completamento unità d'Italia

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IL COMPLETAMENTO DELL’UNITA’
Nei primi quindici anni successivi all’unità, dal 1861 al 1876, l’Italia fu guidata da un raggruppamento politico, la cosiddetta Destra storica, che era espressione dell’aristocrazia e della borghesia liberale moderata del Centro-Nord del Paese. Furono questi uomini ad affrontare l’insieme di problemi che la vita del nuovo stato italiano presentava. Le scelte che esse compirono, nel bene e nel male, ebbero importanza storica decisiva, perché posero le basi sulle quali si sarebbe in seguito sviluppata la società italiana. Il primo di tali problemi era il compimento dell’unità, cui mancavano ancora il Veneto, dominio austriaco, e Roma, soggetta al potere temporale del papa, che aveva rifiutato di riconoscere il nuovo stato. E se l’annessione del Veneto fu ottenuta abbastanza facilmente, grazie all’alleanza con la Prussia, nella guerra del 1866, assai più spinosa era la questione romana, perché agire con la forza avrebbe significato mettersi in urto Napoleone III, tradizionale difensore del papato. Solo dopo la caduta dell’imperatore francese il governo italiano si decise all’azione: il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono in Roma, che fu annessa allo stato italiano. L’unità era completata, ma si apriva nel paese una frattura destinata a pesare per decenni, quella fra laici e cattolici. Infatti, il papa Pio IX non accettò la nuova situazione, né le garanzie che lo stato italiano offriva alla chiesa attraverso la legge delle guarentigie; infatti il pontefice vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica.
L’ACCENTRAMENTO AMMINISTRATIVO
Un secondo ordine di problemi riguardava l’aspetto istituzionale e amministrativo: quali leggi, quali istituzioni avrebbe avuto il nuovo stato unitario, che ereditava dagli stati preunitari una grande varietà di ordinamenti? L’alternativa che si pose alla classe dirigente fu quella fra accentramento, cioè imposizione di un sistema amministrativo unico e governato dal centro, e federalismo, cioè una più o meno marcata autonomia delle diverse realtà regionali. Fu seguita la prima via, nella convinzione che solo l’accentramento avrebbe potuto garantire l’unità di uno stato ancora così fragile. Fu dunque estesa a tutto il paese la legislazione sabauda, a cominciare dalla legge fondamentale dello stato, lo Statuto albertino, per finire ai codici commerciali, alle leggi comunali e provinciali. E poiché nel regno di Sardegna vigeva l’amministrazione centralizzata di tipo napoleonico, questo modello fu esteso anche in Italia: il regno fu diviso in 59 province governate da prefetti, che rispondevano direttamente al governo centrale; quest ultimo nominava anche i sindaci. Le realtà locali erano dunque prive di autonomia, cosa che ebbe conseguenze gravi sia nell’immediato, sia a lungo termine. Nell’immediato perché, specie agli occhi delle popolazioni meridionali, il nuovo stato sembrò imporre regole e leggi proprie di uno stato straniero, il “piemontese”, e ciò non favorì certamente la costruzione di una vera unità nazionale; a lungo termine perché lo stato italiano ha conservato a lungo, fino a tempi assai vicini a noi, un carattere eccessivamente accentratore, burocratico e spesso inefficiente.
“CUCIRE LO STIVALE”: INFRASTRUTTURE E DEBITO PUBBLICO
l’Italia che usciva dall’unità era un paese non solo in grave ritardo economico, ma anche segnato da una profonda eterogeneità e frammentazione dal punto di vista economico, politico, culturale, risultato di secoli di divisione politica e di dominazione straniera. Occorreva non solo sviluppare l’economia, ma anche e soprattutto “cucire lo stivale”, cioè creare le infrastrutture necessarie a mettere in comunicazione le molte “Italie” esistenti. Per realizzare tali obiettivi, però, sarebbero stati necessari enormi investimenti pubblici: esigenza che si scontrava con il pesante debito pubblico che gravava sul bilancio italiano, soprattutto per i costi sostenuti dal Piemonte per le guerre di unificazione. Il governo della Destra realizzò in primo luogo l’unificazione monetaria e finanziaria, trasformando la lira piemontese nella moneta nazionale. Poi sviluppò una robusta politica di investimenti pubblici, soprattutto nel settore ferroviario, ottenendo risultati di rilievo. Contemporaneamente, lavorò per l’obiettivo del pareggio del bilancio che fu raggiunto nel 1876. questa politica fu resa possibile in parte ricorrendo a prestiti esteri, ma soprattutto grazie a un pesante inasprimento del prelievo fiscale. Questo prelievo fu molto squilibrato, perché colpì soprattutto i consumi, attraverso un aumento delle imposte indirette: in altri termini, lo sviluppo fu finanziato prevalentemente dai ceti popolari, che videro diminuire i propri redditi reali. Emblema di tale politica fu la famigerata tassa sul macinato, che tassava la macinazione dei grani e dunque colpiva i contadini nel loro consumo fondamentale: le rivolte contadine che scoppiarono dopo l’introduzione della tassa diedero il primo segno degli aspri conflitti sociali che avrebbero segnato la vita dello stato unitario per decenni.
IL MEZZOGIORNO E IL BRIGANTAGGIO
La Destra non seguì certo una politica favorevole alle popolazioni meridionali. L’applicazione della legislazione sabauda provocò contraddizioni e reazioni di rifiuto in regioni profondamente diverse dal Piemonte per assetto sociale, cultura, tradizioni: esemplare, a proposito, il caso del sistema fiscale, che sottopose i cittadini meridionali a una tassazione molto più severa di quella borbonica, e quello del servizio militare, che introdusse nelle regioni del Mezzogiorno sette anni di leva obbligatoria. Sono queste le condizioni sociali in cui si colloca il grave fenomeno del brigantaggio, che insanguinò il Mezzogiorno sino al 1865. le bande dei cosiddetti “briganti” erano formate da contadini, da sbandati del disciolto esercito borbonico e garibaldino, da legittimisti, da renitenti alla leva, da banditi veri e propri. Esse prendevano di mira i “galantuomini”, cioè i possedenti e politici locali, assaltando le loro fattorie, devastando e uccidendo; saccheggiavano i palazzi dei borghesi; incendiavano gli archivi comunali per distruggere i documenti fiscali e di leva; aprivano le carceri. Si ribellavano contro lo stato italiano, spesso in nome dei Borbone e del papa, dai quali ricevevano aiuti materiali. La risposta del governo fu la repressione militare, con cinque anni di vera e propria guerriglia tra i briganti e lo stato: intere province furono in stato d’assedio, con massacri fucilazioni e rappresaglie indiscriminate. Nel 1865 il brigantaggio era stato stroncato, ma diverse migliaia fra soldati, briganti e civili avevano perso la vita; cresceva presso le popolazioni meridionali l’estraneità verso il nuovo stato e si apriva un solco destinato a dividere profondamente il paese.
LA RAPPRESENTAZIONE POLITICA: LA SINISTRA AL GOVERNO
Il ceto politico della Destra era omogeneo, ma espressione di una base sociale estremamente esigua. La legge elettorale sarda, adottata anche in Italia, prevedeva un suffragio molto ristretto in base al censo: solo l’ 1,9 % degli italiani aveva diritto di voto. La grande maggioranza della popolazione era dunque priva di rappresentanza politica. Anche in Italia si pose l’esigenza di un ampliamento del diritto di voto: ed era questo il primo punto del programma elettorale che la Sinistra presentò nel 1875. gli altri erano il decentramento amministrativo, l’istruzione obbligatoria, una maggione giustizia fiscale. Su questo programma la Sinistra vinse le elezioni del 1876 e andò alla guida del paese. La sua vittoria manifestò un bisogno di cambiamento e di modernizzazione vivo all’interno della società italiana.
L’OPERA DELLA SINISTRA
Nel raggruppamento politico denominato “Sinistra” confluivano in realtà uomini di diversa provenienza e orientamento: vi erano liberali riformatoti, rappresentanti della borghesia progressista settentrionale, ma anche dei “notabili” e dei proprietari terrieri meridionali, ex garibaldini e mazziniani, professionisti e intellettuali meridionali; personaggi come Depretis, Crispi e De Sanctis. Proprio questa eterogeneità non consentì alla Sinistra una forte azione di governo. Parte del programma elettorale fu realizzata: il diritto di voto fu portato dall’ 1,9 al 6,9 % della popolazione; furono introdotti 2 anni di scolarità elementare obbligatoria; venne abolita la tassa sul macinato. Ma non fu avviata nessuna politica di legislazione sociale; si continuarono ad affrontare scioperi e rivendicazioni con strumenti puramente repressivi; soprattutto non venne introdotto lo sperato rinnovamento politico. Anzi si inaugurò in questa fase in cosiddetto trasformismo, cioè la tendenza a gestire la vita politica attraverso accordi, patteggiamenti, scambi di favori tra maggioranza di governo e opposizione. Più che luogo di dibattito divenne sede di compromessi, di mediazione degli interessi regionali, locali o addirittura personali che ciascun deputato rappresentava.
LA SCELTA PROTEZIONISTA
La più importante decisione assunta dal governo di Sinistra fu quella di adottare una politica protezionista: una scelta destinata a provocare enormi conseguenze nella vita del paese. Gli uomini della Destra, da liberali, avevano seguito una politica liberoscambista, estendendo a tutto il paese la tariffa doganale piemontese, che era fra le più basse d’Europa. Ma l’apertura del sistema economico italiano verso l’estro, forse opportuna in una fase caratterizzata dal libero scambio generalizzato, non sembrò più tale con la “grande depressione”, quando quasi tutti i governi europei innalzarono tariffe a protezione delle loro economie. Premevano per una politica protezionista soprattutto due ceti sociali: gli industriali del Nord, che ritenevano si dovesse proteggere le debole industria italiana dalla concorrenza estera, per consentirle di rafforzarsi, e i grandi proprietari terrieri meridionali, che vedevano minacciate le loro rendite dalla concorrenza dei cereali americani, australiani e argentini. L’alta tariffa doganale introdotta dal governo italiano del 1887 sul grano e su vari prodotti industriali ebbe conseguenze negative e positive. Le negative furono il peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari, che pagarono pane e pasta più di quanto li avrebbero pagati con il libero scambio, e i gravi danni subiti dalle colture specializzare meridionali, destinate all’esportazione. Positive furono invece le conseguenze on campo industriale, soprattutto nei comparti tessile e meccanico: i nostri imprenditori poterono operare sul mercato interno in condizioni di vantaggio rispetto alle imprese straniere e questo privilegio, unito agli investimenti compiuti dal governo nell’industria di base, favorì certamente il decollo industriale italiano.
LA POLITICA ESTERA E L’ESPANSIONE COLONIALE
Anche in politica estera la Sinistra invertì la rotta rispetto alla Destra, che si era mantenuta in posizione di neutralità, pur con una particolare vicinanza alla Francia. Depretis si legò invece all’Austria e alla Germania, stipulando la triplice alleanza, che prevedeva un intervento di reciproca difesa in caso di aggressione. Il governo compì questa scelta temendo di rimanere isolato sul paino internazionale in un momento in cui i rapporti tra le grandi potenze sembravano peggiorare a causa della sempre più accesa competizione economica e coloniale. Questa nuova collocazione in politica estera dell’Italia fu accompagnata da un aumento della spesa per i bilanci militari e dall’inizio di una politica di espansione coloniale in Africa, che fu poi proseguita da Crispi, capo del governo. Una politica che non fu coronata dal successo, dato che il tentativo italiano di espandersi nell’Africa orientale fu vanificato dall’esercito etiope. Anche l’Italia entrò dunque nella gara imperialistica di fine secolo, sulla spinta di concreti interessi economici e di evidenti motivazioni politiche: conquistare prestigio a livello internazionale; dirottare verso l’esterno le tensioni sociali sentite nel paese, cercando il consenso popolare con l’improbabile mito di un’ Italia “Grande Potenza”.
L’ETA’ CRISPINA: ACCENTRAMENTO E AUTORITARISMO
Al di là della fallimentare impresa coloniale, il governo Crispi indirizzò il sistema politico italiano in direzione di un rafforzamento dello stato e di un marcato autoritarismo. Crispi realizzò importanti riforme (miglioramento dell’efficienza della burocrazia; ampliamento del diritto di voto nelle elezioni locali; eleggibilità dei sindaci; riforma della sanità e della pubblica assistenza); ma l’indirizzo che egli diede alla vita politica fu di diminuzione, non di un ampliamento, delle libertà. In un’Italia attraversata da scioperi e proteste, e nella quale il movimento operaio e contadino diveniva sempre più forte e consapevole dei proprio diritti, Cirspi attuò una politica fortemente repressiva, intervenendo con la forza: nel 1893 affrontò il movimento dei Fasci Siciliani, in cui esplodeva la ribellione di contadini, operai, minatori delle zolfare, con eccezionale durezza, sino a decretare lo stato d’assedio nell’isola. Anche dopo la caduta di Crispo si continuò a usare strumenti puramente repressivi. L’Italia andò vicina, in quella crisi di fine secolo, a un colpo di stato autoritario, che fu evitato solo per la ferma opposizione dei socialisti e dei liberali progressisti. Ma era chiaro che il paese esigeva ormai un profondo cambiamento.

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