Il lavoro minorile nel mondo

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Testo

Il lavoro minorile nel mondo
Non esistono statistiche complete sul lavoro minorile; nella gran parte dei casi i governi e i datori di lavoro si rifiutano di ammetterne l'esistenza, o comunque non compiono rilevazioni statistiche ufficiali (funziona così anche nel nostro paese, dove il lavoro minorile è illegale e quindi è scomparso dalle statistiche ufficiali, mentre tutte le stime concordano sul fatto che almeno mezzo milione di bambini lavora). Secondo le stime dell'OIL (Organizzazione Mondiale del Lavoro) il numero di bambini lavoratori nel mondo oscilla intorno ai 250 milioni, distribuiti quasi ovunque: in Asia, Africa, America Latina, ma anche in Europa e in America del Nord.
Qualche dato
• in India le stime più accreditate parlano di 44 milioni di bambini lavoratori;
• in Pakistan 8 milioni di piccoli lavoratori (10-14 anni) costituiscono il 20% della popolazione attiva, e sono impiegati in ogni sorta di lavoro, dall'industria all'edilizia, spesso in condizioni di semi-schiavitù;
• in Bangladesh i bambini che lavorano, sia nell'industria (tessile soprattutto) per l'esportazione sia nell'artigianato sono 1/4 dell'intera popolazione infantile, e l'UNICEF stima che i bambini svolgano ben 300 diversi tipi di lavoro;
• in Nepal il 60% dei bambini svolge lavori che impediscono il loro normale sviluppo e particolarmente grave è la situazione delle bambine, il cui carico di lavoro è in genere di 2-3 volte superiore a quello dei maschi;
• il 32% della forza lavoro in Thailandia è costituito da bambini, impiegati in massima parte nella produzione di articoli per l'esportazione;
• nelle Filippine secondo le stime ufficiali i piccoli lavoratori sono 2.200.000, ma molti di più sono occupati nel lavoro nero.
• in Nigeria (uno dei più ricchi paesi africani) lavorano circa 12 milioni di ragazzi;
• in Brasile le stime più prudenti parlano di 7 milioni di bambini al lavoro, cui vanno aggiunti tutti i piccoli che vivono di espedienti sulle strade; a San Paolo si calcola che il 20% dei redditi familiari sia garantito dal lavoro minorile.
Un fatto è certo: a dispetto delle leggi nazionali e internazionali, il lavoro minorile si continua a praticare nel mondo e forse in certi paesi è anche aumentato. Se oggi molti ragazzi svolgono attività consentite e regolamentate dalla legislazione nazionale, molti di più lavorano nell'illegalità. Esistono ancora bambini minatori; piccoli pastori "assunti" illegalmente che lavorano 15 ore al giorno; bambini servitori; operai stagionali in miniatura costretti al lavoro in campi infestati dai pesticidi con seri rischi per la salute; bambini impiegati in piccole fabbriche che manipolano minuscoli fili metallici, operazione assai pericolosa per la vista; bambini che lavorano nel commercio, nelle piccole attività industriali o che si guadagnano da vivere in strada con mestieri sempre diversi. Per smentire il diffuso pregiudizio che il lavoro minorile riguardi esclusivamente i paesi con economie "arretrate" può bastare un solo esempio, quello degli Stati Uniti d'America: qui lavorano circa 5 milioni e mezzo di ragazzi. Nel 1990 un controllo a sorpresa del Ministero del Lavoro nell'arco di tre giorni ha scoperto 11.000 bambini che lavoravano clandestinamente. A fronte di questa complessa ed estesa realtà l'UNICEF interviene, in collegamento con le organizzazioni non governative locali e con gli uffici nazionali dell'OIL, con due tipi di azioni: da un lato programmi di sostegno all'economia familiare, che rendano meno necessario il ricorso al lavoro dei più piccoli, dall'altro con interventi a favore dei bambini lavoratori, per tutelarli (anche legalmente) e per garantire loro possibilità di scuola e istruzione professionale. In tutti o quasi i paesi, infatti, c'è uno stretto rapporto tra abbandono della scuola e lavoro minorile: e poter continuare in qualche modo la scuola è, per i bambini, l'unica speranza di riuscire a liberarsi dalle catene dello sfruttamento. Allo stesso tempo è necessario, se si vuole rendere realistico l'obiettivo di eliminare il lavoro minorile, creare alternative per i ragazzi che già lavorano, che consentano loro di acquisire istruzione e qualificazione professionale ma garantiscano anche un reddito minimo, per evitare che il proibizionismo di principio si traduca di fatto in un proliferare del lavoro nero. Spesso si discute dell'opportunità di applicare sanzioni commerciali per combattere il lavoro minorile. Ma, come ricorda l'organizzazione non governativa Defense for Children International, tali misure "potrebbero effettivamente apportare un cambiamento nella vita dei bambini che lavorano solo se venissero prese nel quadro di strategie nazionali e internazionali per combattere la povertà e l'ingiustizia sociale e per difendere i diritti dei bambini che lavorano, con la partecipazione dei bambini stessi". Spesso si è dovuto constatare che persino la minaccia di sanzioni commerciali può portare certe industrie e certi datori di lavoro a licenziare i loro giovani lavoratori; questo, in effetti, è ciò che è accaduto due anni fa in Bangladesh, a seguito di alcune proposte di legge al Parlamento americano per vietare l'importazione di tessili dal Bangladesh, prodotti col lavoro minorile. Come poi si è scoperto, grazie ad una indagine compiuta dall'UNICEF in collaborazione con l'OIL, molti di quei bambini licenziati si sono ritrovati in una situazione assai peggiore di quella in cui si trovavano in precedenza, perché sono stati costretti a lavorare in condizioni ancor peggiori, senza poter frequentare più la scuola. Si tratta di un risultato che nessuno certo vuole ottenere. Stanno funzionando molto bene, invece, i 350.000 centri di scuola informale per i piccoli lavoratori creati negli ultimi anni in India: una possibilità di un futuro diverso per ragazzi che hanno dovuto lasciare la scuola regolare, che dà sostanza ed efficacia agli interventi di controllo nei settori ad alto impiego di lavoratori bambini. Iniziative di promozione di marchi commerciali che garantiscano, con un meccanismo analogo a quello del "controllo di qualità", il fatto che un determinato prodotto non sia stato fabbricato utilizzando lavoro minorile risultano particolarmente efficaci, soprattutto per i prodotti destinati all'esportazione: il marchio "Rugmark", ad esempio, contrassegna i tappeti indiani prodotti senza impiego di lavoro minorile, ed è assegnato da una commissione congiunta (UNICEF, OIL, ONG locali, produttori). In Thailandia i programmi di sviluppo rivolti alle famiglie contadine delle zone più povere si stanno rivelando un utile strumento per prevenire il "mercato delle braccia" che spesso costringe i contadini poveri a vendere i propri figli come forza lavoro per le industrie cittadine, mentre si attuano una serie di interventi per riqualificare e reinserire i bambini lavoratori, evitando che cadano nell'alternativa terribile della prostituzione minorile Scuola, formazione professionale, assistenza alle famiglie povere, alleanza con le ONG locali: questo è l'impegno dell'UNICEF, nella lunga e complicata battaglia contro lo sfruttamento del lavoro dei bambini.
Alle radici del problema
Nel mondo ci sono circa due miliardi di bambini di età compresa da 0 a 18 anni. Nove su dieci, pari all'87%, vivono nei paesi in via di sviluppo. Di essi 250 milioni sono i bambini tra i 5 e i 14 anni che lavorano.
120 milioni lavorano a tempo pieno e 130 milioni a tempo parziale. Circa il 61% dei bambini, vive in Asia; il 32% in Africa e il 7% in America Latina. Un bambino su quattro nel mondo in via di sviluppo lavora anche più di 9 ore al giorno per sei giorni la settimana. Si tratta di cifre approssimative per difetto: se si potessero davvero contare tutti anche le bambine che prestano servizio domestico nelle famiglie, il numero salirebbe in modo esponenziale.
Nei paesi dell'Europa centrale e orientale il numero di bambini che lavorano è aumentato per il repentino passaggio da un'economia centralizzata a una di mercato. Anche nei paesi industrializzati come nel Regno Unito e gli Usa la crescita del settore terziario e la richiesta di una forza lavoro più flessibile hanno contribuito all'espansione del fenomeno.
Il lavoro minorile è una piaga mondiale che va combattuta su più fronti. Il punto di partenza resta però la disponibilità di dati precisi e affidabili sull'effettiva diffusione del problema, secondo parametri condivisi a livello internazionale. Questo sarà possibile solo in un gioco di squadra, solo cioè attraverso la stretta collaborazione tra governi, organizzazioni internazionali e ONG. In assenza di dati precisi non solo non potranno intraprendersi azioni sistematiche per eliminare definitivamente il lavoro minorile, ma non si potrà neanche intervenire con urgenza in difesa di molti bambini coinvolti in lavori rischiosi e pericolosi per la loro integrità fisica e psichica.
Quando si parla di lavoro minorile è necessario distinguere tra lavoro pesante e lavoro leggero, tra lavoro cosiddetto benefico e lavoro intollerabile, tra lavoro positivo e lavoro minorile coatto. Non si possono infatti mettere sullo stesso piano i bambini che lavorano poche ore al giorno in attività non pericolose per la salute e lo sviluppo con i piccoli schiavi delle fornaci a carbone dello stato brasiliano.
Per i primi infatti il lavoro può dare, a volte, i mezzi per frequentare la scuola: se venisse loro impedito di esercitarlo, senza offrire valide alternative, sarebbe un fattore di impoverimento economico molto forte. Per gli altri, per tutti quei bambini che svolgono attività a tempo pieno in età precoce, per numerose ore al giorno, vittime di indebite pressioni fisiche, sociali o psicologiche, mal pagati quando non pagati affatto (come nel caso dei bambini venduti dai genitori per ripagare debiti insolubili), che non possono pertanto andare a scuola né ricevere un'adeguata istruzione, il lavoro è solo abuso e sfruttamento inaccettabile che deve essere duramente combattuto.
Il lavoro minorile e le leggi
La legislazione italiana
Il principale riferimento normativo sul lavoro minorile in Italia è costituito dalla Legge n. 977 del 1967 sulla "Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti" che fissa il limite di età a 15 anni e in alcuni a casi a 14 anni, quando si tratta di attività agricola o di "servizi familiari" e nelle attività industriali in cui i minori siano addetti a mansioni leggere. Vengono inoltre regolamentate le possibilità di impiego dei minori fino a 18 anni, in primis che non venga trasgredito l'obbligo scolastico e che siano prevenuti gli effetti negativi del lavoro sulla salute del minore. A tale scopo la legge istituisce una serie di misure specifiche volte alla tutela del ragazzo lavoratore. Il controllo del rispetto della legge è affidato al Ministero del Lavoro che lo esercita tramite gli Ispettorati del Lavoro.
Dalla legge del 1967 a oggi sono stati emanati alcuni decreti presidenziali relativi agli ambiti di lavoro leggero in cui poter occupare i ragazzi dai 14 anni d'età (D.P.R. 4 gennaio 1971, n. 36), per la definizione della periodicità delle visite mediche dei ragazzi impiegati in attività nocive, pure se in ambito non industriale (D.P.R. 17 giugno 1975, n. 479), per la determinazione dei lavori pericolosi, faticosi e insalubri (D.P.R. 20 gennaio 1976, n. 432), per la modifica di alcune norme di esecuzione dell'art. 9 della suddetta Legge 977/67 in relazione alla tutela dei minori (D.P.R. 20 aprile 1994, n. 365) e per la modifica della disciplina sanzionatoria in materia di tutela del lavoro minorile, delle lavoratrici madri e del lavoro a domicilio (D.Lgs. 9 settembre 1994, n. 566) che individua una serie di sanzioni pecuniarie e reclusorie.
Le principali critiche che da alcune parti vengono mosse alla Legge 977 sottolineano la debolezza delle sanzioni previste all'inosservanza della normativa con la conseguenza che sono ancora troppo frequenti i casi di sfruttamento dei minori, soprattutto nelle aree più problematiche del paese. L'inasprimento delle sanzioni ma soprattutto più efficaci sistemi di controllo potrebbero garantire una migliore osservanza della normativa sul lavoro minorile.
P.P.
Le Convenzioni Internazionali
La prima Convenzione internazionale in materia di lavoro minorile risale al 1919 - Convenzione sull'Età Minima (Industria) n. 5. Adottata in occasione della prima riunione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro e ratificata da 72 paesi la Convenzione fissava a 14 anni l'età minima per l'assunzione nell'industria.
Anche la Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia approvata nel 1989 stabilisce che: "Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo di essere protetto contro lo sfruttamento economico e di non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale".
Gli strumenti legali considerati più completi a livello internazionale in materia di lavoro minorile sono la Convenzione dell'ILO sull'Età Minima di Ammissione al Lavoro n. 138 del 1973 e la Raccomandazione sull'Età minima n. 146 che rappresenta lo strumento per l'applicazione generale della Convenzione.
La Convenzione 138 stabilisce che i bambini non possono essere impiegati in alcun settore economico se di età inferiore a quella stabilita per il completamento dell'istruzione scolastica obbligatoria e comunque non prima che abbiano compiuto 15 anni. I paesi nei quali le economie e le istituzioni non sono sufficientemente sviluppate potranno fissare in prima istanza un'età minima di 14 anni, mentre 18 anni è l'età minima di ammissione a qualsiasi lavoro che possa compromettere la salute, la sicurezza o la moralità dell'individuo.
La Raccomandazione completa le disposizioni presenti nella Convenzione n. 138 e pone come obiettivo l'elevamento progressivo dell'età minima di ammissione al lavoro a 16 anni, con la gradualità necessaria in rapporto alle diverse condizioni sociali ed economiche di ciascun paese e considerando altresì la specificità dei contesti. L'obiettivo della Convenzione e della Raccomandazione è il graduale innalzamento dell'età minima al lavoro in vista dell'abolizione del lavoro minorile.
La Convenzione è stata finora ratificata da 49 dei 173 paesi membri: solo 21 di essi sono nazioni in via di sviluppo e nessuna di queste è asiatica, dove peraltro si trova la metà dei bambini lavoratori del mondo.
Maggior fortuna - sul piano della ratifica - hanno avuto le Convenzioni dell'ILO sul Lavoro Forzato n. 29 del 1930 e la n. 105 del 1957 sul "Lavoro forzato" che furono ratificate, rispettivamente da 139 e da 115 governi. P.P.
Testimonianze
Pakistan: Tutto il giorno a cucire palloni
LATIF HA 11 ANNI, CUCE PALLONI DA QUANDO NE AVEVA 7. "Il lavoro minorile credo che sia vietato, ma da queste parti non conosco un ragazzino che non lavori. Io ho incominciato aiutando un parente. Adesso sto sotto padrone, 9-10 ore al giorno a cucire palloni, a mano. Sempre lo stesso lavoro mi rovino le dita e non imparo a fare altro. I palloni che mi arrivano da cucire hanno i marchi più diversi, molti li conosco, credo siano famosi in mezzo mondo. Anche se io non mi interessi del calcio, preferirei il cricket. Ma tanto, chi ha il tempo di giocare…"
Siamo nel distretto di Sialkot, in Pakistan. E' la zona industriale del paese, si produce di tutto, in aziende di medie dimensioni e in migliaia di piccoli laboratori artigianali. Si fabbricano strumenti ottici, attrezzi chirurgici, scarpe e tappeti, tutti destinati all'esportazione. Ma soprattutto si producono e rifiniscono palloni di cuoio, del tipo professionale, cuciti a mano. Soprattutto palloni da calcio. Ci lavorano oltre 5.000 bambini. In tutto il paese sono 8 milioni i piccoli lavoratori, tra i 10 e i 14 anni; costituiscono il 20% della popolazione attiva, e la maggioranza è impiegata nell'edilizia, per la fabbricazione di mattoni d'argilla, o nelle piccole fabbriche. Al loro lavoro si deve gran parte del recente "miracolo economico" pakistano; o meglio, alla loro schiavitù, perché alla modernità di molti prodotti fa da contraltare una condizione di lavoro servile che spesso assomiglia alla schiavitù.
L'economia pakistana è in rapida e tumultuosa crescita, a parte questo la gente comune ha tratto sinora scarsi benefici da questo "boom" economico: il 32% della popolazione urbana e il 29% di quella rurale vive sotto la soglia di povertà. La mortalità infantile sotto i 5 anni è di 136 su mille. Con un tasso di analfabetismo del 62%, il paese è agli ultimi posti tra quelli dell'Asia meridionale; la metà circa dei bambini abbandona la scuola sin dalle prime classi elementari, mentre il 21% dei ragazzini e la metà circa delle bambine non vengono neppure iscritti.
Ma nella complessa realtà del Pakistan l'aspetto forse più drammatico è proprio quello del lavoro minorile, venuto alla ribalta tre anni fa, il 16 aprile del 1995, in seguito all'assassinio del piccolo Iqbal Masiq, che aveva osato ribellarsi alla sua condizione di semi-schiavitù come tessitore di tappeti e denunciare chi lo sfruttava. Una vicenda che ha richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sui temi del lavoro minorile, non solo in Pakistan.
Per combattere questo sfruttamento l'UNICEF, insieme a varie organizzazioni non governative pakistane, si muove su un duplice terreno: da una parte strumenti di controllo e di pressione sulle ditte produttrici, per contrastare l'impiego di minori, dall'altra programmi scolastici e di formazione professionale. Si cerca di creare una "alleanza dei produttori" contro lo sfruttamento, che mobiliti sindacati e associazioni imprenditoriali, per offrire ai bambini e alle loro famiglie alternative concrete. Tra i progetti in corso alcuni fra i più importanti vengono attuati nelle zone industriali ad alta intensità di lavoro minorile - soprattutto l'area di Sialkot - dove vengono prodotti i palloni di cuoio, cuciti a mano per lo più da bambini, per conto delle principali ditte di articoli sportivi del mondo. Si punta a garantire ai ragazzi possibilità di istruzione e formazione professionale, compensando con incentivi, o con posti di lavoro per altri membri adulti della famiglia, la perdita economica conseguente al mancato guadagno dei ragazzi.
Perù: spaccapietre e minatori
PEDRO HA 10 ANNI, LAVORA DALL'ANNO SCORSO PER 10 ORE AL GIORNO IN UNA CAVA DI PIETRE. “Siamo quasi tutti ragazzi, a lavorare con martello e piccone. Ci siamo passati la voce di questo lavoro, nel barrio, e la mattina veniamo su in gruppo, con l'autobus per un'ora e poi a piedi. A volte un camion ci dà un passaggio. Non è un lavoro che mi piace, faccio tanta fatica che a volte mi sento morire. Ma cos'altro potrei fare, non ho finito neanche due anni di scuola. Siamo poveri, i soldi servono. Spero solo di non farmi male, ci sono spesso incidenti. Comunque meglio qui che in miniera”. 400.000 bambini peruviani tra i 6 e gli 11 anni non vanno a scuola. Non dipende certo da pigrizia o incapacità; non vanno a scuola perché le loro famiglie sono troppo povere per permetterselo, perché la scuola è troppo lontana e comunque comporta dei costi, soprattutto perché hanno altro da fare: devono lavorare per portare soldi a casa. Gran parte di quei 400.000 bambini lavora dalle 8 alle 10 ore al giorno, e quasi tutti appartengono a quel 20 per cento della popolazione peruviana che vive in condizioni di povertà estrema.
Quelli che lavorano come pastori e contadini, aiutando le loro famiglie sugli altopiani, si trovano spesso in una condizione drammatica di isolamento e mancanza di servizi essenziali. Tuttavia il loro sfruttamento è meno pesante rispetto agli operai-bambini di città, schiavizzati per una paga di pochi soldi, a volte anche un decimo del minimo sindacale: cavatori di pietre come Pedro, fabbricanti di mattoni, manovali nell'edilizia, facchini ai mercati generali, e via dicendo nella giostra di lavori e sottolavori che, come gironi dell'inferno, sembra sprofondare nell'abisso le speranze di cambiamento di una generazione di ragazzi le cui famiglie erano emigrate in città confidando di riuscire a sfuggire alla miseria.
Dormono in case di lamiera e cartoni, in immensi agglomerati informi di baracche, senza fognature né, spesso, acqua potabile. Molte famiglie, una volta arrivate in città, si sfasciano; e per le madri è difficile tirare avanti, se i bambini non portano a casa soldi. Per i ragazzi spesso, alla fine, l'unica risorsa è la vita di strada, tra mestieri legali e illegali, pulizie dei vetri delle macchine e vendita ai semafori; si calcola siano 81.000 i piccoli peruviani che lavorano come venditori ambulanti. Moltissimi inoltre lavorano a domicilio, oppure - soprattutto le bambine - come domestiche nelle famiglie benestanti.
Ma c'è anche chi sta peggio, come ricordava Pedro: e sono quelle centinaia - migliaia secondo alcune stime - di bambini che un lavoro l'hanno trovato vicino ai loro villaggi, nelle zone minerarie del paese. Miniere di pomice, miniere d'argento e d'oro. Piccoli schiavi costretti a lavorare a temperature che raggiungono i 25 gradi sottozero, in gallerie alte meno di un metro. Secondo un quotidiano peruviano, il 5 per cento della manodopera impiegata nelle miniere d'oro sono bambini.
Tutti questi bambini che lavorano nei settori più disparati hanno un minimo comun denominatore, la miseria. E il circolo vizioso tra miseria e mancanza d'istruzione: come dice Pedro, "cos'altro potrei fare, non ho finito neanche due anni di scuola". Per questo i programmi dell'UNICEF in Perù puntano moltissimo sull'istruzione, attraverso il sostegno al sistema scolastico anche nelle aree rurali del paese, la fornitura di materiale didattico, ma anche attraverso iniziative mirate per i bambini lavoratori, come scuole serali, scuole professionali, corsi per insegnanti, programmi come quello dei "maestri di strada", per stabilire un contatto e riavvicinare alla scuola anche i ragazzi più emarginati. L'UNICEF ha anche lanciato una campagna con l'obiettivo di far vietare per legge il lavoro dei minori di 12 anni, e ha creato una rete di centri di tutela per l'infanzia, le defensorias.
Nepal: Tappeti fatti a mano / Sotto i nostri piedi
GURI HA 9 ANNI. TESSE TAPPETI IN UN LABORATORIO DI KATHMANDU, LA CAPITALE DEL NEPAL. "Ci sorveglia un adulto. Si accerta che lavoriamo in continuazione. Quando si arrabbia, ci picchia con la bacchetta. E' da un anno che lavoro qui, con le altre bambine. Alcune avevano solo cinque anni quando hanno iniziato. Mangiamo e dormiamo nel laboratorio; c'è poco spazio e l'aria è piena di polvere di lana. Per tessere un tappeto quattro bambini hanno un mese di tempo. Il capo dice che ha prestato dei soldi ai nostri genitori, che dovremo lavorare finchè non sarà ripagato il prestito. Ci possiamo riuscire solo se lavoriamo sedici ore al giorno, senza ammalarci. Spesso mi chiedo quanto dovrò rimanere ancora davanti al telaio... Quando tornerò a casa?”. Tappeti venduti quasi tutti sul mercato europeo, tappeti "fatti a mano", dice l'etichetta, e non troppo cari. Quando ce li troviamo sotto i piedi, raramente ci chiediamo da dove vengono.
Spesso vengono da piccole fabbriche in cui lavorano bambini e bambine come Guri. Hanno mani piccole e agili, perfette per tessere. Costano poco, questi schiavi-bambini: 180.000 lire è il prezzo pagato dai mediatori alle famiglie, per sei mesi di "affitto" di una tessitrice. Contratti capestro, difficili da sciogliere.
Migliaia di bambini lavorano nell'industria tessile in Nepal, anche se il paese ha ratificato la Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia e la legge vieta l'impiego di manodopera infantile sotto i 14 anni. La Costituzione del 1990 ha ribadito il divieto di ogni forma di sfruttamento e di traffico di persone; tuttavia, mancando ogni forma di controllo e di applicazione della legge, queste violazioni continuano.
Anche se la sua immagine più diffusa è legata alle bellezze naturali e al turismo nella regione himalayana, il Nepal è in realtà un paese fra i più poveri dell'Asia sud-orientale. L'economia è ancora a base prevalentemente agricola, l'industria è concentrata sull'artigianato per l'esportazione, in primo luogo tappeti, e lavora in gran parte in nero, sfruttando manodopera infantile. Il 70% della popolazione vive in condizioni di estrema povertà.
I piccoli lavoratori provengono per la maggior parte dalle campagne dove la povertà e la sovrappopolazione rendono la vita impossibile. Alcuni fuggono in città per cercare diverse e più accettabili condizioni di vita, molti altri vengono invece condotti in città da parenti, amici di famiglia o "caporali" del settore tessile.
Secondo dati UNICEF, i ragazzi che fanno vita di strada (soprattutto nella capitale Kathmandu) sono circa 5.000. Ma il numero dei piccoli lavoratori è molto più alto: in pratica il 60% dei bambini nepalesi, svolgono attività lavorative che ostacolano il loro normale sviluppo. Ma i bambini non devono far fronte solo alle condizioni insalubri, a un'alimentazione insufficiente, a uno stipendio da fame. Per le ragazze c'è anche l'incubo delle molestie sessuali da parte dei lavoratori adulti con i quali dividono la camerata durante la notte.
L'obiettivo numero uno dell'UNICEF in Nepal è proprio riscattare i piccoli lavoratori. L'UNICEF, insieme a varie organizzazioni non governative e ai Ministeri competenti, ha già ottenuto l'istituzione di un Comitato che controlli la non utilizzazione di lavoro minorile nelle produzioni di tappeti destinati all'esportazione. Specifici programmi di recupero, sostenuti grazie anche ai contributi raccolti in Italia, sono rivolti in particolare al riscatto dei bambini vittime delle forme di lavoro forzato, i piccoli schiavi del telaio, come Guri: per aiutarli a tornare a casa.
Bolivia: Un lavoro quasi normale
FAVIO HA 12 ANNI ED è FIERO DEL SUO LAVORO DI BIGLIETTAIO E AIUTO-AUTISTA."Tre anni fa ho cominciato a lavorare come bigliettaio e, qualche volta, autista in un minibus di Oruro. Lavoro fino alle sei di sera, poi vado a scuola, dalle sette alle nove, alle dieci torno a casa, come papà, che fa anche lui l'autista. Studio perché da grande vorrei fare il medico e comprarmi dei vestiti, delle belle scarpe e cravatte; anche il meccanico mi piacerebbe fare o l'autista di autobus. Però sono sempre stanco, la sera a scuola mi addormento spesso e non riesco a seguire la lezione". Ce la farà Favio a diventare medico? Probabilmente no, e lo sa anche lui. Forse la cosa che colpisce di più del suo racconto è la consapevolezza, il rassegnato realismo di questo piccolo uomo, che sogna bei vestiti, scarpe e cravatte, immagini del benessere; ma poi subito precisa che va bene, sarebbe contento anche di fare il meccanico. La sua è una storia di lavoro minorile "normale", senza drammi eccessivi; una storia come tante, come ne vedono spesso gli insegnanti in tutto il mondo (anche in Italia): il bravo ragazzino, che si addormenta sul banco perché è troppo stanco, perché lavora. Quello che non protesta, che aiuta la famiglia, anche a costo di rinunciare ai suoi sogni. Come lui in Bolivia ce ne sono tanti: circa mezzo milione tra bambini e adolescenti. Lavorano in campagna, nelle miniere, in città. Oltre la metà dei minori che lavorano sono occupati nel terziario povero delle grandi città: lavori domestici, pulizie, commissioni, piccoli commerci e altre attività al limite dell'accattonaggio. Solo il 39% dei bambini che lavorano riesce a frequentare la scuola, quasi sempre una scuola serale. Per far fronte a questa situazione l'UNICEF, d'intesa con il governo boliviano, ha varato programmi di recupero scolastico per i bambini dai 7 ai 12 anni, oltre a una serie di servizi di assistenza decentrati a livello municipale per i ragazzi più a rischio. Ma il nodo di fondo rimane la difficoltà estrema e la carenza di servizi in cui vive gran parte della popolazione, nelle periferie povere delle città boliviane. Favio lavora anche per vivere con la famiglia in una casa migliore, per avere acqua potabile. Un problema comune a molti boliviani poveri. Per questo l'UNICEF, attraverso il programma Proandes, sta organizzando una rete di servizi igienici, impianti fognari e acquedotti in gran parte delle città boliviane, dove la popolazione è spesso costretta a pagare per l'acqua potabile e i servizi essenziali cifre troppo alte per il magro bilancio familiare. 120.000 lire: tanto costa l'allaccio dell'acqua per ciascuna unità abitativa, nei quartieri poveri delle città boliviane. A noi sembra poco, ma per Favio, col suo stipendio di 2.000 lire al giorno, è decisamente troppo.
India: Vietato alzare gli occhi
SONA HA 13 ANNI, VIVE NELLO STATO INDIANO DEL TAMIL NADU. FINO A UN ANNO FA FACEVA LA SIGARAIA: LAVORAVA IN UNA FABBRICA DI BIDIS, LE TIPICHE SIGARETTINE INDIANE FATTE DA UN ‘UNICA FOGLIA DI TABACCO ARROTOLATA. OGGI SONA VA A SCUOLA E NON RIMPIANGE DI CERTO DEL SUO VECCHIO LAVORO."Qui a scuola si sta bene, si gioca e canta, si può studiare. Ma al lavoro, se eravamo in ritardo ci picchiavano. Tutti i nostri genitori erano indebitati con i padroni, gli interessi si accumulavano e noi dovevamo continuare a lavorare. Se non ci avessero aiutato, non ne saremmo usciti mai". I padroni delle fabbriche preferiscono i bambini come operai: per le mani piccole, più adatte al lavoro, ma soprattutto perché li pagano meno della metà degli adulti. E' quasi impossibile per le famiglie sottrarsi a questa crudele forma di usura: contraggono debiti, quindi sono costretti a cedere i propri figli come lavoranti per ripagare il debito, ma i guadagni sono insufficienti e il debito non si estingue mai... Per questo il primo obiettivo dei programmi UNICEF nel Tamil Nadu, come in molti altri stati dell'India, è aiutare le famiglie a riscattare i figli dal lavoro forzato. Grazie a un'alleanza con varie associazioni e con il contributo delle autorità locali, viene estinto il debito e i bambini vengono poi mandati a frequentare speciali scuole, create nei loro villaggi, dove si applicano metodi d'insegnamento innovativi, con molto spazio alla musica e al gioco ma anche con molte materie orientate per dare loro una professionalità. Sarebbe infatti difficile per questi ragazzi, che hanno alle spalle anni di duro lavoro, ambientarsi nelle normali scuole statali, con bambini molto più piccoli di loro e un insegnamento rigido, predeterminato, poco flessibile e senza rapporto con la loro esperienza di lavoro e le loro esigenze. Il problema non riguarda solo le fabbriche di bidis: qualche anno fa un'inchiesta accertò che oltre 50.000 bambini di età compresa tra i 3 anni e i 15 lavoravano nelle fabbriche di fiammiferi e di fuochi di artificio di Sivakasi, sempre nello stato del Tamil Nadu. 12 ore al giorno, rinchiusi in stanze buie e fetide, maneggiando prodotti chimici pericolosi e tossici, come il clorato di potassio, gli ossidi di fosforo e lo zinco. Del resto anche in altre zone dell'India la legge che vieta l'uso di manodopera infantile viene continuamente disattesa. I datori di lavoro hanno tutto l'interesse ad impiegare in lavori degradanti i bambini, perché sono più rapidi e si affaticano di meno degli adulti, si controllano con facilità e sono più disciplinati. Ma soprattutto costano molto meno sia in termini salariali che assistenziali e non sono sindacalizzati. Così, in assenza di una rete efficace e capillare di controlli, continuano a persistere situazioni drammatiche, come quella degli oltre ventimila bambini che lavorano nelle miniere di Meghalaya in fosse larghe 90 cm.; quando crescono e non sono più in grado di restare dentro queste fosse perdono il lavoro. E nel nord dell'India, nello stato del Rajastan, si calcola che il 40% dei 30.000 operai tessili siano bambini. La povertà ancora molto diffusa, nonostante il grande sviluppo recente dell'economia indiana, spesso non lascia ai bambini alcuna alternativa fuori dal lavoro. Il sistema educativo aggrava ulteriormente la dimensione del problema: nelle zone rurali più isolate, le scuole sono rare e inaccessibili. Inoltre nelle campagne il conflitto tra il calendario scolastico e le stagioni agricole obbliga i bambini ad abbandonare la scuola al momento della semina o del raccolto. Occorre quindi creare un sistema scolastico più flessibile e rispondente ai bisogni dei bambini, ma anche aiutare le famiglie, per spezzare il circolo vizioso della miseria ed evitare che i bambini sottratti a un lavoro si ritrovino a doverne fare uno ancora peggiore. Per questo l'UNICEF attua anche un programma di piccoli prestiti a gruppi di donne, perché possano migliorare la produzione agricola, ad esempio con l'acquisto di mucche il cui latte viene venduto in città, compensando così la perdita del guadagno dei bambini e consentendo alle famiglie di ripagare gli eventuali debiti residui.
Testimonianza di Susan, 16 anni, rapita dal Lord's Resistance Army, in Uganda
“Un ragazzo tentò di scappare (dai ribelli), ma fu preso… Le sue mani furono legate, poi essi costrinsero noi, i nuovi prigionieri, a ucciderlo con un bastone. Io mi sentivo male. Conoscevo quel ragazzo da prima, eravamo dello stesso villaggio. Io mi rifiutavo di ucciderlo ma essi mi dissero che mi avrebbero sparato. Puntarono un fucile contro di me così io lo feci. Il ragazzo mi chiedeva: perché mi fai questo? Io rispondevo che non avevo scelta. Dopo che lo uccidemmo essi ci fecero bagnare col suo sangue le braccia… Ci dissero che noi dovevamo far questo così non avremmo avuto più paura della morte e non avremmo tentato di scappare…Io sogno ancora il ragazzo del mio villaggio che ho ucciso. Lo vedo nei miei sogni, egli mi parla e mi dice che l'ho ucciso per niente, e io grido."
Iqbal Masih
Era nato nel 1983 Iqbal Masih e aveva quattro anni quando suo padre decise di venderlo come schiavo a un fabbricante di tappeti, per 12 dollari. E' l'inizio di una schiavitù senza fine: gli interessi del "prestito" ottenuto in cambio del lavoro del bambino non faranno che accrescere il debito. Picchiato, sgridato e incatenato al suo telaio, Iqbal inizia a lavorare per più di dodici ore al giorno. E' uno dei tanti bambini che tessono tappeti in Pakistan; le loro piccole mani sono abili e veloci, i loro salari ridicoli, e poi i bambini non protestano e possono essere puniti più facilmente. Un giorno del 1992 Iqbal e altri bambini escono di nascosto dalla fabbrica di tappeti per assistere alla celebrazione della giornata della libertà organizzata dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (BLLF). Forse per la prima volta Iqbal sente parlare di diritti e dei bambini che vivono in condizione di schiavitù. Proprio come lui. Spontaneamente decide di raccontare la sua storia: il suo improvvisato discorso fa scalpore e nei giorni successivi viene pubblicato dai giornali locali. Iqbal decide anche che non vuole tornare a lavorare in fabbrica e un avvocato del BLLF lo aiuta a preparare una lettera di "dimissioni" da presentare al suo ex padrone. Durante la manifestazione Iqbal conosce Eshan Ullah Khan, leader del BLLF, il sindacalista che rappresenterà la sua guida verso una nuova vita in difesa dei diritti dei bambini. Così Iqbal comincia a raccontare la sua storia sui teleschermi di tutto il mondo, diventa simbolo e portavoce del dramma dei bambini lavoratori nei convegni, prima nei paesi asiatici, poi a Stoccolma e a Boston: «Da grande voglio diventare avvocato e lottare perché i bambini non lavorino troppo». Iqbal ricomincia a studiare senza interrompere il suo impegno di piccolo sindacalista. Ma la storia della sua libertà è breve. Il 16 aprile 1995 gli sparano a bruciapelo mentre corre in bicicletta nella sua città natale Muridke, con i suoi cugini Liaqat e Faryad. «Un complotto della mafia dei tappeti» dirà Ullah Khan subito dopo il suo assassinio. Qualcuno si era sentito minacciato dall'attivismo di Iqbal, la polizia fu accusata di collusione con gli assassini. Di fatto molti dettagli di quella tragica domenica sono rimasti poco chiari. Con i 15 mila dollari del Premio Reebok per la Gioventù in Azione ricevuti nel dicembre '94 a Boston, Iqbal voleva costruire una scuola perché i bambini schiavi potessero ricominciare a studiare...
Questo film può insegnare molte cose riguardo la situazione di molti ragazzi minorenni che sono sfruttati ogni giorno da padroni molto severi. Una persona non deve abbattersi se non ottiene al primo colpo una determinata cosa, infatti essa non si deve scoraggiare e se veramente ci tiene, continuerà a lottare fin quando riuscirà ad ottenere il risultato tanto atteso.
Penso che sia molto ingiusto che i ragazzi del Terzo Mondo siano obbligati a lavorare senza il loro consenso, molte ore al giorno; sarebbe molto più giusto che questi ragazzi frequentino una scuola che insegni loro almeno i principi per affrontare una vita futura adeguatamente e non essere esclusi dal mondo solo perché non sono capaci di scrivere o leggere.
16 Aprile 1998, per non dimenticare Iqbal Masiq
Il 16 aprile di quest'anno tutta l'Italia si mobilita contro il lavoro minorile, attraverso iniziative nelle scuole, sui giornali e nei programmi televisivi, a livello nazionale e locale. La scelta della data non è casuale: è infatti il terzo anniversario dell'assassinio del piccolo Iqbal Masih, un bambino pachistano di dodici anni che aveva osato ribellarsi alla sua condizione di semi-schiavitù come tessitore di tappeti e denunciare i suoi sfruttatori, divenendo una sorta di sindacalista dei bambini lavoratori. Un personaggio troppo scomodo per chi sul lavoro dei bambini si è arricchito: tre anni fa Iqbal rimase vittima di un colpo di fucile, il cui autore è rimasto ignoto. Quando fu ucciso, correva in bicicletta: forse pensandosi libero, in quel momento, di essere soltanto un bambino, e non il simbolo di un dramma. La sua storia ha richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sui temi del lavoro minorile in tutto il mondo, e non solo in Pakistan.
Iqbal ripeteva spesso nei suoi interventi pubblici che "nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite". Lui, dall'età di quattro anni, tesseva tappeti. Era uno dei circa 8 milioni di piccoli lavoratori pakistani, tra i 10 e i 14 anni; nel suo paese i bambini costituiscono il 20% della popolazione attiva. In minima parte sono impiegati nell'artigianato e nel lavoro agricolo, mentre la gran parte lavora nell'edilizia, fabbricando mattoni d'argilla, o nelle fabbriche. Al loro lavoro si deve gran parte del recente "miracolo economico" pakistano; o meglio, alla loro schiavitù, perché alla modernità dei prodotti: strumenti chirurgici e ottici, palloni da calcio, e via dicendo nella vasta gamma delle lavorazioni industriali, fa da contraltare una condizione di lavoro servile che in molti casi assomiglia alla schiavitù.
Bambini soldato
Anche nella storia passata i ragazzi sono stati usati come soldati, ma negli ultimi anni questo fenomeno è in netto aumento perché è cambiata la natura della guerra, diventata oggi prevalentemente etnica, religiosa e nazionalista. I "signori della guerra" che le combattono non si curano delle Convenzioni di Ginevra e spesso considerano anche i bambini come nemici. Secondo uno studio UNICEF, i civili rappresentavano all'inizio del secolo il 5 per cento delle vittime di guerra. Oggi costituiscono il 90 per cento. L'uso di armi automatiche e leggere ha reso più facile l'arruolamento dei minori; oggi un bambino di 10 anni può usare un AK-47 come un adulto. I ragazzi, inoltre, non chiedono paghe, e si fanno indottrinare e controllare più facilmente di un adulto, affrontano il pericolo con maggior incoscienza (per esempio attraversando campi minati o intrufolandosi nei territori nemici come spie).Inoltre la lunghezza dei conflitti rende sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite. Quando questo non è facile si ricorre a ragazzi di età inferiore a quanto stabilito dalla legge o perché non si seguono le procedure normali di reclutamento o perché essi non hanno documenti che dimostrino la loro vera età. Si dice che alcuni ragazzi aderiscono come volontari: in questo caso le cause possono essere diverse: per lo più lo fanno per sopravvivere, perché c'è di mezzo la fame o il bisogno di protezione. Nella Rep. Democratica del Congo, per esempio, nel '97 da 4.000 a 5.000 adolescenti hanno aderito all'invito, fatto attraverso la radio, di arruolarsi: erano per la maggior parte "ragazzi della strada".Un altro motivo può essere dato da una certa cultura della violenza o dal desiderio di vendicare atrocità commesse contro i loro parenti o la loro comunità. Una ricerca condotta dall'ufficio dei Quaccheri di Ginevra mostra come la maggioranza dei ragazzi che va volontario nelle truppe di opposizione lo fa come risultato di una esperienza di violenze subite personalmente o viste infliggere ai propri familiari da parte delle truppe governative. Per i ragazzi che sopravvivono alla guerra e non hanno riportato ferite o mutilazioni, le conseguenze sul piano fisico sono comunque gravi: stati di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell'apparato sessuale, incluso l'AIDS. Inoltre ci sono le ripercussioni psicologiche dovute al fatto di essere stati testimoni o aver commesso atrocità: senso di panico e incubi continuano a perseguitare questi ragazzi anche dopo anni. Si aggiungano le conseguenze di carattere sociale: la difficoltà dell'inserirsi nuovamente in famiglia e del riprendere gli studi spesso è tale che i ragazzi non riescono ad affrontarla. Le ragazze poi, soprattutto in alcuni ambienti, dopo essere state nell'esercito, non riescono a sposarsi e finiscono col diventare prostitute. L'uso dei bambini soldato ha ripercussioni anche su gli altri ragazzi che rimangono nell'area del conflitto, perché tutti diventano sospettabili in quanto potenzialmente nemici. Il rischio è che vengano uccisi, interrogati, fatti prigionieri. Qualche volta i bambini soldato possono rappresentare un rischio anche per la popolazione civile in senso lato: in situazioni di tensione sono meno capaci di autocontrollo degli adulti e quindi sono "dal grilletto facile".
Una forma di sfruttamento
Per quanto molti stati siano riluttanti ad ammetterlo, l'uso di bambini soldato può essere considerato come una forma di lavoro illegittimo per la natura pericolosa del lavoro. L'ILO riconosce che: "il concetto di età minima per l'ammissione all'impiego o lavoro che per sua natura o per le circostanze in cui si svolge porti un rischio per la salute, la sicurezza fisica o morale dei giovani, può essere applicata anche al coinvolgimento nei conflitti armati". L'età minima, secondo la Convenzione n° 138, corrisponde ai 18 anni. Ricerche ONU hanno mostrato come la principale categoria di ragazzi che diventa soldato in tempo di guerra, sia soggetta allo sfruttamento lavorativo in tempo di pace. La maggioranza dei bambini soldato appartiene a queste categorie:
• ragazzi separati dalle loro famiglie (orfani, rifugiati non accompagnati, figli di single)
• provenienti da situazioni economiche o sociali svantaggiate (minoranze, ragazzi di strada, sfollati)
• ragazzi che vivono nelle zone calde del conflitto.
Chi vive in campi profughi è particolarmente a rischio di essere sfruttato da gruppi armati. Le famiglie e le comunità sono distrutte, i ragazzi sono abbandonati a se stessi e la situazione è di grande incertezza. I rifugiati sono così spesso alla mercé dei gruppi armati.
Partecipazione ai conflitti di minori di 18 anni
(negli eserciti regolari o in quelli di opposizione armata, negli anni 1997-98)
Afghanistan*
Etiopia*
Pakistan
Algeria*
Filippine*
Perù*
Angola*
India
Russia(Cec)*
Azerbaijan
Indonesia
Rwanda*
Bangladesh
Iran*
Sierra Leone*
Burundi*
Iraq*
Somalia*
Cambogia*
Israele(Terr.Occ)
Sri Lanka*
Colombia*
Libano*
Sudan*
Congo(Brazz)*
Liberia*
Turchia*
Congo(ex Zaire)*
Messico*
Uganda*
Eritrea
Myanmar*
Yugoslavia
*Partecipazione di soldati di età inferiore ai 15 anni
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  1. Emmy

    Sto cercando degli appunti Sullo sfruttamento Minorile in cina Devo sostenere l'esame di licenza media

  2. Emmy

    Cerco per la tesina di terza qualche argomento sullo sfruttamento minorile in Cina da collegare con Geografia