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Categoria: | Storia |
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La nuova Italia: il governo della destra
IL COMPLETAMENTO DELL’UNIFICAZIONE: LA CONQUISTA DEL VENETO
Si trattava in primo luogo di portare a termine l’unificazione nazionale, cui mancavano ancora il Veneto, sotto il dominio austriaco, e Roma, soggetta al potere temporale del papa che aveva rifiutato di riconoscere il nuovo stato. Completare l’unità non significava solo portare i confini politici dello stato a coincidere con quelli geografici della penisola, ma anche di risolvere un problema di stabilità politica.
La questione del Veneto fu risolta attraverso l’alleanza con la Prussica nella guerra vittoriosa che questa condusse contro l’Austria nel 1866. Per l’Italia questa guerra , come osservo Cattaneo, fu disastrosa dal punto di vista militare: l’esercito italiano fu sconfitto da quello austriaco a Custoza e la flotta, guidata dall’ammiraglio Persano, subì una disfatta nelle acque di Lissa: l’unico successo fu ottenuto a Bezzecca dai “Cacciatori delle Alpi” di Garibaldi, che si aprì la strada verso Trento ma fu fermato dall’armistizio raggiunto nel frattempo da prussiani e austriaci.
LA CONVEZIONE DI SETTEMBRE:
UN TENTATIVO DI SOLUZIONE DELLA QUESTIONE ROMANA
Più difficile da risolvere era il problema di Roma, la cosiddetta questione romana, anche perché su questo terreno le possibilità di manovra del governo italiano erano pesantemente limitate dalla subordinazione del giovane Stato alla Francia di Napoleone III. Una subordinazione che discendeva sia dal fatto che l’unificazione nazionale era stata condotta, almeno in una prima fase, grazie all’appoggio francese; sia dalla presenza in Roma, a tutela del pontefice, di una guarnigione militare transalpina.
Nel settembre 1864 il governò italiano firmò con quello di Parigi una convenzione che prevedeva il graduale ritiro del presidio francese da Roma, a fronte dell’impegno italiano a tutelare da ogni attacco lo Stato pontificio e a spostare la capitale da Torino, cosa che avvenne nel dicembre dello stesso anno con il suo trasferimento a Firenze. L’opinione pubblica democratica, che faceva della questione romana uno dei suoi grandi temi di battaglia politica, condannò sia la Convenzione di settembre sia il trasferimento della capitale come una implicita rinuncia a Roma. I democratici, Mazzini e Garibaldi in testa, erano favorevoli alla conquista di Roma. I democratici, Mazzini e Garibaldi in testa, erano favorevoli alla conquista di Roma attraverso un’azione militare e popolare. Garibaldi tentò di prendere la città due volte (1862 e nel 1867) al comando di truppe di volontari , ma fu fermato con la forza: la prima volta all’Aspromonte, dove si vide l’esercito italiano sparare contro i garibaldini; la seconda volta a Mentana ad opera dei francesi.
LE VARIE POSIZIONI ALL’INTERNO DELLA CLASSE DIRIGENTE
Il governo italiano era contrario ai tentativi di forza perché ne temeva i contraccolpi internazionali: ma all’interno della classe dirigente esistevano diversi orientamenti in merito al rapporto con la chiesa. I moderati della Destra seguivano in maggioranza la linea tracciata da Cavour con il motto , che si ispirava al principio della laicità dello stato e della separazione fra stato e chiesa: il potere temporale doveva essere autonomo da quello spirituale, garantendo nel contempo al pontefice la massima libertà nell’esercizio delle sue funzioni religiose. Questa posizione rifletteva il liberalismo caratteristico del ceto politico settentrionale, non privo di simpatie per il cattolicesimo e di speranze in una sua riforma che lo adeguasse ai tempi. Ma in altri settori della classe dirigente; sia della Destra sia della Sinistra, era invece forte l’eco del giurisdizionalismo tipico della cultura meridionale: invece del separatismo, si professava un aperto laicismo, sostenendo la necessità di affermare i diritti dello stato e di ridurre l’influenza della chiesa sulla società come condizione per il progresso civile.
LA FINE DEL POTERE TEMPORALE DEI PAPI
Del resto, la posizione separatista, favorevole a una trattativa di lungo periodo, si scontrava con i fatti. Da un lato, le necessità di bilancio spinsero il governo ad approvare nel 1866-67 leggi di requisizione di beni dell’asse ecclesiastico; dall’altro, Pio IX sembrò dar ragione ai più accesi laicisti assumendo una posizione di assoluta intransigenza, nei confronti sia del nuovo stato, col rifiuto di ogni soluzione diplomatica, sia della società moderna nel suo complesso. Nel 1864 il pontefice pubblicò, con l’enciclica Quanta cura, il Sillabo, un elenco di proposizioni e teorie condannate dalla chiesa, in cui trovavano posto non solo le idee socialiste, ma anche quelle liberali, e veniva risolutamente rifiutato il principio dell’autonomia dello stato dalla chiesa. Seguì nel 1869 la convocazione del Concilio Vaticano I, che proclamò il dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e di morale.
Il governo italiano si andò così progressivamente orientando, anche se con molte esitazioni e resistenze, verso un’azione di forza, che divenne politicamente possibile dopo la sconfitta e la deposizione, ad opera dei prussiani, di Napoleone III. Il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono in Roma attraverso la breccia di Porta Pia, ponendo fine al potere temporale dei papi, che durava da oltre un millennio.
LE CONSEGUENZE DELLA PRESA DI ROMA
La questione romana era ben lontana dall’esser risolta. Il parlamento, infatti, approvò nel maggio 1871 una serie di norme (, cioè garanzie) destinate a regolare i rapporti fra stato e chiesa; seguì, nel luglio, il trasferimento della capitale a Roma. Il contenuto della legge rifletteva una posizione di compromesso tra i “separatisti” e i fautori di una netta limitazione dei poteri del pontefice: si dava garanzia alla chiesa di poter svolgere autonomamente la propria funzione religiosa, si assegnava al papa la sovranità sulla Città del Vaticano e una dotazione annua, conservando però allo stato il diritto di controllo sulla destinazione dei beni ecclesiastici. Pio IX respinse queste norme, che giudicava unilaterali e quindi inaccettabili, e vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica. Una grave frattura, quella fra laici e cattolici, si apriva così nel paese appena unificato.
L’ITALIA DEL 1861; TRA RITARDI NELLO SVILUPPO ECONOMICO E UN ETEROGENEO ASSETTO AMMINISTRATIVO
L’Italia, all’indomani dell’Unità, aveva due principali problemi: un complessivo ritardo nello sviluppo economico; una grave eterogeneità e frantumazione dal punto di vista economico, politico-amministrativo, culturale, risultato di secoli di divisione politica e di dominazione straniera. L’Italia era un paese di 21 milioni di abitanti, con reddito pro capite pari ai due terzi di quello francese e a metà di quello inglese.
Arretrata era l’agricoltura, salvo che in alcune zone della pianura padana e della Toscana dove erano stati compiuti investimenti e ammodernamenti; fragile l’industria, anche in questo caso con la parziale eccezione di fabbriche tessili, siderurgiche e meccaniche nel Nord del paese.
Leggi, codici, scuole, sistemi fiscali erano diversi da una zona all’altra del paese. Solo venticinque italiani su cento sapevano leggere e scrivere; solo due-tre italiani su cento usavano correttamente la lingua nazionale: tutti gli altri si esprimevano nei dialetti locali più diversi. Le condizioni di vita delle popolazioni contadine e degli ancora ristretti nuclei di operai erano pessime: l’insufficiente alimentazione e le cattive condizioni igienico sanitarie rendevano ancora distruttive malattie infettive che altrove erano già state debellate, come il tifo, il colera, il vaiolo. La malaria e la pellagra colpivano ogni anni decine di migliaia di lavoratori delle campagne.
Era questa l’Italia che, affacciandosi sulla scena internazionale, si trovava a competere con stati di grande forza economica e unità politica, rispetto ai quali la sua collocazione periferica si era ulteriormente aggravata dall’inizio del secolo.
LA DESTRA STORICA ALLA GUIDA DEL NUOVO STATO
Il suo nucleo era costituito dal moderatismo centro settentrionale maturato negli ambienti della grande proprietà terriera, della nobiltà sabauda, della borghesia imprenditoriale lombarda: possidenti erano il toscano Bettino Ricasoli e l’emiliano Marco Minghetti; di nobile famiglia i piemontesi Luigi Federico Menabrea e Alfonso Lamarmora; in ambiente imprenditoriale si erano formati il lombardo Stefano Jacini e il piemontese Quintino Sella. Accomunavano questi uomini alcuni elementi di fondo: il culto per l’onestà e oculata amministrazione della cosa pubblica, che essi consideravano quasi un prolungamento di quella praticata nella loro azienda o proprietà; la fiducia nel liberismo e nella sua capacità di mettere in movimento le energie della nazione; la diffidenza nei confronti dei partiti organizzati; la convinzione di essere un’elite dirigente capace di agire nell’interesse della nazione esclusivamente seguendo i dettami della propria coscienza, anche per il bene di quelle masse popolari alle quali si guardava con un misto di rispetto e paternalismo; infine, una pressoché totale incomprensione dei problemi della società meridionale, percepita come arretrata e turbolenta ma del tutto sconosciuta.
L’intera classe politica unitaria, di governo come dio opposizione, rappresentava una base sociale esigua.
LA SCELTA DEL NUOVO ASSETTO AMMINISTRATIVO: ACCENTRAMENTO O DECENTRAMENTO?
Sul piano istituzionale, la Destra estese a tutto il regno italiano la legislazione vigente nel regno di Sardegna a cominciare dallo Statuto albertino, la Carta costituzionale concessa da Carlo Alberto nel 1848. Lo statuto, che sarebbe rimasto in vigore sino al 1948, accoglieva le fondamentali rivendicazioni liberali, ma lasciava ampio spazio al potere del sovrano e del governo nei confronti del parlamento; cioè diede ai governi unitari lo spazio istituzionale per operare spesso in autonomia dalle camere.
La scelta in favore della continuità dell’ordinamento sabaudo si accompagnò all’accentramento amministrativo, poiché lo stato sardo si era modellato su quello francese napoleonico. Fu questa una scelta che sollevò molte discussioni: si trattava di decidere se concentrare tutto il potere nell’amministrazione centrale oppure concedere una certa autonomia alle realtà locali al fine di rispettare e di valorizzare le diversità esistenti nell’eterogenea realtà italiana.
Nel 1861 Marco Minghetti presentò in parlamento un progetto che prevedeva un parziale decentramento delle funzioni di governo agli organi elettivi locali e prefigurava grandi aggregazioni amministrative su base regionale. Il progetto non arrivò neppure al voto, per l’opposizione della maggioranza e dello stesso Cavour: nonostante le dichiarazioni di principio e il comune orientamento liberale, critico nei confronti di ogni accentramento del potere, negli uomini della Destra prevalse il timore di perdere il controllo di uno stato ancora fragile dando spazio con il decentramento a rivendicazioni municipalistiche ai nostalgici dei Borbone o ai democratici.
L’UNIFORMAZIONE ALL’ORDINAMENTO SABAUDO
La legge di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865 impose pertanto all’intera penisola l’ordinamento sabaudo: la legge elettorale, come abbiamo gia detto; la legge comunale e provinciale; il sistema scolastico; l’ordinamento amministrativo; il codice civile, di commercio, di navigazione.
Il regno fu diviso in 59 province; in ogni provincia il governo era rappresentato dai prefetti, la massima autorità in materia di scuola, sanità, ordine pubblico; i prefetti rispondevano del loro operato esclusivamente al ministro dell’interno. Anche i sindaci erano nominati dal governo e rispondevano a esso: le realtà locali erano dunque prive di ogni autonomia.
Queste scelte, coerenti con l’obiettivo di mantenere l’unità dello stato, ebbero tuttavia pesanti conseguenze: lo stato italiano fu sin dall’inizio accentrato, burocratico, con un’amministrazione spesso poco efficiente.
LE PRINCIPALI DECISIONI IN MATERIA ECONOMICA
Sul piano economico le scelte compiute dalle Destra si mossero lungo tre principali direzioni: l’unificazione economica del paese, la creazione di infrastrutture e il risanamento del bilancio statale. Questi due ultimi obiettivi erano in contraddizione fra loro, perché il primo richiedeva investimenti che gravavano su un bilancio già passivo.
L’adesione alla dottrina liberista induce la Destra a ritenere che l’economia italiana si sarebbe potuta sviluppare solo favorendo la creazione di un mercato interno e l’apertura verso l’estero. Quanto al primo aspetto, il governo operò abbattendo dazi e dogane interne e realizzando l’unificazione monetaria: nel 1862, la lira piemontese divenne l’unità di conto nazionale. L’apertura verso l’estero venne sancita estendendo a tutto il paese la tariffa piemontese, fra le più basse d’Europa, e firmando nel 1863 trattati commerciali liberisti con Francia e Inghilterra, che inserivano l’Italia nell’area commerciale franco-inglese e la allontanavano da quella austro-germanica.
LA SCELTA DEL LIBERO SCAMBIO
Non sfuggiva agli uomini della Destra che una politica commerciale liberista avrebbe esposto l’economia italiana alla concorrenza di sistemi produttivi più evoluti: ma essi seguirono l’impostazione cavouriana, che riteneva necessario il libero scambio per favorire lo sviluppo del paese nei suoi settori “naturali”, vale a dire l’agricoltura, le industrie tessili e di trasformazione dei prodotti agricoli, la meccanica leggera. La scelta liberoscambista ebbe effetti contraddittori: da un lato, essa favorì le esportazioni di prodotti agricoli e di semilavorati; dall’altro, generò sofferenza per l’apparato industriale che, danneggiato dalla concorrenza delle più competitive merci franco-inglesi, non conobbe uno sviluppo significativo nel primo ventennio postunitario. Particolarmente sfavorevole furono le conseguenze dell’unificazione economica e della politica doganale liberista sulla già debole industria meridionale, sino allora protetta dalle alte tariffe doganali borboniche.
: INFRASTRUTTURE E DEBITO POLITICO
l’unificazione e l’apertura del mercato nazionale, per risultare efficaci richiedevano un programma di sviluppo delle infrastrutture. La destra promosse ingenti investimenti finalizzati a , ottenendo risultati di grande rilievo, particolarmente nel settore ferroviario.
La valutazione degli effetti economici della politica ferroviaria della Destra è stata a lungo oggetto di discussioni. Certamente, essa ebbe nel breve periodo effetti propulsivi assai modesti sull’industria nazionale, perché rotaie, locomotive e vagoni vennero per lo più importati. Inoltre, fu compiuta la scelta di unire longitudinalmente la penisola e i suoi grandi centri urbani, per favorire i traffici con il Nord Europa e con l’Oriente, mentre solo nel Settentrione lo sviluppo della rete ferroviaria fu articolato e ramificato a livello regionale.
La politica di sviluppo delle infrastrutture rendeva nel contempo più difficile la situazione finanziaria dello stato, già aggravata dai costi sostenuti per la realizzazione dell’Unità, per il trasferimento della capitale prima a Firenze e poi a Roma, per la guerra del 1866 contro l’Austria. Nel 1861 fu realizzata anche l’unificazione finanziaria iscrivendo in un unico tutti i debiti dei vecchi stati: ne risultò un debito di 2402 milioni di lire, per oltre la metà dovuta allo stato sardo.
PAREGGIO DEL BILANCIO E SISTEMA FISCALE
Il debito si innalzò costantemente, a causa delle spese di cui abbiamo parlato, nei primi vent’anni di vita unitaria, sino a raggiungere gli otto milioni di lire nel 1870 e i dieci milioni all’inizio degli anni ’80. la politica finanziaria della Destra si mosse in due direzioni: per far fronte alle spese straordinarie si fece ricorso a prestiti collocando titoli del debito pubblico sul mercato italiano e, soprattutto, francese e alla vendita di beni del demanio pubblico ed ecclesiastico. Quanto alle spese ordinarie, il governo della Destra, anche in questo caso fedele ai dettami del liberismo, si prefissò come obiettivo prioritario il pareggio del bilancio, che fu effettivamente raggiunto con il ministro Quintino Sella nel 1876, a prezzo però di un progressivo inasprimento del prelievo fiscale.
Tra il 1860 e il 1880 la quota di ricchezza nazionale prelevata dal fisco passò dal 6.9 all’11.4%. ma più grave è il fatto che tale prelievo fu molto squilibrato: infatti, in una prima fase esso riguardò soprattutto le imposte dirette, che colpivano redditi in gran parte di origine agraria; a partire dalla metà degli anni ’60 invece, la composizione del carico tributario si modificò a danno dei consumi: dal 1865 al 1871 il gettito derivante dalle imposte indirette aumentò del 107%, contro il 63% delle imposte dirette.
La svolta si ebbe nel 1868, con l’introduzione della tassa sul macinato, antica e detestata imposta sulla macinazione dei grani: questo provvedimento, che colpiva i contadini nel loro consumo fondamentale, diede origini a forti proteste popolari in molte località del paese, con assalti ai mulini distruzione dei contatori, invasioni dei municipi per dare alle fiamme i ruoli delle imposte.
LO STATO LIBERALE DEL MEZZOGIORNO
La Destra affrontò sempre come problemi di ordine pubblico da risolvere con la forza, le crisi sociali che nascevano dalle campagne, dalla miseria dei contadini, dall’irrisolto problema della terra. Già le popolazioni meridionali che erano insorte all’arrivo di Garibaldi gridando esprimevano, più che un’ideale politico la speranza che la caduta del regime borbonico portasse con se anche una redistribuzione delle terre. Speranze andate subito deluse perché come abbiamo visto Garibaldi non attuò alcuna riforma agraria e i generali garibaldini repressero con durezza le rivolte contadine scoppiate in Sicilia.
Dopo l’Unità, la Destra non seguì certo una politica favorevole alle popolazioni meridionali. Il vuoto di potere apertosi con la caduta dei Borbone fu colmata solo enfatizzando l’autorità dello Stato, mentre l’applicazione della legislazione sabauda provocò stridenti contraddizioni e reazioni di rifiuto in regioni profondamente diverse dal Piemonte per assetto sociale, cultura, tradizioni: esemplare, in proposito, il caso del sistema fiscale, che sottopose i cittadini meridionali a una tassazione molto più severa di quella borbonica, e quello del servizio militare, che introdusse nella regione del Mezzogiorno sette anni di leva obbligatoria.
ESTRANEITA’ DEL SUD AL NUOVO STATO
Tra le popolazioni meridionali e lo stato si venne così instaurando una profonda sfiducia, legata essenzialmente al fatto che lo stato non seppe mostrarsi alle popolazioni come il garante della giustizia: cioè quella forza in grado di tutelare i diritti di tutti, indipendentemente dalle condizioni di ceto o dall’appartenenza familiare e politica.
Sicchè la gran massa della popolazione, anziché trasferire la propria fiducia alle istituzioni liberali, la conservò e la rafforzò nei confronti dei poteri tradizionali realmente dominanti nella realtà locale: le famiglie proprietarie, i gruppi, le reti di parentela.
Questa considerazione è importante per comprendere il radicamento di organizzazioni criminose quali la camorra nel napoletano e la mafia in Sicilia, già operanti in età borbonica: esse non solo non furono debellate dallo stato unitario ma accrebbero la loro influenza stringendo rapporti con esponenti del potere politico, a livello locale e nazionale, gestendo favori e clientele, controllando l’elezione dio questo o quel deputato.
IL BRIGANTAGGIO
Sono queste le condizioni sociali in cui si colloca il grave fenomeno del brigantaggio, che insanguinò il Mezzogiorno continentale del paese sino al 1865. le bande dei cosiddetti “briganti” erano formate da contadini, da sbandati del disciolto esercito borbonico e garibaldino, e da legittimisti, da renitenti alla leva, da banditi veri e propri. Esse prendevano di mira i “galantuomini”, cioè i possedenti e i politici locali, assaltando le loro fattorie, devastando e uccidendo; saccheggiavano i palazzi dei borghesi; incendiavano gli archivi comunali per distruggere i documenti fiscali e di leva; aprivano le carceri. Si ribellavano contro lo stato italiano, spesso in nome dei Borbone e del papa, dai quali ricevevano aiuti materiali.
L’unica risposta che la Destra seppe dare fu la repressione militare. Cinque anni durò la vera e propria guerriglia tra i briganti e lo stato, che arrivò a impiegare, per reprimere il fenomeno, 116 mila uomini: intere province furono poste in stato d’assedio; i tribunali militari vennero impiegati per giudicare i briganti, l’autorità militare si sostituì a quella civile; si ebbero massacri, fucilazioni e rappresaglie indiscriminate. Nel 1865 il brigantaggio era stato stroncato, ma diverse migliaia fra soldati, briganti e civili avevano perso la vita.