La guerra e la poesia del primo Novecento

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Testo

A.S. 2007/2008
Elena Lombardi
V B E.R.I.C.A.
TESINA
La Guerra e la Poesia nel primo Novecento

Dire Poesia, dire Guerra. Apparentemente due concetti in contrasto tra loro.
Eppure la guerra è stata materia poetica in tutti i tempi, soprattutto nel Novecento, il secolo che ha assistito al sorgere di guerre su scala mondiale e all’uso di armi dalla portata sempre più devastante.
Allo scatenarsi della prima guerra mondiale (1914-1918), molti poeti, intellettuali ed artisti erano interventisti, ovvero favorevoli all’entrata in guerra della propria nazione. Oltre a motivazioni economiche e politiche, vi era sia in Italia sia nel resto d’Europa, una visione estetica e letteraria della guerra, un vitalismo, una voglia di avventura, che spinsero molti poeti a partire per la guerra col proposito di assaporare chissà quali sensazioni e vivere chissà quali peripezie.
Filippo Tommaso Marinetti fu il fondatore del Futurismo. Nato nel 1876 ad Alessandria d’Egitto, trascorse la sua giovinezza a Parigi e morì nel 1944 a Bellagio (Como). Fu poeta e scrittore di duplice cultura, italiana e francese.
Il 20 febbraio 1909 Marinetti pubblica sul “Figaro” di Parigi il primo Manifesto che da inizio al Futurismo, presentato in seguito in italiano sulla rivista “Poesia” diretta dallo stesso scrittore a Milano. In quel Manifesto Marinetti espone un programma violentemente polemico e fortemente rivoluzionario. Si scatena contro tutto ciò che era legato al passato: contro le vecchie abitudini, le vecchie istituzioni (biblioteche, musei) che intendono salvaguardare i valori della tradizione e del passato, i patrimoni culturali e artistici ereditati, le città secolari.
La nuova arte deve partire dal presente, dalla realtà industriale, dalla vita della grande città moderna: si doveva perciò esaltare il dinamismo, la velocità, l’energia, l’azione umana, l’eterno fluire. Non si può non riconoscere che i futuristi furono i primi a capire quanto incidessero nella società moderna la macchina e la tecnologia, i cambiamenti e le trasformazioni provocate dai nuovi prodotti della tecnica. Per i futuristi le conquiste della scienza e della tecnica esprimevano attivismo e dinamismo. Oggetti emblematici della modernità erano soprattutto l'automobile e l'aeroplano che acceleravano gli spostamenti umani.
I futuristi, per richiamare l’attenzione sul loro movimento, adottarono tecniche straordinarie di propaganda, mirate a sorprendere e scandalizzare. Nel gennaio 1910 Marinetti inaugura al Politeama Rossetti di Trieste la prima delle movimentatissime e provocatorie serate di arte futurista. L’idea era quella di coinvolgere il pubblico nello spettacolo, basato sulla presentazione di poesie, testi e musiche dei principali artisti futuristi; costoro, però, provocavano il pubblico, causando frequenti risse. Ma a quel punto essi avevano già vinto la loro battaglia pubblicitaria: l’eco del putiferio si estendeva, attraverso i giornali, in tutta Italia, e il movimento si diffondeva.
In pochi anni le provocazioni futuriste convinsero pittori, scultori, musicisti, architetti: anch’essi presentarono le loro nuove tecniche attraverso i manifesti. Il Futurismo interessò così tutte le discipline artistiche, passando dalla letteratura alla pittura e alla scultura, dall’architettura alla musica e al teatro, persino all’abbigliamento e alla cucina: consapevole delle conseguenze sulla società portate dal processo di industrializzazione in corso, intendeva estendere il processo di rinnovamento ad ogni campo della cultura e della vita contemporanea.
Non ne fu risparmiata tanto meno la politica.
Nei discorsi di Marinetti ricorre spesso la celebrazione del movimento, dell’azione, del gesto violento, una sorta di “glorificazione” del militarismo e della guerra intesa come “sola igiene del mondo”. I proclami a sfondo patriottico di Marinetti rivelano un nazionalismo che, negli anni prossimi alla grande guerra, si trasformerà in acceso interventismo. Questo atteggiamento si potrà però già riscontrare in occasione della guerra di Libia (nota anche come guerra italo-turca), svoltasi tra il 28 settembre 1911 ed il 18 ottobre 1912.
L’allora Presidente del consiglio dei ministri, Giovanni Giolitti, era in genere contrario alle avventure coloniali, ma decise di procedere alla conquista della Libia in quanto in Italia si manifestarono forti correnti interventiste. L’opinione pubblica italiana era in genere favorevole alla guerra, ad eccezione dei socialisti, i quali protestarono violentemente. Proprio nel 1910 venne fondato il Partito Nazionalista, appoggiato soprattutto dai futuristi. A questa spinta verso la guerra si aggiunsero voci precedentemente insospettabili, come quella del poeta Giovanni Pascoli che, infiammato dalla propaganda che circolava nel Paese, scrisse, parlando dell’Italia, che “la grande proletaria si è mossa”.
Marinetti, bellicista convinto, nel 1911 parte per la Libia come corrispondente di guerra per il giornale parigino “L’Intransigeant”. Pubblicherà i suoi reportages nel volumetto “La Battaglia di Tripoli”, una sorta di cantata in presa diretta dell’evento.
La Battaglia di Tripoli è composta da tre parti: la prima è un manifesto futurista dal titolo “Per la guerra, sola igiene del mondo e sola morale educatrice”; la seconda è una descrizione della battaglia di Tripoli, dove le truppe italiane inflissero una pesante sconfitta alla truppe ottomane; la terza parte è intitolata “Risposte alle frottole turche”, una risposta alle denunce rivolte agli italiano da parte dei turchi a causa della violenza usata durante la battaglia.
È in quest’opera che si ritrova il pensiero di Marinetti, volto a celebrare il culto della violenza e della guerra. L’intento dello scrittore è di stupire e meravigliare il lettore, utilizzando paragoni e accostamenti di immagini sconcertanti: trincee paragonate ad un orchestra, baionette ad archi di violino, una mitragliatrice assume le sembianze di una donna, fatale, affascinante e divina. Gli strumenti bellici, infiammati di entusiasmo, danno vita ad una sorta di guerra-festa. La narrazione rimanda quasi ad una favola, ad un intreccio di realtà e immaginazione, attribuendo alle macchine belliche fattezze e caratteristiche del comportamento umano.
“Eh sì! voi siete, piccola mitragliatrice, una donna affascinante, e sinistra, e divina, al volante di una invisibile centocavalli, che rugge con scoppii d'impazienza. Oh! certo fra poco balzerete nel circuito della morte, verso il capitombolo fracassante o la vittoria!... Volete che io vi faccia dei madrigali pieni di grazia e di colore? A vostra scelta signora... Voi somigliate per me, a un tribuno proteso, la cui lingua eloquente, instancabile, colpisce al cuore gli uditori in cerchio, commossi... Siete, in questo momento, un trapano onnipotente, che fora in tondo il cranio troppo duro di questa notte ostinata... Siete, anche, un laminatoio, un tornio elettrico, e che altro? Un gran cannello ossidrico che brucia, cesella e fonde a poco a poco le punte metalliche delle ultime stelle!..” (Battaglia di Tripoli)
“...é il tramonto-direttore d'orchestra, che con un gesto ampio raccoglie i flauti sparsi degli uccelli negli alberi, e le arpe lamentevoli degli insetti, e lo scricchiolìo dei rami, e lo stridìo delle pietre. È lui che ferma a un tratto i timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata sull'orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle d'oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo. Ed ecco una gran dama allo spettacolo... Vastamente scollacciato, il deserto infatti mette in mostra il suo seno immenso dalle curve liquefatte, tutte verniciate di belletti rosei sotto le gemme crollanti della prodiga notte.” (Battaglia di Tripoli)
La volontà di rottura con la sintassi tradizionale nella “Battaglia di Tripoli” è evidente, sintassi considerata da Marinetti incapace di reggere alla successione rapida delle impressioni suscitate dalla velocità.
La compiuta espressione di quanto il letterato si prefigge di fare arriva nel 1912 con Zang Tumb Tumb: fonte di ispirazione dell’opera arriva ancora dai campi di battaglia, precisamente dal fronte bulgaro-turco dove Marinetti svolge la funzione di inviato di guerra. Egli, utilizzando la tecnica delle parole in libertà, tenta di ricostruire tutte le sensazioni provate durante il bombardamento della città di Adrianopoli; sensazioni visive, uditive, tattili, che egli riesce a riprodurre grazie ad alcuni accorgimenti di diverso tipo. Ricorre principalmente all’uso di onomatopee che riproducono il rumore degli strumenti militari, delle esplosioni, degli scoppi di fucili, mitragliatrici e granate (da qui appunto il titolo Zang Tumb Tumb). Nell’opera l’autore attua una continua analogia fra il bombardamento e i suoni di una orchestra. Si celebra così nuovamente la battaglia e la sua violenza.

“...che gioia vedere udire fiutare tutto
tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare
a perdifiato sotto morsi schiaffi traak-
traack frustare pic-pac-pum-tumb bizz-
zzarie salti altezza 200m. della fucileria
Giù giù in fondo all’orchestra stagni
diguazzare buoi bufali
pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack
lari nitriti iiiiii….. scalpiccii tintinnii 3
battaglioni bulgari in marcia croooc-craac...”
“...Timmmpani
flauti clarini dovunque basso alto uccelli
cinguettare beatitudine ombrie cip-cip-cip brezza
verde mandre don-dan-don-din-béèé tam-tumb-
tumb tumb tumb-tumb-tumb
-tumb Orchestra pazzi bastonare professori d’orchestra questi bastonatissimi
suooooonare suooooonare Graaaaandi
fragori ...”
“...Tum-tumb 2000 granate
protese strappare con schianti capigliature
tenebre zang-tumb-zang-tuuum-
tuuumb orchestra dei rumori di guerra …”
(Zang Tum Tumb)
Il Futurismo ha grande risonanza in Europa, dove riscuote entusiasmo ma suscita anche polemiche accese.
Anche il poeta francese Guillaume Apollinaire si interessa a loro.
Guillaume Apollinaire a été un grand poète, amateur de peinture et critique d’art. Il est naît à Rome en 1880 ; il passe les premières années de sa vie dans différentes villes de la côte d'Azur, avec sa mère, puis il va à Paris en 1899. À Paris, il fréquente à Montmartre les ateliers de peinture et participe à la promotion des avant-gardes qui ont marqué le début du XXe siècle ; en particulier, il est intéressé au fauvisme, au cubisme (il devient ami de Picasso) et au futurisme. Il publie l’ « Antitradition futuriste », manifeste en faveur du mouvement animé par Marinetti qui renie tout passéisme pour célébrer l’homme moderne. Apollinaire n’est donc pas seulement un poète, mais un homme passionné par tout ce qui touche à son temps, par toutes les formes d’art. Il est pour la modernité, le progrès technique et l’idée de l’art totale ; il refuse le monde ancien et cherche la poésie dans l’excitation de la vie moderne, qui est pleine de bruits agressifs.
Quand éclate la Première Guerre Mondiale, Apollinaire, à l’âge de trente-quatre ans, part comme engagé volontaire et il est envoyé au front sur sa demande en 1915, où il revêt l’uniforme d’artilleur. La guerre devient son univers quotidien : ce monde nouveau a marqué la poésie d’Apollinaire d’une empreinte profonde. Il est conscient du drame qu’il est en train de vivre ; cependant, il ne peut pas renoncer à le poète vivant en lui.
Dans plusieurs poèmes, nous trouvons une interprétation originale de l’idée de danger : le danger est ce qui donne un sens à l’entière existence ; il est la clarté, le feu, avec ses effets joyeux, qui fait sortir l’individu de l’ombre.
La poésie « Merveille de la guerre » est très significative : le poète décrit une série de sensations de plus en plus positives.
Merveille de la guerre
Que c'est beau ces fusées qui illuminent la nuit
Elles montent sur leur propre cime et se penchent pour regarder
Ce sont des dames qui dansent avec leurs regards pour yeux bras et cœurs
J'ai reconnu ton sourire et ta vivacité
C'est aussi l'apothéose quotidienne de toutes mes Bérénices dont les chevelures sont devenues des comètes
Ces danseuses surdorées appartiennent à tous les temps et à toutes les races
Elles accouchent brusquement d'enfants qui n'ont que le temps de mourir
Comme c'est beau toutes ces fusées
Mais ce serait bien plus beau s'il y en avait plus encore
S'il y en avait des millions qui auraient un sens complet et relatif comme les lettres d'un livre
Pourtant c'est aussi beau que si la vie même sortait des mourants
Mais ce serait plus beau encore s'il y en avait plus encore
Cependant je les regarde comme une beauté qui s'offre et s'évanouit aussitôt
Il me semble assister à un grand festin éclairé a giorno
C'est un banquet que s'offre la terre
Elle a faim et ouvre de longues bouches pâles
La terre a faim et voici son festin de Balthasar cannibale
Qui aurait dit qu'on pût être à ce point anthropophage
Et qu'il fallût tant de feu pour rôtir le corps humain
C'est pourquoi l'air a un petit goût empyreumatique qui n'est ma foi pas désagréable
Mais le festin serait plus beau encore si le ciel y mangeait avec la terre
Il n'avale que les âmes
Ce qui est une façon de ne pas se nourrir
Et se contente de jongler avec des feux versicolores
Mais j'ai coulé dans la douceur de cette guerre avec toute ma compagnie au long des longs boyaux
Quelques cris de flamme annoncent sans cesse ma présence
J'ai creusé le lit où je coule en me ramifiant en mille petits fleuves qui vont partout
Je suis dans la tranchée de première ligne et cependant je suis partout ou plutôt je commence à être partout
C'est moi qui commence cette chose des siècles à venir
Ce sera plus long à réaliser que non la fable d'Icare volant
Je lègue à l'avenir l'histoire de Guillaume Apollinaire
Qui fut à la guerre et sut être partout
Dans les villes heureuses de l'arrière
Dans tout le reste de l'univers
Dans ceux qui meurent en piétinant dans le barbelé
Dans les femmes dans les canons dans les chevaux
Au zénith au nadir aux 4 points cardinaux
Et dans l'unique ardeur de cette veillée d'armes
Et ce serait sans doute bien plus beau
Si je pouvais supposer que toutes ces choses dans lesquelles je suis partout
Pouvaient m'occuper aussi
Mais dans ce sens il n'y a rien de fait
Car si je suis partout à cette heure il n'y a cependant que moi qui suis en moi
Ce poème a été écrit par Apollinaire quand il se trouvait dans la tranchée de première ligne. Il s’agit d’une description extasiée de la beauté d’un ciel nocturne éclairé par les lumières des fusées et par les autres instruments de guerre. Pour Apollinaire, le champ sur lequel la bataille fait rage a ses moments de beauté : violence et beauté peuvent vivre l’un à coté de l’autre.
Les fusées qui illuminent la nuit sont beaux comme dames qui dansent, ils sont comparées à des danseuses dorées et à des comètes dont la beauté s’offre et s’évanouit trop tôt pour le poète, perdu dans leur contemplation. Il écrit que ce spectacle de beauté aurait été encore plus fascinant si on avait encore plus de fusées.
Le poète semble assister à une grande fête éclairée par toutes les lumières provenant des instruments militaires : le terrain du champ de bataille autour de lui est vue comme un banquet ; même l’odeur de chair brûlée qu’il respire, dû aux plusieurs soldats blessés et mourant, ne lui déplaît pas.
Il voudrait que le ciel aussi prenne parte à ce festin, même la terre : le ciel est vu comme un jongleur contente qui utilise des feux colorés (les fusées).
Il semble que Apollinaire soit en train d’assister à un spectacle : il ne comprend pas la vraie réalité, la réalité nue et crue de la bataille qui a lieu autour de lui.
Le poète est complètement plongé dans cette particulière atmosphère d’exaltation : grâce à l’ardeur suscité par la guerre, il est partout, il se sent part vivante et intégral de la bataille et de tous les éléments qui la composent.
Il se trouve dans une dimension qui ne correspond pas à la réalité, parce que en guerre chacun est seul et doit chercher de se sauver, ne pensant pas aux horreurs qui se succèdent jour après jour.
Même si Guillaume semble s’apercevoir de ce concept, il ne renonce pas à décrire l’événement de guerre comme quelque chose d’extraordinaire.
En 1916 il est blessé à la tète et rentre à Paris.
À Paris, Apollinaire, en pensant à ses camarades encore engagés au front, compose « Et combien j’en ai vu » qui décrit la dure vie dans la tranchées et les conditions tragiques de ses copains. Il participe à leur souffrance : il imagine les soldats blessés à mourir et leur douleur ; cependant il ne renonce pas à découvrir et décrire les aspects les plus spectaculaires de la nuit de tranchées, en effectuant un rappel du futurisme.
Il y a encore une description extasiée de la nuit éclairée par les balles qui roucoulent; les obus sont comparés à un fleuve qui écoule sur les tètes des soldats ; une fusée qui illumine la nuit est comme une fleur qui s’ouvre et s’évanouit.
À côté de l’horreur et de le tragique de la bataille, Apollinaire réussit à trouver les aspects beaux de ce contexte.
Et combien j'en ai vu
Et combien j'en ai vu qui morts dans la tranchée
Étaient restés debout et la tête penchée
S'appuyant simplement contre le parapet
J'en vis quatre une fois qu'un même obus frappait
Ils restèrent longtemps ainsi morts et très crânes
Avec l'aspect penché de quatre tours pisanes
Depuis dix jours au fond d'un couloir trop étroit
Dans les éboulements et la boue et le froid
Parmi la chair qui souffre et dans la pourriture
Anxieux nous gardons la route de Tahure
J'ai plus que les trois cœurs des poulpes pour souffrir
Vos cœurs sont tous en moi je sens chaque blessure
Ô mes soldats souffrants ô blessés à mourir
Cette nuit est si belle où la balle roucoule
Tout un fleuve d'obus sur nos têtes s'écoule
Parfois une fusée illumine la nuit
C'est une fleur qui s'ouvre et puis s'évanouit
La terre se lamente et comme une marée
Monte le flot chantant dans mon abri de craie
Séjour de l'insomnie incertaine maison
De l'Alerte la Mort et la Démangeaison
On devra attendre Wilfred Owen pour comprendre les aspects vraiment dramatiques et graves de la guerre, sens plus célébration ou exaltation.
Wilfred Owen was a poet and soldier, regarded by many as the leading poet of the First World War, known for his war poetry on the horrors of trench and gas warfare.
Owen was born in 1893. In 1915 he was enlisted in the British Army and he fought for his first time. Owen started the war as a cheerful and optimistic man, but he soon changed forever.
The horrors of the war shocked him deply. After traumatic experiences, which included leading his platoon into battle and getting trapped for three days in a shell-hole, Owen was sent home on sick leave.
At a hospital in Scotland he met Siegfried Sassoon, who became his great friend and encouraged him to find his poetic voice. Owen’s most famous poems, such as Dulce et Decorum Est, show direct results of Sassoon's influence.
In September 1918, Owen returned to active service in France.
Owen saw it as his patriotic duty to keep tolding the horrific realities of the war; Sassoon was violently opposed to the idea of Owen returning to the trenches.
He was killed in action on 4th November 1918, exaclty one week before the Armistice.
The poems for which Owen is remembered were nearly written between the summer of 1917 and the autumn of his death, but very few were published in his lifetime.
Owen claims that the subject of his poems is the reality of war, not its glorification; its main themes are pity, suffering and death. The role of the poet is to inform those who have no direct experience of war what it is actually for the soldiers, so that future futile and destructive conflicts can be avoided.
Owen is admired for the realism of his portrait of the war, for example in Dulce et Decorum Est.
Dulce et Decorum est
Bent double, like old beggars under sacks,
Knock-kneed, coughing like hags, we cursed through sludge,
Till on the haunting flares we turned our backs
And towards our distant rest began to trudge.
Men marched asleep. Many had lost their boots
But limped on, blood-shod. All went lame; all blind;
Drunk with fatigue; deaf even to the hoots
Of tired, outstripped Five-Nines that dropped behind.
Gas! Gas! Quick, boys! – An ecstasy of fumbling,
Fitting the clumsy helmets just in time;
But someone still was yelling out and stumbling,
And flound'ring like a man in fire or lime . . .
Dim, through the misty panes and thick green light,
As under a green sea, I saw him drowning.
In all my dreams, before my helpless sight,
He plunges at me, guttering, choking, drowning.
If in some smothering dreams you too could pace
Behind the wagon that we flung him in,
And watch the white eyes writhing in his face,
His hanging face, like a devil's sick of sin;
If you could hear, at every jolt, the blood
Come gargling from the froth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues,
My friend, you would not tell with such high zest
To children ardent for some desperate glory,
The old Lie; Dulce et Decorum est
Pro patria mori
This poem is narrated by Owen himself. It tells of a group of soldiers of the First World War , forced to trudge "through sludge", marching slowly away from the falling explosive shells behind them looking for a place of rest. As gas shells begin to fall upon them, the soldiers scramble to put on their gas masks to protect themselves. In the rush, one man drops his mask, and Wilfred sees the man "stumbling and flound'ring like a man in fire..." The image of this man remains into Owen's thoughts and dreams, forcing him to relive the nightmare again and again. Owen then talks about how he has to throw the man into the back of a wagon and the man's "hanging face, like a devil's sick of sin."
In the final stanza, Owen says that readers should see what he has seen, especially people who believed war was noble and glorious event. No longer would they tell their children the "Old Lie," so long ago told by the Roman poet Horace: "Dulce et decorum est / Pro patria mori", which mean was "It is sweet and fitting to die for one's country".

Esempio



  


  1. Antonella

    una tesina che ha come argomento principale la crisi del 29 da collegare a diritto economia italiano