Leonardo Da Vinci

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Data:27.09.2000
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LEONARDO DA VINCI
Biografia La Gioconda

Il 15 aprile 1452 nasce a Vinci, presso Firenze, Leonardo, figlio naturale del notaio ser Piero Fruosino d'Antonio e di una tal Caterina, forse figlia di Boscaiolo di Cerreto Guidi, che pochi mesi dopo sposerà il fornaciaio Antonio di Piero Buti del Vacca da Vinci. Leonardo crescerà nella casa paterna. Nel 1469 si reca a Firenze con il padre. Secondo Vasari, ser Piero presenta alcuni disegni del figlio all’amico Andrea del Verrocchio che, sorpreso dal precoce talento del giovane, lo prende nella sua bottega frequentata da Botticelli, Ghirlandaio, Perugino e Lorenzo di Credi. È attivo nella bottega di Verrocchio: collabora alla tavola col Battesimo di Cristoper la chiesa di San Salvi a Firenze; esegue dipinti, apparati per feste e tornei e un cartone per arazzo oggi distrutto. Nel 1472 è iscritto alla Compagnia di San Luca dei pittori fiorentini. Probabilmente è in quest’anno che si accinge a dipingere la Madonna della melagrana (Madonna Dreyfus) terminata, presumibilmente, nel 1474. Realizza il suo primo disegno autografo "nel giorno di Santa Maria della neve", un Paesaggio della vallata dell’Arno, conservato agli Uffizi. Probabilmente risale al 1474 il ritratto della nobildonna Ginevra de'Benci. Tra quest’anno e il 1478 circa realizza la Madonna del garofano. Riceve il primo incarico per un’opera pubblica nel 1478: la pala d’altare per la cappella di San Bernardo nel palazzo della Signoria che non porterà a termine. Secondo l'Anonimo gaddiano lavora per Lorenzo de'Medici nel giardino di San Marco dove esegue sculture per il Magnifico. Probabilmente in questo periodo inizia il San Girolamo penitente, terminato verso il 1482. Con una lettera del 1482 offre i suoi servigi a Ludovico il Moro, descrivendo i suoi progetti di ponti militari, strumenti d’assedio, artiglierie, macchine per l’escavazione di cunicoli, carri protetti con artiglierie semoventi, navi militari, e solo in ultima istanza accenna ad opere d'idraulica, architettura, pittura e scultura, tra cui l’impresa del cavallo bronzeo per il monumento a Francesco Sforza. Il 25 aprile del 1483 con Evangelista e Giovanni Ambrogio De Predis stipula con i frati dell'Immacolata Concezione il contratto per la Vergine delle rocce, una pala da collocare sull’altare della cappella della confraternita nella chiesa di San Francesco Grande a Milano. In occasione della festa "del Paradiso" per le nozze d'Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza, realizza un apparato teatrale astrologico-celebrativo. In giugno è a Pavia con Francesco di Giorgio Martini, per richiesta dei fabbricieri del duomo. Esegue alcuni dei suoi più celebri ritratti: La dama con l’ermellino, Ritratto di donna (forse di Beatrice d’Este) e Ritratto di musico. 1495 a Milano inizia l'Ultima cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie e i camerini del castello Sforzesco. Risalgono a questo periodo i progetti d'inondazione dei fossati del castello, gli studi per le macchine tessili e la teoria delle proporzioni. Viene anche menzionato come "ingegnere ducale". Termina probabilmente in questo periodo il ritratto di donna La belle ferronière. Il duca di Milano nel 1497 lo sollecita a portare a termine l’Ultima cena. A questo periodo risalgono appunti per composizioni allegoriche, per il bagno della duchessa e per una pala poi eseguita da Romanino in San Francesco a Brescia. Progetta i meccanismi per una sorta d'automa di guerriero. Ludovico il Moro gli dona una vigna tra i monasteri delle Grazie e San Vittore. Si hanno notizie di un suo viaggio a Genova nel mese di marzo. Nel Maggio 1499 invia seicento fiorini d’oro a Firenze in deposito all'ospedale di Santa Maria Nuova. Continua gli studi d'idraulica e di meccanica. Alla fuga di Ludovico il Moro, che lascia Milano conquistata dai francesi, anche Leonardo abbandona la città con Luca Pacioli. Sosta prima a Vaprio, presso il pittore Francesco Melzi, poi si dirige a Venezia passando per Mantova. Per il convento dell’Annunziata nel 1501 esegue il cartone di un San Giovannino, una piccola Madonna e il primo grande cartone per Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino. Probabilmente lavora anche alla Madonna dei fusi. Nella corte vecchia ottiene lo studio per il colosso di Francesco Sforza e sui tetti esegue le prove del modello aereo. Ritorna a Firenze nel 1503 dove, secondo Vasari, inizia la Gioconda per Giuliano de'Medici. In aprile ottiene la commissione per la Battaglia d'Anghiari per il salone dei Cinquecento nel palazzo della Signoria. Tra il 24 e il 26 luglio è presente all’assedio di Pisa per studiare le deviazioni dell’Arno. Il 18 ottobre entra di nuovo nella Compagnia dei pittori. 1506 Charles d’Amboise, governatore francese di Milano, e lo stesso sovrano Luigi XII, richiedono con insistenza la sua presenza. Il 30 maggio Leonardo ottiene dalla repubblica fiorentina un permesso per allontanarsi dalla città per tre mesi. Porta a termine il dipinto con Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino. Il 25 marzo 1513 è a Milano presso Prevostino Viola. Il 24 settembre parte per Roma insieme a Francesco Melzi, Salai, Lorenzo e Fanfoia. Alloggia nel Vaticano, al Belvedere, protetto dal cardinale Giuliano de'Medici con il quale si lamenterà dei suoi garzoni che gli rubano le invenzioni e lo sottopongono a continue angherie. Risale forse a questo periodo il San Giovanni Battista. Francesco I lo invita in Francia. Insieme al fedele allievo Francesco Melzi, Leonardo alloggia nel castello di Cloux vicino Amboise. Gli è conferito il titolo di "premier peintre, architecte, et mecanicien du roi". Il cardinale Luigi d'Aragona rimane impressionato dal gran numero dei suoi manoscritti. Elabora un progetto per il castello di Romorantin. Esegue i disegni del Diluvio, oggi al castello di Windsor. Il 23 aprile 1519 redige il testamento. A Francesco Melzi, che nomina esecutore testamentario, lascia tutti i suoi libri e i suoi disegni. Muore al castello di Cloux il 2 maggio.

La Gioconda
1503-1504 e 1510-1515 circa
Olio su tavola; cm 77 x 53
Parigi, Musée du Louvre

Forse nessun dipinto al mondo è stato sottoposto ad una tale attenzione. È l’opera di Leonardo senz'altro più famosa, eppure la sua storia è immersa nel mistero. Già i contemporanei s'interrogavano sull’identità dell’effigiata, forse l’amante di Giuliano de'Medici, come ipotizzava nel 1517 un gentiluomo al seguito del cardinale d’Aragona in visita a Leonardo nel castello d'Amboise. La notizia ricondurrebbe l’esecuzione della tavola al periodo in cui l’artista soggiorna a Roma, ospite in Vaticano di Giuliano de'Medici, fratello di papa Leone X. Considerando evidentemente il quadro una sorta di summa dei risultati raggiunti in pittura, Leonardo non si separa dall’opera e la porta con sé in Francia. Il dipinto testimonia ancora oggi l’ideale leonardesco di grazia, e quanto questo si traducesse nella ricerca di un sottile gioco di accordi, di equilibri tonali, che fondono uomo e natura. Il biografo Vasari non coglie tanta sottigliezza d’intenti, ma da pittore non può sottrarsi al fascino misterioso e magnetico del dipinto. Non ha dubbi che l’effigiata sia Lisa o Lisabetta Gherardini, terza moglie di Francesco del Giocondo, e cita l'opera subito dopo il cartone dell’Annunziata, datazione francamente troppo precoce. Per Vasari è un quadro non finito, l’ennesimo, di Leonardo: "E quattro anni pensatovi, lo lasciò imperfetto; la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableo". E prosegue ammirando la "naturalezza" del dipinto, attardandosi a descrivere i "lustri" degli occhi, le ciglia, il naso, la bocca e la "fontanella della gola" che "chi intensissimamente la guardava, vedeva battere i polsi". Riguardo il celebre ed enigmatico sorriso, Vasari narra lo stratagemma utilizzato da Leonardo per alleviare alla modella la noia delle sedute. "Usovvi ancora questa arte: che essendo madonna Lisa bellissima, teneva, mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico che suol dar spesso la pittura a' ritratti che si fanno: ed in questo di Lionardo era un ghigno tanto piacevole, che era cosa più divina che umana a vederlo, ed era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti". Tanta attenzione per i particolari più minuti comporta inevitabilmente tempi lunghissimi d’esecuzione. Leonardo lo studia per quattro anni, prima ancora di iniziarne la stesura. La Gioconda, o Monna Lisa come preferisce chiamarla il mondo anglosassone, riassume tutta una vita di studi. Per esempio, il paesaggio col ponte è probabilmente ripreso dalla versione Reford della Madonna dei fusi, quella con il paesaggio alpestre, mentre il particolare delle mani si riallaccia agli studi degli apostoli appoggiati alla tavola nel Cenacolo, in particolare l’efebico Giovanni. Sembra inoltre che l’artista avesse studiato anche una versione nuda del ritratto, la cosiddetta Monna Vanna, che potrebbe esser stata il prototipo per la celebre Fornarina di Raffaello. Non tutti concordano, già a partire dal Cinquecento, con l’identificazione del personaggio proposta da Vasari - Lomazzo la ritiene una donna napoletana -, e c’è perfino chi dubita che il quadro visto ad Amboise nel 1517 sia quello oggi al Louvre, o avanza dubbi sulla sua datazione. Tuttavia il fatto che il braccio destro, e soprattutto la mano della Gioconda si ritrovino nella cosiddetta piccola Madonna Cowper di Raffaello, un quadro databile al 1504-1505, dimostra che a Firenze intorno a questi anni Leonardo stava già lavorando all’opera. D’altra parte nel 1506 Raffaello adotta lo sfumato leonardesco della Gioconda per il ritratto di Maddalena Strozzi, sposa d'Agnolo Doni. Una versione "borghese" dell’inquietante, misterioso androgino leonardesco. Benché totalmente diversa dal giovanile ritratto di Ginevra de'Benci, anche la Gioconda potrebbe nascondere un messaggio simbolico, un riferimento alla virtù che sopravvive al ciclo eterno del tempo, all’inarrestabile trasmutazione della materia. Il paesaggio, denso di umori, magmatico e quasi irriconoscibile, è parte integrante del ritratto femminile. Il tutto condivide un moto intimo, permeato di vapori, aliti e palpiti: una pittura eseguita con una tecnica che non tradisce mai la meccanica del gesto o il segno del pennello. Solo velature liquide sottilissime, sovrapposte in anni di lavoro: quella "sottigliezza" che è a un tempo intellettuale e tecnica.
Lettura
Nel carattere e nella disposizione delle membra, nei capelli a cascata d’acqua vorticosa e nel modo di illuminare la figura sullo sfondo d’ombra si possono seguire, puntualmente, i precetti di pittura di Leonardo. Egli intende illustrare una teoria artistica. Spetterà alla psicoanalisi andare oltre. E con questo si arriva alla Gioconda. Nello svolgimento stilistico dell’arte di Leonardo è in ogni modo inevitabile che essa debba venire per ultima. Anche solo una rapida rassegna della sua produzione artistica può rivelare l’essenza del carattere della sua opera, nel senso di un continuo ricorso alla ricerca e alla sperimentazione. Per Leonardo la Pittura è Filosofia, in altre parole Scienza: il linguaggio più appropriato col quale comunicare la conoscenza del mondo sensibile. Ecco perché egli può affermare: "Ed in effetto ciò che è nell’universo per essenza, presenza o immaginazione, il pittore lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose". L’arte è dunque, per Leonardo, una seconda creazione. Le fasi dello sviluppo del suo pensiero scientifico, dallo studio della meccanica dei pesi all’idraulica, alla geologia, all’anatomia, alla botanica e infine alla geometria, si riflettono costantemente nelle sue opere artistiche, perciò, seguendo lo svolgersi del suo pensiero scientifico nei suoi manoscritti, si può individuare il filo conduttore lungo il quale si collocano quelle opere. E ci si accorge, senza sorpresa, che la Gioconda arriva per ultima. La questione dell’identità del personaggio passa in secondo ordine. È certo che non è la Monna Lisa del racconto del Vasari, anche perché non si può passare sopra una testimonianza come quella di Antonio De Beatis, che nel 1517 parla di un ritratto visto nello studio di Leonardo in Francia e identificato da Leonardo stesso come quello di una "certa dona Fiorentina fasta di naturale ad istantia del quondam mag.co Juliano de Medici". Fu questi, l’ultimo protettore di Leonardo in Italia, dal 1513 al 1516. È vero che Giuliano, esiliato da Firenze, si trovava a Venezia nel 1500 proprio al tempo del breve soggiorno di Leonardo in quella città. Ma le congetture in proposito sarebbero pericolose; e comunque non è più il caso di ancorare la Gioconda a un tempo, intorno al 1505, che avrebbe permesso a Raffaello di trarne ispirazione. A quel tempo la formula "esterna" della Gioconda era già diffusa attraverso le altre opere di Leonardo, e basta riflettere sul ritratto di donna di Lorenzo di Credi a Forlì. La formula "interna", invece, è unica e irripetibile. Copie e derivazioni si formano alla superficie. Si sa che in Francia Leonardo stava ancora lavorando alla Sant'Anna, e infatti a quel periodo, dopo il 1517, appartengono gli studi per la parte incompiuta del panneggio della Vergine, quella che avrebbe lasciato intravedere attraverso i panni la meccanica della disposizione delle gambe. Non esiste alcuno studio per la Gioconda, ma i veli che la coprono hanno lo stesso carattere degli studi di panneggi eseguiti in Francia per la Sant’Anna. Sono veli che modellano, e quindi esaltano, le splendide forme da loro coperte. Basta osservare il braccio sinistro, che in una buona fotografia si vede tutto, fino al gomito e oltre. Non una delle quaranta e più copie conosciute riproduce questo particolare. Sebbene vestita, la Gioconda si rivela nella pienezza della sua costituzione anatomica. Lo stesso può dirsi di un disegno a carboncino a Windsor, tardissimo, rappresentante una giovane donna in piedi in un paesaggio di rocce, acque e piante. Il volto, illuminato da un ineffabile sorriso, è quello della Gioconda, i capelli sollevati al vento, le vesti leggere agitate come le nuvole negli ultimi disegni del Diluvio. Un braccio è sollevato al petto a trattenere un lembo della veste, l’altro è teso a indicare uno spazio lontano, in profondità. Se Walter Pater avesse conosciuto questo disegno al tempo della sua celebre descrizione della Gioconda, non avrebbe mancato di riconoscervi lo stesso personaggio del ritratto del Louvre, personaggio che già gli era apparso in rapporto simbolico con Leda, madre di Elena di Troia, e Sant’Anna, madre di Maria, quasi a suggerire che nell’opera pittorica di Leonardo—concettualmente come stilisticamente—la Leda e la Sant’Anna non potevano che aver preceduto la Gioconda. Sembra anzi che intorno al 1515 Leonardo stesse ancora lavorando alla Leda, della quale si trova appunto un piccolo schizzo su un foglio di studi geometrici di quel tempo nel Codice atlantico (foglio 156 recto-b). E su un foglio della stessa serie di studi geometrici, pure nel Codice atlantico (foglio 315 recto-a), databile con precisione fra il 1515 e il 1516, si trova un disegno a penna di un occhio accanto a una caduta di capelli ondulati, proprio come nella Gioconda. È come una riflessione grafica, soprappensiero, su un particolare ipnotico del dipinto appena terminato. L’ormai vecchio.pittore, non più "impacientissimo al pennello", è ritornato alla pittura, e prova eloquente ne è fornita dalla grande quantità di note sulle piante e il paesaggio nei manoscritti più tardi, in particolare in due di quelli di Francia, i codici E e G, entrambi databili nel periodo 1510-1515, nonché in numerosi fogli dello stesso tempo nel Codice atlantico. Uno di questi (il foglio 184 verso-c), oltre a due note sui colori e sugli effetti atmosferici nel paesaggio, ne contiene una intitolata Vita del pittore ne’ paesi, con la parola "filosofo" (cioè studioso della natura) cancellata, dopo "pittore". È una straordinaria confessione autobiografica che getta luce sui rapporti di Leonardo coi suoi aiuti e allievi e che va meditata tenendo in mente la Gioconda: "Al pittore è necessario le matematiche appartenente a essa pittura e la privazione di compagnie che son alieni dalli loro studi; e cervello mutabile secondo la direzione delli obbietti che dinanti se li oppongono, e remoti da altre cure. E se nella contemplazione e difinizione di un caso se l’interpone un secondo caso, come accade quando l’obbietto muove il senso, allora di tali casi si debbe giudicare quale è di più faticosa difinizione e quel seguitare insino alla sua ultima chiarezza e poi seguitare la definizione dell’altro. E sopra tutto essere di mente equale alla natura che ha la superfizie dello specchio, la quale si trasmuta in tanti vari colori, quanti sono li colori delli sua obbietti. E le sue compagnie abbino similitudine co’ lui in tali studi e, non le trovando, usi con se medesimo nelle sue contemplazione, che infine non troverà più utile compagnia". Verrà forse il giorno in cui anche la Gioconda sarà saggiamente restaurata (ma forse sarebbe più saggio non toccarla) per far sì che possa tornare a risplendere nella luminosità dei colori voluti da Leonardo, intensi e vaporosi nella lontananza, squillanti e accesi nella monumentale presenza in primo piano. E si potrà confermare che la chiave di lettura è proprio nel gioco delle forme coperte dai veli: quel miracolo di "velazioni di colori", cioè velature, di cui si parla con insistenza nel Trattato della Pittura, e che i moderni interpreti non hanno capito, dal momento che hanno proposto di leggere: "relazioni di colori". E intanto il più celebre dipinto del mondo continuerà a essere oggetto di ipotesi e illazioni. L’espressione del volto e il carattere delle mani hanno perfino fatto pensare che si tratti di una donna incinta. Eppure, di tutte le interpretazioni che si sono avute, dai morbosi entusiasmi dei decadenti nell’Ottocento fino alle recentissime manipolazioni col computer, forse questa è ancora quella che meglio risponde a ciò che si sa dell’ultimo Leonardo, collocandosi nel contesto dei suoi studi embriologici del 1510-1513, e di quelli di geologia dello stesso periodo, che insistono sul concetto della vita umana rapportata a quella della terra. Ma Leonardo non è solo filosofo naturale, in senso aristotelico. È anche poeta, nel senso di sapere evocare i sogni e le immagini dell’infanzia. E così anche Freud potrebbe avere ragione nel riconoscere nella Gioconda un ritratto ideale della madre di Leonardo.
Curiosità
Il marchese de Sade la considerava la "quintessenza della femminilità" e si sentiva eccitato dalla sua "devota tenerezza". Napoleone la chiamava "Madame Lisa" e per quattro anni, dal 1800 al 1804, la tenne nella sua stanza da letto alle Tuileries: la considerava "la Sfinge dell’Occidente". La Gioconda era già allora uno dei quadri più copiati al mondo: fin dal Cinquecento, era stato ripreso in copie che ne ripetevano l’intera composizione o la sola figura, o il busto vestito in abiti moderni (Gioconda con corsetto), oppure con il seno scoperto, spesso sotto le sembianze di Flora (Gioconda nuda). Con l’esposizione al Louvre, avvenuta nel 1804, La Gioconda diviene il ritratto femminile per eccellenza: da Proud’hon (Madame Jarre, 1821) a Corot (Donna con perla, 1858-1868), i pittori francesi guardano con occhi trasognati a quel modello lontano e irraggiungibile. È il momento della "Giocondolatria": il volto di Monna Lisa viene diffuso attraverso le riproduzioni a stampa, e nei Salon sono esposti quadri storici a lei dedicati privi di ogni storicità: uno dei più noti è Leonardo da Vinci che dipinge il ritratto della Gioconda di Aimée Brune-Pagès, presentato nel 1845 e diffuso da un’incisione di Allais. La venerazione degli artisti corrisponde a quella manifestata negli stessi anni dagli scrittori. Théophile Gautier ne descrive "...l’espressione, saggia, profonda, vellutata, piena di promesse, ti attrae irresistibilmente e ti avvelena, mentre la bocca sinuosa, serpentina, sollevata agli angoli, nelle ombre viola, si prende gioco di te con tale delicatezza, grazia e superiorità che ti senti improvvisamente intimidito, come uno scolaretto di fronte ad una duchessa". Jules Verne le dedica nel 1874 una commedia, e Walter Pater le dona sembianze di "femme fatale": "La sua è la testa sulla quale "confluiscono tutte le fini del mondo" e le sue palpebre sono un po’ stanche. [...] Tutti i pensieri e le esperienze del mondo sono state concepite e nutrite lì, in quanto hanno avuto il potere di raffinare e di rendere espressiva la forma esteriore, l’animalità della Grecia, la sensualità di Roma, il misticismo del Medioevo con le ambizioni spirituali e gli amori dell’immaginazione, il ritorno al mondo pagano, i peccati dei Borgia. Essa è più antica delle rocce tra le quali siede; come il vampiro è morta molte volte e ha appreso i segreti della tomba; e si è tuffata in mari profondi". Crudele nell’indifferenza è anche La Gioconda di Hugo von Hofmannsthal, che ne Il folle e la morte (1893) dialoga con un volto lontano: "Gioconda, tu che un fascino segreto / fa radiosa nel giuoco delle membra, / nell’acerba dolcezza delle labbra, / nel peso delle palpebre già gravi / di sogni: tu mi hai dato della vita / solo quello che ho osato domandarti". Il passo successivo è la demonizzazione letteraria: Edward Forster, in Camera con vista (1908), parla di "sorriso machiavellico", Aldous Huxley in Mortal Coins (1922) vede nel suo sorriso la maschera ingannatrice di una donna vendicativa, fino all’interpretazione di Lawrence Durrell, che in Justine (1957) scrive del "sorriso di una donna che ha appena finito di divorare il marito a cena". Ma siamo appunto nel Novecento, il secolo della "Giocondoclastia", in cui Monna Lisa viene esposta alle manipolazioni pubblicitarie, alle caricature e diviene uno degli stereotipi del kitsch. La sua vicenda in questo secolo inizia con i clamori di un fatto criminale: viene infatti rubata dal Louvre il 21 agosto 1911 da un operaio italiano, Vincenzo Peruggia, che per due anni la tiene nascosta sotto il letto. In quella vicenda sono implicati anche due personaggi illustri, il poeta Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso. Apollinaire aveva infatti come segretario un belga, tale Gery, che aveva rubato delle statuette al Louvre, e due le aveva vendute a Picasso. Forse anche un po’ mitomane, Gery fugge dopo aver scritto alla polizia di essere l’autore del furto della Gioconda. Il 7 settembre 1911, Apollinaire, sospettato di complicità, è arrestato e anche Picasso viene convocato. Solo allora il belga in fuga confessa l’invenzione dell'atto criminale. La vicenda è accompagnata da un fiorire d'immagini di Monna Lisa: le attrici si fanno fotografare abbigliate all’uopo, le cartoline postali diffondono l’immagine di una Gioconda nostalgica del suo posto al Louvre. D’Annunzio, intanto, canta il volto perduto nella lirica Anima con le labbra, pubblicata il 25 agosto 1911, pochi giorni dopo il furto, sulla prima pagina di "Il Giornale d’Italia"; ancora nel 1920 - la Gioconda era già tornata al suo posto -, durante l’impresa di Fiume, pensa di dedicare all’evento un film, L’uomo che rubò la "Gioconda": come la poesia, termina con la frase mormorata da quel sorriso inesplicabile: "Non saprai giammai perché sorrido". Il quadro viene recuperato nel 1913 (un racconto magistrale del ritrovamento è di Leonardo Sciascia, 1912+1, pubblicato nel 1987) e, scortata da un seguito di dignitari, La Gioconda torna in Francia in uno scompartimento speciale dell’espresso Milano-Parigi. Il 4 gennaio 1914 è ricollocata al Louvre. Ma ormai La Gioconda è stata violata, e presto diviene la protagonista di un romanzo di cappa e spada, Les Amours de François Ier et de la Joconde. Gli artisti delle avanguardie iniziano a inserirne il volto nelle loro composizioni: Kazimir Malevic nel 1914 lo "sfregia" con due croci nel collage Composizione con la Gioconda; nel 1919 Marcel Duchamp elabora la sua Gioconda baffuta accompagnata dal motto osceno L.H.O.O.Q. ("Elle a chaud cul", lei ha caldo…). Nel 1925 Max Ernst realizza una foto che ritrae soltanto gli occhi, con il disegno di una striscia di paesaggio, e nel 1929 Salvador Dalí la inserisce nel suo Monumento Imperiale alla Donna-bambina; anni dopo, nel 1954, un montaggio fotografico di Philippe Halsmann, presenterà Dalí con le sembianze di Monna Lisa. Del 1930 è il dipinto di Fernand Léger Gioconda con chiavi: il suo volto è ormai un oggetto come un altro, uguale a un mazzo di chiavi. Sono gli anni in cui La Gioconda entra nel mondo della canzone: nel 1934 Cole Porter in You’re the Top la colloca tra i vertici della civiltà, con il Mahatma Gandhi, Topolino e il formaggio Camembert; nel 1949 Jay Livingston e Ray Evans le dedicano il famoso motivo Mona Lisa. L’America si impadronisce del mito della donna più sfuggente dell’arte: nel 1958 Robert Rauschenberg compone il suo Mona Lisa; nel 1963 Andy Warhol realizza una serie di serigrafie con il suo volto, tra cui Trenta sono meglio di una; e nel 1969 Jasper Johns la inserisce in Color Numerals: Figure 7. Intanto, La Gioconda approda negli Stati Uniti: nel 1963 è imbarcata sul transatlantico "France" ed esposta alla National Gallery di Washington e al Metropolitan Museum di New York: poiché era stata affidata ufficialmente in custodia al Presidente, John F. Kennedy, è protetta per tutto il tempo da un distaccamento speciale dei Servizi segreti.

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