La Maddelena Penitente.

Materie:Appunti
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

LA "MADDALENA PENITENTE" IN TERRAGLIA DEL CANOVA
Opera in apparenza minore, certo penalizzata dal confronto con i numerosi pezzi di levatura eccezionale contenuti nella collezione Strozzi Sacrati, la Maddalena penitente copia in terraglia da Canova, si rivela al contrario una testimonianza di grande interesse, specie sotto il profilo storico. Va ricordato innanzi tutto che la moda di riprodurre statue o gruppi famosi ricorrendo al biscuit di porcellana o, in seguito, alla più economica terraglia, era nata a metà del XVIII secolo e col Neoclassicismo si era diffusa in tutta Europa. Agli inizi del secolo era di bon ton possedere queste piccole plastiche i cui soggetti, nella stragrande maggioranza dei casi, erano direttamente o indirettamente riferibili al mondo classico. Anche se i temi religiosi non erano del tutto assenti, si trattava in genere di copie di statue o gruppi famosi dell’antichità conservati nelle più importanti collezioni (specie di Roma o Napoli) o di composizioni comunque ispirate al mondo della mitologia greca. Al massimo si arrivava alle allegorie, con personaggi atteggiati come divinità o eroi classici, drappeggiati in ampli pepli, tuniche e paludamenti all’antica. Nell’ultimo decennio del secolo, anche in Italia si afferma sempre più la terraglia, a favore del cui impiego giocava, oltre al costo ridotto, anche l’agevole modellazione che permetteva di ricorrere a tutte le tecniche note, comprese quelle che la minore plasticità della porcellana non permetteva. In Italia, oltre alla Ferniani, si dedicavano alla copia in terraglia di sculture classiche anche la manifattura palermitana del barone Malvica, l’Aldrovandi di Bologna, l’Antonibon di Este. Qualche gruppo simile venne realizzato anche dalla Volpato di Civita Castellana, che però preferiva in genere il biscuit di porcellana per riprodurre i capolavori antichi dei musei romani ma anche, grazie all’amicizia che legava il suo proprietario ad Antonio Canova, qualche opera di quest’ultimo, i cui bozzetti venivano forniti direttamente dall’autore. Si potrà certo discutere sulla qualità finale di queste copie in terraglia, specie se si ragiona in termini non tanto di fedeltà alla forma complessiva dell’originale ma in riferimento alla resa delle particolari qualità tattili, visive, di resa luminosa dell’opera in questione, ma è certo che questa traduzione in termini più accessibili contribuì moltissimo a rendere popolare la scultura, classica o contemporanea che fosse. In effetti possiamo considerarla in tutto paragonabile all’importanza che ebbe, dal Cinquecento in avanti, l’incisione su lastra nel diffondere in tutta Europa la conoscenza della pittura rinascimentale italiana. Tornando alla nostra Maddalena, possiamo sostenere che l’attribuzione alla Ferniani - documentabile attraverso il confronto con un esemplare analogo restato sempre in possesso degli eredi della manifattura faentina - appare confermata anche dalla qualità della terraglia impiegata, specie per quanto riguarda la vernice, che appare caratterizzata da una sfumatura verdastra, tipica della produzione faentina e riscontrabile anche in altre statuette del periodo. Questa caratteristica ci permette, fra l’altro, di eliminare ogni possibilità di confusione con l’Aldrovandi di Bologna, con la quale il contenzioso rimane invece aperto per diverse altre opere di piccola plastica. La vernice usata dalla manifattura bolognese, infatti, è di un caratteristico tono latteo e presenta in genere una maggiore brillantezza, a causa dell’alto tenore di piombo e potassio che contiene. La statuetta della collezione Strozzi Sacrati è in tutto simile a quella tuttora conservata nella residenza delle Case Grandi Ferniani, ma nell’insieme appare più completa, visto che presenta anche il teschio che nell’altro esemplare faentino non compare. A questo punto verrebbe spontaneo chiedersi: perché scegliere proprio la Maddalena, fra le tante statue realizzate da Canova? La prima - e più ovvia - risposta potrebbe venire dall’incredibile successo che quest’opera conobbe subito, forse perché si trattava di una delle poche di soggetto religioso del Canova ed inoltre anticipava un gusto sentimentale che il Romanticismo di lì a poco avrebbe diffuso in tutta Europa. Lo conferma, del resto, il fatto che al primo esemplare datato "Roma 1790" (si tratta dell’opera attualmente conservata a Genova, nel Museo di S. Agostino), fece seguito una replica commissionata allo scultore nel 1809 da Eugenio de Beauharnais, poi arrivata, attraverso passaggi successivi, all’Ermitage di San Pietroburgo dove ancora si conserva. In effetti la Maddalena aveva tutto per piacere sia agli esteti neoclassici per la sua assoluta purezza formale (che ne farà il primo modello di riferimento per la Fiducia in Dio di Bartolini), sia ai romantici che vi scorgevano un’effusione sentimentale particolarmente toccante secondo un’interpretazione della figura della santa che in seguito Canova caricherà di accenti patetici ancora più vibranti, come attesta la Maddalena svenuta di Possagno, del 1819. Questa inclinazione ad una "grazia estenuata dal dolore" venne del resto accortamente accentuata dal suo primo proprietario, il conte Sommariva, con la collocazione dell’opera in una nicchia foderata di sete nere e viola, illuminata da una lampada d’alabastro che faceva piovere dall’alto un lume velato e diffuso. La straordinaria popolarità della statua appare confermata anche dalle incisioni realizzate da G.B. Balestra e A. Bertini, alle quale vanno aggiunte le copie a grandezza naturale che ne furono tratte negli anni successivi, come quella eseguita dallo scultore alessandrino Carlo Canigia su incarico del marchese Lascaris di Ventimiglia ed esposta a Torino nel 1833. Veramente impressionante appare poi la quantità dei riferimenti letterari alla Maddalena, espressi in forma poetica o in prosa da molti letterati del tempo ed in gran parte raccolti nella Biblioteca Canoviana che venne pubblicata nel 1823 alla morte di Canova. Per quanto riguarda i componimenti poetici si va dai versi indirizzati unicamente all’opera (come il Sonetto per la Maddalena di Giovan Andrea Rusteghello, il Carme sulla Maddalena Penitente dell’abate Melchiorre Missirini e i Versi sulla Maddalena del duca di Ventignano ) a quelli che le vengono rivolti all’interno di una più vasta composizione dedicata a Canova (è il caso, fra gli altri, della Visione di Antonio Pochini, del Canto sui marmi del Canova esposti al Museo di Parigi dello stesso autore ). Altrettanto ricca la bibliografia in prosa che comprende - per non citare che i maggiori - autori come Pietro Giordani , Saverio Scrofani e soprattutto Quatremère de Quincy, uno dei più raffinati estimatori dell’opera canoviana che, a suo giudizio "parte dal cuore; se ne ammirano i risultamenti, e non si scopre punto per qual mai via sia giunto sin là." E nelle parole che dedica alla Maddalena affermando che "tutti andranno d’accordo che questo pezzo è produzione di uno squisito sentimento, e di una rara abilità" possiamo trovare una conferma della grande impressione emotiva che l’opera lasciò nell’immaginario collettivo dell’epoca. La Maddalena penitente fu il primo marmo di Canova a giungere a Parigi, dove venne esposta al Salon del 1808 assieme alla Letizia Ramolino Bonaparte (ora a Chatsworth), all’Ebe e all’Amore e Psiche stanti dell’Ermitage. La risonanza, come si può immaginare, fu enorme, anche perché il pubblico francese poté giudicare direttamente, davanti a marmi fra i più levigati e patinati della produzione di Canova, in che cosa consistesse la sua particolare interpretazione del nudo che "si proponeva di essere naturale, non naturalistico" secondo un idealismo d’ascendenza classica di pretta marca winckelmanniana. Fin qui per quanto riguarda la fama europea dell’opera - che per altro basterebbe da sola a giustificarne la scelta per una riproduzione - ma c’è un altro elemento che lega più strettamente la vicenda della Maddalena alla storia locale e passa attraverso la figura di una delle donne più notevoli che la storia del primo Ottocento ricordi. S’impone quindi una piccola digressione che, come si vedrà in seguito, non è comunque priva d’importanza per l’argomento in discussione. Paragonata dai contemporanei ad Aspasia per la sua grande bellezza e la cultura (conosceva le quattro principali lingue europee, parlava correttamente il latino, commentava l’Iliade sull’originale, suonava, danzava e cantava con grazia divina) la ventunenne contessina Cornelia Rossi di Lugo aveva sposato nel 1802 Giambattista Martinetti, un architetto assai affermato in quegli anni, che l’aveva condotta nel suo palazzo bolognese di via S. Vitale. Qui, nel grande parco di stile arcadico che inglobava anche l’ex chiostro delle monache benedettine, allestito dal marito secondo uno stile pittoresco "all’inglese" animato da vialetti fiancheggiati da alberi secolari, fontane, un piccolo tempio classico in rovina, scalinate, sedili, colonne antiche, prati e rialzi ombrosi, Cornelia Martinetti aveva stabilito il suo salotto letterario, variamente ribattezzato dagli ammiratori "Orto delle Esperidi", "Giardino di Calipso" o anche "Tempio della Venere bruna". In questa cornice suggestiva sfilarono tutti i personaggi più importanti del periodo che si trovarono a transitare per Bologna, da Napoleone a Foscolo passando per Giuseppina de Beauharnais (di cui pare Cornelia fosse amica già prima del matrimonio), Chateaubriand, Ludwig di Baviera, Byron, Monti, lady Morgan, Stendhal, Leopardi, Maria Luisa d’Austria e, per l’appunto, Canova. Quest’ultimo - ospite dei Martinetti nel giugno del 1810, in occasione dell’inaugurazione del busto dedicatogli nell’Accademia di Belle Arti - pare restasse assolutamente incantato dalla giovane padrona di casa, con la quale stabilì un profondo legame di amicizia che si rafforzò ancor più dopo il 1818, quando i Martinetti si trasferirono a Roma. E fu proprio grazie a questa amicizia che la Maddalena - insieme alle Grazie, all’Ebe, alla Venere e alla testa di papa Rezzonico - passò per Bologna. A questo punto non è certo troppo azzardato supporre che anche i Ferniani - romagnoli come Cornelia ed in ogni caso legati all’ambiente della nobiltà bolognese- frequentassero il suo salotto e avessero quindi la possibilità di vedere direttamente la Maddalena, ricevendone, come tutti, una grande impressione. Di qui la decisione di trarne copie in terraglia. Un ulteriore problema si pone a questo punto rispetto all’identità del modellatore autore della Maddalena Ferniani. Per risolverlo occorre innanzi tutto rifarsi alla cronologia dell’opera e all’alta qualità della modellazione, due elementi che, combinati assieme, ci permettono di restringere la rosa dei possibili esecutori a pochissimi nomi. Per quanto riguarda il periodo, sappiamo che Canova iniziò la prima redazione dell’opera negli anni ‘90 ma che la statua si trovava ancora nel suo studio romano nel 1798, quando il suo committente, il veneziano monsignor Giuseppe Priuli, partì precipitosamente per seguire papa Pio VI nell’esilio. Gli ultimi anni del secolo andrebbero quindi considerati un sicuro termine post quem se non fosse che un ulteriore restringimento dell’àmbito cronologico ci può essere offerto da altri dati a nostra disposizione (e dall’osservazione diretta della terraglia). Date le note vicende dalla prima Maddalena, che già prima del 1808 si trovava nel palazzo parigino del conte Sommariva, appare altamente improbabile che possa essere questa l’opera passata per Bologna. Molto più logico pensare che si trattasse invece della replica Beauharnais. Una conferma in questo senso potrebbe venire dall’assenza nella copia del crocifisso, un complemento dell’opera che infatti compare solo - in bronzo, e il fatto non mancò di sollevare polemiche - nel primo esemplare canoviano e non venne ripetuto nella replica. Il termine ultimo, invece, va posto in ogni caso non oltre il 1840-50, considerando che a questa data in Italia e in Francia - ed in Europa in genere - la moda delle riproduzioni di sculture famose è assolutamente tramontata. Anche qui, però, possiamo osservare che l’occasione di vedere a Bologna la Maddalena va collocata necessariamente entro il 1818 (anno in cui, come si è detto, i Martinetti si trasferirono a Roma) ed è pensabile che la copia sia riferibile ad anni in cui erano ancora vivi l’emozione e il ricordo di questo avvenimento. Insomma, appare credibile pensare ad una datazione compresa fra il 1810 e il 1820-25 al massimo. Come ulteriore notazione si potrebbe suggerire che una datazione oltre il 1815, cioè in piena Restaurazione papalina, fornirebbe un elemento in più per giustificare la scelta di un soggetto religioso. Passando all’autore, sappiamo che per i Ferniani lavorano in questo periodo diversi illustri modellatori, molti dei quali però interrompono la loro collaborazione proprio a cavallo del secolo: nel 1799 come il Villa e Giuseppe Ballanti-Graziani o nel 1801 come Antonio Trentanove, trasferitosi con la famiglia a Carrara. Restano Giovan Battista Sangiorgi, Pasquale Saviotti, Francesco e Giovan Battista Ballanti-Graziani ed infine il più giovane Giovanni Collina (futuro genero di Francesco Ballanti-Graziani, dal quale erediterà la conduzione della bottega ed il secondo cognome). Ci sarebbe anche Raimondo - figlio di Antonio - Trentanove che, dopo un apprendistato a Carrara presso Lorenzo Bartolini, nel 1814 era passato da Faenza dove riuscì ad ottenere una borsa di studio per Roma. L’ipotesi sarebbe suggestiva, specie pensando al suo successivo alunnato presso la bottega di Canova, se non fosse che di lui si conoscono unicamente opere in marmo ed immaginarlo alle prese con la terraglia proprio in questa occasione parrebbe una forzatura un po’ eccessiva. Tornando agli altri, sembrerebbe da escludere Saviotti, che pur avendo iniziato la sua carriera presso la manifattura Ferniani a questa data si era volto completamente alla decorazione murale e all’incisione. In quest’ottica le statuette di terracotta eseguite per la Farmacia Ubaldini intorno al 1820 vanno intese più come il completamento di un intervento globale da "ornatista" - che lo portò a curare anche l’arredamento dell’ambiente e l’insieme delle suppellettili - che come l’esercizio di una professione abituale. Quanto a Sangiorgi sappiamo che era impiegato soprattutto per figure allegoriche e centritavola, mentre Francesco Ballanti va considerato essenzialmente uno "scultore felicissimo d’ornati". Ragion per cui è ipotizzabile che per un’opera di tale impegno si ricorresse al più prestigioso collaboratore dei Ferniani e cioè a Giovan Battista Ballanti-Graziani che, per dirla con Golfieri, attraversò proprio "il momento più felice dell’arte sua fra l’ultimo decennio del Settecento e l’epoca napoleonica fin verso il 1820". E’ ben vero che Malagola afferma che Giovanni Collina, all’età di 15-16 anni, eseguì una Maddalena, ma in primo luogo parla di maiolica (e per uno studioso di ceramica come lui, la confusione fra i due materiali appare impensabile) e poi lo scultore all’epoca sembrerebbe un po’ giovane per vedersi assegnare un incarico di questo genere. Più credibile appare l’ipotesi che vede il giovanissimo Collina ripetere in un altro materiale il prototipo realizzato una ventina d’anni prima da Giovan Battista Ballanti. Un’ulteriore conferma in questo senso può venire dal confronto con i due gruppi di Bacco e Arianna e di Ercole e Onfàle - conservati al Museo delle Ceramiche faentino e concordemente attribuite a mano di G.B. Ballanti-Graziani - specie per quanto riguarda il modellato delle ciocche di capelli che appare assai simile nelle tre opere in esame, affidato com’è ad una serie di piccoli solchi tracciati con mano veloce, la cui massa chiaroscurata contrasta con la levigatezza dei corpi. In particolare vale la pena di sottolineare come proprio nella trattazione della massa dei capelli si colga una della maggiori differenze fra e la copia e l’originale che proprio per "l’acconciatura de’ suoi capelli, come quelle che un po’ troppo ricordano l’armonia de’ colori" venne tacciata da alcuni critici di eccessivo pittoricismo. Più vicina appare invece semmai la terraglia Ferniani ai bozzetti della Maddalena conservati al Correr e al Museo Civico di Bassano che, come tutte le opere canoviane di questo genere presentano una trattazione più mossa ed evidenziata, più "calda", insomma - che costituì poi storicamente il loro apprezzamento da parte della critica romantica - ma è osservazione piuttosto oziosa, perché certo l’autore della terraglia non ebbe la possibilità di vederli ed in ogni caso non ne avrebbe tenuto conto nel realizzare la copia dell’opera finita. E comunque non si vuole certo attribuire a G.B.Ballanti-Graziani - fra l’altro assolutamente alieno da ogni modernismo romantico e sensibile piuttosto ai rigori puristi del concittadino Tommaso Minardi - la volontà di rendere più drammatica l’opera ma solo sottolineare il fatto noto che, specie nei particolari, gli artisti tendono a ripetere alcuni tratti a loro caratteristici che sono parte essenziale del loro linguaggio espressivo. In ogni caso è ovvio che il copista che deve non solo cambiare il materiale impiegato ma anche modificare radicalmente le dimensioni dell’opera (in questo caso riducendole di un terzo, da 95 a 30 cm circa) opera una vera e propria "traduzione" anche perché altra cosa è la "politezza" tipica di Canova, dalla morbidezza opaca e lucente, e altro è la vernice delle terraglia che per forza di cose appare specchiante per quanto si possa tentare di smorzarne l’eccessiva brillantezza. Per non parlare della diversa resa del materiale impiegato. In più c’è da dire che probabilmente Ballanti non vide personalmente l’opera, ma si basò su disegni ricavati in occasione dell’esposizione bolognese, come sembrerebbe osservando il basamento che non è più "l’aspro scoglio" del Pochini ma appare suddiviso in una serie di piccoli massi accostati ed anche il maggior risalto dato alle lacrime che rigano il volto della santa. Un’altra differenza si può notare nel cordone che stringe la veste della Maddalena che appare interrotto subito dopo il nodo e non ricadente lungo il fianco come in entrambe le opere di Canova. Anche in questo caso si potrebbe pensare ad un fraintendimento del disegno di partenza nel quale, forse, il braccio della santa interrompeva la giusta visuale. Eppure, a dispetto di queste osservazioni che possono sembrare riduttive, resta il fascino di questa piccola plastica, testimonianza perfetta di un mondo - che di lì a poco tramonterà, travolto dall’industrializzazione e dalle esigenze di un mercato di massa - in cui l’aspirazione ad una produzione di alto livello formale e di contenuto eletto si saldava col desiderio di un’imprenditoria di stampo aristocratico di non tradire le proprie radici culturali e di classe.

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