Tintoretto e Caravaggio

Materie:Appunti
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

TINTORETTO
→ Miracolo dello schiavo legato alle storie di San Marco
il miracolo: uno schiavo viene sorpreso a venerare le reliquie di San Marco dal padrone pagano, che fa ordine di torturarlo; San Marco spezza gli strumenti di tortura dell’aguzzino.
I personaggi principali sono tre: lo schiavo con attorno a lui gli oggetti spezzati. Seguendo una linea curva si arriva ai piedi dell’aguzzino col turbane che solleva con un gesto plateale gli strumenti di tortura spezzati.
Sempre seguendo una linea curva immaginaria al centro c’è San Marco, in scorcio molto ardito che sta arrivando in volo. A destra un personaggio seduto su un trono, probabilmente il padrone che assiste. L’altra protagonista è la folla, la gente in gruppo sia a destra che a sinistra, sono tutti diversi, è una massa colorita variegata in molte posizioni. La folla a sinistra si protende verso il centro, l’idea del miracolo è chiara e la folla più ridotta a destra è composta da persone che si ritraggono quasi spaventati innanzi alla scena.
Il fatto avviene sotto una specie di pergolato di vegetazione. A sinistra si scorge un edificio con delle colonne e sullo sfondo una piazza con un colonnato il cui, molto dietro, si intravede un giardino.
La scena è di grande impatto emotivo, dà il senso del miracolo in modo forte, da coinvolgere lo spettatore nella folla che osserva. Tintoretto studia la gestualità delle figure e la composizione. Costruisce una scena di effetto quasi teatrale. Un ruolo fondamentale lo svolge la luce, che non è naturale ma studiata e diversa a seconda della parti del dipinto: in primo piano la luce è cupa, a simboleggiare la tragedia. Nel contempo la luce è più naturale sullo sfondo dove il cielo si rischiara. Ci sono dei lampi di illuminazione da parte di San Marco, una luce spirituale legata al miracolo, una luce che si riflette sul corpo dello schiavo a terra.
Un lampo di luce illumina parzialmente con forte contrasto luce-ombra la linea curva che contiene il miracolo. La luce illumina varie parti anche della folla che emerge così dal semibuio.
Altri sono i dipinti che riguardano le storie di San Marco.
→ La crocifissione situata nella sala dell’albergo, la più importante della confraternita.
Le dimensioni sono enormi ed il tema trattato è quello della crocifissione, un tema tradizionale trattato in modo particolare. Ci sono svariati personaggi intenti in varie attività, è una scena di grande movimento e dinamismo, quasi caotica per la quantità di persone.
Tintoretto segue però una logica compositiva: ci sono come delle direttrici dove la linea principale è quella della croce e le altre, si incrociano come in una croce di sant’Andrea.
L’aspetto più innovativo è l’uso della luce, un luminismo che consiste in un illuminazione che squarcia una semi oscurità. La base del dipinto è scura, con delle luci non naturali, come dei bagliori che illuminano i particolari.
T. prima di eseguire un dipinto, faceva delle figure modellate ed una sorta di teatrino; dopo di ché illuminava la scena costruita con delle candele, gettando bagliori su certi particolari. Costruiva dunque una sorta di modello del quadro, in cui studiava gli effetti di luce.
Quello che poi è il risultato è l’idea, più che di una scena storica, di una sorta di visione che spesso nei suoi quadri è drammatica. Questa pittura tende a colpire emotivamente lo spettatore, un po’ il contrario di Raffaello.
→ Santa Maria Egiziaca situato nella sala terrena, è particolare il formato, sviluppato in verticale. Insolita la collocazione della santa, che dovrebbe esser protagonista, e che occupa invece una porzione minima ed una posizione decentrata. Una scelta tipicamente manieristica che va contro le regole compositive.
Il resto del quadro è occupato da un paesaggio in cui T. applica il luminismo, utilizzando una luce dorata che rende il paesaggio una sorta di visione.
La luce più che illuminare definisce le piante, l’acqua… con dei filamenti brillanti rendendo il paesaggio visionario, una sorta di visione dei pensieri della santa.
→ Ultima cena ultima opera di Tintoretto che dipinge alla fine del secolo, nel 1594, anno della sua morte.
Opera eseguita per la chiesa di San Giorgio di Venezia, la chiesa di Palladio.
Il tema è tradizionale ma particolare è il modo in cui lo affronta: la tavola non è posta centralmente ma è di sbieco, come se bucasse lo spazio, uno spazio in cui non si vede la fine, tipicamente manieristico.
Sono riconoscibili Gesù e gli apostoli, ma la scena avviene in un ambiente che ricorda un’osteria, una taverna. Sulla destra ci sono dei servitori intenti a portare delle cose con dei vassoi, vestiti in abiti dell’epoca di Tintoretto.
L’insieme della scena è visionario soprattutto per gli effetti di luce.
La scena è di per sé molto buia ma c’è più di una fonte di illuminazione:
1. La lampada; la luce è reale e naturale, ma non illumina, proietta dei lampi di luce sulle teste degli apostoli;
2. Aureola di Cristo; più luminosa della lampada, una luce sopranaturale ma che illumina in modo forte;
3. Gli angeli; sono ritratti quasi come delle apparizioni, delineati da dei filamenti di luce, una luce che individua queste figure che sono quasi delle essenze luminose.
Il risultato non è una luce uniforme, queste diverse fonti entrano in contatto fra loro e con il buio. Le figure sono illuminate a tratti ed emergono in parti. È quasi fantasioso, come una visione della mente.
CARAVAGGIO
Tra il 1634 e il 1641 F.B. costruisce per i Padri Trinitari il chiostro e la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, detta San Carlino a causa delle esigue dimensioni. Il piccolo chiostro ha pianta pressoché rettangolare ed è costituito. In alzato, da un doppio ordine di colonne. Quelle inferiori, tuscaniche, hanno l’abaco prolungato fino a costituire una cornice e sorreggono alternativamente un architrave, sormontato de una montatura piena, e un arco; quelle superiori sono architravate. Gli angoli del rettangolo però sono smussati e ospitano coppie di colonne. Sopra queste insistono porzioni di muro convesse: la pianta si trasforma dunque in un ottagono con quattro lati curvi e di dimensione ridotta rispetto ai rimanenti. la forma convessa introdotta nel chiostro diventa il motivo dominante nella chiesa la cui pianta, basata sull’ellisse, è un succedersi di rientranze e sporgenze. L’andamento sinuoso del perimetro, ulteriormente animato dalla presenza di colonne addossate alle murature, si legge ancora, continuo e limpido, nell’alta cornice. Quattro arconi riconducono, alla fine, la struttura alla perfetta imposta ovale della cupola. Questa è decorata con un cassettonato dal complesso disegno in cui croci, esagoni ed ottagoni si fondono mirabilmente.
Sant’Ivo alla sapienza, realizzata tra il 1642 e il 1660. qui F dovette innanzitutto misurarsi con un preesistente cortile, un lato del quale era ad arco di cerchio. Dall’esagono derivante dall’intersezione di due triangoli equilateri fra loro ruotati si genera uno schema planimetrico mai impiegato prima, costituito da tre ampie absidi lobate alternate a tre nicchie introdotte da pareti convergenti aventi il fondo convesso. In tal modo il Borromini abbandona definitivamente la regola rinascimentale delle proporzioni, che faceva generare l’edificio dalla ripetizione di moduli, per proporre una preziosa e rigorosa progettazione per schemi geometrici. Contrariamente a quanto era avvenuto nella chiesa di San Carlino, qui la forma della pianta prosegue in alzato senza variazioni, in un modo che dimostra la chiarezza e l’organicità della progettazione, per culminare nella cupola la cui struttura ripete spigoli, rientranze e sporgenze della pianta che si annullano nell’anello del serraglio della lanterna, le cui facce sono tutte convesse. Alla stessa logica compositiva corrisponde l’esterno, specie nel tiburio che nasconde la cupola e nelle gradinate che ne costituiscono le nervature scoperte. Dei contrafforti curvilinei stringono la cupola e vanno a sorreggere la lanterna che ha facce concave separate da colonne binate. La copertura della lanterna è un’elica scultorea che si conclude in un’aurea corona. Fra le attività architettoniche del Borromini occorre ricordare l’intervento di trasformazione della Basilica Paleocristiana di San Giovanni in Laterano. L’incarico gli venne da papa Innocenzo X nel 1646 in concomitanza con i preparativi del Giubileo del 1650. il Borromini conciliò le esigenze statiche (la chiesa minacciava di crollare) con quelle di conservare l’antica basilica, secondo il desiderio del pontefice. L’architetto rinforzò le strutture dell’edificio inglobando coppie di colonne in un solo pilastro sottolineato da grandi lesene laterali sorreggenti la trabeazione. Quest’ultima non è più continua, ma si interrompe per lasciar spazio alle aperture. L’unitarietà della grande navata centrale si frantuma nelle diverse specie di coperture delle campate delle navate laterali, i cui pilastri presentano ancora, invece, il tema dell’angolo smussato che avevamo già visto impiegato nel chiostro di San Carlino.

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