Vari temi di attualità.

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Testo

Per nostra fortuna, viviamo in un Paese libero, democratico, repubblicano, la cui validità è fondata, come dice la Costituzione “sul lavoro” e sull’impegno di ognuno di noi. Il fondamento essenziale per una vera democrazia consiste nella partecipazione di tutti alla vita politica della propria nazione. Se democrazia significa “governo del popolo”, questo vuol dire che tutti dobbiamo sentirci coinvolti in ciò che il governo fa o decide, negli errori che compie, negli inganni in cui si lascia trascinare, nelle truffe che alcuni suoi rappresentanti tramano ai danni dei cittadini. Invece, spesso prevale il disinteresse, l’abitudine, il “quieto vivere”. Allora invece della partecipazione, mettiamo in atto il totale disimpegno.
Tutti affermiamo di volere una società più onesta e giusta e molti, a tal fine, propongono l’uso della violenza, della rivoluzione, dei cambiamenti totali e definitivi. Da una reazione simile, in realtà, non può nascere altro che un potere autoritario e quindi oppositore della libertà e della democrazia.
Che la violenza produca giustizia è una pericolosa quanto mai diffusa illusione: è un mito, una falsa storia. In realtà, la violenza non produce giustizia perché uccide la libertà e produce solo insicurezza e paura. E l'insicurezza e la paura generano, come la storia ci insegna, il terrore; e dietro allo stato del terrore c'è sempre in agguato un Napoleone. La paura, dunque, è la madre del potere assoluto, dello stato totalitario. E nello stato totalitario a decidere su ciò che è giusto e su ciò che è ingiusto è chi ha il potere assoluto, senza che si possa criticare. Anzi, nello stato totalitario, chi critica viene eliminato; nello stato totalitario chi ha il potere, ha anche il potere di decidere cos'è la giustizia. Queste sono, dunque, le conseguenze della violenza: è proprio vero che la violenza genera altra violenza. E, in genere, una violenza genera sempre una violenza più grave. Ed ecco, dunque, perché le istituzioni democratiche debbono venire considerate come il bene più grande di una comunità, come la sua più alta conquista civile, da amare e difendere.
In democrazia non ci sono nemici da abbattere, ci sono avversari con i quali discutere e competere civilmente. Ma le istituzioni democratiche sono come una fortezza: resistono se è buona la guarnigione. E la guarnigione è fatta dai governanti e dai governati. Ai governanti deve stare a cuore soprattutto la giustizia, la giustizia distributiva. È l'attenzione ai problemi urgenti, quali la casa, la sanità, l'occupazione, lo sradicamento della miseria e dell'ignoranza, la prevenzione dal crimine, la difesa dell'incolumità di ogni singolo cittadino, a caratterizzare una politica razionale e responsabile.
Più che politizzare la morale, occorre moralizzare la politica. E, d'altro canto, la responsabilità dei governati sta nella loro vigile attenzione indirizzata alla salvaguardia delle istituzioni, nel controllo dei governanti, nella denuncia degli eventuali errori di questi, nella loro rimozione senza spargimento di sangue, nello stimolare i governanti a produrre leggi sempre più giuste.
Il cattivo funzionamento delle istituzioni, cioè la difesa da parte dei governanti di leggi ingiuste, è una continua sfida alle istituzioni stesse. E lo è, perché se, all'interno delle istituzioni, si rovesciano sui governati leggi ingiuste, se i governanti deludono le attese dei governati, questi ultimi, pressati da necessità reali e urgenti e spinti da profeti irresponsabili, possono essere tentati di rovesciare le istituzioni.
Ma le istituzioni democratiche sono il bene più prezioso di una comunità. Finché esse esistono, è possibile la critica da parte dei singoli e dei gruppi al fine di migliorare le istituzioni stesse. Finché esistono le istituzioni, tutto può essere criticato e migliorato, qualsiasi legge può essere abrogata o migliorata, qualsiasi proposta può essere discussa, corretta, perfezionata, accettata, respinta. Insomma: finché esiste la libertà, incarnata e protetta dalle istituzioni, possiamo raggiungere anche la giustizia, cioè leggi sempre più giuste. Ma se crollano le istituzioni, crolla la libertà. E in un paese non libero, la giustizia non sarà più possibile, perché la critica, il dissenso, proposte alternative e pubblici controlli saranno proibiti.
La difesa delle istituzioni è un dovere di tutti e di ognuno. La giustizia è la difesa più consistente della libertà: giacché, se non ci sarà giustizia, gli uomini vivranno nella continua tentazione di vendere la loro e l'altrui libertà a chi questa giustizia promette. E d'altra parte, se non ci sarà libertà, non ci sarà nemmeno la giustizia: il potere totalitario ha avuto, ha e avrà sempre i suoi servi privilegiati. Giustizia e libertà sono, quindi, strettamente collegate tra loro, dato che attraverso le istituzioni democratiche, che dovrebbero garantire le libertà dei cittadini, si può ottenere una giustizia non illusoria.
Occorre, quindi, che ci sia l’effettiva volontà di tutti per cambiare rotta, per permettere a questa nostra democrazia, un po’ logora, di funzionare meglio. L’unica arma da usare è quella della partecipazione, cioè della comune responsabilità, intesa come strumento di democrazia autentica. Partecipare significa anche poter esigere correttezza da chi è stato eletto e spesso non è in grado di rappresentarci.
DEMOCRAZIA, GIUSTIZIA E LIBERTÀ
Non passa giorno senza che un uomo politico, in Italia o fuori, deprechi l'alto tasso di disoccupazione, promettendo provvedimenti per farlo scendere. La disoccupazione è diventata l'incubo del nostro tempo, la calamità che affligge i popoli, la peste dei tempi moderni. Con particolare riferimento all'Europa, dove i disoccupati sono, proporzionalmente alla popolazione, più numerosi che altrove.
Ora, non nego che la disoccupazione sia un malanno. Ma ho l'impressione che sia anche diventata un luogo comune, e che coloro che ne parlano non sempre sappiano di che cosa stanno parlando. Assistiamo a una specie di riflesso condizionato. Già negli anni Trenta la disoccupazione era fonte di disperazione e causa di tanti guai, fra i quali anche l'ascesa di Hitler al potere. Ora tutto è cambiato intorno a noi: ma si continua a parlare di disoccupazione con gli stessi accenti con cui se ne parlava allora, come se si trattasse sempre dello stesso fenomeno.
Il punto di partenza che conviene tener presente, quando si affronta il tema, è che nella prima metà del secolo i disoccupati erano veramente dei disperati, ridotti alla miseria e alla fame: si mettevano in coda, anche nei paesi ricchi come gli Stati Uniti e l'Inghilterra, per un piatto di minestra; rovistavano nei rifiuti in cerca di cibo.
Oggidì, la disoccupazione è sempre una sciagura, ma si manifesta in modo diverso; è deprecabile, ma per altre ragioni. I disoccupati del Duemila sono sempre infelici, ma non per l'assillo di una povertà paragonabile a quella del passato, non così estrema. La società moderna, nei paesi industriali avanzati, quindi anche in Italia, eccezion fatta per alcune zone del Mezzogiorno, è abbastanza benestante, nel complesso, per sopportare il peso di una parte della popolazione non produttiva, e per farla partecipare, mediamente, a un certo benessere. Anche chi è senza lavoro gode per lo più di un tenore di vita non proprio spregevole. Ci sono disoccupati, a quanto si sente dire da coloro che si occupano di questi problemi, che vanno a cercare lavoro in automobile.
Sono disoccupati, oggidì, uomini e donne non più giovani, scartati dalle loro aziende in modo più o meno brutale perché non servono più, e ormai troppo avanti negli anni per trovare un nuovo lavoro; e sono disoccupati molti giovani in attesa del primo impiego perché non conoscono ancora un mestiere, oppure perché non trovano un lavoro adatto alla loro preparazione e alle loro inclinazioni. Le condizioni degli uni e degli altri, degli anziani e dei giovani, sono causa di depressione, di squilibri psicologici; se vogliamo usare una parola facile ma onnicomprensiva, sono causa di “infelicità”.
Uno psicologo che conosce molti giovani in cerca di lavoro osserva che la disoccupazione è una causa di turbamento per la gioventù moderna, ma non è l'unica. Più grave ancora, a suo avviso, è la disgregazione della famiglia; la mancanza di punti di riferimento sicuri; la mancanza, in molti casi, di un padre, perché i genitori si sono separati: tutte cose note, e dette e ridette tante volte, e non certo rimediabili con provvedimenti governativi. Ma anche la disoccupazione, male moderno, deve essere vista nel quadro di una crisi generale, e non come l'unico grande flagello dei paesi industriali avanzati. Se ne parla tanto: quanti si chiedono che cosa significhi in realtà, e che cosa c'è dietro?
DISOCCUPAZIONE
In questa fine del XX secolo, l'innovazione tecnologica è sul punto di far entrare l'umanità in una nuova era. Mai nella storia le scoperte scientifiche hanno dato luogo ad applicazioni tecniche così rapide. Tutti i campi ne sono investiti: la biologia con lo sviluppo delle biotecnologie e delle manipolazioni genetiche, le tecniche mediche, la chimica con la produzione di nuove sostanze di sintesi, il nucleare, l'esplorazione dello spazio...
L'esplosione informatica applicata nell'industria conduce a una robotizzazione crescente delle operazioni, e nei servizi alla «burotica». I microprocessori, i satelliti, l'utilizzazione della televisione via cavo, le fibre ottiche sviluppano all'infinito l'emissione e la trasmissione dei messaggi.
L'associazione delle tecnologie informatiche e delle tecnologie di comunicazione dà origine alla telematica che permette di trattare e trasmettere l'informazione istantaneamente. Essa è davvero il nuovo «sistema nervoso delle società contemporanee».
Le conseguenze sono incalcolabili e forse ardue da prevedere: si costruiscono attualmente macchine la cui capacità di risolvere i problemi è tale che si parla a loro proposito di «intelligenza artificiale».
Esse si traducono in particolare nell'incremento della produttività, la diversificazione della produzione, il miglioramento della qualità, la miglior utilizzazione delle risorse, il perfezionamento dei metodi di gestione; ma anche in minacce crescenti sull'occupazione...
Forse la rivoluzione informatica sta creando un altro tipo di società?
Il paradosso della tecnica si rivela in tutta la sua gravità quando si pensa che la macchina, destinata a liberare la società dal lavoro schiavistico, minaccia di rendere schiava tutta l’umanità.
(Cultura e sviluppo) È in realtà un problema di innesto che si pone: innesto su un fondo dato, poiché esiste una dialettica stretta fra cultura e tecnologia. Si mostra qui la dimensione fondamentale della cultura nel processo globale di sviluppo. Per averla ignorata, molti progetti di sviluppo sono falliti. Si tratta di preservare una identità culturale tanto più minacciata per il fatto che l'80% delle notizie diffuse nel mondo provengono dai paesi industrializzati che rimandano ai paesi in via di sviluppo una immagine di sé spesso mutilata, deformata, non esente da stereotipi e da etnocentrismi. Il rischio principale risiede in un fenomeno di acculturazione provocato non solo dall'irruzione delle tecniche ma ancor più da un massiccio esodo rurale e un divorzio profondo fra una cultura rurale tradizionale ed elementi culturali importati.
Come sottolineava il rapporto della conferenza sulle politiche culturali in Asia (1973), «la tradizione non va confusa con il rifiuto del progresso scientifico e della tecnica. L'accesso alla modernità non deve compiersi nella forma dell'alienazione e dell'imperialismo economico. L'esperienza tecnologica e scientifica deve essere controllata dai paesi utenti e sviluppata in forme adattate alle caratteristiche sociali e culturali appropriate ai bisogni reali delle popolazioni».
Le stesse parole, ma cariche di speranza, ritornano sotto la penna del romanziere keniano Ngagi wa Thiong'o: «La Scienza e la Tecnologia moderne, degnamente organizzate, padroneggiate e controllate, rendono oggi possibile una trasformazione economica totale del mondo rurale e permettono così di edificare una cultura popolare su una base di prosperità e non di ritardo».
(Scienze, tecniche e sviluppo: le tecniche nei paesi in via di sviluppo) Il 98% della produzione mondiale di tecniche avanzate spettano a un piccolo numero di paesi industrializzati. La ricerca per lo sviluppo per abitante nel Terzo Mondo equivale a un centesimo di quella dei paesi industrializzati. Su 3 500 000 brevetti depositati, solo il 6% proviene dai paesi in via di sviluppo. Da qui il fondamentale problema del trasferimento di tecnologie al Terzo mondo. Ma quali tecnologie e per che farne? Il dibattito oppone due concezioni: una auspica l'adozione da parte dei paesi in via di sviluppo delle tecniche avanzate dei paesi industriali; l'altra considera più realista il semplice perfezionamento delle tecniche locali, ritenute «appropriate». Gli addebiti rivolti più frequentemente ai trasferimenti di tecnologia compiuti soprattutto dalle società multinazionali sono i seguenti: queste tecnologie fanno troppo appello all'automazione e al capitale; esigono una manodopera molto qualificata; costano molto care; utilizzano prodotti sintetici mentre il Terzo mondo è ricco di materie prime; creano una dipendenza nei confronti dei fornitori; trasmettono anche un modello di società e di organizzazione economica; non corrispondono spesso a un progetto globale di sviluppo.

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RIVOLUZIONE DELLE SCIENZE E DELLE TECNICHE
Il viaggio nella “giungla del malaffare” è piuttosto lungo: abusi edilizi, appalti truccati, bustarelle, politici corrotti, funzionari e imprenditori corruttori. In questi anni i giudici hanno fatto luce su un intreccio perverso che investiva ospizi, opere pubbliche, servizi, metropolitane, aeroporti e ospedali. E Milano da “capitale morale” d’Italia, si è ritrovata capitale delle bustarelle, dove vigeva la regola del 5 e del 10 % e le bustarelle scorrevano a fiume; dove servizi, opere pubbliche, ospedali, ospizi erano pozzi senza fondo da cui attingevano industriali corruttori e politici corrotti; dove la mafia ha reinvestito le sue “narcolire” in immobili e centri direzionali ultramoderni.
L’onda dello scandalo - tangenti ha travolto altre città d’Italia, dove gli arresti si sono susseguiti a gettito continuo, per non parlare delle deposizioni spontanee.
Ogni giorno si aggiungevano e continuano ad aggiungersi, come tessere di un puzzle, indizi e riscontri inquietanti.
La gente non ne può più di amministratori insieme incapaci e disonesti.
La riforma della pubblica amministrazione, studiata accuratamente e ripetutamente non è mai stata adeguatamente svolta per incapacità dei governi e dei partiti a vincere resistenze di parte, di categoria, di clientela, di interessi. La semplificazione delle leggi e dei passaggi burocratici, che ostacolano terribilmente l’amministrazione e la rendono contemporaneamente costosa, non si è fatta per cattiva volontà o per debolezza, cosicché tanti piccoli poteri di interdizione e di agevolazione hanno danneggiato i cittadini e favorito la corruzione in una miriade di sedi.
Oggi, tuttavia, ci troviamo a un punto di svolta e di cambiamento.
Il lungo, e certo incompiuto, disegno di riportare la legalità nella vita civile, la scomposizione del sistema di potere che ne è seguita, il mutato sistema elettorale e la diversa configurazione degli schieramenti politici hanno trovato un parziale sbocco nel voto e nell’avvio di un governo potenzialmente duraturo. Ma il fermento rimane vivo: ancora si parla di “seconda Repubblica” in termini spesso vaghi, mentre già si avanzano proposte che mettono in discussione l’unità nazionale e sembrano spezzare la continuità storica e istituzionale del nostro Paese.
Il cinquantennio della Repubblica, la cui vittoria sulla monarchia risale al 2 giugno 1946, costituisce una buona occasione per pensare alla Costituzione come ossatura della Repubblica, senza prefigurare svolte sconvolgenti ed invocare una rottura dell’unità nazionale. È necessario, infatti, che la Costituzione continui a garantirci i diritti fondamentali ed un equilibrato rapporto tra i poteri, che abbia al centro il Parlamento, un governo efficiente, una magistratura indipendente. Essa, infatti, va modificata solo in vista di alcuni risultati, in particolare l'ampiezza delle autonomie e l'incisività dei governi. Tali riforme, però, vanno fatte solo tenendo presente che la tensione morale e l’onestà sono insostituibile lievito ed accompagnamento di ogni istituzione e di ogni azione politica. Onestà e volontà di agire per il bene comune sono, dunque, i requisiti fondamentali che la classe al potere deve possedere per migliorare radicalmente la situazione politica, economica e sociale dell’Italia.
SITUAZIONE POLITICA ITALIANA, SECONDA REPUBBLICA
Un vero flagello per la salute è la droga. Le sostanze stupefacenti danno apparentemente forza, energia, vivacità e invece avvelenano il fisico, alterano la psiche, ossia il cervello e le attività intellettuali, e rendono l'uomo più debole e soggetto a malattie.
La stessa parola «stupefacente» dice che queste sostanze danno sensazione di stupefazione, di intontimento, contemplazione passiva, cioè di falsificazione, mutamento, anche temporaneo, della persona e della realtà che la circonda.
Particolarmente grave è diventato negli ultimi anni il flagello della droga.
Gli esperti distinguono le droghe leggere, quali hascisc e marijuana, da quelle pesanti, quali cocaina ed eroina, ma tutte le droghe falsificano la personalità e sono nocive. Molti sostengono che anche droghe cosiddette «leggere» sono pericolose perché invitano a passare a quelle pesanti: certo è che se si comincia a soddisfare la propria curiosità con sostanze alienanti, presunte non dannose, è più probabile che la volontà indebolita si sposti su nuove richieste più pericolose.
Le droghe pesanti uccidono non solo perché hanno già in sé poteri distruttivi per l'individuo, ma anche perché chi le vende le «taglia», cioè le mescola a sostanze meno costose che hanno lo scopo di aumentarne il peso senza mostrare l'inganno: cemento, talco, stricnina e arsenico. Lo spacciatore di droga è un assassino che premedita il suo delitto, quasi sempre contro la gioventù più debole, senza volontà, afflitta da problemi familiari e personali.
Il drogato comincia con l'essere una povera vittima degli spacciatori. Per questo ha diritto alla comprensione, alla cura fisica e psicologica: spesso è solo una persona che ha bisogno di amore. Le statistiche ricordano che il 51 per cento degli intossicati appartiene a famiglie in crisi: genitori separati, abitazione insufficiente, genitori violenti, ecc.
Ma spesso il drogato, per procurarsi la costosa sostanza stupefacente, si trasforma egli stesso in spacciatore o in violento. Per questo la migliore cura è la prevenzione. Particolarmente importante può essere in questo senso l'attenzione della scuola e della famiglia ai problemi dell'età evolutiva.
In ogni caso, dalla droga ci si può affrancare. È ormai estesissima, per quanto insufficiente, la rete di persone, enti, comunità, pronte a dare una mano a chi vuole risolvere il proprio problema, che resta un problema umano e non chimico.
La droga non è una causa, ma piuttosto un effetto, un rifugio, una fuga, qualche cosa in cui si cerca ciò che non si ha o non si trova. E il drogato, pur essendo una vittima, di se stesso, degli altri, di una situazione, non è un “malato”. Considerandolo tale, si rischia di passarlo da una categoria di emarginazione (la droga) a un’altra (la malattia) con conseguenze forse peggiori. C’è, infatti, il pericolo di semplificare o, meglio, di semplicizzare, il problema droga: un malato basta curarlo e il problema è risolto; un drogato basta disintossicarlo e il problema non c’è più.
Invece non è così. Per disintossicare un drogato possono bastare pochi giorni. Dopodiché, se non saranno eliminate le cause, che sono in lui, negli altri, nell’ambiente, nella società, il “drogato-malato” tornerà a drogarsi come prima. Se, infatti, la droga è la fuga dei deboli da situazioni di insoddisfazione, di vuoto, di paura, di mancanza di fede e di ideali, di delusione, non basta eliminare il rifugio (la droga), magari con una efficace azione contro i criminali spacciatori: bisogna eliminare contemporaneamente i motivi che inducono alla fuga e ricostruire nell’individuo una personalità più forte e cosciente.
Ecco perché la lotta contro la droga, definita così, è un concetto insufficiente. Bisogna parlare di azione politica contro ciò che porta alla droga. E bisogna realizzarla su tre piani:
1) stroncare il commercio criminale della droga a tutti i livelli, dalle droghe “leggere”, che conducono a quelle “pesanti”, sino a queste ultime;
2) compiere un’azione educativa e formativa sui drogati da recuperare e soprattutto sulle potenziali vittime della droga, che sono i giovani in genere e, in particolare, quelli più deboli per condizione sociale, per effetti ambientali, per esposizione al rischio, ecc.;
3) arrivare alla eliminazione delle cause che inducono i giovani a drogarsi: cominciando dal restituire credibilità a tutte le strutture della società, dal fornire ai giovani ciò che essi chiedono e non trovano, nella famiglia innanzitutto, poi nella scuola, nelle associazioni di tutti i tipi, nel fornire loro le occasioni per un impegno ideale, politico, religioso, culturale, civile. In definitiva, contribuendo a formare per i giovani un “ambiente” adatto in cui ciascuno si trovi a suo agio con sé e con gli altri e possa esprimersi senza bisogno o tentazioni di ricorrere a quel “surrogato di vita” che è la droga.
Ma ricordiamoci che le “droghe” sono tante: può essere droga il cinema, la musica, la pornografia, il fumo e via dicendo.
Quindi per salvare chi si droga sono necessarie non solo leggi che colpiscano più lo spacciatore che il drogato, ma anche un impegno maggiore da parte della famiglia, della scuola, dei medici e anche dei giovani stessi che hanno la forza di trascinare i loro coetanei e di far nascere nuovi ideali. I giovani si stanno impoverendo, infatti, sempre più di ideali e di energie. Il loro atteggiamento, spesso, si limita ad una critica ostile e inerte nei confronti della generazione adulta, accusata di portare avanti falsi valori, incoerenza di vita, esclusive preoccupazioni di guadagno, insensibilità alle ingiustizie. In queste condizioni di disgusto, forse dopo aver cercato dialogo e risposte nell’ambito familiare, hanno scelto la fuga ed il disimpegno da tutto, hanno cercato gruppi a cui appartenere ed in cui identificarsi. È qui dove facilmente si incontrano con la droga eretta a simbolo di rifiuto, usata come compenso e come strumento di cameratismo. La droga è però una scelta di contestazione senza frutti, perché anche se la società è oppressiva e la vita piena di difficoltà piccole e grandi, tentare di superarle con la droga è stupido perché essa diminuisce le nostre possibilità e le difficoltà rimangono: si superano con la volontà e l’intelligenza intatte.
Alcuni ritengono che solo la legalizzazione delle droghe potrebbe ridurre le conseguenze drammatiche del vertiginoso sviluppo del traffico di stupefacenti.
È risaputo che il narcotraffico muove ogni anno più denaro del petrolio, con cifre da capogiro che si aggirano sui 500 mila miliardi di lire. La droga più trafficata è senza dubbio la cocaina, la “regina delle droghe”: ogni anno vengono immesse sul mercato degli stupefacenti ben 750 tonnellate di polvere bianca proveniente dal Sudamerica.
Sono in molti a considerare ormai persa la guerra della droga. Nonostante le campagne di eradicazione, l’impiego di uomini specializzati e di mezzi tecnici sofisticati, quali elicotteri o satelliti-spia, la piaga del narcotraffico si estende sempre più e rischia di strangolare con una stretta mortale tanto le società dei Paesi produttori quanto le società delle nazioni ricche del Nord del mondo, a cui appartiene la maggioranza dei consumatori delle sostanze stupefacenti. Tale pessimistica constatazione deriva dal fatto che fino ad oggi la lotta alla droga non è riuscita, o non ha voluto, colpire le vere cause che hanno portato al fenomeno del narcotraffico. Quando, ad esempio, si constata che la produzione peruviana di cloridrato di cocaina, collocata sul mercato statunitense vale più di 80 mila milioni di dollari, mentre sono solo 6 i milioni di dollari che il governo USA stanzia per distruggere le coltivazioni di coca del Perù, significa che il narcotraffico fa comodo a molte persone e quindi sarà praticamente impossibile sconfiggerlo. Il problema fondamentale che sempre ritorna è quello della offerta-domanda: i paesi del Sud del mondo producono droghe perché esiste una crescente richiesta di sostanze stupefacenti da parte dei paesi del Nord; spesso i primi sono costretti al ruolo di produttori di droga a causa delle politiche economiche ingiuste messe in atto dai secondi e dagli organismi finanziari internazionali, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, che i paesi ricchi controllano. Ecco allora l’inutilità di azioni repressive che colpiscono solo i piccoli coltivatori di coca e lasciano intatto il nòcciolo del problema: agire in questo modo sarebbe come chiedere all’Italia di distruggere i propri vigneti perché il vino causa migliaia di vittime per alcolismo. A più voci i paesi latino-americani chiedono la depenalizzazione del consumo di droghe o l’uso delle stesse sotto un severo controllo dello Stato; il rafforzamento della prevenzione e il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini che producono coca; l’incremento della lotta contro il narcotraffico internazionale, colpendo la criminalità che l’accompagna soprattutto nei suoi interessi finanziari.
Alcuni, dinanzi alle conseguenze drammatiche del vertiginoso sviluppo del traffico di stupefacenti, ritengono che l’unico modo di risolvere il problema della droga è legalizzarne la produzione, provocando così la caduta del prezzo della coca e, di conseguenza, la diminuzione degli effetti del narcotraffico, che sono violenza, avidità di ricchezza e corruzione. La legalizzazione delle sostanze stupefacenti avrebbe come effetto una forte riduzione dei crimini e della violenza associati al traffico di droga. A queste condizioni, e soprattutto con l’appoggio alle popolazioni che sono costrette a coltivare la coca per sfuggire ad una vita insicura e senza speranza, la battaglia della droga potrà, secondo alcuni, essere combattuta con qualche speranza di vittoria.
DROGA
Il testo fondamentale dei diritti dell'uomo è la Dichiarazione Universale adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Essa si presenta come « l'ideale da perseguire per tutti i popoli e per tutte le Nazioni». Più completa della Dichiarazione del 1789, essa introduce i diritti economici, sociali e culturali.
L’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, è una società di nazioni fondata nel 1945 al termine della catastrofica seconda guerra mondiale. Essa si propone di far rispettare dai membri e dai non membri i diritti dell’uomo e si preoccupa di far risolvere pacificamente le vertenze internazionali.
La “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo” delle Nazioni Unite parte dal riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, e costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo. Considerato che la storia recente, prima e dopo la seconda guerra mondiale, ha denunziato che spesso tale principio è stato ignorato e calpestato da incredibili barbarie, la sua voce ricorda a tutti i diritti fondamentali dell’uomo e la via comune da seguire per la tutela della persona umana e per promuovere la fratellanza tra i popoli e il progresso sociale. Con la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo approvata nel 1948, le Nazioni Unite, però, potevano solo chiedere ai firmatari di “sforzarsi di applicare e rispettare” i principi della Dichiarazione stessa. Non avevano poteri per impegnarli all’effettivo rispetto.
Questa Dichiarazione è stata in seguito completata da un insieme di dichiarazioni e convenzioni relative a gruppi sociali determinati: Diritti del bambino, Diritti della donna...
Si assiste oggi all'emergere, soprattutto dai paesi del Terzo Mondo, di un certo numero di aspirazioni e di bisogni avvertiti in termini di diritti. Questi diritti, detti di solidarietà o della terza generazione, comprendono il diritto allo sviluppo, a un ambiente sano ed equilibrato; alla pace, il diritto di proprietà nei confronti del patrimonio comune dell'umanità... Infine si afferma sempre più, in corrispondenza con le dichiarazioni e convenzioni sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, la necessità del rispetto del diritto alla differenza.
La Dichiarazione Universale non è che il primo foglio di una Carta internazionale dei diritti dell'uomo i cui fogli ulteriori sono costituiti dai Patti internazionali relativi ai Diritti civili e politici e ai Diritti economici, sociali e culturali. Entrati in vigore nel 1976, i Patti, a differenza della Dichiarazione, sono giuridicamente obbliganti per tutti gli Stati che li sottoscrivono; inoltre è stato istituito un Comitato dei diritti dell'uomo, abilitato a ricevere le denunce degli Stati e, entro certe condizioni, dei singoli.
Una procedura più vincolante è stata messa in atto per la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, adottata dal Consiglio d'Europa il 4 novembre 1950. Effettivo trattato internazionale, la Convenzione riprende, precisandoli, gli articoli della Dichiarazione Universale relativi ai Diritti civili e politici. Essa si è dotata di organi di controllo che sono la Commissione dei diritti dell'Uomo e la Corte europea di giustizia.
L'articolo 25 della Convenzione permette di prendere in esame, in certe condizioni, richieste individuali. È indubbiamente un sistema di garanzie internazionali senza pari nel mondo.
L'atto finale della Conferenza di Helsinki (1 agosto 1975) consacra il suo art. 7 ai diritti dell'uomo. E tuttavia... Meglio conosciute oggi grazie ai media e alle associazioni che si battono per il rispetto dei diritti dell'uomo, le violazioni restano purtroppo innumerevoli. In un certo numero di paesi, esse sono generalizzate e sistematiche: è così per l'apartheid nell'Africa del Sud dov'è istituzionalizzato un sistema di segregazione razziale che pone la popolazione nera e di colore, numericamente in maggioranza, in una situazione di inferiorità e di totale alienazione. È il caso degli attentati alla vita e all’integrità fisica in un certo numero di regimi totalitari: esecuzioni di massa, generalizzazione della tortura, sparizioni, campi di lavoro, internamenti in ospedali psichiatrici... Li si ritrova all'Est e all'Ovest, al Nord e al Sud.
Tutto ciò si traduce anche in un numero di rifugiati senza precedenti (13 milioni nel mondo). Occorre naturalmente citare tutti gli esclusi dai diritti dell'uomo, in particolare dai diritti economici e sociali quali figurano nella Dichiarazione Universale. Questo vale per una gran parte degli abitanti dei paesi in via di sviluppo. La difesa dei diritti dell'uomo passa attraverso la conoscenza dei diritti e attraverso l'azione convergente della Comunità internazionale e degli Stati. Numerose associazioni si battono per il rispetto e la promozione dei diritti dell'uomo. Del resto, alla fin fine è la vigilanza dei cittadini a risultare essenziale.
(Le violazioni alla vita quotidiana) Questi fatti non devono comunque far dimenticare gli attentati meno brutali, più sottili, ai quali pochi paesi sfuggono totalmente. Processi di discriminazione esistono latenti in seno alle nostre società. Le manifestazioni di razzismo, a volte delittuose, che raggiungono la cronaca non devono far dimenticare lo spicciolo razzismo quotidiano.
Lo stesso vale per il processo di emarginazione, di esclusione di cui sono vittime i più poveri nella nostra società, quelli del Quarto Mondo che subiscono su tutti i piani gli effetti congiunti delle ingiustizie e delle disuguaglianze. Processi di cui soffrono altresì le popolazioni immigrate, rifugiate, nomadi; segregazioni di tutti i tipi, che colpiscono le donne nella loro vita professionale e pubblica (sessismo), i vecchi, gli handicappati, i disoccupati...
I DIRITTI DELL’UOMO
Nel corso della storia la vocazione della scienza è stata spesso quella di andare contro natura. Nell’ultimo mezzo secolo la medicina, ad esempio, ha fatto progressi che sembravano impossibili. Le utopie di ieri oggi si acquistano in farmacia. Infrangeremo anche quella dell’immortalità?
Il famoso virologo francese Luc Montagnier, padre della lotta all’Aids, ha recentemente sostenuto che le sue ultime ricerche lo inducono a ritenere che la morte non è ineliminabile. Lo studioso ha detto, infatti, che nel prossimo secolo la vita media degli uomini si allungherà molto e, come ipotesi, non ha escluso la nostra immortalità.
“L’individuo - afferma Montagnier - muore perché esiste la riproduzione sessuata. Per adattarsi e garantire i cambiamenti dell’individuo la riproduzione sessuata è il sistema migliore: alcuni individui muoiono e altri nuovi prendono il loro posto con una variazione genetica che facilita l'adattamento. Ma se l'ambiente non cambia, non c'è più alcuna ragione che le cose debbano avvenire in questo modo. E dunque è lecito immaginare individui immortali che naturalmente non si riproducono più con riproduzione sessuata”. Lo scienziato francese ritiene che la ricerca consentirà di trovare le soluzioni per far vivere gli individui più a lungo, per esempio sopprimendo l'azione dei retrovirus endogeni, che cioè, proprio come l'Hiv, sono nascosti nelle cellule, restando invisibili. Presenti nei nostri cromosomi, questi retrovirus possono rimanere inattivi, per poi attivarsi improvvisamente. Insomma, tutto comincia, anzi tutto finisce, a partire dai retrovirus. Studiandoli, è la conclusione di Montagnier, potremo trovare la soluzione per far vivere gli individui più a lungo, molto più a lungo.
Studiare i retrovirus per sconfiggere la morte? Facile a dirsi, meno a realizzarsi. Le reazioni del mondo della scienza alle affermazioni di Luc Montagnier non sono particolarmente positive. «Idea suggestiva, ma, forse, un po' troppo semplicistica», dicono più o meno i suoi colleghi, che sospettano che lo scienziato francese sia a caccia di fondi. L'ipotesi dell'immortalità appare ad alcuni scienziati una cosa assurda: neanche la Terra è immortale; anche nell’universo nulla è eterno.
Certamente è una esagerazione sostenere, come fa Montagnier, che l'allungamento della vita sia opera esclusiva della medicina, perché bisogna tenere in considerazione il crollo della mortalità neonatale e il miglioramento della situazione socioeconomica
Secondo alcuni scienziati, inoltre, l’immortalità non è ipotizzabile scientificamente: sognare di individuare i geni della longevità e prolungare la vita indefinitivamente è un’utopia. La legge della vita, secondo questi studiosi, resta quella della riproduzione delle generazioni. Pensare che un’umanità immortale si “paralizzerà” sul pianeta, sembra loro da escludere: significherebbe, infatti, la fine dell’uomo.
La cultura mondiale si divide sulle tesi dello scienziato francese. C’è chi dice che al massimo possiamo reggere due secoli e chi, invece, che si tratta solo di sogni. Per qualcuno, poi, un’ora o mille anni sono eguali di fronte al baratro del nulla…
Se la morte, come sostiene Montagnier, non fosse, come spesso si pensa, qualcosa di iscritto nella vita stessa, e se in effetti l’immortalità fosse un’ipotesi da prendere in considerazione, allora l’attuale paradigma mentale dell’uomo verrebbe sconvolto dalle fondamenta. Al di là dell'aspetto scientifico, un orizzonte di vita illimitata pone considerazioni di tipo filosofico e teologico. Perché, come fa notare il filosofo Gianni Vattimo, studioso di Martin Heidegger per il quale la morte era un dato fondamentale, «una vita indefinita non riusciamo nemmeno a immaginarcela». E sebbene Vattimo trovi l'idea di un prolungamento della vita, fino a cancellare la morte dal suo orizzonte, filosoficamente intrigante, non può fare a meno di associare immediatamente a quest'ipotesi problemi filosofici e non, che vanno dalla pragmatica domanda sulla ripartizione dello spazio disponibile, a considerazioni circa il rischio immane di staticità: la storia dell’essere è storia anche di avvicendamento, di rinnovamento di prospettive. E “come pensare poi in termini religiosi, come immaginare la storicità senza mortalità?”, si chiede ancora il filosofo torinese, che fra l’altro contesta alla scienza l’ansia di sopravvivenza a tutti i costi. È la qualità della vita a preoccuparlo più che la sua “quantità”.
Da un punto di vista medico, la vecchiaia è da tempo considerata una malattia e il passaggio ulteriore, ossia considerare la morte come una malattia da debellare, non meraviglia affatto il filosofo Emanuele Severino. Sull'auspicabilità di questo eventuale successo, però, il filosofo bresciano resta dubbioso: “L'uomo è uomo proprio perché intende liberarsi dal dolore, dalla morte; per questo ha inventato il mito, la religione, la stessa scienza, la quale non è una contemplazione disinteressata e ingenua, bensì la longa manus dell’istinto di sopravvivenza dell’uomo”, che lo aiuta a preparare rimedi per liberarsi dall’infelicità. Morte e infelicità, però, non sono sinonimi. L’infelicità, secondo Severino, proviene dalla coscienza del dolore e il dolore estremo è la morte. Per l’autore di “Destino della necessità”, inoltre, quand’anche la scienza raggiungesse il pretenzioso obiettivo di allungare illimitatamente la vita, non cambierebbe il parametro di fondo del senso dell’esistenza. E di fronte all’eternità del nulla “vivere un miliardo di anni o un’ora è la stessa cosa”, conclude Severino, “ perché sull’altro versante c’è il baratro del nulla”. Dunque, un prolungamento dell’esistenza, per quanto notevole, non farebbe che “accumulare l’angoscia rispetto all’imminenza del termine della vita”.
Per migliaia di anni e in diversi modi l'uomo ha cercato di raggiungere la completa libertà spirituale dal ciclo interminabile di nascita e morte. Ma che cosa si intende per «immortalità»? Se con questo termine si fa riferimento al concetto di “memoria”, l'arte è da sempre stata in questo senso la grande invenzione dell'uomo per continuare a vivere in eterno. Il riferimento alle grandi civiltà del passato, da quella egizia a quella greca a quella romana, non sono altro che la testimonianza del fatto che l'uomo vive per non morire o quanto meno che, nel vivere, cerca di non morire.
Ma se da un lato “vivere in eterno” significa preservare negli altri il proprio ricordo, è anche vero che l’idea di immortalità biologica non fa piacere a tutti. Si tratterebbe, secondo alcuni, di cambiare completamente il concetto di vita e allo stesso tempo bisognerebbe rivedere gli studi filosofici, religiosi, psicanalitici che costituiscono il pensiero. Ma non è da accettare l'idea di un corpo eterno senza l'eterna giovinezza. Se continuare a vivere significa portare avanti una vita a pieno ritmo, allora si può essere favorevoli. L'idea di un'eterna vecchiaia, non affascina molto. All'idea, invece, di una vita eterna che si bloccasse alla soglia dei trent'anni si può certamente essere favorevoli. L'unico rischio negativo per l'uomo stesso potrebbe essere quello di pensare di avere un tempo infinito a disposizione e, di conseguenza, non impiegarlo al meglio.
Dal poema epico di Gìlgamesh fino ai romanzi di Milan Kundera, per ricordare gli estremi cronologici più immediati, da sempre gli uomini hanno raccontato in tante maniere il viaggio, fisico e spirituale, alla ricerca della vita eterna. Il re di Uruk, protagonista del grande ciclo sumerico, sconvolto dalla scomparsa dell'amico fraterno Enkidu, attraversa catene di montagne, varca sconfinate distese di mare, uccide animali selvaggi, oltrepassa cento pericoli, pur di arrivare davanti a Utnapistim, l'immortale. Gìlgamesh, allo stesso modo di Roy, Nexus 6, il cyborg di Blade Runner, vuole sapere a tutti i costi quale è il segreto per durare. Umanissima pretesa! La risposta che riceve s'è inchiodata per secoli nella coscienza della civiltà occidentale, come il più solenne dei baluardi, la più invalicabile delle muraglie: «Nulla permane. Costruiamo forse una casa che duri per sempre, stipuliamo forse contratti che valgono per ogni tempo a venire? Forse che i fratelli si dividono un'eredità per tenerla per sempre, forse che è duratura la stagione delle piene? Solo la ninfa della libellula si spoglia della propria larva. Fin dai tempi antichi nulla permane. Dormienti e morti, quanto sono simili: sono come morte dipinta».
Di fronte a tale potenza icastica, neppure l'imprecisa richiesta d'immortalità che Aurora rivolge a Giove a favore di suo marito, può reggere il confronto, dal momento che Titone non muore ma sperimenta su di sé tutte le devastazioni di una vecchiaia che nessuno può arrestare. Aurora avrebbe dovuto avere l'accortezza di chiedere eterna giovinezza: ma, si sa, anche gli dei quando sbagliano sono costretti a pagare.
“Nessun uomo troppo preoccupato di allungare la propria vita vivrebbe serenamente”, ha lasciato scritto Lucio Anneo Seneca.
Quale è dunque l'unica, possibile immortalità sognata in letteratura? Lo affermò Orazio, una volta per tutte, nella sua celebre ode: “Più immortale del bronzo ho lasciato un ricordo, / che s'alza più delle piramidi reali, / e non potrà distruggere morso di pioggia, / violenza di vento o l'incessante catena / degli anni a venire, il dileguarsi del tempo».
La cultura moderna ha spesso respinto con fare sprezzante questa consolazione: ma chi, come il Faust di Goethe, è giunto a stipulare con Mefistofele un patto per fermare l’attimo fuggente ha finito per smarrire l’anima. Da allora in poi l’immortalità sarà riproposta solo come favola, come, ad esempio, la storia del Peter Pan di J. M. Barrie, che si rifiuta di crescere, o macabro scherzo: basti pensare all'indimenticabile fantasma di Gogol che strappa i cappotti ai passanti per vendicarsi di chi rubò il suo. Quando Oscar Wilde tornerà a prefigurare in Dorian Gray l'ideale di un'imperitura avvenenza, spostando sul ritratto del giovane ogni vizio e insidia senile, si sentirà anch'egli obbligato a condannare il ragazzo, che aveva squarciato la tela con il pugnale, a un improvviso, orribile tracollo. Solo Ugo Foscolo aveva saputo trovare requie in una concezione attiva del sepolcro, proclamando: «Sol chi non lascia eredità d'affetti, / poca gioia ha dell'urna». Infine, se la letteratura testimonia la finitudine, possiamo esserne certi: un immortale non scriverebbe.
IMMORTALITà
In coda a centinaia di migliaia per giocare al Superenalotto, ultimo germoglio dell'eterno lotto, di cui tutti, sin dalla culla, conoscono il vocabolario magico dei terni, degli ambi, come un abracadabra familiare. Se è vero, come pare, che un generale dei carabinieri, il calabrese Delfino, giocava al lotto centinaia di milioni, si ha la conferma della irresistibilità di questa lotteria semplicissima che riempie di sogno e di speranze i concittadini. Antonio Gramsci le dedicò una nelle sue note "sulla politica e sullo stato moderno" osservando che è una manifestazione della religiosità popolare; chi vinceva o sperava di vincere pensava di avere, sperava di avere "qualcuno lassù" che lo proteggesse, di essere in qualche modo un "eletto".
Per Balzac il segreto del lotto stava nel prolungamento settimanale della speranza: il numero della roulette è un lampo che dura pochi istanti; quello del lotto un lampo che si prolunga per una settimana.
Era della stessa opinione Benedetto Croce per cui il lotto era "il grande sogno di felicità che il popolo fa ogni sei giorni con una speranza crescente, invadente che si allarga ed esce dai confini della vita reale". Per Croce e per Gramsci il lotto era "oppio della miseria", benefico, consolatorio.
Religioso il lotto è certamente come rito collettivo: che tu vinca o perda hai stabilito una comunione umana con tutti coloro che vi partecipano, ti senti parte di una comunità umana, delle sue speranze e magari della sua confessione di umiltà: non sei fra i pochi amici del diavolo che possono decidere i tempi e i modi per arricchirsi, sei uno dei meschini che devono contare sulla fortuna o su "qualcuno lassù". C'è un aspetto strano della psicologia di massa: il rifiuto o la resistenza a considerare gli eventi della vita come frutto del caso e non di una protezione divina o della "dea fortuna" che ne è l'equivalente pagano.
Eppure all'evidenza il caso è un elemento decisivo e onnipresente nella nostra esistenza: per caso ti innamori, ti sposi, fai carriera, subisci un incidente, sfuggi alla morte o muori. Ogni volta che ti capita qualcosa sei portato a pensare che è stato il caso a farti trovare in quell'occasione, in quel luogo, in quel momento. Bastava che un caso diverso ti avesse distratto dal tuo casuale destino e il corso della tua vita sarebbe cambiato. Ma evidentemente il caso per gli esseri umani è un fatto troppo “casuale”, impersonale, che non distingue fra gli uomini, non li premia e castiga, ma casualmente li tocca: un caso che non riteniamo degno del nostro egocentrismo, del nostro essere "la misura di tutte le cose". Così riempiamo le chiese di ex voto a questo o a quel santo o celeste protettore invece di dedicarli al bistrattato caso. L'universo è, a quanto risulta, una casuale attrazione di atomi e di masse, ma in tutte le culture umane viene descritto come l'opera di un dio, dotato della grazia inimitabile della creazione. Gli uomini delle lotterie non si arrendono al caso neppure quando le pallottole con i numeri si inceppano nelle macchinette: subito immaginano complotti del Maligno. Il carattere principale delle lotterie è la loro incorporeità, la loro irrealtà: la vincita arrivata dal cielo si dissolve in pochi giorni, quanti bastano per far capire al vincitore che è rimasto, suppergiù, povero come prima.
LOTTO, OPPIO DEI POVERI
Negli ultimi tempi sono frequenti i dibattiti sul cosiddetto finanziamento alla scuola privata.
Nella posizione di chi è favorevole a tale finanziamento si può individuare un punto debole che richiede una riflessione.
La legge sulla parità, che dovrebbe vigilare su tutti gli istituti scolastici nei quali le famiglie possono "spendere" il bonus per l'istruzione, secondo alcuni, non deve imporre un progetto culturale unico, proprio in omaggio alla libertà d'insegnamento e alle scelte delle famiglie.
Ammettiamo allora che un istituto di Milano abbia nel suo progetto culturale l'insegnamento del "valore della competitività come elemento di stimolo sociale, contrapposto al valore della solidarietà, elemento di appiattimento e stagnazione della società" oppure che un istituto di Napoli sostenga nel suo progetto culturale l'importanza di insegnare il "valore della fede cattolica come unico elemento in grado di illuminare l'accidentato percorso verso un reale progresso della società umana".
Un insegnante di filosofia di ispirazione cattolica come potrà avere “libertà d'insegnamento" nell'istituto di Milano? E perché l'istituto dovrebbe accettare un docente in chiaro contrasto con il suo progetto culturale? Un insegnante di storia di ispirazione laica come potrà "liberamente insegnare" nell'istituto di Napoli? E perché l'istituto di Napoli non dovrebbe invece cercare un docente allineato alle sue posizioni?
Non penso che sia sostenibile ipotizzare che il progetto culturale di un istituto debba essere preventivamente approvato da una qualche autorità pubblica: ricorderebbe troppo il Ministero della Cultura di cui tutti i regimi autoritari si sono sempre, in un modo o nell'altro, dotati. Né penso che sia accettabile, per uno stato laico, finanziare, seppure indirettamente, istituti con tali progetti culturali.
In conclusione, "libertà d’insegnamento del docente", riconosciuta dalla Costituzione, e "libertà del progetto culturale dell'istituto scolastico” sembrano difficilmente conciliabili.
Si tratta di stabilire in che modo il "progetto culturale” di un istituto scolastico privato possa convivere con la libertà d'insegnamento del docente. È evidente che l'istituto preferirà assumere docenti vicini al suo progetto culturale. Lo Stato può imporre standard di qualità ma non si può ledere il diritto dei privati. Spetta alle famiglie scegliere e, secondo me, il finanziamento va fatto alle famiglie, non alle scuole.
PARITÀ SCOLASTICA
A volte l’ideologia politica può far nascere e crescere dei valori. L’ideologia è, però, il sottoprodotto dei valori: è il tentativo di confezionare un sistema di valori che ha alle volte un forte tasso di faziosità e di subordinazione dei valori alle esigenze di un partito. Bisognerebbe uscire dal “pensiero ideologico” e parlare di “idee” più che di ideologie, di valori più che di contenuti ideologici. Noi siamo usciti da una società pervasa di ideologie, ossia quella degli anni ’70, la società politicizzata per eccellenza, però siamo entrati in una società in cui l’assenza di ideologie ha provocato altre forme di barbarie. Per questo, forse, è necessario recuperare un sano rapporto con le idee, scaricandosi di dosso quel tasso di intolleranza e di subordinazione dei valori agli interessi dei partiti.
Quella secondo cui i partiti sono indispensabili in un regime democratico è una frase fatta. Chi la enuncia dà per scontato che sia vera, e quindi non perde tempo a dimostrarla. Proviamo, pertanto, a fare qualche ragionamento sul tema. A che cosa servono i partiti? Una loro funzione dovrebbe essere la stesura di progetti politici, in linea coi propri ideali: all'estero, qualche cosa del genere la fanno. Non mi risulta che la facciano in Italia. Non conosco progetti politici dei partiti esistenti. Non conosco neanche i loro ideali Rimane un'altra funzione, quella di presentare le liste dei candidati per le elezioni locali e nazionali; e quella funzione sì, la svolgono. E come. Non pensano ad altro. Ma sono proprio necessarie, per svolgerla, vaste organizzazioni diffuse sul territorio, sezioni grandi e piccole, burocrazie, giornali? A me sembra di no. Basterebbero, per presentare i candidati, i comitati elettorali, che sono una cosa ben diversa.
Dal che si evince che è fuori luogo ogni progetto di finanziamento pubblico. Chi si riunisce intorno a un'associazione politica, sia essa un partito o un comitato elettorale? Si riuniscono persone che hanno in comune qualche ideale o qualche interesse. Bene: le persone che si riuniscono intorno a un'associazione, avendo idee e interessi da difendere, dovrebbero essere disposte a tenerla in vita con un congruo contributo finanziario. La faccenda interessa loro, non noi. Oltre tutto, i comitati di cui parlo, in sostituzione dei partiti macchinosi e mastodontici, costerebbero poco.
Non mi sembra di dire cose assurde. In paesi anche più democratici del nostro i partiti sono più leggeri che da noi, e nessuno se ne lamenta. La vita politica è in trasformazione dappertutto. Le ideologie classiche, che dei partiti erano il punto di partenza e l'ossatura, sono tramontate, e non se ne prospettano di nuove. I modi classici di fare politica non interessano più, a giudicare dalla scarsa affluenza di cittadini alle urne. Invece di ripetere meccanicamente frasi fatte, dovremmo cercare nuove formule e nuovi modelli; o magari tornare all'antico, quando i partiti non erano ancora stati inventati.
POLITICA
Di fronte alla vicenda e ai modi operativi della politica, specialmente quando si presenta non lineare ed alimenta e giustifica sospetti, molti assumono un atteggiamento ambivalente di cautela e di diffidenza o di stima e ammirazione, come per le cose che si presentano bifronti, con un volto apparente di perbenismo e con un altro, demoniaco. In presenza del Machiavelli, e quindi degli uomini politici, c’è chi fa propria la definizione che il manzoniano don Ferrante dà del politico fiorentino : “mariolo si, ma profondo” e spesso l’accento si posa più insistente sul primo termine. D’altra parte, tutti sono pronti a riconoscere che certe conquiste della vita politica, certe istituzioni come la democrazia non devono essere alienate; nello stesso tempo, ben pochi e non sempre i più idonei partecipano alla competizione per la gestione del potere.
Ancora: lo stato moderno, anche in conseguenza del fallimento di altri organismi, si è arricchito di funzioni e compiti, ha dilatato i suoi poteri di intervento e di controllo, ha esteso la sua presenza anche là dove prima operava il singolo, si è addossate moltissime responsabilità: contemporaneamente non riesce ad esprimere il volto più alacre e moderno del popolo che lo crea, si muove con fatica e con grande spreco, non solo di denaro, tende ad addormentare le situazioni quando è inetto a risolvere per inadeguata preparazione anche tecnica, oppure le avvia a soluzioni burocratiche, le peggiori, pone al vertice gente arida mentre sarebbe necessaria la presenza di gente intrepida, capace di rapide decisioni, ricca di estro. Perciò anche in politica e forse più che in altre attività, il nostro tempo si muove su due piani, è antico ed ha velleità di modernità, opera con criteri lenti e vuole proporsi come modello di organizzazione: da ciò, ma non solo da ciò, la crisi delle sue funzioni e degli organismi di cui si serviva un tempo. Assistiamo e non solo in Italia ad una trasformazione delle classi dirigenti: al politico si contrappongono o con lui cooperano nelle decisioni altri poteri, non ancora istituzionalizzati, quelli della cultura, per esempio, e quelli dei tecnici. Qualche studioso di politica non parla più di democrazia ma di tecnocrazia: altri di meritocrazia. A qualcuno pare di potere concludere sulla morte delle ideologie politiche e sul tramonto dei partiti. Altri avverte che la democrazia, nel senso di effettiva e diretta partecipazione delle masse alla guida del potere, è una menzogna convenzionale, un pennacchio: di fatto invece ci troviamo in presenza di una democrazia permissiva, di un regime sostanzialmente dispotico che opera però in modi più puliti e raffinati che i totalitarismi rozzi e violenti, del tutto improduttivi in tempi di società industriale, non più violentando la libertà (questo modulo appartiene alle culture sottosviluppate, a classi di potere che procedono con il passo militaresco dei vecchi dittatori) quando rendendola del tutto inefficace. A questi approdi concorrono il controllo dei mezzi di produzione e la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso l’uso appropriato dei mezzi di comunicazione di massa.
Certo, non esiste un solo modo di essere democratici, e non c’è solo una via di approccio ai problemi dell’uomo socialmente operante ed organizzato. Si pensi tra l’altro alla maggiore presenza dei sindacati nella vita degli stati. E si pensi anche ai compiti che in una società così fatta ha l’intellettuale con il suo impegno antidogmatico, con il suo virile e razionale coraggio, con la sua abitudine alla demistificazione e al ripudio delle frasi fatte: l’intellettuale sa che le forze politiche non hanno una potenza naturalistica ed inarrestabile, ma possono e debbono essere dominate, sa che tutto è prodotto dall’uomo e tutto può essere prodotto per l’uomo, sa che sul piano sociale il suo compito più importante è di difendere la libertà contro l’intolleranza, l’originalità contro la burocratizzazione, la novità contro il formalismo, sa che tutte le istituzioni sono strumenti operativi, nascono in un tempo e non possono essere considerate dei fini rigidi, delle forze bloccanti, conosce le vie dell’opposizione e della contestazione, desta le forze genuine dell’uomo. Al qualunquista poi che finge sdegno per la politica e preferisce la stolida e nefasta politica delle “mani nette” sono dirette le seguenti parole di Thomas Mann, che sono un monito ed un invito a fare politica se vogliamo non essere ancora sorpresi dall’arrivo dei dittatori e dei colonnelli: “Non è forse vero che l’uomo che oggi dichiara: ‘Io di politica non mi occupo’ ci sembra alquanto insulso? Noi sentiamo la sua dichiarazione non solo come egoistica, estraniata dal mondo, ma anche come uno stolto autoinganno, come una stupida inferiorità. Una tale affermazione palesa un’ignoranza non tanto intellettuale, quanto morale. Sotto la forma politica ci si presenta oggi il problema stesso dell’uomo”.
POTERE POLITICO E CULTURA
Alcuni le davano per spacciate, schiacciate dalla trionfale marcia della Ragione: i fatti li hanno smentiti. Fedi e religioni sono vive e vegete. L’Islam fiorisce, il cristianesimo resiste, nuovi culti impazzano, soprattutto nelle ricche società occidentali. Mettiamoci l’anima in pace: anche nel XXI secolo potremo credere in qualcosa.
Su scala mondiale, l’80 per cento circa della popolazione professa un credo religioso. I musulmani ammontano a più di un miliardo, una comunità di poco superiore a quella cattolica. Ateismo e agnosticismo progrediscono invece lentamente.
Sono in ascesa, inoltre, in Occidente nuove forme di spiritualità, come quella “New-Age”.
Cosa cerca l’individuo realmente nella tentazione New-Age? L’uomo di oggi che risente del fascino di questa corrente di pensiero è, senza dubbio, insoddisfatto, da una parte, della realtà sociale e civile del nostro paese e, in generale, del nostro Occidente, che è piuttosto avaro di valori e di spiritualità, e, quindi, ha voglia di uscire da questo materialismo goffo ed edonista che ci caratterizza a livello planetario; dall’altra, forse ha bisogno di dare maggiore smalto alle religioni tradizionali, perché si accorge che spesso queste ultime alimentano discorsi di fede, ma non grandi passioni di fede. Oggi c’è indubbiamente un ateismo strisciante nella nostra epoca e allora cerchiamo surrogati: perfino gli oroscopi e l’astrologia sono dei surrogati. È importante, di conseguenza, scavare dietro il fenomeno “trendly”, cioè che fa tendenza, per vedere qual è il malessere profondo che ci portiamo appresso e che cerchiamo in qualche modo di rappresentare attraverso queste passioni di spiritualità e di religiosità esotiche, vendute un po’ a buon mercato. La spiritualità New-Age è, dunque, una risposta insufficiente ad una domanda vera: è insufficiente perché i cultori di tale corrente risolvono il loro bisogno di spiritualità in riti puramente esteriori, quale può essere il radersi a zero i capelli o il vestirsi di un determinato colore, cercando di creare simbolicamente alcuni passaggi per arrivare a formulare una concezione e visione del mondo. Si tratta di passaggi comprensibili ma insufficienti per far nascere una nuova religione.
QUELL’INSOPPRIMIBILE BISOGNO DI SPIRITUALITÀ

Esempio



  


  1. hygerta

    tema sul uragano sunny

  2. salvina

    l'uomo guardando il futuro prova paura e curiosità per l'ambiente e per gli esseri con cui potrebbe venire in contatto