni. Un mosaico entrato nelle case di milioni di persone e applicato a oggetti diventati ormai di uso comune. I media hanno conquistato una posizione centrale nella vita sociale dei paesi industrializzati perché si è messo in moto un processo per molti versi analogo a quello registratesi alla fine dell'Ottocento con la seconda rivoluzione industriale: le rapide applicazioni tecnologiche delle scoperte scientifiche e la formazione di nuovi mercati. Enormi cambiamenti si sono registrati nell'ambito della diffusione della stampa e della stessa commercializzazione dei libri. Le prime collane tascabili e a un prezzo decisamente economico furono pubblicate nel 1935, quando in Inghilterra l'editore Alan Lane lanciò i Penguin Books (in Italia i primi tascabili sono invece firmati Rizzoli e sotto il marchio Bur si diffondono dal 1949). Per parlare di comunicazione di massa, bisogna aspettare però la radio e la televisione che hanno il potere di arrivare a milioni di persone nello stesso istante, anche a quelle che non sanno leggere, di parlare il linguaggio compreso dai più, di influenzarne le abitudini e i pensieri. Nel 1933 si sperimenta la Tv, ma soltanto dopo la Seconda guerra mondiale il piccolo schermo autoilluminante supera la fase sperimentale. Nell'arco di sette anni, dal 1947 al 1954 il nuovo mezzo è presente già nella metà delle case degli americani, nel 1960 in Italia (dove la Tv debutta nel 1954) se ne contano poco più di due milioni. Oggi, nei paesi industrializzati la Tv tocca percentuali di presenza record del 90% dei nuclei familiari. Mezzi così potenti e soprattutto così semplici da usare (basta premere un bottone) rivoluzionano le abitudini, uniformano i linguaggi, hanno un ruolo determinante per costruire il consenso politico e per orientare le opinioni della gente. Possono creare una moda o decretarne la fine.
Il controllo dell'informazione
Quale possa essere il ruolo dei mass-media lo comprendono bene i governi che tentano di assicurarsene presto il controllo. Un controllo che in particolari momenti storici è apparso in tutta evidenza. Nell'Europa dei regimi totalitari cinema, radio e giornali furono assoggettati al completo dominio del potere politico. Joseph Goebbels creò nella Germania hitleriana il Ministero della propaganda e dell'illustrazione del popolo diviso scrupolosamente in cinque settori: radio, stampa, cinema, teatro, orientamento generale della propaganda. È un controllo totale per impedire l'arrivo alla popolazione di dottrine o notizie considerate in qualche misura dannose al regime. Un analogo atteggiamento ebbe il socialismo sovietico che un emigrato russo, Serghei Ciacotin, bollava con una definizione diventata poi famosa: "Lo stupro delle folle". In forma diversa il controllo sui mezzi di comunicazione fu esercitato comunque da tutti i paesi belligeranti: dagli Stati Uniti all'Inghilterra, dalla Francia all'Italia. Nel 1930 l'Eiar, l'ente radiofonico nazionale, riceve l'ordine di piazzare impianti di trasmissione a tutte le grandi adunate del regime fascista. Nasce il MinCuIPop, il Ministero della Cultura Popolare, che non solo ha il compito di censurare, ma anche di dettare norme di comportamento e di scrittura ai vari mezzi di informazione. A questi ultimi vengono recapitati ordini ("veline") del tipo: "Non pubblicare corrispondenze sui nostri bombardamenti in Africa orientale" (7 dicembre 1935), oppure "Ignorare ciò che si riferisce all'inchiesta sull'uccisione dei fratelli Rosselli" (15 gennaio 1938). Ancora: "Notare come il Duce non fosse affatto stanco dopo quattro ore di trebbiatura" (4 luglio 1938).
Il potere della televisione
La forza delle immagini che irrompe a metà del secolo segna una svolta epocale, un ulteriore balzo in avanti della società della comunicazione. Scrive Carlo Sartori in un saggio dal titolo Dalla selce al silicio: "Con la sua sola presenza, indipendentemente dai contenuti veicolati - siano essi un discorso di Fidel Castro o una puntata di 'Dallas' - la televisione modifica l'uomo, la sua struttura mentale, la sua realtà e il modo in cui egli può e vuole conoscerla".
La televisione manda messaggi a tutti coloro che la guardano, compresi gli analfabeti. Entra nelle case di milioni di persone, dagli anni '70 gli schermi diventano a colori e nel 1974 e nel 1976 due sentenze della Corte costituzionale introducono in Italia le emittenti private, le televisioni commerciali finanziate esclusivamente dalla pubblicità (già attive in altri paesi). Per effetto di quella sentenza nascono centinaia di emittenti locali private e alcune reti nazionali si sono concentrate nelle mani dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, diventato leader del movimento di Forza Italia (da lui stesso promosso) e nel 1994 presidente del Consiglio. In America intanto si diffondono le Tv via cavo, le pay-Tv, cioè le televisioni a pagamento che negli anni Novanta sbarcano anche in Italia. Le reti via cavo possono offrire all'utente varie forme di accesso ai programmi: negli Stati Uniti, per esempio, gli abbonati pagano un canone mensile che da loro diritto a un servizio di base (il cosiddetto Basic service) a cui si possono aggiungere una serie di optional, servizi educativi, religiosi, artistici nonché l'accesso a canali locali.
Sul potere persuasivo della televisione sono stati scritti centinaia di saggi e di ricerche: negli anni '90 sette americani su dieci, secondo una stima della Roper Organization, attingono dal video elementi coi quali formare i propri giudizi.
"Siamo arrivati a una situazione pericolosa - ha osservalo Bill Moyers, giornalista televisivo della Cbs - in cui si è rafforzata la convinzione che la telecamera non menta mai e che basti l'immagine a rappresentare pienamente la realtà. Per milioni e milioni di americani la democrazia rappresentativa oggi non è niente di più che la rappresentazione televisiva della democrazia". Per le forze politiche attuali vale dunque la regola dei prodotti di largo consumo: la loro immagine replicata all'infinito sul piccolo schermo è indispensabile al loro successo. Anche se, per la verità, sostiene Clem Whilaker, esperta pubblicitaria californiana "la vendita di un candidato è più difficile di quella di un'automobile perché l'auto è muta e il candidato invece è capacissimo di rovinarsi con i propri discorsi".
Nuovi orizzonti operativi per il piccolo schermo...
La televisione comunque oggi sta rapidamente cambiando. Videoregistratori, satelliti per la ricezione diretta dei programmi tramite antenna parabolica stanno trasformando l'apparecchio televisivo in un terminale capace di dialogare (interattivo) nell'ambito di un sistema di collegamenti.
Nicholas Negroponte, del Massachusetts Institute of Technology, ha scritto che alla fine del secolo è ormai tramontata l'era della comunicazione di massa per far spazio a una comunicazione sempre più mirata sui bisogni e sulle caratteristiche dell'individuo. "La differenza tra lo schermo di un televisore e lo schermo di un personal computer sta diventando una mera questione di dimensioni e quelli che un tempo erano i mass media stanno trasformandosi a poco a poco in mezzi di comunicazione personalizzati. L'informazione non sarà più spacciata a potenziali consumatori, ma saranno gli utenti stessi a crearsi la specifica informazione di cui hanno bisogno".
Siamo di fronte a una nuova svolta tecnologica con la possibilità di trasformare qual-siasi tipo di segno o di messaggio, visivo, acustico o scritto, in un unico codice numerico (digitalizzazione). E nell'era digitale tutti i tipi di messaggio diventano informazione e si misurano in un'unica unità di misura, il bit.
I calcolatori e poi i personal computer entrano nelle aziende, velocizzano l'archiviazione dei dati, la loro analisi, razionalizzano i vecchi sistemi contabili. Ma la vera rivoluzione dell'era digitale esplode con le interconnessioni delle reti e con Internet. Dentro la rete c'è il mondo virtuale. Ci sono musei, università, negozi, ospedali, mappe di città, c'è la possibilità di consultare i libri delle biblioteche, di leggere le news dei quotidiani on line, non soltanto italiani, ma anche americani, inglesi, francesi, canadesi e via dicendo, di utilizzare i videogiochi, infine, i cui personaggi con le loro spericolate avventure compongono il nuovo immaginario giovanile. C'è la possibilità di fare shopping senza muoversi da casa, di ordinare una pizza cliccando con il mouse sullo schermo del computer e inviando il messaggio in rete. "Vivremo sempre più sospesi fra realtà e simulazione", prevede lo scrittore di fantascienza e teorico del cyberspazio William Gibson. Attraverso Internet si possono prenotare treni e aerei, alberghi e viaggi, si può comprare un motorino pagando con la carta di credito, oppure conoscere l'andamento della borsa in tempo reale. Sono innumerevoli le strade dentro la "rete delle reti" e ogni strada ha un numero civico, un sito da visitare. Ne esistono milioni: fondazioni scientifiche, industrie, associazioni benefiche, enti di ricerca, amministrazioni comunali, provinciali, regionali, ministeri. Oggi c'è anche chi cerca lavoro lasciando messaggi sulle bacheche virtuali. Attraverso Interne! poi si possono mandare messaggi di posta elettronica (e-mail). La "grande ragnatela" ha dato un'anima ai terminali. Ira avviato l'era dell'interattività. Non è più solo e muto l'utente del computer: navigando in rete può interloquire con altri cybernauti, può discutere in tempo reale sui terni più svariati confrontandosi con le persone collegate. L'interconnessione fra i computer renderà possibile tra breve il telelavoro, ovverosia il lavoro fatto da casa, senza spostarsi. Qualcuno dirà che è alienante, qualcun altro lo sceglierà per non essere più costretto ad immergersi ogni mattina nel traffico (e nello smog) delle ore di punta per arrivare in orario in ufficio. Sull'argomento ci sono diverse scuole di pensiero: da un lato chi sostiene che la rivoluzione informatica dischiuda una totale libertà di comunicazione e informazione, dall'altro chi sottolinea che le nuove tecnologie rischiano di impigliarci in un'ambigua rete e di asservirci alla macchina. Alcuni enfatizzano un lavoro liberato dai vincoli spaziotemporali, l'opportunità di scegliere spettacoli, divertimenti, informazioni da casa, semplicemente premendo un tasto, dall'altro c'è chi è convinto che l'eccesso di informazione costituisce una falsa libertà, che il telelavoro rischia di isolarci sempre più, di incatenarci davanti a uno schermo che diventa la nostra unica finestra sul mondo.
La rete delle reti è un universo affascinante che ha senza dubbio contribuito alla diffusione dei computer: negli Stati Uniti sr stima che 38 milioni di persone siano collegale a Internet. Ma il suo non è ancora un accesso semplice e alla portata di tutti, come la radio o la televisione. E poi, la rete come spesso accade per i computer usa principalmente la lingua inglese per dialogare e questo è un ulteriore elemento di selezione dei suoi naviganti. Certo è difficile oggi immaginare quali sviluppi potrà avere Internet, enorme campo anarchico dove teoricamente tutti possono navigare. "Teoricamente" perché in verità non è così: il "villaggio globale" di McLuhan non è diventato mai una realtà planetaria. C'è una fetta di mondo, quello dei paesi non industrializzati che resta esclusa da questa nuova alfabetizzazione e qualcuno ha parlato di "diseredati della comunicazione".
... e nuovi problemi
"Mi preoccupano l'accesso e i valori nella società dei network," sostiene Karamjit Gill, indiano, docente a Brighton e editore della rivista 'Artificial Intelligente & Society'. "Non tutti hanno la possibilità economica, tecnica e culturale di collegarsi a una rete e di diventare mèmbri della comunità emergente".
Quello degli esclusi dal "villaggio globale" è uno dei grandi nodi che il Novecento regala in eredità al secolo successivo. Perché, se è vero che la circolazione sulle autostrade tele-matiche è libera, è altrettanto vero che per entrare in corsia bisogna pagare un pedaggio al casello. Si pone quindi il problema della scelta del casellante, delle sue tariffe, delle sue regole di comportamento.
I nuovi media tendono a interagire fra loro, ad integrare le informazioni e i linguaggi senza però mai sovrapporsi. Non c'è uno strumento che soppianta l'altro: nessuno per esempio pensa che la possibilità di leggere un libro al computer possa decretare la fine del libro, così come attingere informazioni ori line non comporterà automaticamente la fine della carta stampata. Di certo l'era multimediale ha aperto una nuova frontiera i cui contorni non sono ancora nitidi. Derrick De Kerkove, massmediologo canadese, erede di McLuhan evidenzia come i nuovi media per via della loro rapidità "abituino la mente umana a ricevere un flusso di informazioni centuplicato come quantità e come velocità. Insegna a porre domande nuove, a ricevere risposte più accurate. Insomma - conclude De Kerkhove - un certo contributo a! risveglio dell'intelligenza può darlo, basta saperlo canalizzare". Resta comunque un dubbio: in mezzo a tutte queste innovazioni telemati-che, fuori e dentro realtà e mondi virtuali, l'uomo riesce a dominare le macchine? E nella società della comunicazione chi sceglie le notizie e la realtà da rappresentare? "Le scelte che trasformeranno gli eventi in notizie - scrive il giornalista Claudio Fracassi in un pamphlet dal titolo Sotto la notizia niente -per quanto oneste, sono più o meno rigidamente legate alla struttura dei poteri, ai dislivelli economici, alla facilità o alla difficoltà
delle comunicazioni, agli interessi, agli stereotipi culturali".
E fa pensare il fatto che Internet è nata nel 1969 da studi di un gruppo di ricercatori americani per conto del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti.
Taylorismo e post-fordismo
Fu un processo all'inizio impercettibile, ma inesorabile. Incominciarono qua e là, a mutare singoli punti sulle linee: un robot di saldatura, un automatismo di verniciatura... Un calcolatore di processo a gestire un magazzino... Automazione, si disse: se ne parlava dagli anni cinquanta (scambiandola in realtà con la meccanizzazione), e non aveva mutato nulla. Invece mutò tutto: dalla meccanica il "principio tecnico" della nuova fabbrica si trasferì all'elettronica [...]. Dall'esterno nulla sembrava mutato: lo stesso involucro grigio, in prefabbricati di cemento espanso, continuava a contenere la sfera produttiva, gli stessi muri infiniti dei reparti, lo stesso rumore sordo di macchine a regime. Ma dentro la metamorfosi era radicale: a poco a poco le cose si andarono ritraendo dagli uomini, il ciclo lavorativo si fece sempre più distante, intangibile dall'azione operaia, non più condizionabile dal proprio posto di lavoro. Le linee, lunghissime, interminabili, si spezzarono in una pluralità di segmenti, sincronizzati non più da rigidi convogliatori a nastro, ma serviti da agili e soprattutto mobili carrelli telecomandati da calcolatori di processo. Sembrava una rivoluzione tecnologica. Era invece una palingenesi organizzativa. Era la struttura di fabbrica che mutava il proprio statuto- da visibile (nella morfologia stessa del sistema di macchine) a invisibile, celato nel segreto del software di gestione. Da lineare a sistemica, indipendente da ogni suo singolo lavoratore, da ogni singola stazione di montaggio non più disposta rispetto alle altre in successione unilineare rigida, ma articolata in "sistema", l'una in grado di rilevare la produzione dell'altra, di aggirare i "colli di bottiglia", di nullificare l'azione soggettiva di piccoli gruppi. E da personale, il comando si fece d'un colpo astratto, impersonale, oggettivo: non più incarnato nella figura dispotica del capo, del cronometrista, dell'operatore che ti "impone" il ritmo, ti "taglia" il tempo, ma latente nella stessa logica di funzionamento, nel flusso dei pezzi che automaticamente affluiscono alla postazione di lavoro, nei valori digitali che compaiono sul monitor, nell'onniscienza del sistema informatico che dispone silenziosamente e invisibilmente. Anche gli uomini si fecero via via più radi nei reparti. Sempre più distanti l'uno dall'altro, più separati da barriere crescenti di macchine. O semplicemente da spazi vuoti. Da aree "desertificate", come recitano i manuali tecnici del tempo. Non scompariva il lavoro manuale. E neppure si faceva necessariamente più leggero, meno devastante fisicamente. Ma si rarefaceva. Perdeva il carattere compatto di massa che aveva assunto nei decenni precedenti. Si perdeva tra l'impassibilità degli impianti. Anche l'uscita di un turno non offriva più l'immagine torrentizia di prima: sporadici gruppi, individui sparsi, uscivano da vecchie strutture ancora segnate dal gigantismo delle origini, a denunciare an-cor più la sproporzione di dimensioni, la piccolezza degli uomini... La grande fabbrica, prima compattamente produttiva, si faceva di colpo "porosa", attraversata da zone morte, da settori d'improvviso decaduti, e avvizziti.

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