L'amicizia

Materie:Appunti
Categoria:Ricerche

Voto:

1.5 (2)
Download:1036
Data:15.02.2001
Numero di pagine:24
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
amicizia_1.zip (Dimensione: 20.96 Kb)
trucheck.it_l-amicizia.doc     107.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

Sapienza antica e celebrazione dell'amicizia

l'amicizia ha sempre rivestito grande importanza e attirato l'attenzione degli autori, in tutte le epoche e civiltà, che l'hanno vista come la più evidente manifestazione dell'amore.
In origine, nel pensiero di estrazione classica, l'amicizia si presenta con una decisa connotazione "guerriera", in un tempo - come quello di Omero - in cui i rapporti erano su di un piano di amicizia della pólis, in cui la solidarietà viene ad essere sempre più necessaria. Nel campo e di inimicizia; e successivamente "politica", in un tempo, come quello filosofico, secondo Giamblico, fu Pitagora ad aver coniato il termine amicizia, insegnandola da parte degli dei verso gli uomini, degli uomini fra di loro, dell'uomo verso la donna, i figli, i fratelli, i parenti.
I fisici greci (V sec. a.C.), invece, ne fornivano una spiegazione puramente meccanicistica: la philía non era altro che la forza cosmica positiva che presiedeva all'unione dei corpi.
Tra i tragici greci chi riserva uno spazio maggiore al nostro tema, tanto da farne l'argomento dominante di una sua tragedia, l'Oreste, è Euripide, nel quale possiamo ritrovare ancora l'amicizia come solidarietà guerriera (Oreste-Pilade), ma nello stesso tempo anche il suo superamento.
Bisognerà arrivare a Socrate, dopo una certa anticipazione già nei Sofisti, per applicare l'amicizia alle persone, o per meglio dire alla psyché, che era l'elemento più intimo dell'uomo. Platone, discepolo di Socrate, dedica un dialogo - il Liside - interamente al nostro tema, esprimendo bene quanto forte possa essere e diventare il desiderio di avere una persona amica, tanto da anteporre questa a qualsiasi altra. Il desiderio dell'amicizia rende simili gli amici: è questa la straordinaria intuizione platonica (Liside 17, 221e).
Aristotele, discepolo a sua volta di Platone, dedica due libri dell'Etica Nicomachea, l'ottavo e il nono all'amicizia, ponendosi sulla scia della tradizione del suo maestro. Egli divide l'amicizia in tre generi, a seconda che sia basata sull'utilità, sul piacere e sulla virtù, ma mentre le prime due forme sono destinate a perire facilmente, in quanto fallaci, la terza è destinata a durare, perché è stabile e perfetta, la migliore possibile. Nell'Etica Eudemia essa viene chiamata significativamente "la prima", con un chiaro riferimento al discorso platonico sul próton phílon del Liside (220d); ma anche nell'Etica Nicomachea viene considerata amicizia perfetta (teleía) (E 1156 b 34). Sue caratteristiche e doti sono la sincerità, la fedeltà, il disinteresse, mentre suoi rivali l'egoismo, la finzione, l'adulazione.
"Tra le diverse amicizie la più profonda, la più vera è quella che nasce dalla comune aspirazione alla virtù" (Et. Nic. 8,6, 1202).
Lo Stagirita sicuramente raggiunge il suo livello più alto di speculazione quando parla della philautía, o amor di sé, di cui vien detto che esso solo rende possibile l'amicizia (philía) completa.
Nell'ellenismo
L'età ellenistica si presenta con caratteristiche strutturali del tutto differenti rispetto all'età ellenica: si assiste al crollo dell'importanza socio-politica della pólis, alla separazione uomo-cittadino, etica-politica; per la prima volta scompare la dipendenza dell'etica dalla politica per sistemarsi e definirsi come realtà autonoma; ci troviamo di fronte alla scoperta dell'individuo come categoria primaria dell'essere umano.
Epicuro ha una concezione profondamente diversa da quella platonico-aristotelica, che considerava l'amicizia perfetta contrapposta a quella utilitaristica: egli esalta l'amicizia come una virtù straordinaria, capace persino di elevare l'uomo al di sopra del proprio dolore.
"Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l'acquisto dell'amicizia" (Massime capitali 27), e subito dopo: "La sicurezza più grande che si attui nelle cose finite è quella dell'amicizia" (ibid. 28).
Un aspetto particolarmente sentito da Epicuro, e che - paradossalmente - lo avvicina al monachesimo cenobitico cristiano, è quello "comunitario" dell'amicizia, tanto che Diogene Laerzio non esita ad asserire che il numero dei suoi amici nel Képos è "tale che non potrebbero essere rintracciati e contati in intere città" (Vite dei filosofi 10, 9).
In definitiva, crediamo che la concezione epicurea di philía è quella che maggiormente si avvicina alla nozione cristiana successiva di agàpe, anche per quanto concerne un certo tipo di legame tra comunità antica e cenobio cristiano, pur nei termini della differenza tra sapienza profana e religiosa.
Lo Stoicismo considera l'amicizia tripartita, secondo la tradizione aristotelica, ma lo fa però attuando una diversa partizione, perché una è quella basata sulla virtù, che a sua volta deriva dalla ragione; la seconda è quella basata sullo scambio reciproco e perciò sull'utilità; la terza è quella che deriva dall'abitudine. Si può sostenere che laddove l'epicureismo abbia rappresentato una certa forma di apertura verso un'idea di amicizia personale, lo stoicismo abbia prospettato una particolare dimensione di solidarietà, ciò ovviamente detto non nel senso di una presenza totale ed esclusiva, quanto piuttosto di una significativa accentuazione.
Plutarco di Cheronea parla dell'amicizia in almeno tre trattati dei Moralia: Sul numero degli amici, Sul come distinguere l'adulatore dall'amico, Sull'amore fraterno. Nella prima opera, con molta saggezza, ci ricorda che la "moneta" con la quale si può "comprare" l'amicizia è solo "la benevolenza e la grazia congiunta con virtù", "perché la vera amicizia vuole tre cose, la virtù come onesta, la conversazione come dilettevole, e l'utilità come necessaria". Secondo lui vera amicizia è quella basata su un'"uguaglianza di interessi e di costumi" e non può essere tra molti, bensì tra pochi: ne sono testimonianza e memoria storica le "coppie" di amici: Teseo-Piritoo, Achille-Patroclo, Oreste-Pilade, Damone-Pitia, Epaminonda-Pelopida; su questo punto Plutarco si pone in perfetta sintonia di intenti con la tradizione platonico-aristotelica.
Luciano di Samòsata, invece, dedica al nostro tema il Toxaris o Sull'amicizia, un dialogo in cui, attraverso un racconto, ci presenta l'amicizia come la cosa "ammirata al di sopra di ogni altra" (cap. 7), riprendendo quella dimensione tipicamente passionale dell'amicizia che la riflessione filosofica greca aveva un po' messo da parte.
La cultura dell'amicizia a Roma

Oltre che il mondo greco, anche quello romano è ricco di esempi di amicizie significative: Eurialo e Niso, Enea e Pallante, Blossio e Gracco, Scipione e Lelio, Attico e Cicerone. È proprio quest'ultimo l'autore che più di tutti gli altri offre delle pagine stupende sul nostro tema, al punto da dedicare ad esso un'intera opera: Sull'amicizia, scritta nell'estate del 44. Un vero capolavoro letterario e contenutistico.
"L'amicizia non è altro che un perfetto accordo di tutte le cose divine e umane, accompagnato da benevolenza e amore" (cap. 6) e subito dopo: "eccettuata la sapienza, è questo il dono più grande che gli dei immortali abbiano fatto all'uomo" (ibid.). Tutti gli altri beni: la ricchezza, la salute, la potenza, gli onori, i piaceri sono caduchi e incerti, solo l'amicizia è duratura, perché è basata sulla virtù e senza di essa non può esistere. "L'amicizia, dunque, racchiude in sé moltissimi e grandissimi vantaggi, ma ce n'è uno che, senza dubbio, li supera tutti: essa irradia nell'avvenire la luce di liete speranze e non permette che l'animo si stanchi e cada a terra. Chi fissa lo sguardo in un vero amico, scopre, per così dire, un altro se stesso. Per questa ragione l'amico, assente, è presente; povero, è ricco; debole, è forte, e, cosa incredibile a dirsi, morto, rivive: tanto grande è il rispetto, il ricordo e il rimpianto con cui l'amico accompagna l'amico" (cap. 7).
Emerge un punto centrale nell'idea ciceroniana di amicizia: essa non nasce dall'utilità, dal bisogno, ma dalla sua stessa natura, e poiché la natura non può mutare, ecco che le vere amicizie sono eterne. Cicerone raggiunge qui un livello straordinario di riflessione: la natura ci ha dato l'amicizia, non come complice del vizio, ma come fautrice della virtù. In essa vanno tenuti fermi due principi: il bando di ogni finzione e simulazione e il rifiuto delle accuse rivolte all'amico, come pure il trattenersi da eventuali sospetti nei suoi confronti; un requisito fondamentale è che il superiore si faccia uguale all'inferiore, in modo che chiunque abbia raggiunto qualche merito di virtù, ingegno, fortuna, lo metta in comune con gli altri. L'opera si chiude con un consiglio che l'autore dà a tutti: "ponete in alto la virtù, necessario presupposto dell'amicizia, così in alto che, assunta quella come supremo dovere, teniate l'amicizia per la più nobile cosa del mondo" (cap. 27).
Oltre Cicerone, troviamo altri autori nel mondo romano che delineano o sviluppano il nostro tema: da Virgilio che l'ha narrata nelle pagine di Eurialo e Niso (libro V e IX dell'Eneide) agli elegiaci Tibullo e Properzio, da Orazio che narra il suo legame amicale con Mecenate "dulcis amicus", a Seneca.
L'idea di amicizia, così come emerge dal mondo classico, è quella di un sentimento personale, basato fondamentalmente sull'acquisizione della virtù, che diventa poi trasmissione di tipo relazionale (da questo punto di vista non è lontana dal pensiero cristiano) e quindi fondazione di veri e propri gruppi amicali; ma esiste anche un ulteriore elemento, degno di interesse, ed è quello relativo al rapporto che si instaura tra amicizia e sapienza, perché, com'è noto, l'amicizia può esistere solo tra buoni e tali sono soprattutto, o prima di tutti gli altri, i sapienti.
Quando al sapiente Zenone di Cizio fu chiesto: "Che cosa è un amico?", egli rispose: "Un altro me stesso" (Diogene Laerzio, Vite 7, 23), a dimostrazione anche dell'uguaglianza di condizione; perciò l'amicizia diventa nel pensiero antico un parametro essenziale di riferimento per qualsiasi tipo di legame relazionale. La strada verso la carità cristiana è aperta!
L'AMICIZIA NELLA SACRA SCRITTURA
Sicuramente la Sacra Scrittura costituisce un'inesauribile miniera di insegnamenti sull'amicizia, sia a livello di rivelazione vetero che neo-testamentaria.
È importante precisare che la lingua ebraica non possiede un termine specifico per indicare l'amicizia e che soltanto in quella greca esiste un "vocabolario" - per così dire - "amicale" che riesce ad esprimere i diversi termini usati in ebraico.
L'Antico Testamento si presenta dominato da un'amicizia straordinaria, quella tra Davide e Gionata, che occupa ben tre capitoli del 1 Libro di Samuele: 18-19-20. I due stringono un patto (1 Sam 20, 14-16), gesto caratteristico di chi si ama e vuole suggellare così il sentimento che lo lega all'altro, scambiandosi tutto: persino gli abiti e le armi (1 Sam 18, 4).
"Gionata lo amava come se stesso" (1 Sam 19-20), con accenti di tenerezza e delicatezza, fino alla morte (2 Sam 1, 25-26), quando Davide piange per la perdita dell'amico. Il suo legame con lui era superiore sia a quello familiare (cfr. Prov 18,24) che a quello dell'amore per una donna (2 Sam 1,26), evidenziando in tal modo che la consistenza ontologica del legame amicale è addirittura superiore a quella dell'amore, e continuerà a vivere nel ricordo personale (2 Sam 9,1; 21,7).
Neanche la morte può far cessare una vera amicizia: questa durerà per sempre, sia nel tempo che nella memoria, tanto che Davide continuerà a sentire dentro di sé il dolore del distacco di Gionata.
Comunque questo di Davide e Gionata non è l'unico esempio di amicizia narrato dall'Antico Testamento; va ricordato anche quello tra Noemi e Rut (Ru 1, 16-17).
Il linguaggio sapienziale dei Proverbi e del Siracide è particolarmente ricco di riferimenti al nostro tema. Un amico vuol bene sempre, è nato per essere un fratello nella sventura (Prov 17,17); l'amicizia, se è vera, può essere più forte di un legame tra fratelli (Prov 18,24; 27,10).
La dolcezza e la tenerezza di una persona cara possono essere di conforto all'anima (Prov 27,9) e persino le ferite, se provengono da un vero amico, possono essere utili e hanno più valore dei falsi baci di uno che amico non è (Prov 27,5-6); ma l'amicizia è anche qualcosa di particolarmente delicato che deve essere custodita con tanta cura, per evitare che si possa in qualche modo sciupare (Prov 17,9), anzi deve essere subito pronta a scusare qualsiasi offesa (Prov 10,12).
L'autore del Siracide, Ben Sira, invita a mettere alla prova l'amico (6,7), senza fidarsi immediatamente, perché al momento della ricchezza e della comodità si possono trovare tante persone amiche, che però vengono meno nelle avversità (6, 8-12; cfr. anche Prov 14,20; 19,4.6).
Il criterio per distinguere un vero amico è la presenza nella prova (Giob 2, 11-13), perciò non ci si deve dimenticare dell'amico che si è mantenuto fedele (Giob 37,6).
Per l'autore del Siracide la fedeltà nell'amicizia è balsamo di vita (6,16) e protezione potente (6,14); la pietà, poi, è garante della vera amicizia: i due tenderanno ad assomigliarsi e a fondersi (Sir 6,16-17); perciò il modello della vera amicizia è quella che Dio stringe con l'uomo giusto (Prov 3,32): con Abramo (2 Cron 20,7; Is 41,8; Gen 17,2.7; 18,17-19), con Mosè (Es 33,11), con i profeti (Am 3,7). E la vera sapienza non può far altro che attirare l'amicizia di Dio (Sap 1,6; 7,23).
In due si è sempre meglio: se uno cade, c'è sempre l'altro che aiuta a rialzarsi (Qo 4,9-12).
La confidenza è una delle peculiari caratteristiche dell'amicizia (Sir 6,6b); la custodia di un segreto rientra nei suoi "doveri": il venir meno, ossia lo svelare un segreto equivale a porre fine all'amicizia (Sir 22,22; 27,16-21; Prov 11,13; 20,19; 25,9); peggio ancora l'offesa (Sir 22,20.22) e la calunnia (Prov 16,28).
Bisogna davvero essere prudenti nella scelta degli amici, perché a volte essi possono rivelarsi falsi (Sir 6,8-13; 12,8-13; 37,1-5; Ger 9,3; 20,10) e le amicizie fonte di profonda delusione (Giob 6,15-30), sofferenza (Zac 13,6) o addirittura di incitamento al male (Deut 13,7-9; 2 Sam 13,3-15) e perciò di tradimento (Lam 1,2).
Anche l'amico più intimo può, ad un certo punto, levarsi contro di noi: è questo il grido del Salmista (Sal 41,10; 55,14-15), ed anche dei profeti (Abd 7; Ger 9,3; 20,10).
Filone Alessandrino (30 a.C.-45 d.C.) sicuramente è il maggior esponente del giudaismo ellenistico, impegnato a coniugare le idee espresse dalla cultura greca sul nostro tema con quelle dell'Antico Testamento: la vera amicizia per lui è quella che si instaura tra Dio e i profeti, vale a dire coloro, in particolare Mosè e Abramo, i quali parlavano in suo nome, in quanto erano a conoscenza dei suoi disegni; e questo era il modo privilegiato per indicare l'amicizia tra Dio e i giudei.
L'esperienza dell'amicizia nel Vangelo

Dunque l'amicizia nell'Antico Testamento occupa un posto di un certo rilievo, posto che si rafforza ancor maggiormente nel Nuovo Testamento dove Gesù viene presentato come il vero amico. Tutto ciò che era stato detto nella rivelazione vetero-testamentaria trova in Gesù il suo perfetto compimento; egli non ha tanto teorizzato l'amicizia, l'ha vissuta con una straordinaria tenerezza: si pensi a quella per Giovanni (Gv 13,23; 21,7a.20), per Lazzaro (Gv 11,3.5. 11,35-36), per Marta e Maria (Gv 11,5), per la donna peccatrice (Lc 7,36-50).
Gesù instaura con i suoi amici un legame nuovo, mai vissuto in precedenza: "Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi" (Gv 15,15); egli ha fatto dono ai suoi amici di ciò che è lui stesso: l'amico infatti viene reso partecipe di tutto quanto riguarda il Padre, mentre invece il servo non sa nulla del suo padrone; Gesù è perciò l'intermediario dell'amicizia fra l'uomo e Dio.
Si tratta di un'amicizia diversa da quella umana, dove gli amici sono sullo stesso piano, ed esige un alto prezzo: l'osservanza dei comandamenti divini, in particolare dell'amore al prossimo (Gv 15,14).
L'amicizia è elezione gratuita da parte di Gesù (per questo non potrà mai partire da un'uguaglianza di condizione) e risposta di impegno da parte dei discepoli amici, che vengono associati alla stessa radicale idea del Maestro: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13), ed è ciò che Gesù ha fatto; perciò Egli diventa il modello dell'amicizia pura e vera, disinteressata e generosa, fino all'offerta della vita (Gv 10,11; 1 Gv 3,16); e quando Lui ritorna al Padre, non lascia soli i suoi amici, ma promette di inviare loro il Consolatore (Gv 16,7), che porterà la luce completa su quanto è ancora nascosto e proprio questo Spirito formerà nei discepoli il "cuore nuovo", di cui avevano parlato già i profeti (Ez 36,26), più conforme a quello di Cristo.
Sull'esempio di Gesù tutti i suoi discepoli diventano amici e fratelli tra loro (1 Pt 1,22; 3,8; Rom 12,10), al punto che vivono insieme, condividendo ogni cosa (At 4,32; 2,44-47), e formando un esempio di comunità fraterna unita dagli stessi ideali e valori. Si può parlare dunque di un legame amicale vissuto all'interno della comunità primitiva ecclesiale, di una concordia e di un'armonia fraterna che solo lo Spirito di Cristo può e sa suscitare. Perciò l'amicizia cristiana, in definitiva, è un'esperienza di perenne elevazione al di sopra della propria natura: con Gesù al centro il legame cresce e si rafforza nella reciproca carità; ecco dunque che nel Nuovo Testamento, pur essendo usato poche volte il termine "amicizia", esso presenta uno stretto legame con quello di "carità", fermo restando che non possono essere assolutamente intercambiabili.
Siamo d'accordo col Nygren secondo il quale, quando cominciò a presentarsi l'idea dell'agápe, il mondo era caratterizzato da un orientamento etico e religioso più che altro basato sull'eros; perciò senza dubbio l'agápe risulta essere il punto distintivo centrale del Cristianesimo.
S. Paolo, sull'esempio di Gesù, nei suoi numerosi viaggi apostolici, instaura alcuni significativi legami di amicizia, che vanno oltre la collaborazione apostolica, anzi che la completano: si pensi a quella con Barnaba, Timoteo, Filemone, Onesimo (2 Tm 1,3-4; Filem 1, 12.17).
Il testo di Rom 16,1-16 appare molto indicativo, perché Paolo usa varie volte termini come "caro", "diletto", "carissima", a dimostrazione del fatto che la collaborazione apostolica si lega ad un rapporto personale che diventa sempre più forte.
Egli usa nelle Lettere il termine "amico" molto associato a quello di "fratello", perché nel linguaggio paolino sono spesso identificati, ma anche Paolo sperimenta la fragilità umana di certi rapporti, da cui neppure lui resta esente: la solitudine che si può provare dopo che in un legame si è donato tutto (2 Tm 4,9-16), o i disaccordi che possono instaurarsi, persino con Pietro (Gal 2,11-14) o con Barnaba (At 15,36-39), vale a dire con gli amici più cari; ciò però non impedisce al vero amico di avere sempre premura per l'altro (1 Tess 2,7-12), di preoccuparsi per tutto ciò che lo riguarda, proprio come farebbe per se stesso; l'amico è davvero un altro "se stesso" (Deut 13,7; Sir 6,11) che ci permette di realizzare concretamente la volontà divina dell'amore scambievole (Gv 15,12-17; 13,34).
Si può dire dunque che l'amicizia cristiana, vale a dire l'agápe, così come emerge dai testi scritturistici, soprattutto neo-testamentari, è ben diversa da quella semplicemente umana della philía, anche se hanno manifestazioni simili; ciò che le differenzia fondamentalmente è la presenza della dimensione verticale che Gesù inserisce, incorporando la philía proprio all'interno dell'agápe e proponendo il nuovo comandamento dell'amore (e dell'amicizia) al prossimo. Ovviamente non tutti gli amici si rivelano tali: questa è stata la profezia del Nuovo Testamento (Gv 13,18) e pure l'esperienza diretta di Gesù, Giuda è un personaggio straordinariamente emblematico di un'umanità che può diventare traditrice, così come lui, dopo essere stato per tante volte accanto al Maestro, per soldi lo tradisce (Mt 26,50).
E il Vangelo, a questo proposito, giustamente, nella scelta dei termini usa il greco hetáiros, non phílos, proprio per distinguere l'amico dal compagno, che vero amico non è (cfr. Mt 20,13; 22,12); invece l'esempio di amico autentico, quello che Gesù considera tale e che propone è Giovanni, il quale resta vicino nel momento di maggior dolore: l'approssimarsi della morte e per giunta in quel modo, sulla croce, accanto alla Madre (Gv 19,26); ma la figura di Giovanni è illuminante anche perché ci attesta che nonostante la diversità di età di esperienza, di missione, l'amicizia con Gesù, che era il suo maestro, non solo fu possibile ma rispondente ad un preciso disegno del Padre celeste, così come anche quella per Pietro e Giacomo.
La Sacra Scrittura ci fornisce il parametro di un'amicizia cristianamente intesa e umanamente equilibrata; il legame puramente orizzontale non è sufficiente, è necessaria la relazione verticale per poter insieme raggiungere la Verità, cioè la croce: ecco perché l'atto estremo dell'amicizia di Gesù si coglie sul Calvario.
L'AMICIZIA NEI PADRI DELLA CHIESA

Sicuramente è del tutto innegabile l'influenza della tradizione classica sui Padri della Chiesa, alcuni dei quali hanno certamente letto, studiato e approfondito L'amicizia di Cicerone.
Fondamenti classici e scritturistici sono i punti di partenza della Patristica. I Padri della Chiesa conoscono bene il passaggio, posto su base nuova, dal Cristianesimo della philía in philadelphía (2 Pt 1,7), sull'esempio di Gesù (Gv 13,34; 17,21), che si esprime nell'agápe.
Nei primi tre secoli del Cristianesimo non troviamo esempi di amicizia vissuta, testimoniati per iscritto, ma solo qualche riferimento in una trattazione speculativa, per esempio quella di Clemente Alessandrino, il primo autore cristiano che riflette sul significato del nostro tema, a cui affida un senso filosofico e non solo religioso, ratificato - per così dire - dalla presenza del Logos, che conferisce un potere speciale agli amici di Dio, i quali sono anche suoi figli (Protrettico 12,122,3; Stromati 7,11,68,3).
Origene, fortemente assorbito dallo gnosticismo alessandrino, ribadisce la presenza del Logos come vero intermediario di ogni amicizia tra Dio e l'uomo: è proprio lui che fa diventare "amici di Dio" (Contro Celso 4,3), in modo ancora più rilevante grazie all'incarnazione in Cristo (Omelie su Ezechiele 5,2) e al dono dell'eucaristia (Commento a Matteo 11,8).
Il nome e il ricordo di Origene sono legati a quello di un suo discepolo, Gregorio detto Taumaturgo, che ha composto una vera e propria orazione panegirica nei confronti del maestro; è questo un primo esempio storico di legame, non solo culturale, che si instaura tra allievo e docente e che si pone su una linea di ideale confronto con quello in seguito stabilitosi tra un altro discente e un altro maestro: Ausonio e Paolino da Nola.
In Cappadocia
Il primo esempio invece di amicizia vissuta su un piano - per così dire - paritario ci viene offerto nel IV secolo da Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo che, insieme con Gregorio di Nissa, costituiscono la triade dei cosiddetti "luminari di Cappadocia".
L'amicizia tra Basilio e Gregorio ha certamente costituito uno dei legami umani più significativi che la Patristica ci abbia trasmesso, tanto che il Gorce a ragione ha definito il Nazianzeno "uno specialista dell'amicizia".
A dire dello stesso Gregorio, essi furono più noti delle coppie di amici del pensiero classico (orazione 43,22); la loro amicizia è stata anche storicamente la prima testimonianza di unione affidata ad una corrispondenza epistolare, soprattutto quando la presenza fisica è realmente impossibile (lettera 68,1; 195,3).
Il legame tra Basilio e Gregorio assume toni particolarmente interessanti e suggestivi, anche perché viene vissuto su due linee direttrici centrali: da un lato il tòpos della fede cristiana e dall'altro quello della cultura classica, a dimostrazione della loro profonda intersezione.
La diversità di temperamento tra i due è molto evidente: Basilio, più rigido e risoluto; Gregorio, più tenero, emotivo e sentimentale; eppure questo non impedisce loro di intessere un'amicizia molto profonda che, come ogni altro rapporto umano, è sottoposta a difficoltà, ad incomprensioni e ad ostacoli, ma non per questo viene meno.
Gregorio appare esteriormente più coinvolto dell'amico, che è invece di temperamento molto più razionale; infatti il Nazianzeno usa nelle sue lettere espressioni molto tenere, secondo alcuni forse esagerate in un contesto di amicizia, ma sempre indicative di un legame posto, senza alcun dubbio, sullo stesso piano dell'amore.
"Io respiro di te più ancora dell'aria e vivo solo quando sono insieme a te, sia in tua presenza che in tua assenza, attraverso le immagini" (lettera 6,5).
Ambrogio e Girolamo
Spunti di classicità e di cristianità si presentano mirabilmente fusi nell'opera di Ambrogio, la cui ispirazione nel De Officiis dall'omonima opera ciceroniana è indubbia, così come lo stretto legame con tutta la cultura classica, ma sicuramente nuova è l'impostazione etica fondamentalmente basata sulla rivelazione biblica.
Anche Ambrogio affonda le sue radici privilegiate nella Sacra Scrittura, ove viene giocata una straordinaria differenza: mentre la sapienza classica ha a disposizione degli esempi di maestri e amici, sempre su un piano esclusivamente umano, la sapienza cristiana ha davanti a sé un modello straordinario: quello di un Dio-uomo, che diventa amico di tutte le creature.
Ambrogio parla del Cristo come modello di uomo perfetto, di vero amico e perciò come fonte di ispirazione per ogni altra amicizia umana, perché quella del Cristo è autenticamente e totalmente generosa, disinteressata e perciò testimoniata con la propria vita.
La vera amicizia, dunque, è eterna e neppure la morte può farla finire, perché se su questa terra ad essere uniti sono i corpi, nell'altra lo saranno le anime; ma è ugualmente necessario in questa vita vivere l'amicizia secondo certi principi importanti che l'aiuteranno a crescere e ad essere custodita per l'eternità: anzitutto la fedeltà (lettera 43,7) e la condivisione reciproca (I doveri 3,22,128-129) che portano all'accettazione di qualche sacrificio per l'amico, alla sopportazione di inimicizie o di maldicenze e soprattutto alla dimostrazione di una presenza viva nelle avversità (I doveri 3, 22, 129).
La sincerità, la verità nell'amicizia devono essere testimoniate anche a rischio di suscitare nell'amico offesa: la verità ha un suo prezzo che deve essere pagato, ma vale molto più di ogni fallace adulazione (I doveri 3,22,127; 133-134); ciò che più conta nell'amicizia è la salvezza spirituale, perché l'esperienza di condivisione con l'amico deve portare proprio a questo: a salvarsi insieme (lettera 40, 25.28).
Girolamo è portato, per il suo temperamento abbastanza difficile, ad intessere amicizie più femminili che maschili, probabilmente perché con le donne instaura un rapporto di tenerezza, al di fuori di ogni competizione, così come poteva capitare con gli uomini.
Invitato a Roma nel 382 dai vescovi Paolino di Antiochia ed Epifanio di Salamina, lavora molto per la diffusione della vita monastica soprattutto all'interno degli accurati ambienti femminili dell'aristocrazia romana; intesse delle amicizie con la vedova Marcella, la giovane Eustochio, la sorella di questa Blesilla, la madre Paola, Asella.
Un cenno particolare va riservato al legame amicale con Paola; è Girolamo stesso che afferma di non poter contare le lettere da lui inviate a Paola, perché le scriveva ogni giorno, evidenziando un'affinità e una sintonia spirituali non comuni.
Sicuramente Girolamo nel vivere le sue amicizie non ha avuto vita facile - oltre che con Rufino di Aquileia, anche con Ambrogio i rapporti sono stati abbastanza tesi, perché Girolamo non gli ha mai perdonato di non averlo protetto durante i contrasti sorti a Roma; ugualmente l'amicizia con Agostino, col quale si scambierà diverse lettere, è per lui motivo di sofferenza (lettere 67, 73, 82 di Agostino; 72 di Girolamo); ma nonostante questi diverbi e queste difficoltà il Nostro mostra di credere molto alla vera amicizia che non può mai venir meno, perché "l'amicizia che può finire, non è mai stata vera" (lettera 3, 6).
L'amicizia come agape: Giovanni Crisostomo
Una dimensione meno personale e più comunitaria assume invece l'amicizia in Giovanni Crisostomo, vista sempre nella prospettiva dell'agape e, proprio in tale contesto, egli chiamerà a testimoniare San Paolo, da lui considerato un punto di riferimento centrale per il discorso neotestamentario sull'amicizia.
Nel Commento alla I lettera ai Tessalonicesi troviamo delle pagine stupende, con una serie di spunti di riflessione davvero preziosi: la gioia che tale rapporto procura, la fedeltà all'amico, il piacere della condivisione e così via.
Certamente Giovanni, quando parla di amicizia, lo fa sia perché ha alle spalle una notevole cultura classica e sia perché ha fatto esperienza di alcuni legami fin dall'adolescenza; il modello per lui è quello che si instaura anzitutto tra le Persone trinitarie (il primo vero esempio di amicizia) e poi quello che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli (Gv 15,14-15).
Con molta forza egli sottolinea la necessità di rompere i rapporti quando questi diventano occasioni di scandalo (Omelie su Giovanni 57, 3); la carità deve essere estremamente connessa all'amicizia, anzi si può dire che essa sia il suo luogo privilegiato.
L'Epistolario del Crisostomo può a ragione esser ritenuto un meraviglioso trattato sull'amicizia cristiana. Giovanni, anche se in esilio, dimostra attraverso la corrispondenza, che è l'unica sua possibilità di corrispondenza (il "secondo battello"), di non smettere mai di pensare ai suoi cari amici lontani, e solo la corrispondenza epistolare può supplire alla separazione fisica, da lui profondamente sofferta.
Bene la Callegari ha messo in evidenza il metodo adottato dal Nostro nello scambio epistolare: egli sempre insiste sulle qualità personali dei suoi destinatari, facendo loro prendere coscienza delle potenzialità possedute, secondo un certo schema maieutico di socratica memoria. Un significato speciale assume la corrispondenza con Olimpiade, diaconessa e sua amica, che è rimasto nella storia come un esempio al tempo stesso di direzione, di forte amicizia spirituale e di collaborazione apostolica. La loro amicizia si consolida nell'arco di dieci anni e - come prevedibile - viene anche calunniata, ma il loro legame resiste alle chiacchiere, anzi si rafforza sempre di più.
Il legame tra Giovanni e Olimpiade si basa sulla confidenza (lettera 80), sull'incoraggiamento di lei, pervasa da una profonda tristezza (athumía) ma anche sulla condivisione delle cose più quotidiane: dalla salute ai medicinali da assumere, alle difficoltà del viaggio (lettera 13), proprio a testimonianza di una profonda umanità da parte del Nostro.
Un interessante binomio, amicizia-conversione, troviamo svolto in due autori estremamente rappresentativi della Patristica: Paolino di Nola e Agostino di Tagaste. In entrambi certamente possiamo e dobbiamo distinguere due fasi: quella precedente e quella successiva alla conversione; solo che, per dirla con il Fabre, mentre in Agostino il passaggio è costituito dal binomio carne-spirito (in Girolamo dal binomio cultura pagana-cultura cristiana), in Paolino è dato proprio dal binomio amicizie precedenti-vita nuova.
Un tipico esempio di legame precedente che viene rotto, a motivo della scelta di fede di Paolino, è quello col maestro Ausonio, il quale non gli perdonerà mai l'abbandono dei vecchi ideali (lettere 27-29) e al quale Paolino risponderà (carme 11) con parole di stima profonda e di amicizia vera, ma nello stesso tempo il Nolano sa bene che la conversione alla fede cristiana rappresenta una linea spartiacque rispetto all'esistenza precedente e che da quel momento le sue amicizie devono essere nuove e vissute su un piano completamente nuovo: quello dello "spirito" (lettera 2,3.5).
Di notevole interesse sono le relazioni amicali epistolari del Nostro: quella con Girolamo, e soprattutto quella con Agostino, il quale tesserà un bell'elogio dell'amico Paolino ne La Città di Dio (1,10,2).
Agostino: l'amicizia in Cristo

Agostino di Ippona sicuramente è quello che ha avuto un maggior numero di amici, così come ci testimonia la McNamara; la sua formazione classica e specificamente ciceroniana ha sicuramente rafforzato in lui la convinzione che l'amicizia è il più forte fra tutti gli affetti umani, ed è per questo che ha tanti amici dalla fanciullezza (Confessioni 1, 9, 15.10, 16-19, 30) e adolescenza (Confessioni 3,3,6; 2,1,1), fino a giungere all'amico rimasto ignoto di cui ci parla nel IV libro de Le Confessioni (4,4,7), la cui perdita rappresenta per il Nostro un'atroce disperazione.
La svolta decisiva che segna il passaggio dalle amicizie giovanili a quelle della maturità è costituita dalla conversione: dopo di essa Agostino capisce che non può esserci alcuna amicizia se non in Cristo.
Il monastero di Ippona può essere considerato un "cenacolo" di amici, sotto la guida sapiente di Agostino, il quale non vuole che i suoi amici dipendano da lui. I tratti umani, per così dire, dell'amicizia in Agostino si coniugano, anzi si completano con l'idea di carità, non particolare, ma universale; dopo che lui, da uomo, da laico, ha sperimentato la forza "orizzontale" dell'amicizia umana, così pur straordinariamente capace di unire due persone, da monaco e da vescovo sperimenterà altrettanto fortemente la dimensione "soprannaturale" dell'amicizia: "Felice chi ama l'amico in Te! L'unico a non perdere mai un essere caro, è colui che ha tutti cari in Colui che non si può perdere" (Confessioni 4,9,14).
Nelle comunità monastiche
All'interno della tradizione occidentale, almeno fino al tardo medioevo, l'amicizia fu essenzialmente un fenomeno monastico.
Fin dagli inizi del monachesimo infatti l'amicizia ha rappresentato un'esigenza fondamentale sia del cenobita che dell'anacoreta: è per questo che si sono stabiliti spesso dei legami profondi di amicizia tra discepoli e padri spirituali, non esistendo la possibilità di intessere rapporti con altre persone.
Nella tradizione occidentale possiamo trovare numerosi esempi di amicizia tra monaci, monache o anche tra monaci e monache, testimoniata da una corrispondenza che assume spesso dei toni di ineffabile tenerezza e che riesce a compensare la notevole distanza che separa le persone e che permette alla direzione spirituale, iniziata precedentemente, di proseguire, nonostante la separazione fisica.
Isidoro di Pelusio sviluppa il risvolto, per così dire sociale, dell'amicizia, tematizzando il trinomio amicizia-carità-giustizia. Il vero amico è anzitutto amico di Dio, nel senso che segue i suoi comandi e li vive, e perciò li propone agli altri con forza; l'odio per l'ingiustizia e l'amore della verità rafforzano l'unione. Il modello è sempre quello trinitario: la relazione e la comunione tra le persone divine diventa il criterio a cui riferire ogni relazione umana; per questo l'amicizia emerge anzitutto come un cammino; non nasce già completa e perfetta, ma ha un costante bisogno di crescere, di progredire e soprattutto di purificarsi continuamente.
L'amicizia di Giovanni Cassiano con Germano (entrambi monaci) è una delle più forti che la Patristica ci abbia offerto. Secondo Cassiano un'esperienza di amicizia particolare non può che far bene alla carità universale, perciò egli distingue tra agápe (carità da rivolgere a tutti) e diátesis (carità di elezione da rivolgere a persone particolari). Al nostro tema è dedicata un'intera Conferenza spirituale, la 16ª, nella quale il motivo dell'"amicizia" non si distingue più da quello della "carità", ma ne forma un tutt'uno; perciò all'interno della vita monastica l'amicizia rappresenta la possibilità di vivere la carità, in maniera del tutto speciale, nei confronti di coloro i quali condividono la stessa scelta religiosa di perfezione (16,14).
Un punto è fondamentale per Cassiano: la vera amicizia si basa sulla "somiglianza di virtù" (16,3), perciò appare impossibile proseguire un legame tra uno che vive fortemente la vita dello spirito e uno che invece ne è lontano (16,26). Esistono poi alcune caratteristiche che garantiscono l'esistenza della vera amicizia (16,6): il disprezzo dei beni del mondo, il distacco da essi, la mortificazione della volontà personale, la subordinazione di ogni realtà alla carità e alla pace, l'eliminazione dell'ira, il desiderio di guarire da essa, il pensiero della morte; per questo il cenobio diventa il luogo privilegiato nel quale poter stringere veri rapporti di amicizia. Cassiano, conoscendo bene la fragilità del cuore umano, esorta a non stringere contatti fisici (L'istituzione dei cenobi 2,15), a non eccedere nei colloqui isolati (7,9; 10,20) e a moderare la frequentazione privilegiando una frequentazione spirituale, più duratura.
Sulla stessa lunghezza d'onda si pongono pure i contributi di Doroteo di Gaza e di Giovanni Climaco.
A motivo di un certo influsso di Agostino e di Cassiano idee abbastanza simili le troviamo svolte in Gregorio Magno e in Isidoro di Siviglia. Nel primo (Omelie sui Vangeli 2,27,4-5), l'amicizia si identifica con la carità, che è il culmine dell'amore.
Il nome di Isidoro di Siviglia si inserisce nel solco della tradizione dell'arte etimologica, accanto a quelli di Cassiodoro, Gregorio Magno, Giovanni Damasceno; egli riprende quanto sostenuto da Gregorio Magno (Etimologie 10,4), mostrando di avere assorbito alcuni antichi detti sull'amicizia (come quello di "un'anima in due corpi") ma anch'essi sublimati e trasfigurati in chiave cristiana.
L'AMICIZIA CRISTIANA, UNA SFIDA PER L'UOMO DI OGGI
La realtà contemporanea da più parti sembra essere paradossale: in un senso è figlia di una cultura profondamente secolarizzata, nella quale sembra che non ci sia più posto per determinate verità, se non per quelle basate sull'utilità, sul vantaggio, sull'interesse dei singoli. Credere in certi valori, come il disinteresse, l'altruismo, la generosità, la gratuità, sembra essere del tutto anacronistico ma, in un altro senso, si assiste ad un bisogno sempre crescente, soprattutto nei giovani, di costruire certezze da porre alla base della propria esistenza, così precaria, fragile e provvisoria.
L'amicizia, cristianamente intesa, crediamo sia davvero una sfida per l'uomo d'oggi. Cerchiamo di spiegare perché.
Anzitutto va specificato che, all'interno del Cristianesimo, non è possibile parlare di un livello orizzontale di amicizia, tra i singoli uomini, o anche ascensivo, dell'uomo verso Dio, se prima non si parla di un livello discensivo, e cioè di Dio verso l'uomo, perché è sempre Dio a prendere l'iniziativa e ad amare l'uomo per primo (Gv 15,16a). Ecco perché i Padri della Chiesa ogni volta che parlano dell'amicizia umana, lo fanno in rapporto a quella divina.
"Un'anima in due corpi", essi dicevano: è questa la profonda verità dell'amicizia cristiana. L'alterità diventa così un'esperienza vissuta. Scoprirsi diversi vuol dire avere la possibilità di arricchirsi reciprocamente. L'altro è ciò che io non sono, ma anche ciò che posso arrivare ad essere. E viceversa. Le diversità non sono annullate dalla sintonia, ma unite in una superiore armonia.
Ecco perché l'amicizia, cristianamente intesa, può diventare secondo noi una "sfida" in una società secolarizzata, come l'attuale, nella quale si assiste ad un radicale capovolgimento di valori, ove i giovani vengono educati a crescere e a non credere più in certi legami, se non basati sull'utilità comune e materiale. È allora che il cristiano diventa o può diventare ancora una volta segno di contraddizione, proponendo un legame amicale come crescita a due nella santità. L'amico è colui che ci permette di vedere oltre noi stessi e ci aiuta ad uscire dai nostri limiti, dalle miserie, dalle insoddisfazioni, perché sappiamo di non essere soli e crediamo che esiste qualcuno al mondo che vuole condividere il nostro cammino. Certamente si può esser amici in tante circostanze e per diversi motivi: o perché si lavora insieme o perché si studia o si fa sport insieme, ma il legame più forte è quello tra due persone che hanno scoperto di essere simili, in quanto create dallo stesso Padre, desiderose di voler camminare insieme nella vita. È allora che si scopre un nuovo significato nell'universo, mai colto in precedenza, perché si è incontrato qualcuno che ci fa vedere l'esistenza con occhi diversi, quelli interiori, qualcuno che ci fa scoprire o riscoprire la bellezza della vita, che prima nella nostra radicata solitudine non riuscivamo a scorgere; qualcuno che dà al nostro cuore un nuovo vigore; è solo allora che si conoscerà meglio, e con più sincerità, se stessi e si riuscirà ad uscire dal guscio della propria miseria, della propria imperfezione perché si scopre, di fronte a noi, qualcuno che ci ha accettato nella totalità del nostro essere, che non pretende di volerci diversi ma che, al tempo stesso, ci aiuta a crescere.
Ecco la sfida per l'uomo d'oggi: S. Gregorio Nazianzeno, amico di S. Basilio ci ricorda: "Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all'altro di esserlo" (Orazione 43). Non è affatto vero che il cattolicesimo capisce poco l'amicizia, così come non è vero che l'ideale cristiano sia astratto, lontano e irrealizzabile, si tratta piuttosto di partire da una prospettiva diversa rispetto a quella comune. Per quest'ultima, nell'amicizia "la distanza fra ideale e reale deve essere breve", per la prima invece, non solo non è breve, ma è illuminante per una comprensione più autentica della quotidianità dell'esistenza, vale a dire che il riferimento costante alla dimensione ideale è importante proprio perché ci permette di percepire che l'amicizia non è solo una realtà orizzontale. Parlare di verticalità dell'amicizia: anche questa è una sfida che il Cristianesimo lancia al mondo contemporaneo.

Esempio



  


  1. maria di tommaso

    un tema sul mio migliore amico