Beato Angelico

Materie:Tesina
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

BEATO ANGELICO
Fra Giovanni da Fiesole nacque a Vicchio di Mugello nel 1387. A vent’anni entrò nel convento di San Domenico da Fiesole, dove si perfezionò nell’arte della pittura. Tra il 1436 ed il 1443 decorò con affreschi chiostro e celle del convento di San Marco a Firenze, ora museo. Nel 1445 affrescò nel Vaticano una cappella, distrutta circa nel 1540.
Nel 1447 dipinse due spicchi della volta della cappella di San Brizio ad Orvieto e, tornato a Roma, frescò nel Vaticano la cappella dei Santi Stefano e Lorenzo,che fu detta poi Nicolina dal nome del committente Niccolò V.
L’Angelico si formò sotto gli influssi di D.Lorenzo Monaco e della scuola di miniatori fiorente nel convento di Santa Maria degli Angeli,come pure degli scolari dei Gaddi,ma fu anche a contatto del gruppo di giovani ed architetti destinati a gran fama: Iacopo della Quercia ed il Ghiberti,il Brunelleschi e Donatello.
La sua arte fu in stretto rapporto con i maggiori pittori fiorentini della prima metà del 1400. Nei piccoli tabernacoli del San Marco e soprattutto nella Madonna della Stella, l’arte sua è già pienamente formata, con la sua tipica scienza prospettica grazie all’uso di limpidi colori.
Seguono altre opere come il Giudizio Universale, l’Incoronazione della Vergine, la Madonna dei Linaioli ed inoltre la Deposizione della Croce. La serie degli affreschi di San Marco culmina nella Crocefissione della sala del capitolo. Gli affreschi del Vaticano nella cappella Nicolina non raggiungono la purezza ed intensità d’espressione dei precedenti.
Egli muore nel 1455 a Roma,dopo che vi era giunto nel 1453.
INCORONAZIONE DELLA VERGINE
Dipinto nel 1432 e conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze.
Il dipinto è la tavola principale della pala eseguita per la chiesa fiorentina di Sant’Egidio,appartenente all’Ospedale di Santa Maria Nuova fondato da Folco Portinari nel 1287. Lo citano fonti tra 1400 e 1500 e Giorgio Vasari nel 1568,senza indicarne il soggetto,riferisce che esso si trovava nel tramezzo,distrutto successivamente tra il 1568 ed il 1587,che divideva lo spazio destinato ai fedeli da quello riservato alle monache Oblate. L’episodio raffigurato non si riferisce ad una vera e propria incoronazione della Vergine perché la corona è già posta sul capo della Madonna: si tratta più propriamente di Cristo che aggiunge una gemma al diadema della Madre, mentre è portato insieme a lei in gloria su una nuvola di cherubini.
Egidio, il santo titolare, è la seconda figura in primo piano nel gruppo di sinistra in basso, con il manto azzurro, rappresentato con il pastorale, la mitra, i guanti ed il piviale che, nel risvolto del cappuccio reca la scritta “SANCTUS EGIDIUS ABBAS INTERCESSOR EXISTE”. Accanto si trovano San Pietro e San Francesco, vestito del saio, San Girolamo con l’abito rosso, libro e penna. Dietro quest’ultimo si vede San Domenico, con la veste bianca e nera, i gigli, il libro e l’iscrizione sul colletto “SANCTUS DOMINICUS PREDICAT”;accanto si trova San Benedetto,inginocchiato e rivolto verso Cristo e la Madonna,con il risvolto del cappuccio della veste bianca che porta l’iscrizione sul colletto “SANCTUS BENEDICTUS”:alla sua regola erano votate le suore che officiavano la chiesa di Sant’Egidio. I volti degli effigiati sono così caratterizzati nelle loro fattezze da giustificare la proposta di padre Orlandi che in Sant’Egidio si possano ravvisare le sembianze di sant’Antonino, vescovo di Firenze e superiore domenicano di Angelico.
Nonostante le modifiche che sono state apportate all’opera in origine questo dipinto era dotato di una predella con lo Sposalizio della Vergine in una scena e le Esequie della Vergine nell’altra,oggi conservate nel museo di San Marco.
MADONNA CON IL BAMBINO
Dipinto nel 1450 e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
La tavola proviene dalla prepositura di San Michele Arcangelo a Pontassieve. Il riferimento all’Angelico trovò conferma nel 1930 in una mostra dove fu esposta l’opera; da allora l’opera è stata attribuita a lui. Il formato verticale del dipinto fa pensare che possa trattarsi dello scomparto centrale di un trittico smembrato o di una tavola con alcuni santi.
È probabile che i tre nomi che compaiono nel basamento della Vergine, dove si trova l’iscrizione frammentaria “TO DI LUCA, PIER[O?] [DI N]ICHOLAIO E SER PIER[O?]”siano quelli dei committenti e donatori dell’opera,il terzo dei quali è possibile sia un notaio,come dimostrerebbe la particella “ser” posta prima del nome.
La Madonna è raffigurata su un trono coperto da un ricco tessuto con un disegno modulare a cerchi, sopra il quale è un sontuoso cuscino impunturato con un fregio in oro. La figura allungata della Vergine risalta sul disegno a raggiera in oro contro lo sfondo anche questo in oro. La Madonna giovane e bionda come il Bambino, rivolge lo sguardo estatico verso il devoto e sorregge con un gesto elegante il Figlio che le cinge il collo con il braccio, in un gesto intimo ed amorevole.
L’intonazione raffinata del dipinto deriva dai volumi allungati ed eleganti delle figure, quali le mani affusolate e la forma del corpo morbida del Bambino.
Incoronazione della Vergine(1432).Tempera su tavola, cm 112x 114
Firenze,Galleria degli Uffizi
Madonna con il Bambino(1450).Tempera su tavola,cm 134 x 59.
Firenze,Galleria degli Uffizi
Iscrizione alla base:”…to di Luca,Pier[o?] [di N]icholaio e ser Pier[o?]”
- L’ARTE DEL QUATTROCENTO -
Con l’espressione “Rinascimento si indica comunemente il periodo compreso tra il XV e il XVI secolo, durante il quale si verificarono profonde trasformazioni culturali e artistiche, nel tentativo di far rinascere la cultura classica. L’arte del Rinascimento collocò al centro dell’universo l’uomo; la natura stessa venne vista come parte di questo universo di cui l’uomo era dominatore. Per questo motivo l’arte manifestò un forte senso del naturalismo, che lo studio dell’anatomia e della prospettiva portò a livelli di perfezione.
ARCHITETTURA.
L’architettura del Quattrocento, abbandonato il gusto gotico, si ispirò in parte al romanico e in parte al mondo classico, riproponendo gli ordini ed altri elementi decorativi antichi in realizzazioni improntate alla massima razionalità.
Lo studio appassionato e rigoroso delle proporzioni costituì l’elemento fondamentale e caratteristico di questa architettura, che ebbe i suoi più grandi innovatori negli architetti fiorentini Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti. Il primo diede soluzioni spaziali fondate su un razionale equilibrio degli elementi compositivi, unificati nella visione prospettica; il secondo riassunse in sé le caratteristiche dell’architetto inteso in senso moderno, cioè di colui che disegna i suoi progetti lasciando ad altri il compito di realizzarli.
SCULTURA.
La scultura, che nei periodi romanico e gotico era stata costretta nei limiti imposti dall’architettura, ritrovò nel Rinascimento la sua grande stagione e tornò ad essere completamente autonoma.
Rimasero i soggetti religiosi, ma si aggiunsero i soggetti mitologici, i ritratti, i monumenti celebrativi. Si ampliò anche la varietà di materiali usati e oltre al marmo e al bronzo, che venne fuso per la realizzazione di grandi monumenti, si utilizzò la terracotta invetriata, che fu un’invenzione di Luca Della Robbia.
Nella scultura del primo Quattrocento fiorentino è possibile distinguere una corrente di tradizione gotica che accetta solo in parte le innovazioni del nuovo classicismo e una corrente caratterizzata da un accentuato realismo. Alla prima di queste correnti fa capo Lorenzo Ghiberti, la cui più appariscente virtù fu l’inimitabile grazia delle sue opere; alla seconda appartiene Donatello, nelle cui sculture ha espresso soprattutto il carattere e la vita dei personaggi.
Anche il bassorilievo raggiunse pregevoli risultati sia con lo stesso Ghiberti, che eseguì in bronzo la decorazione di due porte del Battistero di Firenze, sia con Donatello, che ottenne mirabili effetti di profondità con una tecnica e rilievo minimo, di grande effetto pittorico, detta stiacciato.
Altri scultori, fra i quali eccelsero soprattutto il Pollaiolo e il Verrocchio, mirarono ad un’espressione di accentuato realismo, sviluppando ulteriormente le tendenze innovative della scultura rinascimentale.
PITTURA.
Nei dipinti realizzati nel periodo gotico i personaggi erano inseriti in uno spazio indefinito e con una collocazione spaziale poco rispondente al vero. Lo stesso Giotto, pur collocando le sue figure in uno spazio reale, non era riuscito a trovare un modo razionale per rappresentare correttamente lo scaglionamento dei piani in profondità e a dare l’illusione dell’allontanamento progressivo delle figure.
Con la nuova pittura fiorentina, ma soprattutto con quel grande innovatore che fu Masaccio, le figure acquistarono una presenza plastica muovendosi entro uno spazio definito in modo realistico con la prospettiva lineare.
Fu prodigiosa la fioritura di Maestri di scuola fiorentina. Oltre a Masaccio, si ricordano Paolo Uccello, Beato Angelico, Andrea del Castagno, Piero della Francesca, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio.
L’altra grande innovazione della pittura del Quattrocento riguarda la ricerca sul colore. Lo studio attento della realtà rivelò che il colore degli oggetti non era immutabile, ma subiva modificazioni a seconda dell’illuminazione.
Soprattutto i pittori veneti si applicarono in questa ricerca coloristica. Fra questi ricordiamo: Giovanni Bellini e Vittore Carpaccio.
In altre parti d’Italia agli innovatori fiorentini fecero eco valenti artisti, tutti notevolmente dotati, che risentirono del nuovo clima di rinnovamento e realizzarono opere di altissimo livello: il Perugino, che fu maestro di Raffaello, Luca Signorelli, Andrea Mantegna, Antonello da Messina.
La pittura fiamminga.
In questo periodo la pittura fiamminga raggiunse risultati che la posero su un piano di assoluto valore anche rispetto alle grandi scuole italiane. Caratteristica saliente fu la cura nella rappresentazione dei dettagli anche più minuti, che si manifestò nella pittura cosiddetta d’ambiente, nei ritratti, nella rappresentazione di elementi naturali.
La finezza di esecuzione dei dipinti fiamminghi venne favorita dall’uso dei colori a olio, che permisero di ottenere tinte pastose e un’eccezionale precisione di segno.
ARTE E ARTIGIANATO
Numerosi scultori, come per esempio Ghiberti e Verrocchio, furono anche valenti orafi e per la loro minuzia dell’esecuzione alcune loro opere potrebbero essere considerate grandi opere di oreficeria. I prodotti di oreficeria più comunemente realizzati furono pale d’altare, pissidi, calici, candelabri e altra suppellettile religiosa. Capolavoro dell’oreficeria fu l’altare d’argento del Battistero di Firenze, alla cui esecuzione parteciparono il Verrocchio e il Pollaiolo.
In quest’epoca ebbero fama gli artisti incisori di monete e medaglie, talvolta cesellate da grandi nomi come il Pisanello, Gentile Bellini, il Francia.
L’arte della ceramica conobbe un periodo di grande floridezza ed ebbe i suoi centri di maggior fama a Faenza, Urbino, Gubbio.
IL CONCORSO DEL 1401.
Il secolo si apre, a Firenze, con una gara tra scultori: si bandisce il concorso per la seconda porta bronzea del battistero (la prima, di Andrea Pisano, era del 1336). Vi partecipano, con maestri già famosi come Jacopo Della Quercia, due scultori poco più che ventenni: Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. I concorrenti dovevano presentare una “storia”, il sacrificio di Isacco, a rilievo, in una formella o compasso a losanga lobata, come quelli della porta trecentesca. Tanto il Ghiberti che il Brunelleschi sono per un ritorno all’antico ed hanno una cultura umanistica e storicistica: tuttavia le loro posizioni divergono. Il Ghiberti elenca tutti gli elementi del racconto biblico: Isacco, Abramo, l’ara, l’angelo, l’ariete, i servi, l’asino, la montagna. La sua cultura classica gli suggerisce un riferimento, il sacrificio di Ifigenia, e un’interpretazione allegorica del fatto storico: la rinuncia agli affetti personali per l’obbedienza a un imperativo superiore. Non rappresenta un dramma, ma evoca un antico rito sacrificale. Le figure sono vestite all’antica, la fronte dell’ara ha un fregio classico: sappiamo così che il fatto in un tempo remoto e non ha più forza drammatica. Isacco, in un bell’atto di offerta, ostenta le proporzioni perfette del corpo nudo; Abramo inarca l’alta figura con un movimento garbato. Affinché lo sguardo possa indugiare sulla bellezza dei particolari, la storia ha un tempo rallentato: una lunga cesura cade tra il fatto principale e il secondario, tra la scena del sacrificio e i servi rimasti ai piedi del monte. La segna, tagliando diagonalmente il campo, un’erta cresta di roccia, che agisce anche da schermo riflettente e regola l’illuminazione delle due parti. Questa trasversale coordina anche due orbite di modo: la lunga curva falcata di Abramo e quella opposta più breve ed inversa, del collo dell’asino. Questi ritmi di moto trovano un’eco nelle curve della cornice: il movimento non si concentra in un’azione, si dissipa nello spazio luminoso. Infatti l’azione è ancora sospesa: Abramo non ha vibrati il colpo, l’angelo è lontano nel cielo, Isacco non è atterrito, l’ariete è sul monte.
La storia del Brunelleschi dura molto meno. Gli atti delle figure sono simultanei, formano un unico moto imperniato sul forte risalto del corpo di Isacco. Le forze si scontrano: tutta la massa protesa del corpo di Abramo spinge la mano ad affondare la lama, l’altra mano rovescia brutalmente all’indietro la testa della vittima scoprendo la gola indifesa. Il busto di Isacco si flette sotto la spinta, ma nelle gambe è già un accenno di resistenza e di reazione. L’angelo piomba dal cielo: la sua figura è una traiettoria tesa, che termina nella mano che afferra il polso di Abramo. Con l’altra indica l’ariete riluttante. L’urto di tre volontà in contrasto si concentra nel nodo delle teste e delle mani al vertice di un triangolo che rompe il ritmo ripetuto delle curve della cornice. La base è formata dai servi e dall’asino: ma la loro estraneità all’azione l’intensifica ancor di più: il dramma parte da zero e subito è al colmo. Il Ghiberti descrive lo spazio in un succedersi di piani ed episodi; il Brunelleschi lo costruisce con la simultaneità dei moti, l’equilibrio dinamico del loro contrapporsi.
Quale dei due scultori è più naturale? Il Ghiberti. Cerca di proporzionare paesaggio e figure; studia le sfaldature della roccia e le fronde degli alberi, fa scorrere la luce lungo i piani e i risalti, incanala l’ombra nei solchi della forma. Il Brunelleschi, del paesaggio, vede poco o nulla: una scheggia di roccia lontana e convenzionale, un albero che dovrebbe essere distante e al cui tronco, invece, aderisce un lembo del mantello di Abramo sbattuto dal vento.
Quale è più studioso dell’antico? Il Ghiberti. Evoca costumi antichi, inserisce ornati classici, ritrova, chi sa come, il gusto pittorico e perfino la cadenza poetica dei rilievi ellenistici. Il Brunelleschi si limita a citare, in un servo, il motivo classico del giovane che si toglie la spina dal piede.
Quale è più “moderno”? Non è facile dirlo. Il Ghiberti non è certo un sostenitore dei ritmi melodici del tardo-gotico: elimina le cadenze leziose, i particolari inutili, ma le onde ritmiche di curve, la luminosità effusa, il gusto decorativo della composizione guidata dalla cornice sono ancora motivi di un’estetica tardo-gotica. Il rilievo del Brunelleschi è in duro contrasto con tutta quell’estetica; e si richiama invece, direttamente, a Giovanni Pisano. Il richiamo è quasi testuale nel gesto dell’angelo, nell’asino, nell’arcaismo ostentato dello spunto paesistico.
Quale è più rivoluzionario? Il Brunelleschi, senza possibilità di dubbio. Lo spazio del Ghiberti è uno spazio naturale in cui accade un certo fatto. Il Brunelleschi elimina lo spazio naturale, fa il vuoto; nel vuoto costruisce uno spazio nuovo con i corpi, i gesti, l’azione delle persone.
Del nuovo spazio definirà, pochi anni dopo, la struttura, e sarà la prospettiva; ma l’intuizione prima è già in questo rilievo. Non sarà lo spettacolo naturale, sia pure più meditato, più misurato, più “obbiettivamente” inteso. Sarà uno spazio non- naturale, di fatti più che di cose, pensato come la dimensione dell’agire storico.

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