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STORIA
LA NUOVA ITALIA E IL GOVERNO DELLA DESTRA
LA DESTRA STORICA
Il primo governo ad affermarsi dopo l'unificazione dell'Italia fu un governo di destra guidato da Bettino Ricasoli, successore di Cavour. Tale governo era l'espressione dell'aristocrazia e della borghesia liberale moderata cioè del ceto sociale che aveva guidato il paese all'unificazione nazionale. I problemi che dovettero affrontare li misero di fronte a soluzioni che avrebbero cambiato il futuro del paese. In primo luogo si dovette completare l'annessione del Veneto sotto il dominio austriaco, e di Roma il cui potere apparteneva al Papa.
IL COMPLETAMENTO DELL’UNIFICAZIONE DEL VENETO
Dopo l'unificazione l'Italia non era una nazione stabile, infatti diverse forze esterne e interne potevano mettere in discussione l'unità raggiunta, a cominciare dagli austriaci per finire a Francesco II. Quest'ultimo trovato rifugio presso la Santa sede tramava una rivolta contro il nuovo Stato, ma questa si rivelò un sanguinoso scontro che indebolì il mezzogiorno. La questione del Veneto venne risolta con l'alleanza con la Prussia. Quest'ultima avendo vinto la guerra contro gli austriaci con l'aiuto dell'esercito italiano, occupò il Veneto è lo cedette all'Italia. L'Italia battezzò questa guerra come la terza guerra d'indipendenza, che in realtà si rivelò dal punto di vista militare un disastro.
LA “QUESTIONE ROMANA” E LA CONVENZIONE DI SETTEMBRE
Restava da risolvere la situazione di Roma, poi denominata "questione romana". Il problema principale era dato dall’appoggio che i francesi davano al Papa. Nel settembre del 1864 il governo italiano firmò con quello di Parigi una convenzione, che prevedeva il graduale ritiro delle truppe francesi a patto che l'esercito italiano s'impegnasse a difendere lo Stato Pontificio qualora questi fosse stato attaccato, e di spostare la capitale da Torino a Firenze. L'opinione pubblica condannò la convenzione di settembre, affermando che la conquista di Roma sarebbe dovuta avvenire attraverso un'azione militare e popolare. Garibaldi tentò due volte nell'impresa ma fallì. Nel secondo tentativo fu esiliato a Caprera.
LA DISCUSSIONE ALL’INTERNO DELLA CLASSE DIRIGENTE
Il governo italiano era contrario ad azioni militari in quanto temeva dei contraccolpi a livello internazionale. Ma all'interno della classe dirigente esistevano diversi orientamenti in merito al rapporto tra Stato e Chiesa. I moderati della destra seguivano il principio tracciato da Cavour, con il motto "libera chiesa in libero Stato" che auspicava al principio della laicità dello Stato e della separazione fra Stato e Chiesa, in modo da garantire al Papa massima libertà nell'esercizio delle sue funzioni. Ma in altri settori della destra e della sinistra c'era chi pensava che il separatismo non era la soluzione migliore. Questi professavano un aperto laicismo sostenendo la necessità di affermare i diritti dello Stato e di ridurre il potere spirituale della Chiesa.
PIO IX E IL SILLABO
Tuttavia l'idea che Roma dovesse divenire capitale d’Italia, e che la chiesa avrebbe dovuto rinunciare al potere temporale venne condivisa da tutta la classe dirigente. Il dubbio era se adottare una politica transigente o conciliatorista, cioè favorevole a cercare un nuovo Stato seguendo il principio "cattolici con il Papa liberale con lo statuto", o una politica intransigente, intenta a difendere il dominio temporale del Papa ritenuto indispensabile per assicurare alla Chiesa autonomia e indipendenza. La questione fra Stato e Chiesa divenne aspra col passare del tempo rendendo difficile la convivenza. Da un lato il parlamento approvò leggi laiche, come l'introduzione del matrimonio civile, dall’altro Pio IX sembrò dare ragione ai laicisti assumendo una posizione intransigente nei confronti del nuovo Stato, rifiutando qualsiasi soluzione diplomatica. Nel 1364 il Papa pubblicò il sillabo, un elenco di teorie e proposizioni che la chiesa condannava in cui trovavano posto le idee socialiste ma anche quelle liberali, rifiutando categoricamente il principio dell'autonomia dello Stato dalla Chiesa. Tale documento comportò una rottura con l'opinione pubblica liberale, ma diede un duro colpo alle tendenze intransigenti e cattolico liberali. Ne seguì la convocazione del concilio Vaticano I che proclamò il dogma dell'infallibilità del Papa in materia di fede e di morale.
LA PRESA DI ROMA E LE SUE CONSEGUENZE
Il governo italiano, anche se con molte esitazioni si orientò verso un'azione di forza. Il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrano a Roma (breccia di porta Pia ), mettendo fine al potere temporale del Papa. Pio IX dichiarò l'azione del governo ingiusta, violenta, nulla e invalida, e scomunicò i responsabili dichiarandosi prigioniero politico dello Stato. Successivamente il governo emanò la "legge delle guarantigie", cioè delle norme che regolavano il rapporto tra Stato e Chiesa. Successivamente la capitale fu spostata Roma. Il contenuto della legge serviva da compromesso tra i separatisti e chi voleva limitare i poteri del Papa. Si dava garanzia alla chiesa di poter svolgere autonomamente e liberamente le proprie funzioni religiose, assegnando al Papa la sovranità dello Stato del Vaticano con una dotazione annua, riservando allo Stato il diritto di controllo sulla destinazione dei beni ecclesiastici. Pio IX respinse quelle norme giudicandole unilaterali e quindi inaccettabili e vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica, provocando una grave fattura fra laici e cattolici.
I RITARDI DELLA NUOVA ITALIA
Altri problemi di ordine economico, sociale e amministrativo attendevano il governo, tra i quali il ritardo nello sviluppo economico, e una profonda eterogeneità e frantumazione dal punto di vista economico e politico amministrativo, culturale, derivante da secoli di divisione politica e di dominazione estera. L'agricoltura era arretrata salvo in alcune zone della pianura padana, ancor più debole era l'industria, fatta eccezione per quelle del Nord Italia. Inesistente era il mercato interno a causa delle differenziazioni dei sistemi commerciali, è l'inefficienza delle comunicazioni.
UN ETEROGENEO ASSETTO CULTURALE E AMMINISTRATIVO
Leggi, codici, scuole, sistemi fiscali erano diversi da una zona all'altra del paese soltanto una modesta minoranza riusciva correttamente a parlare la lingua nazionale. Le condizioni di vita delle popolazioni specialmente quelle dei ceti meno abbienti erano pessime, i contadini in particolar modo convivevano giornalmente con la fame, la sporcizia e con un'inadeguata assistenza medica. La mortalità infantile era altissima.
I CARATTERI DELLA DESTRA STORICA
Gli interrogativi che la destra si poneva erano quelli di dare leggi appropriate al nuovo Stato, decidere quale politica economica adottare per favorire lo sviluppo. Il tutto era reso difficile dal fatto che chi governava apparteneva ad una classe dirigente, quindi non poteva comprendere la difficile situazione in cui versavano i ceti meno abbienti. Queste persone avevano fatto dell'oculata amministrazione delle proprie aziende e del liberalismo la propria filosofia di vita, perciò le scelte che andavano ad effettuare, seppur con indubbia onestà, erano spinte da un senso di paternalismo, che non bastava a capire e risolvere i problemi della società meridionale.
IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA
Il resto del popolo, quello non faceva parte della classe dirigente rappresentava una base sociale esigua, non in grado di potere partecipare attivamente alla vita politica. Inoltre allo svantaggio sociale si aggiungeva anche la "legge elettorale sarda ". Questa permetteva di votare solamente al 1,9% degli italiani, in più per votare bisognava avere oltre 25 anni, saper leggere, scrivere e pagare annualmente 40 lire di imposte dirette. In definitiva la stragrande maggioranza del ceto medio risultava prima di rappresentanza politica.
ACCENTRAMENTO O DECENTRAMENTO?
Sul piano istituzionale la destra estese lo statuto Albertino in tutto il regno. La scelta di continuare secondo l'ordinamento sabaudo si accompagnò all'accentramento amministrativo. Questa scelta provocò discussioni in quanto c'era una parte che voleva un decentramento al fine di valorizzare le diversità esistenti nelle varie realtà dello Stato italiano. Nel 1861 Minghetti presentò in parlamento un progetto di parziale decentramento amministrativo, ma questi fu bocciato senza neanche avere diritto al voto dagli uomini della destra che temevano di perdere il controllo di uno stato ancora fragile.
L’UNIFORMAZIONE ALL’ORDINAMENTO SABAUDO
Il 20 marzo 1865 entrò in vigore la legge di unificazione amministrativa, che uniformava lo Stato italiano all'ordinamento sabaudo. Il regno si suddivise in 59 province, il governo di ogni singola provincia era affidato un prefetto. Questi rispondevano del loro operato solamente il ministro degli interni, così come i sindaci erano nominati dal governo e rispondevano a esso. Tutte le singole province erano quindi prive di ogni autonomia. Tali scelte vennero effettuate al fine di mantenere l'unità dello Stato, ma finirono per creare forti tensioni, in quanto l'ordinamento sabaudo non era conforme alle altre realtà. Questo provocò nei cittadini, specialmente quelli del sud un forte senso di estraneità allo stato.
LA POLITICA ECONOMICA
Dal punto di vista economico la destra si prefisse tre principali obiettivi:
1 unificazione economica
2 creazione di infrastrutture
3 risanamento del bilancio statale
Secondo la dottrina liberista il governo pensò che l'unico modo di sbloccare l'economia nazionale fosse quella di creare un mercato interno, per aprire sbocchi verso l'esterno. Per favorire le creazione di un mercato interno fu adottata l’unificazione monetaria, mentre per il mercato esterno vennero applicate le tariffe doganali. Inoltre furono firmati trattati commerciali con Francia e Inghilterra, che inserivano l'Italia nell'area commerciale franco-inglese.
CONSEGUENZE DELLA SCELTA LIBEROSCAMBISTA
Il governo era consapevole che adottare la politica del liberoscambismo poteva creare grossi svantaggi, in quanto l'industria italiana era arretrata rispetto a quella inglese e francese. Tuttavia tale strategia ebbe effetti contraddittori, in quanto da un lato favorì l'esportazione di prodotti agricoli e di semilavorati, ma dall'altro provocò sofferenza all'apparato industriale, già danneggiato dalla concorrenza delle più competitive industrie franco-inglesi. Anche se ci furono conseguenze negative, queste furono colmate dalle esportazioni agricole, di cui il meridione ne uscì rafforzato aumentando la produzione e rimodernando i sistemi usati nelle campagne.
“CUCIRE LO STIVALE”: INFRASTRUTTURE E DEBITO PUBBLICO
L'apertura di un mercato locale rese necessario un programma di sviluppo delle infrastrutture ( strade, ferrovie, poste, comunicazioni ). Il governo investì ingenti capitali per la realizzazione di tali opere ottenendo grandi risultati. Ma tali investimenti gravarono su un disastrato bilancio statale aumentando a dismisura il debito pubblico. Lo Stato per risanare il deficit fece ricorso ai prestiti, inoltre vendette i beni del demanio pubblico ed ecclesiastico.
PAREGGIO DEL BILANCIO E SISTEMA FISCALE
Il governo fedele alla dottrina del liberismo si prefisso di pareggiare il bilancio. Tale obiettivo fu raggiunto con il ministro Quintino Sella con un inasprimento del prelievo fiscale. Tale prelievo fu però molto squilibrato in quanto in una prima parte colpiva le imposte dirette, che andavano ad intaccare redditi di natura agraria. Successivamente la percentuale delle imposte indirette aumento del 107%, colpendo i consumatori dell'intero reddito. La svoltasi ebbe con l'introduzione della tassa sul macinato, che colpì i contadini nel loro consumo quotidiano. Questo provocò grandi proteste e rivolte popolari, che vennero duramente represse.
LO STATO LIBERALE NEL MEZZOGGIORNO
Il governo di destra dovette affrontare problemi di ordine pubblico e crisi sociali. I principali problemi provenivano dal meridione, che una volta ottenuta l'unificazione sperava in una ridistribuzione delle terre. Aspettativa che fu prontamente delusa, inoltre l'applicazione della legislazione sabauda provocò forti tensioni e rivolte. Il nuovo sistema fiscale imposto dalla destra sottopose il mezzogiorno a una tassazione molto più rigorosa di quella borbonica.
ESTRANEITA’ DEL SUD AL NUOVO STATO
Tra lo Stato e il meridione si creò una profonda sfiducia, in quanto non seppe dimostrarsi garante della giustizia, cioè in grado di tutelare i diritti di tutte le classi sociali. Le popolazioni del sud quindi rimasero radicate ai rapporti di parentela e ai legami con le famiglie proprietarie di vasti terreni. Questo favorì la fortificazione di attività criminose tuttora esistenti, capaci di controllare attraverso agganci importanti anche le più alte cariche politiche.
IL BRIGANTAGGIO
Questi comportamenti di grave disagio economico e sociale favorirono il fenomeno il brigantaggio nel sud. I briganti erano tutti coloro che erano ostili al nuovo stato quali: contadini, sbandati, legittimisti, contrari alla leva. Questi assediavano le fattorie dei galantuomini, dei politici, dei borghesi ricchi. Bruciavano archivi militari, edifici contenenti documenti fiscali e aprivano le carceri. Tutto questo per dimostrare la propria ostilità verso il nuovo stato, invocando il ritorno dei barboni è rivendicando il potere del Papa. Il governo applicò una forte repressione militare che portò alla fucilazione di molta gente, fino alla totale repressione del brigantaggio che si ebbe nel 1865.