La Serbia

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Testo

SERBIA,
GLI ORRORI DI
Relatore: Rombolà Mauro
Docente: Prof.ssa Reggio Orsola
Sull’altra riva dell’Adriatico
Per un centinaio di chilometri l’Italia confina ad oriente con la Slovenia, una delle sei repubbliche che fino al 1991 formavano la Iugoslavia. I legami tra questi territori e l’Italia non si limitano ad una questione di confini, anche se proprio il problema del confine ha creato forti motivi di contrasto.
In passato, parte del territorio slavo sulla costa era abitato da popolazioni di lingua italiana e la stessa penisola dell’Istria è stata italiana per circa venticinque anni. Dopo la seconda guerra mondiale si aprì una lunga disputa sull’assetto del territorio di confine e solo nel 1975 il Trattato di Osimo assegnò definitivamente Trieste all’Italia e l’Istria alla Iugoslavia. Dopo la definizione dei confini rimasero molti Italiani in territorio iugoslavo e molti Iugoslavi, soprattutto Sloveni, in Italia, nella regione del Friuli-Venezia Giulia.
La presenza di gruppi etnici diversi era una caratteristica di tutta la Iugoslavia e non un fenomeno limitato ai territori di frontiera. Già i confini fissati al momento dell’indipendenza, nel 1918, avevano riunito in un unico stato popolazioni assai diverse per origini, lingua, religione, tipo di occupazione e grado di sviluppo. Tra loro hanno in comune solo l’appartenenza al gruppo linguistico slavo. Il termine iugoslavo vuol dire “slavo del sud”; designa l’insieme dei gruppi migrati nella regione balcanica e separati dalla più vasta area slava. Tra le due aree, infatti, s’interpongono popoli germanici, ungheresi, rumeni. Sono stati inclusi nella definizione di “iugoslavi” quattro popoli con lingue (slave) diverse: sloveni, Croati, Macedoni, Serbi.
Dopo la seconda guerra mondiale, sfruttando lo spirito di unità creatosi durante l’occupazione nazista, si cercò di conciliare le caratteristiche e le esigenze dei diversi gruppi con la necessità di non frammentare lo stato. Si giunse così alla formazione di uno stato federale, la Repubblica Socialista Federativa Iugoslava, nome ufficiale dello stato composto da sei repubbliche autonome: Serbia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Slovenia, Macedonia, Montenegro. Inoltre furono istituite due regioni autonome all’interno della repubblica serba: il Kosovo e la Vojovodina, la prima con popolazione prevalentemente albanese, la seconda abitata da vari gruppi.
Verso l’esterno la Iugoslavia aveva promosso il “non-allineamento”. In un momento cioè in cui i paesi europei ed extraeuropei si dividevano in due gruppi, rispettivamente a favore degli Stati Uniti d’America o dell’Unione Sovietica, la Iugoslavia si rifiutava di allinearsi con gli uni o con gli altri, nel timore di perdere la propria autonomia politica ed economica. Questa posizione, difficile da mantenere, le ha assicurato il rispetto e la stima di molti stati, specialmente fuori dall’Europa, che ne hanno seguito l’esempio.
Dopo la morte del maresciallo Tito (1980), che aveva riunificato e governato il paese dal 1945, la coesione della Iugoslavia entrò in crisi. Prima il Kosovo, provincia albanese incorporata dalla Federazione, poi la Serbia con le richieste di autonomia, diedero il via a nuovi scontri. Nel 1991 si proclamarono indipendenti Slovenia e Croazia, regioni nelle quali erano concentrate le più importanti attività industriali. Ciò determinò da un lato un inasprimento della guerra civile, dall’altro un peggioramento dell’economia già fortemente in crisi. Nel 1992 Macedonia e Bosnia-Ezegovina si sono dichiarate anch’esse indipendenti. Sempre nel 1992, si è formata la nuova Iugoslavia, molto più piccola della precedente. Il suo nome ufficiale è quello di Federazione Iugoslava, che comprende la Serbia, il Montenegro e le regioni della Vojovodina e del Kosovo.
La composizione della popolazione, rispetto alle diverse etnie di appartenenza, è molto varia. Sul totale, nella regione, i Serbi costituiscono da soli oltre il 35%. La Serbia ha tentato più volte di emergere come potenza guida, e proprio quest’ideale nazionalista (costituire una “Grande Serbia”) è stato uno dei motivi della guerra nell’ex Iugoslavia. Le ragioni della scontro tuttavia sono molteplici: accanto ai motivi linguistici, territoriali e politici, sussistono divisioni di tipo religioso dovute alla compresenza di cattolici, ortodossi, musulmani e, in misura minore, di altri gruppi come protestanti, ebrei, ecc.
FONDAZIONE DELL’IMPERO SERBO
I Zupani erano i capi delle varie tribù di slavi originari dei Carpazi, giunti con le invasioni e le migrazioni dei grandi popoli nel IV e nel V secolo. Comparvero nel 397 in Illiria (così si chiamava tutto l’attuale territorio iugoslavo) prima i Visigoti; poi nel 450 giunsero gli Unni; nel 470 gli Eruli di Odoacre; infine gli Amali di Teodorico (re dal 474 di tutti gli Ostrogoti) che in massa si stanziarono in Pannonia, poi si trasferirono in Mesia, razziando tutta la penisola balcanica fino in Grecia. Nel 395 Teodorico per motivi dinastici aveva già tracciato una riga sui Balcani dividendo l’attuale territorio iugoslavo in due parti: quello a nord della Drina venne assegnata all’Impero d’Occidente di Onorio; quello a sud della Drina all’Impero d’Oriente di Arcadio.
Le dominazioni successive fino ai giorni nostri, con alterne vicende, si svolsero sempre al di qua e al di là di questa linea. Tutto questo ebbe inizio mentre a nord, lungo il Danubio, in Pannonia, si stanziavano i Longobardi prima di gettarsi sull’Italia con ALBOINO; nello stesso periodo apparvero gli Slavi provenienti dai Carpazi; a più riprese cominciarono ad infiltrarsi nelle valli del Danubio, della Drava e della Sava. Gli Slavi lentamente si sistemarono nei territori a sud delle Alpi (odierna Slovenia), poi dalla Drava alla Dalmazia (Croazia) e del Danubio centrale (Serbia), ma erano misti agli Unni.
La prima vera comparsa di slavi è segnalata nel 547 sempre assieme agli Unni e agli Anti, in Illiria, Macedonia e in Grecia. Dopo aver saccheggiato la Tracia, l’Illiria e la Grecia fino a Corinto, nel ritorno, una delle bande penetrò sino a Costantinopoli, scoprendo così la opulenta e sfarzosa capitale, che da quel momento non ebbe più pace. Le “visite” si moltiplicarono; ma erano solo delle incursioni di razziatori nomadi, che i generali bizantini riuscivano quasi sempre a respingere. Erano comunque dei flagelli. Lo storico del tempo, Procopio, fu testimone oculare; nei suoi otto libri di storia Sulle guerre ci narra che “…nel corso delle invasioni più di 200.000 persone furono massacrate o imprigionate; le terre devastate assomigliavano, dopo il loro passaggio, ai deserti sciti; intere popolazioni furono costrette a fuggire dalle loro case, nelle foreste e sulle montagne per evitare oltraggi e atrocità….” Solo nel 551 è riscontrata la prima invasione in Grecia composta di solo Slavi; una banda di 3000 slavi saccheggiò prima la Tracia poi l’Illirico, infine raggiunse il mar Egeo. Il territorio (l’odierna Iugoslavia) con l’arrivo degli Slavi non era deserto, anche se era stato razziato e reso tale dagli Ostrogoti di Teodorico (30 anni di dominio; prima come goto, poi come patricius e magister militiae dell’Impero). All’inizio delle sue scorribande, la zona era stata da lui ei suoi “barbari” quasi spopolata (come scrive Procopio), ma poi ripopolata con una trama di alleanze con i burgundi, visigoti, turingi, vandali, eruli e persino baltici, oltre che romani, greci e bizantini. Quasi un globale cambiamento etnico fino all’arrivo degli Slavi, a spese degli irascibili e turbolenti illiri già da 17 secoli presenti su tutto il territorio, ma concentrati soprattutto nell’attuale Albania. Una zona selvaggia di alte montagne (di tipo carsico) o con una costa frastagliata. Solo il 20 % del territorio verso il mare ha terreni coltivabili. Tutto il resto è costituito da immense foreste sotto un cielo che è ancora oggi il più piovoso d’Europa. Fu un insediamento anomalo perché i vari gruppi iniziarono a vivere (e vivranno) sempre isolati. Ognuno con le sue leggi tribali e il suo linguaggio. Questa era la Iugoslavia o meglio l’Illiria nei dintorni del I millennio.
I serbi, come tutte le altre stirpi slave, cercarono di mantenersi indipendenti sia dai bizantini sia dai franchi. Ma questi ultimi, fin dall’impero carolingio, cominciarono ad esigere pesanti tributi dalle tribù dei Balcani. Poiché gli slavi non possedevano né una moneta per pagare, né oggetti preziosi, pagavano i tributi in natura con i pochi averi che possedevano o “offrivano” uomini validi come tributi. Questa prassi divenne così diffusa che “servi” e “schiavi” divennero sinonimi della popolazione e del territorio. Era il paese dove c’era la “miniera” di schiavi (sclavi) e di servi (serb).
Per queste angherie, e preoccupati di essere occupati anche militarmente, gli slavi si allearono con i bizantini e si convertirono alla loro religione, ottenendo dai bizantini una protezione nominale più che sostanziale. Emerse così il principato di Raska (detto anche Vecchia Serbia) che fu impegnato a contrastare l’avanzata dei bulgari (anche questi sotto la protezione bizantina), che avevano l’obiettivo di crearsi un regno, un impero bulgaro.
Ma, i serbi ed i bulgari, essendo diventati forti, ritennero più opportuno allearsi e ribellarsi ai bizantini, e dopo aver fondato la Serbia e la Bulgaria, si rivolsero al Papa. Samuele, re bulgaro, riunendo tutte le tribù stanziate nell’odierna Iugoslavia, dichiarò guerra al re Basilio di Bisanzio. Purtroppo Basilio non era un uomo comune, anzi, era e rimase un fenomeno unico. Aveva un potere senza limiti, ma si macchiò di un crimine orrendo per vincere gli slavi.
Samuele, pur non avendo un regno, né un impero, non gli era di certo inferiore. Gli tenne testa, scompaginò tutti i suoi progetti per 17 anni; poi lasciò il segno della sua tenacia agli slavi, insegnando l’arte della guerra e come ci si difende. Insegnò loro infatti una tecnica di guerra micidiale, che gli slavi, i serbi, conserveranno per sempre. Ogni uomo non doveva essere guidato, ma ogni uomo doveva esattamente sapere, da solo, cosa doveva fare nel suo “territorio”. Essere generale di se stesso, quindi combattente e stratega nello stesso tempo. Le situazioni più critiche non dovevano essere risolte da un capo, ma in ogni circostanza doveva risolverla sempre e solo lui; il serbo anche quand’era solo! (questa caratteristica tornò alla ribalta nel 1941-42, quando Hitler invase la Serbia con 22 divisioni, per un capriccio, uno scatto d’ira, che fu poi l’origine di tutti i suoi guai).
Nei pressi di Tessalonica, il 29 luglio del 1014, un intero reparto di Samuele, una retroguardia presa da tergo cadde nelle mani dell’imperatore. Basilio catturò 14.000 prigionieri. Con uno spietato e disumano cinismo, fece cavare gli occhi a 99 prigionieri ogni 100, mentre al centesimo, fece cavare un occhio solo, per poter con l’altro fare da guida ai suoi compagni nel tornare dal loro re Samuele.
La vista di questi ciechi che inciampando ad ogni passo e tenendosi per mano tornavano dai loro cari, costò la vita a Samuele, che fu stroncato da un infarto.
Un risultato Samuele l’aveva ottenuto; Basilio concesse alla Serbia e alla Croazia l’autogoverno, pur sotto l’autorità nominale bizantina, esentandole dai tributi. Di slavi non ne voleva più sapere, neppure come contribuenti.
Arriviamo al 1170, quando nella vecchia Raska emerge tra i Zupani Stefano Nemanja, che riesce in pochi anni a sottomettere alla propria autorità tutti i feudi della parte nord-occidentale del regno. Morto Stefano, salì al trono il figlio Stefano I che costituisce un’alleanza con il bulgaro Kolajan, e insieme costruiscono i rispettivi regni di Serbia e Bulgaria proprio quando le mura di Bisanzio stavano per crollare sotto i colpi dei crociati (1204).
Con un colpo magistrale, a sorpresa, i due re slavi hanno anticipato le mosse dei crociati; si sono, infatti, non solo resi politicamente indipendenti dai bizantini ma si convertono alla religione cattolica-romana, e chiedono al Papa la sanzione della loro sovranità.
Quando la Serbia perse sotto la dominazione turca l’indipendenza politica, la chiesa divenne unica custode delle memorie sacre dei serbi, riuscendo a conservare l’identità nazionale del popolo serbo.
Dopo la battaglia del Kosovo del 1389, i turchi uccisero tutti i nobili (10.000) e con una sistematica pulizia etnica dispersero l’intera popolazione serba. Più tardi anche quella albanese con un genocidio di massa o spinti a decine di migliaia verso il mare Adriatico. Di 400.000 profughi albanesi ne approdarono – sulle coste italiane a Brindisi – nemmeno 200.000; gli altri finirono con le loro “carrette” in fondo al mare. (sembrano quasi gli stessi fatti di oggi)
Dalla fondazione del regno, fino al 1389, la Serbia dei dieci re Stefano, aveva conosciuto un periodo di forte espansione territoriale. Grande crescita anche nei traffici con il suo importante porto sul mare: Ragusa. Nel 1346, al vertice di questa potenza, Stefano IX Dusan, si proclamò zar dei serbi, dei bulgari e degli albanesi. Gli succedette suo figlio Stefano X, non un genio di diplomazia e neppure militare. Carente della prima virtù, fece venire a galla anche la seconda. Troppo debole nel tenere a bada le ambizioni dei signori feudali, non fu in grado con i suoi soldati a contrastare né loro e neppure le prime allarmanti spedizioni di turchi. Quando i musulmani diedero inizio alla conquista dei Balcani, il paese non avendo risolto i suoi problemi interni, si trovò disunito. Il 26 settembre del 1371 furono clamorosamente sconfitti; i turchi fecero una strage; poi seguì la morte di Stefano X. Una grande disfatta del regno serbo, a quel tempo la potenza più importante di tutti i Balcani, anche se ormai erano anni che non combattevano una battaglia. Negli ultimi anni i serbi si erano divisi in molte entità politiche feudali. Questa battaglia, svoltasi a Cronomen sulla Marizza è ricordata dalle cronache turche come la Sirf Sindingi, “distruzione dei serbi”, e in seguito fu questo il nome dato al luogo dello scontro. Murad, il condottiero turco, vinta la battaglia, si dedicò subito dopo alla riorganizzazione dei territori occupati. Alcuni li spartì tra i suoi soldati e generali, altri li lasciò in mano ad alcuni nobili serbi che - fece notare – non avevano brandito le armi contro di lui, o erano stati neutrali, pacifisti (potevano vincere in questo modo?).
Trascorsero così circa venti anni, ma le ambiguità, le discordie, e l’indifferenza invece di diminuire aumentarono. Questo mentre i turchi premevano per entrare nella piana del Kosovo e poi proseguire per invadere il cuore della Serbia: da Raska in su, verso Belgrado.
I nobili più responsabili, più realisti e lungimiranti e anche più patriottici, si erano riuniti, cercavano appoggi per affrontare gli invasori. Ma al momento decisivo erano in pochi e persero la loro ultima battaglia; il regno serbo crollò, non esisteva più, e neppure i pochi audaci nobili. I turchi catturarono e radunarono 10.000 nobili Gran Zupani ribelli; poi li massacrarono tutti. Il regno dei Nemanja scomparve così, in un brutto giorno, in un Campo dei Corvi.
Il vero nobile serbo, non era solo un capo, ma il Zupano della sua gente, il saggio, cioè l’anima patriarcale della tribù; scomparso lui crollava la spina dorsale di ogni grande famiglia; ora scomparsi tutti, crollava l’anima e l’energia di un’intera stirpe.
Ma sul campo, vicini o lontani, di “corvi” ce n’erano altri. Alcuni feudi rimasero in mano ai legittimi proprietari. Probabilmente non li meritavano. Le lotte intestine che già avevano fatto crollare un grande regno, continuarono nell’anarchia e nell’ipocrisia. Ma dopo la vittoria ottomana a Varna nel 1444, i turchi questa volta – senza ascoltare più nessuna supplica – agirono diversamente: di tutta l’erba fecero un fascio, ed eliminarono gli ultimi signori superstiti insieme all’intera aristocrazia feudale serba. Chi aveva creduto all’inizio ai compromessi e non si era schierato per combattere il nemico comune, pagò come tutti gli altri.
Migliore sorte toccò ai contadini; sotto i feudatari erano contadini, e sotto i turchi rimasero contadini. Ma conservarono la vita e…. il “sangue”. Dai poveri agricoltori, senza averi, i musulmani pretesero appunto la “gabella del sangue”, consistente nel dare ai turchi un ragazzo giovane e forte alle “nuove truppe” (yeni cheri), i “giannizzeri”, l’armata slava dei turchi.
Meticolosamente scelti, allevati, plagiati, addestrati, divennero i migliori soldati ottomani. Una potente macchina da guerra che in seguito diventerà famosa dentro l’esercito turco.
Per la maggior parte dei serbi iniziò invece la dispersione, la “diaspora serba”. Cacciati da ogni luogo, portarono con sé, dopo la battaglia del Kosovo, lo strazio nel cuore. Il 28 giugno del 1389, non lo dimenticarono mai più. L’impegno, preso come un dovere fu quello che prima o poi avrebbero vendicato la strage fatta dai turchi nel Campo degli Uccelli Neri (corvi=kossovopolje). Un luogo che per i serbi era sacro e sacro rimase nella memoria.
La Piana del Kosovo è lunga 70 km e larga 15, a 3 km da Pristina e a 16 da Raska, il cuore della Serbia, la “Roma” serba. Poco lontano, verso Nis, a Cele Kula, sorge invece un’altra raccapricciante testimonianza dell’orrore, causato dai turchi più tardi. Il governatore turco di Nis stroncò un altro tentativo insurrezionale dei serbi. Catturò 952 capi serbi, gli tagliò la testa, e i loro teschi li fece murare all’esterno di una torre, a mò di monito (la famosa torre dei Crani).
L’impegno che si prese il popolo serbo, e tutti i discendenti, e se lo portarono dietro fino alla diaspora, era “dove c’è un serbo ancora vivo, lì è Serbia”, e ad ogni nato lo si cominciò a battezzare e allevarlo fin dalla culla, come il “vendicatore della Piana dei Corvi Neri”. Questo confine ha già fatto scatenare nella storia 130 guerre, e spaccato il mondo in due fin dal 395 d.C.
La data i serbi non la dimenticarono mai! Lo stesso mese e lo stesso giorno del 28 giugno del 1914 lo studente Princip tenne fede a quell’impegno battesimale. Dopo 525 anni uccise l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria in nome della libertà dei serbi, provocando, secondo vicende ben note, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Scriveva Knickerbocker nel 1934 nel famoso libro Ci sarà la guerra in Europa?: “la Jugoslavia è il fattore militare più importante dei Balcani, importantissimo da considerare. I Serbi si sono sempre rivelati più pronti di ogni altro popolo nell’annusare da lontano l’odore di una guerra imminente. Se v’è in Europa una nazione che possa sapere se, come e quando scoppierà la guerra, dovrebbe essere la Jugoslavia. Loro sono realisti, non parlano di guerra, loro la fanno”. Hitler dedicò loro poca attenzione, e la pagò cara! A Belgrado – per una stupida rappresaglia – perse la guerra con tre anni di anticipo.
LA QUESTIONE BALCANICA
Il 1991 è stato l’anno in cui è riesplosa in maniera cruenta e imprevedibile la questione balcanica.
La questione balcanica, solo per limitarci al nostro secolo, fu una delle cause principali della guerra mondiale, dopo la quale un regno “fantoccio” (la Jugoslavia) fu creato espressamente dalle grandi potenze per assicurarsi il controllo e la stabilità della regione. La Jugoslavia veniva a costituire uno stato centralizzato che doveva contenere le spinte espansionistiche di Rumeni, Bulgari, Serbi che miravano a divenire la forza egemone dell’area.
Il regno iugoslavo era però un vero e proprio “minestrone” di razze e culture. Ad esso furono sottomessi i territori di Slovenia, Croazia, Vojovodina, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo e Macedonia: otto popoli, sei lingue, tre religioni e due alfabeti (cirillico e latino) sotto un unico, debole regno imposto dalle grandi potenze. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Jugoslavia venne invasa e occupata dai nazisti. Ciò non placò l’odio tra i nazionalisti dei vari gruppi etnici. Una guerra senza quartiere fu ingaggiata soprattutto tra i partigiani serbi di religione ortodossa (cetnici) e i cattolici croati (ustascia). Alla fine della guerra furono indette libere elezioni dalle quali uscì vincitore Josip Broz, noto come Tito, che aveva guidato la lotta partigiana di liberazione contro i tedeschi, assumendo anche il grado militare di maresciallo. Tito, nominato prima capo del governo e poi presidente della Repubblica federale, diede vita a una politica di equidistanza e di “neutralità attiva” tra il blocco sovietico e quello occidentale. Il processo di disgregazione in Jugoslavia cominciò nel 1980, con la morte di Tito, e si è acuito nel 1991, proprio con la proclamazione d’indipendenza da parte di Slovenia e Croazia. Tale iniziativa ha provocato una decisa reazione della Serbia. Nella repubblica croata, infatti, è presente una forte minoranza serba che ha rivendicato l’autonomia dei propri territori (soprattutto della regione della Krajna), chiedendo di accorparli alla Serbia. A questo punto la guerra civile è diventata inevitabile: gli scontri si sono sviluppati nell’estate del 1991 in Croazia tra le milizie di questa repubblica e gli ultranazionalisti serbi, appoggiati dall’esercito federale ancora sotto il controllo dei serbi. La situazione si è ulteriormente complicata nella primavera del ’92 con la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia e con la costituzione della Repubblica Federale di Iugoslavia da parte di Serbia e Montenegro. La forzata convivenze di etnie e di religioni ha scatenato la cosiddette “pulizia etnica”, termine usato per indicare le operazioni di rastrellamento compiute in un determinato territorio da parte del gruppo etnico maggioritario nei confronti di quelli minoritari, con conseguente espulsione o deportazione di quest’ultimi. Mentre, per fortuna, l’intervento dell’ONU ha portato ad un periodo di relativa pace, anche se fragile, un’altra questione infiamma i Balcani agli inizi del 1998.
KOSOVO: UNA NUOVA POLVERIERA INFIAMMA I BALCANI
a) Come nasce la questione Kosovo
Il Kosovo ha una popolazione di circa 2.100.000 abitanti, di cui il 90% di etnia albanese e il 10% di etnia serba. Alla fine della seconda guerra mondiale, riceve lo status di territorio amministrativo autonomo all’interno della Repubblica di Serbia.
Successivamente all’autoproclamata repubblica non riconosciuta però né dalla Serbia né dalla Comunità del 1990, l’UCK, l’esercito clandestino di liberazione del Kosovo, inizia azioni di guerriglia contro la polizia serba e promuove una serie di manifestazioni popolari per l’indipendenza della regione. Una di queste sfocia, il 1° marzo 1998, in scontri violenti che causano sedici morti tra guerriglieri e i manifestanti e quattro tra i poliziotti serbi.
In seguito si moltiplicano gli scontri; il presidente della Repubblica iugoslava Milosevic, allora, invia truppe speciali serbe, che si riversano nella capitale kosovara Pristina e nei villaggi albanesi, provocando la morte di decine di persone anche tra la popolazione civile.
Gli scontri aumentano, nei mesi successivi, con l’intervento dell’esercito serbo e con il prevalere, tra la popolazione di origine albanese, delle fazioni armate indipendentiste. L’artiglieria serba bombarda ripetutamente i villaggi del Kosovo dove trovano rifugio i guerriglieri dell’UCK.
L’Europa e gli Usa, intanto, minacciano sanzioni contro Belgrado, anche se non intendono appoggiare i movimenti indipendentisti albanesi. In maggio il Gruppo di contatto per la Bosnia (di cui fanno parte Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Russia e Italia) decide il blocco degli investimenti stranieri nella Repubblica Federale Iugoslava.
L’esercito serbo, tuttavia, prosegue la sua offensiva riuscendo, tra luglio e agosto del 1998, a strappare all’UCK il controllo della maggior parte del territorio. Decine di migliaia di profughi, intanto, continuano a fuggire in Albania per trovare scampo ai combattimenti. A questo punto l’ONU, malgrado la decisa opposizione della Russia, intima il ritiro dell’esercito serbo dal Kosovo.
Milosevic, però, non cede e allora, su pressione degli Stati Uniti, interviene la NATO preparando un intervento militare che prevede bombardamenti aerei sia sulle postazioni serbe nel Kosovo sia sulla stessa Belgrado.
Le minacce ripetute e decise della Nato portano a risultati concreti, tanto che nel mese di ottobre l’esercito serbo inizia il ritiro dal Kosovo.
Cominciano poi a Rambouillet, vicino Parigi, delle lunghe trattative promosse e guidate dai ministri esteri degli Usa e degli altri principali paesi europei, i quali approntano un particolareggiato piano di pace. Tale piano non viene però accettato dai Serbi, anche perché i suoi punti – come riveleranno in seguito anche fonti occidentali – vengono continuamente cambiati, su pressioni degli Usa, in senso sempre più sfavorevole ai serbi stessi.
b) Gli Usa e la Nato in guerra contro la Serbia
agli inizi di Marzo 1999 interviene anche il presidente Usa Bill Clinton che, minacciando l’intervento armato, comincia a scaldare i suoi micidiali cacciabombardieri. Ma i Serbi non recedono, e così la NATO, guidata dai militari usa e inglesi, il 23 marzo dà il via libera ai Raid aerei. Immediatamente un’impressionante pioggia di missili e di bombe comincia ad abbattersi non solo sulle forze serbe in Bosnia, ma sullo stesso territorio della Repubblica serba.
L’occidente giustifica i bombardamenti dichiarando di intervenire a difesa dei diritti umanitari degli albanesi e accusando i Serbi di operazioni di pulizia etnica che provocano migliaia di morti tra la popolazione albanese del Kosovo. I Serbi ribattono sostenendo la falsità delle notizie diramate dalla stampa occidentale, asservita completamente agli Stati Uniti, e accusando a loro volta l’UCK, armato e sostenuto dagli stessi Usa, di commettere atrocità a danno della popolazione serba in Kosovo.
In ogni caso, centinaia di migliaia di civili albanesi abbandonano la regione.
Contro i bombardamenti quotidiani sulla Serbia, e in favore di una ripresa di una trattative di pace, si levano le voci del Papa e del nostro presidente Scalfaro; così come si organizzano centinaia di manifestazioni pacifiste in tutto il mondo, compresa l’Italia, dove il capo del governo D’Alema dissente ma non osa opporsi alla determinazione di Clinton di continuare a oltranza i bombardamenti.
E, infatti, la guerra “umanitaria” prosegue. La Nato e Clinton assicurano che saranno colpiti dai missili “intelligenti” solo gli obiettivi militari, ma non passa giorno senza che i cacciabombardieri Nato colpiscano, “per errore”, un ospedale, un treno, una centrale elettrica, un ponte, causando vittime tra i civili interni. Finanche convogli di profughi e l’ambasciata cinese sono centrati dai missili americani.
Clinton spera in una ribellione del popolo serbo che, al contrario, pur prostrato dai bombardamenti, si stringe attorno a Milosevic. Questi prima si dichiara pronto a trattare in caso di sospensione dei raid aerei, poi annuncia il ritiro delle forze iugoslave dal Kosovo, ma gli inglesi e gli americani non si piegano alle richieste di sospensione degli assalti aerei – che, seppur timidamente, arrivano dalla Russia, dalla Cina e dagli stessi stati europei, Italia compresa – ma insistono per la resa incondizionata.
Finchè, dopo molti altri giorni di bombardamenti aerei, il 3 giugno Milosevic accetta il piano di pace, elaborato degli Occidentali, non solo dando luogo a un rapido ritiro del proprio esercito, ma acconsentendo all’arrivo di una forza multinazionale ne territorio iugoslavo del Kosovo.
E così dopo 78 giorni di bombardamenti e di massacri, dopo la messa in ginocchio dell’economia dello stato iugoslavo, il 9 giugno 1999 finisce la guerra nei Balcani: in Macedonia i generali della Nato e di Belgrado firmano il trattato di pace che sancisce le condizioni già accettate da Milosevic.
La situazione nel dopoguerra è quella che era facile prevedere: Milosevic rimane al potere e a nulla valgono i tentativi degli Usa di mettergli contro il popolo serbo; dall’altra parte, il mondo assiste indifferente ai nuovi orrori provocati dalle rappresaglie degli albanesi e dell’Uck contro la popolazione serba in Kosovo. Gli occidentali, inoltre, rifiutano gli aiuti per la ricostruzione postbellica della Federazione iugoslava, ponendo come condizione la deposizione di Milosevic.
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LE ULTIME DA BELGRADO
QUANDO CROLLA UN REGIME
Il 24 settembre viene offerta ai serbi la possibilità di votare. Milosevic tenta, senza riuscirci, di manovrare le elezioni ostacolando con tutti i mezzi la libera affluenza alle urne. Usa il suo sfrenato, decennale e consolidato potere per ottenere ad ogni costo la vittoria elettorale. Tenta di far credere che gli elettori (compresi gli Albanesi del Kosovo, che si sono astenuti quasi totalmente) hanno confermato la fiducia alla sua maggioranza. I risultati però non avvallano questa tesi, ma, al contrario fanno emergere un vantaggio dell’opposizione.
Dal mondo arrivano segnali di condanna nei confronti di Milosevic, ha paura del suo regime, osserva e pretende sempre di più che lo stesso abbandoni la Jugoslavia. Il 5 ottobre la Corte Costituzionale dichiara, su ordine di Milosevic, che servono nuove elezioni oer stabilire il vincitore e che si dovranno effettuare entro la metà dell’anno prossimo. Il popolo a questo punto decide di fare la storia. Sulla piazza arriva l’immediata risposta: le immagini del Parlamento occupato e della Tv in fiamme hanno fatto il giro del mondo. La Jugoslavia ha scelto di cambiare.
Sono l’esercito e la polizia a dover decidere qual è il limite insuperabile della repressione. Alcuni reparti armati del ministero dell’Interno se la sono data a gambe, altri sono passati dalla parte dei manifestanti, e se è troppo presto per decretare la resa dei pretoriani di Milosevic non lo è per rilevare che le strutture portanti del regime mostrano un inedito disorientamento.
Nella Belgrado divenuta l’ultima trincea della memoria comunista europea, sono i mezzi d’informazione a dover confermare una scelta di campo che in queste ore pare acquisita, con la Tanjug che definisce Kostunica “presidente eletto” e l’ex Tv di Stato che si proclama “libera”.
L’impegno di tutti, anche di Vojislav Kostunica, deve essere ora quello di scongiurare un bagno di sangue. Da sempre nei Balcani il primo colpo di fucile innesca spirali di violenza non più controllabili, e la Serbia non farebbe eccezione. È di certo per questo che i governi occidentali hanno preferito rivolgere appelli ai generali da poco combattuti nel Kosovo, e divenuti l’ago della bilancia di una tragedia pronta ad esplodere. Ma non può non colpirci, mentre tratteniamo il fiato per il destino della Iugoslavia, la sostanziale impotenza dei Grandi, la loro incapacità di influire davvero sugli eventi, la loro lontananza dai tumulti e dalle passioni delle piazze di Belgrado. Clinton ha escluso un intervento militare in Serbia al quale per fortuna nessuno pensa. Ormai il regime di Milosevic è arrivato alla fine. Il leader dell’opposizione Kostunica ha salutato la folla parlando di “Serbia liberata”.
Bibliografia
Storia e storiografia di Antonio Desideri e Mario Themelly (G. D’Anna 2000)
Quale futuro di Aldo de Matteis e Brunella Conte (Loescher 2000)
Nuove prospettive storiche di Gianni Gentile, Luigi Ronga, Aldo Salassa (La Scuola 2000)
Corriere della Sera
Corriere del 2000 Internet
La Serbia Internet
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