Il mondo tra le due guerre mondiali

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IL MONDO TRA LE DUE GUERRE: DEMOCRAZIE E DITTATURE

La crisi dell’Europa
La conclusione della Prima guerra mondiale lasciò in eredità all’Europa una serie di gravissimi problemi.
Nove milioni di soldati avevano perso la vita nei combattimenti e altri dodici milioni erano rimasti feriti; inoltre due milioni di vittime erano state provocate fra i civili, a fine guerra, dal dilagare della cosiddetta “febbre spagnola”.
Numerosi nuovi Stati erano sorti sulle ceneri dei grandi imperi. Ciò provocò nuovi motivi di tensione: le popolazioni erano divise da forti rivalità, si trovarono infatti a convivere entro gli stessi confini, mentre un gran numero di profughi fu costretto a spostarsi dalle zone in cui abitualmente risiedeva in nuovi territori.
Si aprì una fase di incertezza e instabilità, segnata da una durissima crisi economica: le pesanti spese militari avevano provocato un vertiginoso aumento del deficit pubblico, che era l’eccedenza delle uscite di uno Stato, rispetto alle entrate.

Fra ideologie autoritarie e moti sociali
Da più parti iniziò ad affiorare il desiderio di governi forti, capaci garantire l’ordine sociale e di far fronte ai gravi problemi economici.
Questa tendenza creò le premesse per una svalutazione del ruolo dei Parlamenti e all’affermazione di ideologie autoritarie.
La crescita delle forze conservatrici e autoritarie fu d’altro canto contrastata proprio dallo sviluppo delle organizzazioni politiche e sindacali di sinistra.
Il malcontento dei lavoratori si espresse in manifestazioni, moti di protesta e scioperi, che miravano a ottenere un miglior trattamento salariale, migliori condizioni di vita all’interno delle fabbriche, la riduzione dell’orario di lavoro.
Fortissima era anche la rabbia dei reduci che, tornati dal fronte, faticavano a reinserirsi nella vita sociale e lavorativa e finivano spesso vittime dell’emarginazione.

La repubblica di Weimar
Le ripercussioni della disfatta subìta in guerra lasciarono in Germania tracce profonde sul piano politico, economico e sociale.
La situazione, in realtà, precipitò ancora prima che venisse sancita la sconfitta militare: nel novembre 1918 la flotta di Kiel si ammutinò, dando vita a dei Consigli, formati da soldati e operai, che si ispiravano ai soviet. Tutto il Paese, venne investito da un’ondata rivoluzionaria, che portò all’abdicazione del kaiser Guglielmo II e al crollo della monarchia.
Venne proclamata repubblica, che fu detta di Weimar dal nome della città in cui si riunì l’Assemblea costituente. La nuova Costituzione prevedeva un sistema democratico-parlamentare e una struttura federale che concedeva ampia autonomia agli Stati (Lander) che componevano la Germania.
Il partito socialdemocratico intraprese una politica di compromesso tra gli interessi dei lavoratori e quelli della grande borghesia. Questa politica fu però fortemente osteggiata dalla Lega di Spartaco (il futuro Partito comunista), che sosteneva la necessità di una svolta rivoluzionaria. La lega di Spartaco era un’organizzazione che raggruppava gli esponenti di estrema sinistra del Partito socialdemocratico tedesco e che diede vita poi al Partito comunista tedesco. L’insurrezione spartachista di Berlino (1919) venne duramente repressa dal governo: tra le vittime vi furono anche i due principali dirigenti comunisti, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

Fra tensioni e crisi economica
Le forze nazionaliste e reazionarie, a loro volta, crearono un esasperato clima di tensione. La situazione economica era altrettanto drammatica: la disoccupazione rimaneva altissima e l’inflazione era cresciuta in modo spaventoso.
Il valore della moneta si era a tal punto ridotto che per acquistare beni indispensabili, come il pane, erano necessari milioni di marchi. Le difficoltà erano ulteriormente aggravate dal problema del “risarcimento” di guerra imposto dai vincitori, fissato in una cifra esorbitante (132 miliardi di marchi-oro), ma riferito a una equivalente quantità di oro.
Considerato il disastroso stato dell’economia tedesca, gli Stati Uniti decisero di intervenire concedendo dei prestiti a lunga scadenza, che aiutarono la Germania a ricostruire il proprio apparato industriale e a far fronte ai propri debiti.
Ma le pesantissime conseguenze della crisi economica mondiale del 1929 aprirono un nuovo periodo di grave difficoltà.

Problemi e tensioni nei Paesi vincitori
La disastrosa situazione economica del dopoguerra non risparmiò neppure i Paesi che dal conflitto erano usciti vincitori.

La difficoltà inglese
La Gran Bretagna visse un periodo di grave difficoltà legata soprattutto alla perdita del ruolo di principale potenza economica mondiale, assunto ormai dagli Stati Uniti.
Il dopoguerra inglese fu caratterizzato da un forte aumento della disoccupazione e dalla crescita del malcontento dei lavoratori. Iniziò, così un lungo periodo di manifestazioni e scioperi.
Nel 1926 uno sciopero di quattro milioni di minatori costrinse la Gran Bretagna alla paralisi e ad alcuni ciò parve l’inizio di un processo rivoluzionario. Ma l’atteggiamento conciliante del Partito laburista, e la stessa posizione moderata dei sindacati impedirono che si giungesse a uno scontro frontale.
Un altro complesso problema per la gran Bretagna riguardava il suo vasto impero coloniale. Nel 1922, ad esempio, l’Egitto si rese autonomo sottraendosi al dominio britannico, mentre in India il movimento indipendentista guidato da Gandhi andava ottenendo un vasto consenso popolare.
Alle richieste di piena sovranità provenienti dai dominions si rispose invece con la creazione del Commonwealth, cioè una comunità di Stati sovrani e indipendenti, uniti dalla fedeltà della Corona e da stretti legami economici.
Assai complessa rimaneva poi la situazione in Irlanda, dove si era scatenato un sanguinoso conflitto in seguito alle sempre più pressanti richieste di indipendenza avanzate dalla parte cattolica dlella popolazione, conflitto che si concluse con la crezione di uno Stato autonomo, l’Eire.

Una Francia instabile
La vita politica fu caratterizzata da una forte instabilità, con una continua alternanza al governo dei partiti della Destra e della Sinistra.
In politica estera rimase molto sentita la questione del pagamento dei danni di guerra da parte della Germania. In seguito alla sospensione dei pagamenti da parte tedesca i francesi decisero addirittura di occupare militarmente la zona della Ruhr.

La questione irlandese
I contrasti fra Irlanda e Inghilterra cominciarono fin da quando, nel XII secolo, gli inglesi posero l’isola sotto il loro controllo. La divisione religiosa rese nel tempo sempre più profondi i dissidi. Già nel Settecento iniziarono a formarsi in Irlanda società segrete che chiedevano l’indipendenza del Paese. Nel 1905 nacque il movimento nazionalista del Sinn Fèin.
Le agitazioni e le sommosse tuttavia non cessarono, e si giunse a una soluzione: nel gennaio del 1922 venne infatti riconosciuta l’indipendenza di 26 contee cattoliche, che andarono a formare lo Stato d’Irlanda (Eire), mentre le 6 contee settentrionali (Ulster), a maggioranza protestante, restarono unite all’Inghilterra. Questa soluzione non portò tuttavia alla fine delle tensioni, che proseguirono nell’Ulster, dove la minoranza cattolica chiedeva l’unificazione con l’Eire. I nazionalisti irlandesi diedero vita all’IRA (Esercito Repubblicano Irlandese), un’organizzazione paramilitare che continuò a organizzare attentati terroristici contro gli inglesi sia a Belfast sia nella stessa Gran Bretagna.

L’Italia nel dopoguerra
Anche in Italia il dopoguerra fu caratterizzato da una profonda crisi.
La situazione economica era allarmante: la lira si era fortemente svalutata, il costo della vita era aumentato in modo vertiginoso e l’apparato produttivo non era in grado di assorbire la manodopera di nuovo a disposizione con il ritorno dei soldati dal fronte. Vi era poi il grosso problema della riconversione dell’industria bellica a produzioni adeguate a tempi di pace.
In questa difficile situazione si inserivano anche forti tensioni di tipo sociale: il periodo 1919-1920 (il cosiddetto “biennio rosso”) fu infatti caratterizzato da una lunga serie di scioperi e agitazioni. I lavoratori dell’industria ottennero importanti conquiste, come la diminuzione dell’orario settimanale a paghe invariate.
Entrarono in agitazione anche i contadini, che chiedevano le terre promesse dal governo durante la guerra e che, nel Meridione, usarono come strumento di lotta l’occupazione delle terre dei latifondi.
Nel 1920 in tutta Italia gli operai misero in atto l’occupazione delle fabbriche. Era questa la risposta dei sindacati alla serrata imposta dagli industriali di fronte alle rivendicazioni salariali e a uno sciopero indetto dai lavoratori.

Dalla “vittoria mutilata” all’occupazione di Fiume
L’agitazione si concluse con un lieve aumento salariale per gli operai ma con una loro sostanziale sconfitta.
La vicenda finì infatti per indebolirne il movimento: da un lato perché era emersa l’impossibilità, da parte dei lavoratori, di dar vita a una rivoluzione sul modello sovietico: dall’altro perché gli industriali avevano assunto un atteggiamento di chiusura che col passare del tempo si sarebbe fatto sempre più rigido.
D’altro canto anche i ceti medi mostravano chiari segni di inquietudine: preoccupati dalle agitazioni dei “rossi” impoveriti dal crescere dell’inflazione, avevano accumulato una forte dose di frustrazione e rancore verso lo Stato.
Essi divennero una facile esca per le proteste dei nazionalisti, rivolte in particolare contro la cosiddetta “vittoria mutilata”, cioè i trattati di pace che avevano negato all’Italia la Dalmazia e Fiume.
Queste proteste erano culminate nell’occupazione della stessa Fiume da parte di volontari guidati da Gabriele d’Annunzio, scrittore e uomo politico nazionalista che si era distinto anche come uno dei maggiori protagonisti dell’interventismo. Con il Trattato di Rapallo del 1920 firmato da Giolitti con la Iugoslavia. Fiume fu poi dichiarata città libera, e l’esercito italiano allontanò con poca fatica le truppe dannunziane.

Mussolini al potere
Uno dei caratteri principali del movimento fascista fu, fin dalle sue origini, l’uso della violenza, che dalla fine del 1920 si fece sistematico. Squadre di fascisti si diedero a percorrere le campagne del Centro-Nord attaccando con violenza le sedi delle organizzazioni socialiste e cattoliche. Innumerevoli camere del lavoro, cooperative, municipi furono presi d’assalto, demoliti o bruciati. Moltissimi militanti, soprattutto della sinistra, vennero picchiati, costretti a bere olio di ricino, spesso uccisi. Queste iniziative erano sostenute dai proprietari terrieri. La forza pubblica molto di rado intervenne a bloccare gli attacchi delle camicie nere, che anzi erano viste con una certa simpatia. Lo stesso governo Giolitti mostrò tolleranza nei confronti del fascismo, che riteneva potesse frenare in qualche modo l’espansione socialista. Non a caso per le elezioni del 1921 propose di creare delle liste di coalizione nelle quali candidati fascisti si affiancassero ai liberali e ai conservatori, per cercare di contrastare i grandi partiti di massa. I risultati elettorali non furono entusiasmanti ma permisero a 35 fascisti di entrare a far parte della Camera dei deputati.
Innanzi tutto Mussolini decise di trasformarlo in un vero e proprio partito, il Partito nazionale fascista nel 1921.
Nel 1922, passò all’azione, dando il via a una mobilitazione generale di tutti i fascisti, la cosiddetta marcia su Roma. L’esercito regolare avrebbe potuto fermare facilmente le poco organizzate milizie fasciste, ma il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di farlo intervenire, consegnando la città a Mussolini e affidandogli l’incarico di formare un nuovo governo.

Gli Stati Uniti dalla ricchezza alla crisi
Contrariamente a quanto accadde nei Paesi europei, l’economia statunitense conobbe nel dopoguerra un momento di grande crescita. Fu il trionfo del modello di vita americana che si diffuse in tutto il mondo, l’immagine di una società ricca e felice, nella quale era possibile per tutti integrarsi e fare fortuna. Automobili, radio, elettrodomestici invasero il mercato, trasformandosi in consumi di massa.
In questo apparente clima di generale benessere non mancavano tuttavia sintomi negativi: l’agricoltura viveva un momento di difficoltà, tanto che i contadini furono costretti a lasciare le campagne e a spostarsi in città. Va poi sottolineato che la crescita della ricchezza non era equamente distribuita fra la popolazione.
Il meccanicismo cominciò a incepparsi quando ci si rese conto che i beni prodotti in quantità sempre maggiore cominciavano a non essere più venduti (crisi di sovrapproduzione): le possibilità di acquisto dei cittadini si erano rivelate dunque fortemente inferiori alla quantità di merci immesse sul mercato.

Dal crollo di Wall Strett al New Deal
Alle difficoltà delle industrie si affiancarono anche quelle delle banche, che compresero che difficilmente avrebbero porro riottenere il denaro prestato per finanziare imprese e attività industriali.
Ben presto anche il valore delle azioni cominciò e iniziò un’impressionante corsa alla vendita dei titoli azionari, che diffuse il panico nel Paese. Fu così che, nell’ottobre del 1929, il famoso giovedì nero dove ci furono molti suicidi, la Borsa di New York (Wall Strett) subì un autentico tracollo, l’inizio di un periodo di durissima crisi economica. La crescita industriale si interruppe bruscamente, moltissime fabbriche e banche fallirono e la disoccupazione crebbe a dismisura. Anche i prezzi dei prodotti agricoli scesero vertiginosamente, diffondendo la miseria nelle campagne. Era iniziato il periodo della cosiddetta grande depressione, dalla quale gli Stati Uniti uscirono grazie alla politica economica di riforme (New Deal = Nuovo Corso).
Il punto centrale del New Deal fu senza dubbio costituito dall’intervento dello Stato nell’economia e nella vita sociale del Paese, in chiara opposizione ai sostenitori del liberalismo.
Roosevelt fece vigilare con estrema attenzione sulle operazioni di Borsa per impedire rischiose speculazioni.
Inoltre mirò a favorire la ripresa industriale e a riassorbire la disoccupazione creando un piano di grandi opere pubbliche e applicando provvedimenti volti a tutelare gli interessi di contadini e operai.
Il presidente Roosevelt per diminuire la disoccupazione impiegò molti operai a costruire opere pubbliche (strade, ferrovie, ponti a acquedotti); e fece anche una riforma fiscale per cui si pagava in base al reddito.

Cina e Giappone: due storie parallele
Anche per due importanti Paesi asiatici, Cina e Giappone, il periodo fra le due guerre mondiali fu caratterizzato da eventi di grande importanza. Dopo la caduta dell’Impero in Cina si era instaurata una repubblica, la cui vita fu tuttavia travagliata da profondi contrasti interni.
Fin dall’inizio i rivoluzionari guidati da Sun Yat-sen, dovettero infatti fronteggiare la vecchia classe dirigente, rimasta legata alla dinastia imperiale. Questa lotta intestina sfociò nella divisione del Paese in due parti. Il nord, dominato dai governatori militari; il Sud sotto il controllo del Kuomintang, che vi impiantò un governo repubblicano. L’obiettivo di Sun Yat-sen era quello di ricostituire l’unità del Paese e in questa battaglia egli fu sostenuto anche dal Partito comunista.
Nel frattempo, tuttavia, l’atteggiamento poco favorevole ai comunisti del nuovo capo del Koumintang, Chang Kai-shek, aveva portato a gravi contrasti interni. Da questo momento la Cina fu travagliata da una dura lotta fra il nuovo governo e i comunisti, che cominciarono a organizzarsi soprattutto nelle campagne (secondo la “strategia contadina” sostenuta da uno dei suoi massimi esponenti, Mao Tse-tung).
Per sfuggire agli attacchi governativi intraprese la cosiddetta “lunga marcia” (12.000 km) dal Sud del Paese verso le regioni del Nord.
La sanguinosa guerra civile si interruppe quando le due fazioni decisero di creare un fronte unito contro le aggressioni dei giapponesi, che avevano invaso la regione della Manciuria.
Il Giappone si schierò infatti al fianco della Germania e dell’Italia nel Patto Anticomintern e poi nel Patto tripartito dando luogo al cosiddetto asse Roma – Berlino – Tokyo.

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