La guerra pluridisciplinare

Materie:Tesina
Categoria:Storia

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Testo

Presentazione
La mia tesina pluridisciplinare si propone di analizzare da più punti di vista la “guerra” con particolare enfasi sulle tecniche di combattimento. Questa scelta può essere motivata facilmente tenendo conto che tutte le epoche storiche sono state caratterizzate da scontri armati più o meno violenti. La guerra quindi può essere interpretata come “chiave di lettura” per analizzare non solo il progresso compiuto dall'umanità, ma anche gli usi e i costumi dei popoli che si sono scontrati.
Tutt’oggi il progresso tecnologico è in continua espansione, risulta interessante quindi osservare come anche le tecniche di combattimento siano state influenzate da questo aspetto. Basta paragonare le guerre moderne con quelle antiche per comprendere la differenza abissale che intercorre tra le due: due tipi di guerra divergenti nei mezzi, ma simili negli scopi. Philip Sabin in un testo diventato celebre afferma che le guerre antiche non erano altro che scaramucce a distanza, dove lo scontro veniva affidato a piccole unità che dovevano distrarre il nemico con scherni e urla. Le guerre moderne, invece, a partire dalle due guerre mondiale, hanno visto mutare completamente lo scenario del conflitto, mettendo in scena autoblindo, aerei, sommergibili, simboli cioè del progresso.
Una delle poche similitudine che, a mio parere, accomuna le guerre nelle diverse epoche storiche è la “potentiae cupido”, quell’ impulso che spinge l'uomo a cercare il potere e a estendere, quindi, il proprio dominio sugli altri. Tacito stesso nei sui “Annales” aveva messo in luce questa propensione dell'uomo analizzando e criticando l'agire di Imperatori come Tiberio o Nerone. Essi, assumendo sempre di più l'aspetto di veri e propri tiranni, screditarono a tal punto il popolo romano da rendere sbiadito il ricordo delle grandi imprese valorose del passato.

Guerra è però anche sinonimo di dolore, di angoscia, di tristezza. Nessuno infatti può negare che questo aspetto abbia influenzato da sempre le azioni dell'uomo accomunando così il presente con il passato. Un esempio lampante può essere individuato nella figura di Ungaretti, che più di chiunque altro, ha saputo interpretare questo senso di angoscia e tristezza dovuto proprio alla guerra.

Prima guerra mondiale
-La guerra nelle trincee:
Dal punto di vista tecnico la vera protagonista della prima guerra mondiale fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive: un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal nemico. Concepiti all'inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, le trincee divennero la sede permanente dei reparti di prima linea. In breve tutta la zone del fronte fu ricoperta da una fitta rete di fossati disposti su due o più linee (la linea più avanzata si trovava a volte a poche decine di metri da quella del nemico) e collegati fra loro per mezzo di camminamenti. Con il passare del tempo le trincee furono allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da "nidi" di mitragliatrici, diventando sempre più difficilmente espugnabili. La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane; essi vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, senza potersi lavare, né cambiare.
Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un intenso tiro di artiglieria (“fuoco di preparazione”) che in teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie, ma in pratica aveva come risultato principale quello di eliminare ogni effetto di sorpresa. I soldati che scattavano simultaneamente fuori dalle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento avversario finivano con l'accalcarsi nei pochi varchi aperti dall'artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito ai tiratori nemici.
Pochi mesi di guerra nelle trincee furono sufficienti a far svanire l'entusiasmo patriottico con cui molti combattenti avevano affrontato il conflitto. Si diffuse così il fenomeno della renitenza e dell'insubordinazione: mancati rientri dalle licenze, autolesionismo e ribellioni collettive.
-La nuova tecnologia militare:
Scoppiato al termine di un periodo di grandi progressi scientifici e di grande sviluppo economico, il primo conflitto mondiale si caratterizzò per l'applicazione intensiva e sistematica dei nuovi ritrovati della tecnologia alle esigenze della guerra. Artiglierie pesanti, fucili a ripetizione e mitragliatrici giocarono un ruolo decisivo nei combattimenti, ma non costituirono delle novità assolute. Del tutto nuova e sconvolgente fu invece l'introduzione di nuovi mezzi di offesa subdoli e micidiali come le armi chimiche, gas che venivano indirizzati verso le trincee nemiche provocando la morte per soffocamento di chi li respirava. Oltre a stimolare la produzione in grande serie di armi vecchie e nuove la guerra sollecitò notevolmente lo sviluppo di settori relativamente giovani, come quello automobilistico o che stavano muovendo i primi passi, come l'aeronautica e la radiofonia. Il perfezionamento delle telecomunicazioni, via radio o via filo, permise di coordinare i movimenti delle truppe su fronti vastissimi. L'impiego sempre più massiccio dei mezzi motorizzati consentì di far affluire rapidamente enormi masse di soldati dalle retrovie al fronte.
Si assistette anche all'esordio di un altro protagonista delle guerre del '900: il carro armato. I primi mezzi corazzati, le autoblindo (ossia autocarri ricoperti da piastre d'acciaio e muniti di mitragliatrici), erano limitati nel loro impiego dal fatto di potersi muovere solo su strada. Il passo successivo consistette nel sostituire le ruote con i cingoli, che già venivano impiegati sulle macchine agricole e permettevano ai veicoli di attraversare qualsiasi terreno e di essere usati per attaccare e scavalcare le trincee nemiche.
Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una solo influì in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino. Furono soprattutto i tedeschi a intuire le possibilità del nuovo mezzo e a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondare senza preavviso le navi mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano rifornimenti verso i porti dell' Intesa.
-La guerra in Italia: tattica dell'infiltrazione, sconfitta di Caporetto
Il 1917 per l'Italia fu sicuramente l'anno più difficile della guerra. Fra maggio e settembre il generale Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull'Isonzo, con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato; tra i soldati, inoltre, le manifestazioni di protesta e i gesti di insubordinazione si fecero più frequenti. Fu in questa situazione che i comandi austro-tedeschi decisero di profittare della disponibilità di truppe proveniente dal fronte russo per infliggere un colpo decisivo all'Italia. Il 24 ottobre 1917 un'armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull'alto Isonzo e le sfondò nei pressi di Caporetto. Gli attacchi avanzarono in profondità in Friuli, mettendo in atto per la prima volta la nuova tattica dell'infiltrazione, che consisteva nel penetrare il più rapidamente possibile in territorio nemico senza preoccuparsi di consolidare le posizioni raggiunte, ma sfruttando invece la sorpresa per mettere in crisi lo schieramento avversario. La manovra fu così efficace e inattesa che buona parte delle truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall'inizio della guerra. Alcuni reparti riuscirono a ripiegare ordinatamente, altri si disgregarono: 400.000 sbandati rifluirono verso il Veneto mescolandosi alle colonne di profughi civili e dando alla ritirata l'aspetto di un'autentica rotta.
-La guerra lampo:
L'esercito tedesco, ricostruito da Hitler dopo essere salito al potere, era uno dei più forti d'Europa al momento dello scoppio della seconda guerra mondiale. La sua forza consisteva soprattutto nelle velocissime truppe motorizzate, nell'aviazione e nelle divisioni corazzate, dotate di potenti carri armati. Con questi strumenti Hitler cercò di realizzare una guerra lampo caratterizzata da rapidi spostamenti di truppe, per affrontare e sconfiggere gli eserciti nemici prima che potessero organizzarsi e unire le forze contro la Germania. Con la conquista della Polonia fu applicato per la prima volta questo nuovo metodo di guerra basato sull'uso congiunto dell' aviazione e delle forze corazzate, affidando a queste ultime il peso principale dell'attacco. L'impiego su vasta scala dei carri armati e delle autoblindo e il loro raggruppamento in speciali reparti “meccanizzati” rendevano di nuovo possibile la guerra di movimento e consentivano, in caso di successo, di impadronirsi in pochi giorni di territori molto vasti, tagliando fuori gli eserciti nemici dalle loro fonti di rifornimento.
Le guerre antiche erano scaramucce a distanza
[recensione di un libro di Philip Sabin]
Secondo lo storico inglese Sabin le guerre antiche erano solo scaramucce a distanza. Con massacro finale
Se avete in mente le antiche battaglie come ce le ha raccontate il cinema, scordatevele. Non è vero che gli eserciti si affrontavano a viso aperto, con migliaia di soldati pronti a dare la vita in scontri all'arma bianca per un'eroica vittoria in nome del re, dell'imperatore, della patria. Piuttosto, le prime linee si fronteggiavano per lunghe ore, a debita distanza, insultandosi, minacciandosi e scagliandosi lance, per mettersi paura a vicenda. Poi, quando finalmente uno dei due eserciti aveva raggiunto una fifa blu, girava sui tacchi e scappava. Al vincitore, così, non restava che l'inseguimento e il massacro.
E’ la tesi, innovativa e ragionevole, di Philip Sabin, del dipartimento di studi di guerra del King's College di Londra, il quale l'ha esposta sul “Bulletin of the Institute of Classical Studies”. Sono passati così tanti anni da quelle battaglie corpo a corpo, che ormai ci siamo lasciati convincere che si svolgessero “in stile Hollywood”, spiega Sabin. Se si prendono film come “Spartacus”, per esempio, “si vedono truppe come teppaglie che s'avventano urlando l'una contro l'altra e ingaggiano duelli con la spada”. Dall'altro lato, finora, vigeva la tesi dei circoli accademici, secondo cui gli eserciti s'affrontavano come squadre di rugby: “Una gran mischia, coi battaglioni che si schieravano con gli scudi uno contro l'altro, e cominciavano a spingere”. Ma anche questa tesi, benché più realistica, non convince Sabin, perché tali mischie non sarebbero potute durare più che qualche minuto, mentre sappiamo che gli scontri duravano a lungo. Nelle battaglie della seconda guerra punica, in cui Annibale trionfò sui romani a Canne nel 216 avanti Cristo, gli eserciti si affrontarono per molte ore, o per un giorno intero. E certo non restavano sotto il sole a spingere gli scudi. Secondo Sabin all'inizio gli eserciti si stuzzicavano in scaramucce della fanteria leggera e della cavalleria, poi una parte schierava la sua linea di battaglia principale e l'altra parte contrapponeva la propria. Ma non era ancora la battaglia: “Decisivo era il confronto faccia a faccia, a pochi metri di distanza. Stavano lì, urlandosi insulti e minacce. Poi, sporadicamente, qualche gruppetto di soldati avanzava e ingaggiava il corpo a corpo. Finché, finalmente, una delle due parti si faceva prendere dal panico. I soldati voltavano le spalle e cominciavano a scappare: una scelta suicida”.
Secondo il ricercatore, la battaglia di Canne è quella che meglio avvalora tale tesi: infatti la cavalleria gallica e spagnola che combatteva con Annibale deve avere speso un certo tempo per battere la cavalleria romana, metterla in fuga dietro la fanteria e tornare al sicuro. Altrimenti, non si spiega come un combattimento corpo a corpo possa essere durato molte ore: “è quasi impossibile immaginare le opposte prime file che si combattono a breve distanza per molto più di un'ora senza un'enorme quantità di morti e feriti, in entrambi gli eserciti”. Eppure il massacro, alla fine, avveniva lo stesso. Intimorito dagli insulti e dalle minacce, indebolito dagli assalti dell'opposta cavalleria, uno dei due eserciti cominciava a sgretolarsi: prima scappavano i soldati delle ultime file, poi quelli in prima linea. E quando tutto un esercito volgeva le spalle al nemico, non aveva più speranze. La sconfitta, così, diventava un “si salvi chi può”.
[Alessio Altichieri, La battaglia di Canne? Fu combattuta a colpi di insulti, in: Il Corriere della Sera 11 agosto 1998]
G.W.F Hegel - concezione della guerra
La filosofia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nato a Stoccarda nel 1770 e morto a Berlino nel 1831, nasce e trae alimento dall'ispirazione, condivisa con il movimento romantico, a veder sanate le contraddizioni che lacerano la vita e la cultura del tempo. Il filosofo è sollecitato a ricercare le basi per una "riconciliazione" tra soggetto e oggetto, tra sensibilità e razionalità, tra individuo e società, tra finito e infinito: termini che invece la cultura moderna e illuministica ha separato e contrapposto.
-Concezione della guerra – “Diritto statale esterno”:
L'Eticità, terzo momento della svolgimento triadico dello spirito oggettivo, si articola al suo interno in: famiglia, società civile e Stato. Quest'ultimo si articola a suo volta in diritto statale interno, diritto statale esterno e concezione della storia. E' proprio nel secondo momento di questa tripartizione, quello cioè che concerne le relazioni tra Stati, che si individua la posizione di Hegel nei confronti della guerra. Qui vien meno la solidarietà etica che contrassegna al suo interno l'organismo politico e ritornano alcune caratteristiche della società civile: gli Stati stabiliscono tra loro rapporti che posso ricordare quelli che intercorrono tra gli individui atomizzati. Tuttavia, a giudizio di Hegel, lo Stato a differenza dell'individuo è autosufficiente, e il rapporto fra Stati ha come principio fondamentale la sovranità di ciascuno: essi stanno tra loro come gli uomini nello stato di natura, senza che i loro rapporti giuridici siano sanciti da altro che dalla loro volontà particolare. Non vi è dunque in realtà una volontà universale che istituisca il diritto internazionale. L'assenza di una volontà generale superiore alle volontà particolari dei singoli stati porta Hegel a prendere le distanze dall'idea kantiana della “pace perpetua” garantita da un ordinamento cosmopolitico, da un potere "federale" da tutti riconosciuto e dunque in grado di risolvere le controversie e di evitare i conflitti. Questo tipo di ordinamento, privo di qualsiasi fondamento etico in quanto non rappresenta l'espressione di una volontà generale, si reggerebbe infatti solo sulla concordia tra gli stati, sul convergere precario di volontà particolari. Hegel ritiene dunque inevitabile e legittimo il ricorso alla guerra per risolvere le controversie tra stati quando venga meno l'accordo tra loro.
”...Non c'è alcun pretore, al massimo arbitri o mediatori tra stati, e anche questi soltanto in modo accidentale, cioè secondo volontà particolari. La concezione kantiana di pace perpetua, grazie a una federazione di stati, alla quale appianasse ogni controversia, e come un potere riconosciuto da ciascun singolo stato componesse ogni discordia, e con ciò rendesse impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone la concordia fra gli stati, la quale riposerebbe su fondamenti e riguardi morali, religiosi o quali siano, in genere sempre su volontà sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità.”
Ungaretti
-Cenni biografici:
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egitto nel 1888 e morì a Milano nel 1970. Dal 1912 al 1914 fu a Parigi dove strinse amicizia con i maggiori esponenti dell'avanguardia europea frequentando Apollinaire e i pittori Braque, De Chirico, Modigliani e Picasso. Si trasferì poi a Milano con lo scopo di partecipare con entusiasmo alla guerra. Arruolatosi come volontario in un reggimento di Fanteria fu inviato a combattere sul Carso, dove prendono la loro forma originale e inconfondibile le liriche pubblicate a Udine, alla fine del 1916 con il titolo “Il porto sepolto”. I versi del periodo successivo appaiono in “Allegria di naufragi” del 1919. Le due raccolte confluiranno poi, con qualche altro testo nel volume l' “Allegria” (1931) che comprende questa prima fase della produzione poetica ungarettiana. Nel 1936 si trasferì in Brasile a San Paolo dove tenne fino al 1942 la cattedra universitaria di lingua e letteratura italiana. Le vicende della seconda guerra mondiale segnano comunque il maturare di una nuova e dolorosa consapevolezza preceduta da alcuni gravi lutti familiari: la morte del fratello Costantino nel 1937 e la perdita del figlio Antonietto due anni dopo. Da queste esperienze è profondamente segnata la raccolta poetica del dopoguerra: “Il dolore” (1947), “Un grido e paesaggi” (1952) e “Il taccuino del vecchio” (1961).
-Il rapporto con la guerra:
Un temporaneo, seppur decisivo, momento di approdo nella poetica ungarettiana è costituito dall'esperienza del fronte, che offre ad Ungaretti gli spunti per alcune delle sue liriche più crude e sofferte, spoglie di ogni retorica. Ma la guerra gli consente anche di stabilire un contatto con la propria gente e di raggiungere la coscienza di una rinnovata identità che ricongiunge al presente le esperienze vissute nel passato. La guerra infine costringe a vivere nel precario confine fra la vita e la morte (“Soldati”) dove ogni cosa può rovesciarsi nel suo opposto e scomparire per sempre all'improvviso; essa traduce così in immagini concrete, in cui ci si può imbattere in ogni momento quella "poetica dell'attimo" che costituisce il fondamento della prima ricerca di Ungaretti.

-San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti che mi corrispondevano
non è rimasto neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato
Analisi testuale:
Questa poesia contiene immagini di desolazione e di morte, legate alla guerra. Gli effetti della distruzione si riverberano qui, indirettamente, sulle cose in uno squallido paesaggio di macerie e di rovine su cui si è abbattuta la furia degli eventi. Dal paesaggio il pensiero si sposta per una spontanea associazione, sui molti compagni caduti; di loro, a differenza delle “case” non è rimasto più nulla. La loro totale scomparsa è il segno di una distruzione più dolorosa e profonda, in quanto non ammette risarcimento o rinascita. A impedire che vengano del tutto cancellati non resta che la commossa e pietosa memoria di chi è sopravvissuto: un ricordo fatto di tante croci, che trasformano il “cuore” in una specie di cimitero. Di qui la folgorante analogia fra il “paese” e il “cuore” che appare come “il paese più straziato”.
Tutta la poesia utilizza un linguaggio agevole e piano, fatto di parole comuni. La compattezza che la caratterizza è dovuta al rigore calibratissimo della costruzione, alla capacità di collocare le parole secondo calcolate simmetrie.
-Soldati:
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie
Analisi testuale:
In questa poesia il titolo entra a far parte integrante del testo, risultando un elemento essenziale per la sua comprensione. Esso costituisce il punto di riferimento del procedimento analogico che assimila la vita del soldato alla fragilità di una foglia d'autunno. L'intera poesia è formata di un complemento di paragone, retto da un verbo comune, il cui uso impersonale (Si sta) sottolinea una condizione di anonimato ad accentuare il senso acuto di solitudine desolata e di abbandono. Il carattere del paragone restituisce la sensazione di una precarietà e di dolore ignorati e inespressi, unicamente affidati all'imminenza impalpabile di qualcosa che sta per cadere, staccata da un minimo scarto portatore di morte. Il valore tutto relativo di una vicenda esistenziale continuamente sospesa tra la vita e il nulla emerge dalla profonda spezzatura dei versi, che richiedono una scansione isolata, intervallata da pause profonde.
Tacito
Considerato comunemente il più grande fra gli storici latini, Tacito accoglie e reinterpreta in modo originale e personalissimo risultati, metodi e schemi della tradizione storiografica di Roma antica. Dopo di lui la biografia prenderà il sopravvento sulla storiografia, con uno sviluppo - legato all'accentramento del potere politico nelle mani dell' Imperatore -di cui si colgono alcune premesse negli “Annales”, l'ultima opera di Tacito stesso.
-Cronologia:
Nasce fra il 55 e il 58 d.C.
Nel '78 sposa la figlia di Giulio Agricola, console nel '77
Nell' 88 assume la carica di Pretore e di “Quindecimvir sacris faciundis”
Nel '97 viene nominato “Consul Suffectus” dopo la morte di Virginio Rufo
Nel '98 scrive l' “Agricola” e la “Germania”
Tra il 104 e il 109 scrive le “Historiae”
Nel 112 ottiene il proconsolato della provincia d'Asia
Tra il 112 e il 115 scrive gli “Annales”
Muore intorno al 120 d.C.
-Opere: “Historiae” e “Annales”:
Tra il 104 e il 109 Tacito attese alla stesura delle “Historiae”, la prima delle sue due grandi opere ad impianto annalistico. Esse erano composte da 12 libri, dei quali oggi possediamo i primi quattro e parte del quinto. L'intera opera narrava gli eventi dal 69 al 96, cioè dal regno di Galba alla morte di Domiziano, la cui tirannide continua a rimanere al centro dell'interesse dello storico. Indagando sul periodo più recente dell'Impero Tacito si proponeva di chiarire come dall'anarchia seguita alla morte di Nerone, si fosse giunti all'età di Nerva e Traiano caratterizzata da un clima di serena libertas. Nel proemio delle “Historiae” Tacito si dichiarava intenzionato, se la vita glielo avesse concesso, ad esporre in un'altra opera gli avvenimenti concernenti i regni di Nerva e di Traiano. Egli però non mantenne la promessa e nel 112 intraprese la stesura di una nuova opera, gli “Annales”. Essa era costituita da 18 libri ed era suddivisa in tre sezioni dedicate rispettivamente a Tiberio, a Claudio, a Caligola e infine a Nerone. All'interno di questo ambito il pessimismo di Tacito si fa più cupo che nelle “Historiae” e la sua indagine sulle origini del Principato diventa un viaggio amaro e doloroso in un paesaggio storico senza luce di speranza alcuna. Tanto più che l'età Giulio-Claudia gli appare come quella in cui l'aristocrazia senatoria aveva lasciato tramontare definitivamente la propria libera politica, sprofondando nella decadenza morale.
Le fonti usate da Tacito per scrivere gli “Annales” sono Cluvio Rufo, Fabio Rustico, Plinio il Vecchio (con le memorie di Corbulone) e Vespasiano.
-Lo stile:
Lo stile di Tacito è drammatico, come drammatica è la sostanza dei fatti che narra. Il modello a cui si rifà è Sallustio ed evidenti sono i frutti dell'educazione oratoria ricevuta il gioventù. La sua “brevitas” e la sua “inconcinnitas” vanno ancora molto al di là di quelle di Seneca, altro autore a lui ben presente. Egli riesce a dare forma plastica al suo pensiero: gli ablativi assoluti sono spesso di estrema arditezza, gli anacoluti, gli asindeti, le brachilogie, le continue ellissi rendono inconfondibile la novità del suo stile. La pagina di Tacito diventa così uno specchio esatto di un mondo interiore, dove luci e ombre si inseguono in un gioco perenne, e del mondo esteriore, dove i fatti si accumulano e si intrecciano senza un nesso apparente.
-Tacito - Discorso di Calcago:
"Ogni volta che esamino le cause della guerra e la situazione critica in cui ci trovammo, mi sento grandemente incoraggiato a sperare che oggi il vostro accordo darà inizio al recupero della libertà per la Britannia intera: giacchè vi siete raccolti tutti insieme, siete liberi da servitù, non ci sono terre alle nostre spalle, e neppure il mare offre rifugio, con la flotta romana che ci stringe da vicino. E così la battaglia e le armi, onorevoli per i valorosi, sono nel medesimo tempo la via più sicura anche per i vili. Nelle precedenti battaglie in cui con esito vario si combattè contro i romani, c'era nelle nostre braccia una speranza d'aiuto, giacchè noi, i più nobili di tutta la Britannia e per questo posti nei suoi recessi più segreti, da dove non vediamo lidi di popoli asserviti, anche gli occhi conservavamo intatti dal contagio della schiavitù. Noi, posti all'estremo confine del mondo e della libertà, fino ad oggi siamo stati protetti dal nostro isolamento stesso, che manteneva celata ogni notizia di noi: ora l'estremo lembo della Britannia è accessibile, e tutto ciò che è ignoto si immagina straordinario; ma nessun popolo c'è più al di là, niente se non flutti e scogli e, ancor più pericolosi i Romani, alla cui prepotenza è vano sperar di sfuggire con la sottomissione e il rispetto. Predatori del mondo, ora che tutto devastando hanno esaurito le terre, frugano il mare: avidi se il nemico è ricco, bramosi di dominio se è povero, non l'Oriente non l'Occidente è bastato a saziarli: riccheza e povertà in loro soltanto destano la medesima sfrenata brama. Rubare, trucidare, rapinare con falso nome chiama impero, e dove fanno il deserto la chiamano pace. La natura ha avuto che a ciascuno fossero sommamente cari i proprio figli e parenti: i primi ci sono portati via dalle leve, a servire lontano; le nostre spose e sorelle, quando pure riescano a sfuggire alle voglie del nemico, sono poi violate con il pretesto dell'amicizia e dell'ospitalità. Beni e sostanze se ne vanno per il tributo, il frutto dei campi e la fatica di un anno per la contribuzione in fumento, i nostri corpi stessi e le nostre mani si consumano nel rendere praticabili foreste e paludi, tra percosse e insulti. Gli schiavi, che sono nati per servire, sono venduti una volta sola, e sono i padroni a mantenere al loro mantenimento: la Britannia ogni giorno compra la sua schiavitù, ogni giorno la nutre. E come fra gli schiavi gli ultimi arrivati sono oggetto di scherno anche per i compagni di schiavitù, così in questa massa di servi a cui è stato ridotto da tempo il mondo intero, noi, ultimi e disprezzati, siamo aggrediti per essere sterminati, giacchè non abbiamo campi fertili, o miniere, o porti, per sfruttare i quali valga la pena di mantenerci in vita. Inoltre il valore e la fierezza dei sottoposti non sono graditi ai dominatori; e la lontananza e l'isolamento stessi, quanto più offrono sicurezza, tanto più destano sospetto. e così non c'è speranza di scampo: animo dunque, sia che la salvezza sia che la gloria soprattutto vi stiano a cuore.
(Agricola, 30 - 31.3)
Tacito – “Potentiae cupido”
”Leggo in taluni autori che i due eserciti, o tementi la guerra, o infastiditi da entrambi i principi, dei quali ogni giorno più si facevano apertamente note le vergognose brutture, si sarebbero chiesti se, cessando dalle ostilità, non convenisse loro riunirsi per una concorde decisione, o deferire al Senato la scelta dell'Imperatore. Per ciò appunto avevo i capi ottoniani insistito a guadagnare tempo: primo fra essi Paolino, che coltivava speranze per sè. quale anziano dei consolari e per il nome glorioso di guerriero che s'era conquistato nelle spedizioni di Britannia. Ma se io posso ben concedere che taluni segretamente auspicassero, in luogo della discordia la pacificazione, e un pricipe intemerato al posto di quei due sciaguratissimi, non crederò mai, nè che Paolino, nella sua grande assennatezza, si ripromettesse da quello masse in una così corrotta età, tanto buon senso da far sì che quegli stessi che per amor di guerra avevano turbato la pace, ora per amore di pace desistessero dalla guerra; nè che due eserciti discordanti per lingua e costumi potessero stringersi in un tale accordo; nè, infine, che legati e capitani, consci la maggior parte della sregolatezza della povertà, della scelleraggine propria, fossero disposti a tollerare altro principe che un corrotto, debitore a essi di servizi ricevuti. Quell'antica e in ogni tempo connaturata ali uomini libidine del potere, con l'ingrandirsi dell'Impero si gonfiò ed esplose. In più racconti confini più facile era la concordia; ma dopo che, soggiogato il mondo e abbattute le città e le dinastie rivali ebbero libero volo le aspirazioni a grandezza ormai sicura, incominciarono a divampare le lotte fra il patriziato e la plebe. Ora turbolenza di tribuni ora strapotere di consoli; in città, nel foro, i primi saggi di guerra civile; più tardi Gaio Mario, della più bassa plebe, e L.Silla, il più sanguinario fra i nobili sovvertirono con armi la libertà in tirannia. Seguì le loro orme, più coperto ma non miglior di essi, Gn.Pompo, e dopo d'allora non per altro si lotto che per il pricipato. Se le legioni di cittadini non abbandonarono il campo nè a Farsalia, nè a Filippi, tanto meno avrebbero di loro volontà deposto le armi gli eserciti di Ottone e Vitellio: a lanciarli l'un contro l'altro agivano pur sempre con la stessa ira divina, quella stessa rabbia di uomini, quelle stesse scelleratissime cause. Che se ogni volta codeste guerre finirono stroncate di un colpo lo si dovette solo alla pochezza dei duci. Ma queste ime riflessioni su vecchie e nuove vicende, troppo mi dilungano dal segnato cammino: e lo riprendo.”
(Historiae, II, 37-38)

Auden
Talking about war, we can’t forget to quote one of the most important members of the “Poets of war”: Auden.
Like his contemporaneouses, his existence is strongly caracterized by the SECOND WORLD WAR, and he gives us a great description of it in his works. In one of these (“There’s no place for us”) he expresses the difficult situation of Jews during the Nazis persecution. In the ballad he underlines that there’s no place for them, no place they can go to. He imagines to see Hitler’ s face in the sky and he says: “They must die”. There’s a sad and bitter reflection about the Jews conditions (condition he felt at first person). Everybody avoid them and loose their sense of humanity. They’re not capable of giving a hand. The reality was that: ”If you’ ve got no passport you’ re officially dead”, these was the only hope. He feels a certain lack of freedom.

Esempio