L'italia e il sistema liberale dopo la I guerra mondiale

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Testo

L’intervento nella prima guerra mondiale fu, in sostanza, la risposta conclusiva che il ceto liberale diede al problema tradizionale della sua scarsa egemonia. Dopo aver oscillato a lungo, nei mesi cruciali della neutralità italiana fra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915, la scelta cadde sulla guerra nella speranza che essa potesse portare alla nascita di quel blocco di tipo “prussiano” che avrebbe consentito ai liberali di poter controllare in modo adeguato le due grandi forze popolari che ormai si contrapponevano in campo politico: cattolici e socialisti. Ma per fare questo il ceto liberale introdusse al suo interno una profonda lacerazione, fra interventisti e neutralisti, destinata poi a riemergere drammaticamente alla fine della guerra. Il risultato di tale decisione non fu quello sperato.
Per un grande paradosso l’Italia uscì dal conflitto come una delle potenze vincitrici, ma in preda ad una crisi sociale, politica de economica di drammatica portata. Lo sforzo sostenuto dagli Italiani durante la guerra fu enorme se rapportato alle potenzialità del nostro Paese, ma fu obiettivamente modesto se paragonato al ruolo svolto nel conflitto da Paesi come Francia e Gran Bretagna. La conseguenza di ciò fu che al tavolo delle trattative per i compensi, i veri “grandi” europei e gli USA trattarono l’Italia come una potenza di secondo rango, gettando in uno stato di profonda frustrazione tutti quei gruppi, politici e sociali, che avevano voluto la guerra ed acuendo ulteriormente il malumore delle masse popolari che mai avevano considerato il conflitto come causa nazionale tale da giustificare le immani sofferenze subite.
La guerra era stata non soltanto un trauma generale ma anche un boom dell’economia industriale di proporzioni gigantesche, cui aveva corrisposto una crescita di richieste nuove da parte della società, soprattutto delle classi popolari, in una proporzione mai vista fino allora. Queste richieste esplosero nel dopoguerra con violenza tanto maggiore in quanto, durante la guerra, erano state tenute compresse. Ci fu un accentuato squilibrio tra le richieste della società e la possibilità dello Stato di soddisfarle. Lo Stato, in Italia sempre particolarmente sordo nel difendere l’interesse generale e nel potenziare i servizi pubblici e sociali, lo era ancor di più adesso, dopo tre anni di economia di guerra che lo avevano asservito ai gruppi dominanti e che ne avevano indebolito la capacità di fare opera di mediazione fra le classi.
Il ceto politico liberale andò indebolendosi durante la guerra per il radicale spostamento verso destra della borghesia ed è in quest’ottica che va valutato il fatto che all’indomani della prima guerra mondiale il sistema politico liberale, fortemente voluto da Giolitti che era ben conscio delle difficoltà politiche, economiche e sociali che un ingresso dell’Italia nel conflitto avrebbe comportato fino a portare allo sgretolamento della sua “creatura”, si trovò compresso tra le due lame di una forbice costituita dal partito socialista e da quello cattolico.
Nel corso del 1919 la stessa magistratura sembrò adeguarsi all’abulia del governo, timorosa com’era di esporsi per affermare la natura di classe dello Stato. Abulia che solo il rinfrancarsi di una certa borghesia riuscì a vincere negli anni a venire, trasformandola in pungolo per il governo affinché questo non restasse succube del movimento operaio e di quello contadino.
La crisi era resa ancora più grave dalle pessime condizioni finanziarie dello Stato, del resto ampiamente previste da chi fortemente si era opposto al conflitto, che si era trovato costretto a fronteggiare le ingenti spese belliche con inflazione e debiti. Negli anni immediatamente seguenti la guerra la situazione era di una drammaticità tale da richiamare alla mente quello che stava succedendo nei paesi sconfitti. Da qui uno stato generale di irrequietudine diffuso in tutte le classi, a sinistra come a destra dello schieramento politico, fra gli operai e i contadini, vittime principali del conflitto, fra i ceti medi, schiacciati dall’inflazione, fra i nazionalisti di ogni tendenza, pieni di rancore verso i socialisti, i “rinunciatari”, le forze alleate. Inoltre la guerra non aveva fatto altro aumentare la diffusione della pratica della violenza e dell’attesa “salvifica” di un domani migliore che potesse in qualche modo scacciare la psicosi della “vittoria mutilata” nuovo argomento di dibattito tra ex interventisti ed ex neutralisti.
Altro terreno di scontro era quello tra le classi popolari, operai, contadini e piccolo borghesi, e la classe dirigente, che aveva avuto il torto di imporre loro una guerra non voluta, lunga e faticosa. Rancore che si manifestò in maniera esplicita e forte attraverso l’adesione in massa ai due movimenti politici ostili allo Stato per tradizione: il socialista e il cattolico. Adesione in massa senza precedenti e che era divenuta necessaria per permettere ai ceti più provati dal conflitto di recuperare un tenore di vita dignitoso, attraverso un movimento rivendicativo in grado di farsi portavoce delle nuove esigenze di una società che non era più la stessa. Un movimento rivendicativo, su cui ormai forte era l’influenza della rivoluzione russa, che molti conservatori vedevano come un attentato alla certezza della proprietà e del diritto, con la conseguenza di acuire ancor più lo scontro di classe (basti pensare agli avvenimenti che caratterizzarono il cosiddetto “biennio rosso” quali l’espropriazione di terre, gli scioperi o l’occupazione delle fabbriche).
Per contro la grande borghesia finanziaria ed industriale era stata la vera beneficiaria della guerra e le sue fabbriche, per far fronte alle esigenze belliche, erano cresciute notevolmente permettendo un rafforzamento non solo economico ma anche politico e di controllo sull’apparato statale. Grande borghesia che mal celava il proprio timore nei confronti di una sempre crescente forza dei vari movimenti rivendicativi controllati dai socialisti e che trovarono un’altra grande opposizione nel novello partito popolare (gennaio1919) costituito dai cattolici italiani. Di fronte alla grave crisi che la società attraversava, la classe dirigente liberale si presentava ormai come invecchiata, statica, incapace di reagire e la vita politica italiana era bloccata dalla forte contrapposizione dei due partiti di massa. Una crisi che coincideva, dunque, non solo con il riorganizzarsi delle masse popolari in due grandi partiti politici fortemente strutturati, ma anche con il più vasto movimento di agitazioni economico-sociali della storia dello Stato unitario. Fu così che fra ondate di scioperi, occupazione di fabbriche, espropriazioni di proprietà terriere in nome di una riforma agraria mai attuata, prospettive rivoluzionarie, volontà di rivincita della borghesia, il giovane sistema liberale voluto da Giolitti venne smantellato in nome di un preteso nazionalismo che per i più si ammantò di imperialismo fino a sfociare in quella che all’epoca apparse come l’unica possibile soluzione alla crisi italiana: il fascismo.

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