Eduard munch: arte e trasformazione della sofferenza mentale

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Categoria:Storia Dell'arte
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Testo

EDVARD MUNCH: ARTE E TRASFORMAZIONE DELLA SOFFERENZA MENTALE.
Edvard Munch (1863-1944) è senz’altro il pittore che più di ogni altro anticipa l’espressionismo, soprattutto in ambito tedesco e nord-europeo. Egli nacque in Norvegia e svolse la sua attività soprattutto ad Oslo. In una città che, in realtà, era estranea ai grandi circuiti artistici che, in quegli anni, gravitavano soprattutto su Parigi e sulle altre capitali del centro Europa. Nell’opera di Munch sono rintracciabili molti elementi della cultura nordica di quegli anni, soprattutto letteraria e filosofica: dai drammi di Ibsen e Strindberg, alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard e alla psicanali di Sigmund Freud. Da tutto ciò egli ricava una visione della vita permeata dall’attesa angosciosa della morte. Nei suoi quadri vi è sempre un elemento di inquietudine che rimanda all’incubo. Ma gli incubi di Munch sono di una persona comune, non di uno spirito esaltato come quello di Van Gogh. E così, nei quadri di Munch il tormento affonda le sue radici in una dimensione psichica molto più profonda e per certi versi più angosciante. Una dimensione di pura disperazione che non ha il conforto di nessuna azione salvifica, neppure il suicidio.
A margine di una delle copie del Grido, Munch annotò:”Solo un folle poteva dipingerlo”. Questa notazione fa pensare che non era un folle chi poteva porsi di fronte ad una tale rappresentazione della disperazione e osservarla criticamente. Certo era qualcuno che lottava strenuamente dentro di sé con “le rappresentazioni dell’irrapresentabile, del dolore e delle sue parti psicotiche, i frammenti che affiorano alla superficie della tela come residui di mondi inesplosi, di materia psichica collassata. I buchi neri di Munch.”( Magherini, 1998). La perdita e l’assenza sono gli elementi fondamentali della sua esperienza di vita, segnati nella sua mente tanto profondamente che le scene attorno alle quali questo vissuto si è determinato rimangono come un “fil rouge” che passa attraverso tutta la sua produzione artistica.
La vicenda infantile di Munch ha segnato profondamente la sua opera. Assistere a cinque anni alla morte per tubercolosi della madre, gli aspetti cruenti della scena, sono immagini intagliate nella memoria, e riattivate dal ripetersi della stessa situazione nove anni più tardi, alla morte della sorella Sophie. Un lutto così precoce e drammatico espone il bambino al contatto con una realtà esterna e interna soverchianti le sue capacità di pensiero. Lo spazio mentale viene allagato dal vuoto dello spazio dove stava l’oggetto, determinando una dissoluzione dello spazio mentale stesso.
Nel dipinto conservato a Brema La madre morta e la bambina (fig.1), Munch rappresenta ciò che gli si è parato innanzi allo sguardo all’età di cinque anni, il letto di morte della madre, la sorella di sei anni con gli occhi sbarrati dal terrore, muta, le mani sulle orecchie per allontanare l’urlo silenzioso della morte. Nella prospettiva della bambina sola si può identificare lo stesso sguardo di Munch bambino, attonito, di fronte ad una rappresentazione dell’impensabile. Vediamo qui inoltre delinearsi uno dei temi della pittura di Munch, quello dell’ombra, che tornerà in diversi contesti, ma sempre ad indicare la presenza inquietante di uno spazio oscuro e minaccioso. Nel dipinto l’ombra unisce la sorella col letto di morte della madre; il destino materno si proietta sulla figlia, che prende su di sé il carico di tutta questa esperienza, delle emozioni non sperimentabili di Munch stesso. Il rosso al di sotto del lettodella madre, rosso che ricorda anche l’emottisi, e che tornerà nelle nuvole del Grido, si confonde con il rosso del vestito della bambina, a sottolineare il passaggio del carico della malattia e della morte dalla madre alla figlia. Un passaggio senza possibilità di elaborazione e di cura.

Nella versione di questo dipinto conservato ad Oslo (1897-1899), vi sono cinque persone dall’altro lato del letto della madre morta, ognuna delle quali, a suo modo, sembra contenere le emozioni suscitate dall’evento. Ma sono al di là del letto, la bambina e il piccolo Munch sono soli. Si prospetta qui una tematica ricorrente e forse mai del tutto elaborata da Munch, quella della incomunicabilità dell’angoscia.
La solitudine di Munch si esprime al suo culmine, nella massima tensione rappresentabile in Disperazione (1892). Il meraviglioso tramonto a strisce orizzontali gialle e rosse (colori vivissimi alla Gauguin) contrasta con l’espressione dell’uomo in primo piano sulla destra. È un uomo del popolo, diverso dagli eleganti signori col cilindro che passeggiano su una passerella. È forse un camallo del porto sottostante, di cui s’intuisce la presenza per le navi in mare.
Il quadro mostra un profilo maschile indefinito proiettato contro l’ambiente circostante. Davanti a un tramonto rosso sangue, una figura maschile ritratta di profilo si ferma improvvisamente ad ascoltare la voce della propria anima, stretta da un’angoscia che non sembra aver contagiato le due figure che si allontanano con indifferenza verso il fondo. Il pittore trasferisce sulla tela l’esperienza vissuta una sera quando, passeggiando lungo la strada con due amici, fu improvvisamente colto da una profonda angoscia osservando il cielo al tramonto che si era tinto all’improvviso di rosso sangue. Egli è solo, la natura intorno a lui si esprime indifferente alla cupa perdita del senso di sé che quel soggetto senza volto manifesta nel suo fermarsi lasciando che da lui si allontanino cose vive che si muovono, anche se verso il tramonto. come si può ben vedere questo dipinto prelude al Grido (1893).
L'ondulazione contratta, l'impatto duro della linea retta, il timbro allucinato di "Disperazione" raccontano in modo efficace l'urto improvviso dell'angoscia che può trasformare un bel tramonto in un incubo insostenibile.

Come ha osservato Rugi, con il Grido (fig. 4) viene sovvertito un pregiudizio classico, sostenuto fra gli altri da Schopenhauer, dell’irrapresentabilità del suono. In quest’opera si può ritrovare l’apertura espressiva della follia, i “sintomi positivi”, produttivi, quelli che permettono di trovare una via per uscire dalla prigione del non pensiero. Infatti, nel cammino elaborativi della propria vicenda Munch giunge finalmente a poter accedere al nocciolo della sua angoscia, a trovare una via espressiva e comunicativa. Il trauma infantile di Edvard si pone qui come un’esplosione assai violenta, che rompe il silenzio di una vita, lacerando quest’ultimo con un grido che finalmente trova uno spazio entro cui essere accolto. La natura-madre si piega all’onda sonora, si deforma secondo le sue linee di diffusione. Il grido di Munch trova una sua corrispondenza nella natura. Il personaggio, intriso di morte, come il suo volto mummiesco indica, riesce a far uscire il suo carico all’esterno, ad accettare la morte della madre senza doversi identificare in essa, tappandosi le orecchie per non sentire, ovvero far rientrare dentro di sé il grido della natura-madre, che gli ritorna la morte, dipingendo le nuvole come sangue vero, il sangue dell’emottisi fatale della madre e della sorella. Inoltre, la cesura rappresentata per mezzo del parapetto, che prospetticamente taglia rigidamente l’immagine, proiettandola verso l’infinito dissolutore, è in realtà spezzata proprio dalla figura e dall’urlo. Restano diritti solo il ponte e le sagome dei due uomini sullo sfondo, che sono sordi ed impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo.
Il quadro presentato si presta ad una interpretazione psicologica che coincide con il contenuto rappresentato, un uomo fisicamente stravolto nelle sembianze da un terrore cieco che lo sconvolge interiormente, ed esprime, attraverso chiari riferimenti simbolici, la solitudine individuale (la figura isolata in primo piano), la difficoltà di vivere e la paura del futuro (il ponte da attraversare), la vanità e la superficialità dei rapporti umani (le due figure sullo sfondo, amici incuranti che continuano a camminare), dilatando l'esperienza individuale fino a compenetrarla nel dramma collettivo dell'umanità e cosmico della natura.
Successivamente, nel famoso Autoritratto tra la pendola e il letto (1942-1946), forse il suo ultimo quadro, Munch vecchio e curvo sosta tra gli assi della temporalità e la non temporalità, l’asse verticale –il tempo della vita- e quello orizzontale del letto-l’eternità della morte-, indicando come il suo tempo sia finito attraverso il simbolo dell’orologio senza lancette. Alle sue spalle tutta la sua vita, i suoi quadri, il sogno di una passione (il nudo femminile) che non ha potuto trovare una realizzazione. Ma il progetto trasformativi dell’esperienza artistica inteso dall’artista non può colmare completamente il “buco” lasciato dagli eventi della storia infantile; come nota Di Stefano, “la luce che penetra e illumina il pavimento ai suoi piedi, benchè formi una croce come quella di una pietra tombale, lo sostiene fino all’ultimo momento del suo tempo, luce della vitalità che ha saputo ritrovare nella costruzione del suo mondo interno, grazie al recupero doloroso, attraverso il lavoro del lutto, delle figure vive dei suoi genitori, degli oggetti primari che noi tutti possiamo ritrovare lungo il corso della vita, e che ci donano momento per momento nel nostro cammino la sostanza e il sostegno per il nostro esistere.”

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