Storia del Teatro

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LA STORIA DEL TEATRO

Le origini del teatro si perdono nel tempo. I papiri egiziani dimostrano che esso si sviluppò su basi religiose e mitologiche nella terra dei faraoni molti secoli prima della grande fioritura greca, i cui testi più antichi risalgono al sec. V a. C. e che trovò in Aristotele il suo codificatore.
La tragedia attica, rappresentazione di una “crisi”, era concepita per l’allestimento in grandi teatri all’aperto ed era basata sull’alternanza di recitazione e di canto, con coreografie. Raggruppate in trilogie, le tragedie erano fatte seguire da un dramma satiresco, di argomento comico e privo di rapporto con la trilogia. I massimi rappresentanti del genere furono Eschilo, Sofocle, Euripide. Fra i tre Euripide fu il meno fortunato, ma godette di gran favore postumo, proprio perché più vicino alla sensibilità moderna.
Accanto alla tragedia fiorì la commedia attica: quella “Antica”, dove si distinse Aristofane, satireggiante la società contemporanea; quella “Nuova”, introspettiva e borghese, di cui Menandro fu il massimo esponente.
Per i Greci il teatro non era, come lo intendiamo noi, un fenomeno culturale o di intrattenimento, ma costituiva la parte integrante della vita religiosa, sociale, culturale e civile della città. Tutto il teatro ateniese era fondato sulla competizione tra gli autori; lo si può definire agonistico, tanto che il pubblico partecipava con lo stesso atteggiamento con cui si assiste oggi ad una partita di calcio. Questi spettacoli si svolgevano a conclusione di una serie di cerimonie religiose, come il trasporto della statua di Dioniso, i riti purificatori del luogo della rappresentazione e di cerimonie civili come l’omaggio degli alleati di Atene, le onorificenze meritate dai cittadini e la sfilata dei figli dei soldati caduti in battaglia. Degli edifici teatrali abbiamo testimonianze di grande rilievo, come i teatri di Siracusa e Epidauro. I suoi principali elementi erano la cavea, l’orchestra e la scena. La prima era formata dalle gradinate su cui sedevano gli spettatori diversamente distribuiti secondo la loro posizione sociale. L’orchestra, di forma circolare e con un diametro di 20-24 metri era la sede del coro; al centro di essa vi era l’altare di Dioniso. La scena, inizialmente forse una sorta di camerino per il cambio delle maschere e dei costumi degli attori, era lo sfondo dell’azione teatrale: era costituita da una tenda decorata che rappresentava l’ambiente dell’azione.
Il coro aveva un ruolo fondamentale sia nella tragedia che nella commedia; i suoi interpreti (dapprima 12, poi 15 nella tragedia e 24 nella commedia) agivano nell’orchestra guidati da un capo corifeo.
Nel teatro tragico il costume era costituito da una tunica lunga, detta chitone, su cui poggiava un mantello corto o lungo. Quanto alle calzature, prima che si usassero i coturni (spesse suole di legno che alzavano di molto il piede), gli interpreti indossavano eleganti stivaletti in pelle.
Il costume della commedia invece consisteva, in quella Antica in una tunica corta, imbottita e munita di un grosso fallo di cuoio. Nella Commedia Nuova, il costume, eliminato il fallo e le imbottiture, si avvicina sempre più all’abito quotidiano, anche se il colore acquista un significato simbolico. I personaggi giovani portavano vestiti di colore rosso, i nobili indossavano abiti bianchi, i parassiti abiti di colore nero.
E’ facile immaginare quanto le maschere contassero in un teatro in cui gli attori interpretavano più di un personaggio e dove le figure femminili erano impersonate da interpreti maschili. La maschera, quindi, aveva la funzione di indicare allo spettatore tutte le caratteristiche del personaggio. Era realizzata con lino, sughero, legno o terracotta; copriva tutto il volto e anche la parte posteriore della testa degli attori, lasciando scoperti solo gli occhi.
L’ultimo elemento importante della rappresentazione era la musica, che purtroppo è di gran lunga il meno conosciuto da noi moderni.
I temi tragici erano desunti per lo più dall’antica storia sacra del popolo greco, il mito. Protagonisti ne erano i grandi eroi celebrati tradizionalmente dalla poesia epica. Ma la tragedia nasce quando il mito comincia ad essere analizzato secondo i modi di pensiero e le esperienze giuridico-politiche della comunità dei cittadini. Quando il presente della polis democratica si confronta con il passato eroico, espressione di una diversa organizzazione sociale ed ideologica, allora il mito diventa ambiguo e l’eroe viene rimesso in discussione e scopre le caratteristiche inquietanti dell’uomo a contatto con una realtà ostile.
Il teatro a Roma ebbe una sua precisa originalità e fu un fenomeno che coinvolse le classi sociali più diverse, anche se non raggiunse la centralità nella vita sociale e politica che ebbe ad Atene. Esso è essenzialmente fondato sulla commedia, i cui maggiori esponenti sono Plauto e Terenzio. In essa, accanto ai modelli della Commedia Nuova, convivono in posizione per nulla marginale elementi propri della tradizione italica, sia etrusca che latina e della Magna Grecia.
A una circostanza religiosa risale l’introduzione ufficiale dei ludi scaenici a Roma; a quanto apprendiamo da Livio, storico dell’età di Augusto, nel 364 a.C., in seguito ad una grave pestilenza (che secondo le antiche credenze era di origine divina), fu deciso, insieme ad altre manifestazioni propiziatorie, fu deciso di mettere in scena uno spettacolo, come offerta agli dei, al fine di intrattenerli e di placarli. Poiché questo tipo di divertimento era estraneo agli usi dei Romani, i quali conoscevano soltanto la tradizione sportiva dei giochi circensi, furono fatti venire dall’Etruria alcuni artisti che eseguirono un programma di danze al suono del flauto.
All’origine del teatro romano ci sono delle forme preletterarie, di genere popolare, quali i fescennini che consistevano in un vivace scambio di battute salaci e grossolane che avveniva tra contadini mascherati. Caratteristiche principali di questo tipo di poesia erano la mordacità e l’improvvisazione. Furono proprio i fescennini a dare origine alla satura, in cui si ravvisa la genuina forma di primitiva azione drammatica in uso presso le genti latine. Di essa in realtà si conosce ben poco: il suo significato forse sarebbe “piatto farcito”, composto da uva passa, mele, pinoli, miele, vino, che si offriva agli dei, per dimostrare la varietà dei contenuti di questo genere letterario.
Assai più importante della satura fu l’atellana, una sorta di farsa popolare il cui nome deriva probabilmente da Atella, città situata tra Capua e Napoli. Comportava l’improvvisazione su un canovaccio prestabilito e si serviva di maschere fisse di origine greca: Macco era lo stupido per definizione, Bucco il chiacchierone ingordo, Pappo il vecchio babbeo da tutti ingannato, Dosseno il gobbo furbo. Erano queste maschere in cui gli interpreti davano spazio alla loro capacità di improvvisazione. Pertanto è stato ipotizzato un legame dell’atellana con la Commedia dell’Arte.
Nel mondo romano la rappresentazione delle opere teatrali era affidata dai magistrati che organizzavano i ludi ad attori raggruppati in compagnie alle dipendenze di un capocomico, che normalmente era anche il regista. Gli attori erano schiavi o liberti; pur potendo conquistare grande popolarità ed ottenere lauti compensi, furono quasi sempre relegati alla condizione di lavoratori dipendenti ad un livello molto basso della scala sociale. Inoltre il fatto che il teatro sia stato sempre associato, nella mentalità romana tradizionale, all’idea della licenza morale contribuì a conferire all’attore un’immagine pubblica piuttosto scadente. Tuttavia è importante considerare che l’attore romano era un interprete assai completo, in quanto doveva essere in grado di recitare, di cantare e di danzare, come gli odierni attori di un musical.
I costumi, nelle commedie tratte dai modelli greci, corrispondevano agli abiti normalmente usati dai Greci: la tunica, il pallio (mantelletto corto, di lana, trattenuto da una fibbia su una spalla), i sandali. Togata venne invece definita la commedia, che nacque successivamente, di ambientazione romana, in cui gli attori indossavano l’abito nazionale romano, la toga appunto.
Il problema della maschera è uno dei più controversi e dei più difficili da risolvere di tutto il teatro latino. Da una parte, si sostiene che è assurdo che i Latini non usassero le maschere come i Greci, dall’altra invece, si ritiene che la maschera sia stata introdotta solo nel I sec. a.C.
Alla caratterizzazione dei personaggi, contribuivano l’abbigliamento, di cui facevano parte elementi indicatori convenzionali (per esempio il cuoco si presentava con un arnese da cucina in mano, il soldato con la lancia, i vecchi portavano i bastoni) e le parrucche, di colore diverso. Infatti erano bianche per i vecchi, scure per i giovani, rosse per i servi.
Nel basso Medioevo il teatro drammatico rinacque da matrici religiose, come alle sue origini. Dal dramma liturgico si passò alla lauda drammatica in volgare (mirabili quelle umbre, come il pianto della Madonna di Jacopone da Todi) e da questa alla sacra rappresentazione. Si osservò infatti che alcuni episodi della vita di Cristo, soprattutto quelli che riguardano la sua passione e morte, sono esposti nel Vangelo in uno stile narrativo che contiene i germi di un’azione teatrale. Fu sufficiente all’inizio rendere dialogico il testo e distribuirlo tra due o più diaconi o cantori, che assumevano così ruoli di attori, mentre i fedeli venivano coinvolti anche come spettatori.
Dall’interno delle chiese il teatro uscì nelle piazze, dove vennero erette complesse scenografie per la rappresentazione delle sue commedie. Alla semplicità delle laudi italiane e delle moralità degli altri Paesi la sacra rappresentazione sostituì soggetti di vasto respiro, sviluppanti la vita di Cristo, dei santi, dell’umanità intera, e prolungatisi talora per più di una giornata.
A Firenze nel Quattrocento, il gusto letterario e quello dello spettacolo finirono col prevalere sulla spiritualità originaria: testi pur suggestivi vennero dedicati, profanamente, a santi immaginari, protagonisti di romanzesche vicende. Il latino tornò ad essere impiegato dagli autori del teatro umanistico, mentre quelli rinascimentali furono impacciati nella tragedia, dall’ossequio alle unità aristoteliche. Pertanto le opere teatrali di questo periodo furono di ispirazione classica.
Durante il Rinascimento, lo spazio del teatro è quello della “festa”, in quanto la recitazione di commedie e di tragedie si inscrive all’interno di un avvenimento festivo. Tre infatti erano le tipologie della festa: quella della cultura, della corte e quella “privata”.
La prima era legata alle accademie ed era pertanto rivolta a uomini colti; la seconda invece era organizzata per mostrare la magnificenza della corte stessa, per esaltare il mecenatismo e serviva per l’affermazione del potere. Questo genere di festa non coincideva necessariamente con quelle del calendario, ma si svolgeva in occasione di eventi che coinvolgevano il principe e lo stato, come ad esempio le “entrate” trionfali di principi e signori nella città, nelle manifestazioni che servivano per accogliere il signore ( a Roma il Papa) quando si insediava a principe della città, oppure la sposa del signore stesso o un ospite illustre.
La festa “privata” si svolgeva prevalentemente in case private e per questo motivo era rivolta soprattutto ad un gruppo ristretto e selezionato di spettatori.
Ma non tutto il teatro in questo periodo è legato alla festa: ne esisteva un genere a cui prendeva parte un pubblico pagante. Non c’era alcun teatro in muratura, destinato ad ospitare eventi rappresentativi come succedeva nell’epoca classica; bisognerà attendere la seconda metà del secolo XVI perché ciò avvenga, quando cioè l’espressione teatrale che nel Rinascimento è solo un momento all’interno del grande evento festivo diventerà indipendente.
I testi rappresentati erano quelli dell’epoca classica, soprattutto latini : venivano così riprese alcune commedie di Plauto e la maggior parte delle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide. In questo periodo l’attività teatrale italiana assunse maggiore importanza in modo particolare in tre città: Roma Ferrara, Venezia.
A Roma la spinta verso lo studio e il recupero del teatro antico si ebbe soprattutto grazie all’Accademia di Pomponio Leto, il quale organizzò spettacoli teatrali negli atrii dei principali palazzi della città e diresse lui stesso gli attori che interpretavano i vari ruoli. Molto spesso gli attori erano giovani studenti che nell’ambito dell’esercitazione accademica, in particolare di oratoria, organizzavano tali rappresentazioni, a differenza di quanto accadrà qualche decennio più tardi a Venezia, dove saranno invece presenti attori professionisti.
A Roma i testi drammatici classici erano sempre recitati in latino. Invece le rappresentazioni delle opere di scrittori latini che venivano realizzate e Ferrara tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento erano in volgare. Le traduzioni dal latino erano commissionate dal duca Ercole I ad alcuni poeti che risiedevano nella sua corte.
Queste rappresentazioni prevedevano tra un atto e l’altro la presenza di intermezzi, scene allegoriche più o meno brevi, di solito autonome dalla commedia, affidate a danzatori e musicisti.
A Venezia le rappresentazioni di Plauto e di Terenzio fiorirono più tardi rispetto alle altre città . Spesso la loro organizzazione era affidata all’attività di un attore lucchese, Francesco de’ Nobili, detto “Cherea” per aver recitato in questo ruolo nell’Eunuco di Terenzio.
Tuttavia la data in cui, secondo gli storici della letteratura, si ha la nascita della commedia è il 1508, quando venne rappresentata la Cassaria di Ludovico Ariosto. Essa è quasi sicuramente il primo testo drammatico della letteratura italiana costruito ad imitazione del modello offerto dalla letteratura drammatica classica, che presuppone la divisione del testo in cinque atti preceduti da un prologo, e il rispetto delle unità di azione, di tempo e di luogo, ricavate dalla Poetica di Aristotele. E’ con la nascita della commedia che inizia a delinearsi più nettamente la figura del drammaturgo, cioè di colui che si occupa di scrivere un testo letterario, cui gli attori devono il più possibile attenersi.
L’ Ariosto è certamente una delle figure chiave del teatro dei primi decenni del Cinquecento, in quanto è il primo tra i grandi letterati che si propone come “autore”. Infatti finora era stato l’attore il vero “autore” dello spettacolo: nei primi anni Cinquecento invece lo scrittore del testo tende a proporsi come autore non solo della scrittura drammatica ma anche dello spettacolo. Nelle commedie dell’Ariosto i personaggi non sono mossi da leggi che stanno al di fuori della loro volontà, ma dalla propria particolare psicologia. Le loro vicende così si confrontano più direttamente con la concreta esperienza quotidiana.
Una delle più fortunate commedie del Cinquecento fu la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena. La storia è quella dei Menaechmi di Plauto, a cui è affiancata quella di Calandro, evidente eco del Calandrino protagonista delle novelle del Boccaccio. I Menaechmi raccontano gli equivoci provocati dallo scambio di persona tra due gemelli in seguito alla loro forzata separazione durante il periodo dell’infanzia. La Calandria ne riprende il motivo centrale, con la differenza che protagonisti sono sì due gemelli, ma un uomo e una donna, e che gli equivoci di cui è sempre vittima Calandro, non sono più causati dal semplice scambio tra le due persone, ma dal travestimento dell’uno da donna e dell’altra da uomo.
Diversa dalle contemporanee è la Mandragola di Machiavelli: la vicenda ha come sfondo la Firenze del Cinquecento e riprende gli schemi propri del teatro comico del tempo, cioè un amore contrastato, che si rivolge felicemente grazie all’intervento di uno scaltro parassita, sul modello della commedia latina, e, intrecciata con essa, la vicenda di uno sciocco beffato, che risale alla novellistica toscana. La vena comica del Machiavelli non è serena e distesa, ma cupa, amara: la commedia infatti rappresenta un mondo in cui domina solo la legge dell’interesse economico, dell’astuzia, dell’inganno, in cui non sono affatto presenti i principi morali, i sentimenti nobili e disinteressati. In tal modo l’autore vuole denigrare la corruzione e l’amoralità della società a lui contemporanea.
Accanto alle commedie in volgare, nel Cinquecento abbiamo dei testi comici in dialetto: sono farse o brevi dialoghi che devono la loro coerenza strutturale più al modo in cui vengono recitati che al valore letterario di cui sono portatori. La loro comicità è sboccata e grossolana: per tale ragione questi testi vengono considerati parte della “letteratura popolare”. In questo campo emerse la figura di Angelo Beolco, detto il Ruzante dal nome di una delle parti più famose del suo vasto repertorio. Le sue commedie sono scritte in dialetto pavano e la comicità che le caratterizza è abbastanza complessa: la battuta, spesso a doppio senso, suscita nello spettatore una risata liberatoria, che però molte volte è bloccata dal senso di angoscia che scaturisce dalle figure grottesche di quei testi.
Nel secolo XVII ebbe il suo splendore la Commedia dell’Arte, che rappresentò il trionfo di un particolare modo di recitare detto “drammaturgia d’attore”; gli attori infatti si esprimevano in maniera libera dal testo, creando così con la propria recitazione una figura o un personaggio che risultavano indipendenti da ciò che era scritto.
Questo genere teatrale durò circa due secoli; le date, per così dire ufficiali sono le seguenti: risale al 1545 la prima testimonianza di un contratto notarile che sanciva la costituzione di una compagnia di comici professionisti, mentre il 18 Gennaio 1801 la Repubblica Cisalpina proibì con un editto le maschere della Commedia dell’Arte. Tuttavia queste date sono soltanto indicative, in quanto doveva già svolgersi prima del 1545 l’attività di compagnie di attori professionisti, così come la Commedia dell’Arte era già in crisi da più di mezzo secolo quando fu proibita con l’editto della Repubblica Cisalpina.
Ebbe molto successo, in modo particolare per alcune sue caratteristiche: ad una cultura accademica opponeva il vagabondaggio, ai personaggi della commedia e della tragedia accademiche le maschere, allo stile composto lo sberleffo, il gesto sfacciato volutamente volgare.
Il tratto distintivo della Commedia dell’Arte è costituito dall’improvvisazione: per questo motivo il modo più diffuso di denominare questo fenomeno teatrale nei tempi del suo massimo splendore fu quello di “commedia all’improvviso”. Tuttavia quando si parla di “improvvisazione” per la Commedia dell’Arte bisogna fare un’opportuna considerazione: infatti l’aggettivo “improvvisato” si riferisce di solito a qualcosa che non ha alcuna preparazione e che si riproduce all’istante. Invece l’improvvisazione della Commedia dell’Arte prevedeva una grande preparazione che soltanto al momento della recita si risolveva in improvvisazione. Questa maniera di recitare permetteva a una compagnia teatrale di cambiare spettacolo ogni sera, in quanto era solo necessario assemblare in modo differente i materiali già predisposti che sono, appunto, le varie parti.
Personaggi tipici della Commedia dell’Arte erano gli Zanni, tanto che un’altra sua denominazione è “Commedia degli Zanni”. Sono i servi che derivano dalla commedia rinascimentale e che danno vita a tutti gli intrighi propri del mondo teatrale comico. Gli Zanni si dividono in due categorie: il primo Zanni rappresenta un servo furbo, il secondo invece quello sciocco. Entrambi prenderanno nomi diversi a seconda del tempo e del luogo: il più noto dei primi è Brighella, mentre tra i secondi si distinguono Arlecchino, Truffaldino, Mezzettino e, in area napoletana, Pulcinella.
Accanto ai due Zanni ci sono i due Magnifici , personaggi anziani come Pantalone e il Dottore che , in base ai tempi e ai luoghi può chiamarsi Balanzone o Graziano; Scaramuccia, di origine napoletana, è una maschera particolare in quanto millantatore e attaccabrighe.
Gli Innamorati invece non sono delle maschere, sia perché non portano la maschera , sia perché non sono tipi fissi, sia perché non sono necessariamente comici: intorno a loro ruota tutta la vicenda della rappresentazione anche se la loro importanza è certamente inferiore a quella dell’attore che incentra su di sé tutto lo spettacolo.
Innamorati, Zanni, Capitani, Vecchi sono quindi i protagonisti principali degli spettacoli della Commedia dell’Arte; le vicende intorno a cui essi ruotano e che costituiscono gli intrecci del canovaccio vedono al primo posto l’amore (ora corrisposto ora non corrisposto) che lega ed implica le coppie di innamorati, poi l’avarizia mercantile, l’eccesso morboso di desiderio sessuale da parte dei vecchi che, a causa di ciò, oppongono ostacoli ai sogni d’amore dei figli. Ancora si deve ricordare l’intemperanza e la vanagloria militaresca che rendono i capitani gli odiosi e i ridicoli concorrenti di amanti borghesi, l’astuzia con cui il primo Zanni cerca di favorire il felice esito degli amori dei giovani padroni.
Sono proprio questi impulsi dinamici che, organizzati in base ad una trama grossolana detta “canovaccio” ( similitudine adatta, visto che il termine si riferisce ad un panno grossolano di canapa, a larghe maglie ), si strutturano in commedia.

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