Il lavoro e i suoi problemi

Materie:Appunti
Categoria:Ricerche
Download:1193
Data:23.10.2000
Numero di pagine:32
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
lavoro-suoi-problemi_1.zip (Dimensione: 403.38 Kb)
trucheck.it_il-lavoro-e-i-suoi-problemi.doc     467 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

1° PARTE
-DEFINIZIONE DEL TERMINE-
La parola lavoro presenta una vasta pluralità di significati, ma tutti discendono dall’affermazione che il lavoro è un’attività dell’uomo pianificata. Dal dizionario possiamo individuare alcune spiegazioni del termine: 1- in senso generico l’applicazione di un’energia ( non solo umana ) al conseguimento di un fine determinato; 2- comunemente nell’ambito dell’organizzazione della società, l’attività produttiva, dal punto di vista economico, giuridico, sindacale, intesa anche come fonte di reddito individuale o comunitario, stipulato fra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori. 3- quanto rappresenta o costituisce il prodotto rispetto alla fisionomia o categoria dell’operatore.
Il lavoro può essere quindi considerato lo strumento per la realizzazione dell’uomo, ma anche semplice mezzo per guadagnarsi da vivere. In entrambi i casi si tratta di una necessità che però assume una diversa connotazione : infatti nel primo acquista un significato positivo perché rappresenta una relazione essenziale tra natura e uomo ; mentre nel secondo ha segno negativo , poiché la necessità non è del lavoro ma dei suoi prodotti. Perciò si contrappone la necessità del lavoro alla necessità di lavorare . Inoltre lo si può pensare come dominio dell’uomo sulla natura , inteso come una sfida , mettendo in risalto l’aspetto tecnico delle conquiste umane .
Dalle precedenti definizioni del lavoro si può dedurre che non ci sia lavoro che non richieda uno sforzo. Tale affermazione viene palesemente confermata dall’origine etimologica del termine in varie lingue: labor dal latino significa pena, fatica, che corrisponde al greco ponos ; da cui derivano l’italiano lavoro e l’inglese labour. Infine anche il francese travail e lo spagnolo trabajo mostrano un idea di fatica e di impiego di energia.
-IL LAVORO NELL’ANTICHITA’ E NEL MEDIOEVO-
L’idea di lavoro, intesa come lo strumento che qualifica l’individuo socialmente, che detta i tempi del vivere quotidiano e che è contemporaneamente fondamentale categoria storiografica; ha assunto un valore centrale soltanto nella nostra epoca. E’ noto infatti che le comunità tribali non avevano e non hanno tuttora un termine che designi il lavoro. Tale fatto è comprensibile poiché probabilmente all’interno della loro società il lavoro si “confonde” con altre attività, dato che non bisogna dimenticare che i membri di queste comunità hanno un comportamento simile agli animali.
Le società arcaiche , poiché mettevano continuamente in relazione le proprie azioni con la divinità, considerarono l’agricoltura la forma di lavoro per eccellenza. Così il lavoro della terra era una buona attività per il corpo, ma soprattutto un’importante attività propiziatoria, quasi come una preghiera, attraverso cui l’uomo manifestava meraviglia e stupore di fronte ai frutti della natura. Senza dubbio all’epoca il lavoro non era un’azione forzata sulla natura per adattarla a fini umani ma consisteva in un modo grazie a cui l’uomo si avvicinava alla divinità; dunque una concezione magica del lavoro che imponeva che soltanto con questo e il favore degli dei, si potessero ottenere i beni desiderati. Tuttavia non tutti condividevano la stessa mentalità: i Greci disprezzavano il lavoro manuale, definendolo un’attività adatta ai soli schiavi e che deturpa il corpo, un’attività nettamente contrapposta alla ginnastica che invece sviluppa tutte le parti del corpo in armonia. Lo stesso storico greco Senofonte scrisse come la degenerazione prodotta dal lavoro si ripercuotesse nel corrompersi dell’anima. Tipico della mentalità classica era poi privilegiare il consumo rispetto alla produzione: infatti come affermano due grandi filosofi Aristotele e Platone, il signore si distingue dal servo in quanto solo lui conosce l’uso di ciò che l’altro costruisce. Quindi il servo o l’artigiano rappresentano in questo periodo soltanto la causa motrice, i realizzatori di un’idea commissionata da un signore, perciò hanno scarsa importanza a livello sociale.
Con il cristianesimo si ha un “revival” del lavoro infatti viene definito un’attività necessaria ma subordinata agli interessi superiori di Dio e non a quelli materiali dell’uomo. Accolta sì la regola benedettina “ora et labora” ma entro certi limiti, infatti lo stesso San Tommaso riconosce il lavoro solo come unico fondamento di guadagno e di proprietà.
La vera e propria rivalutazione dell’operare dell’uomo si ha con l’affermazione dell’umanesimo, periodo in cui artisti come Leonardo da Vinci e Leon Battista Alberti affermano che il lavoro “riempe così bene il lento scorrere delle ore”. Assieme al movimento umanista svolse un ruolo determinante la Riforma di Lutero che condannava l’ozio un’evasione peccaminosa e il monachesimo una scelta egoista per sfuggire al proprio stato e mestiere che Dio ci ha assegnato.
Una visione più dinamica del lavoro fu promossa da Calvino che riteneva l’uomo strumento della divina provvidenza e il suo lavoro, l’unica strada che lo conduce alla salvezza. Rinascimento e Riforma sono promotori rispettivamente di due valutazioni del lavoro: una esalta la creatività stessa del lavoro, l’altra lo considera un castigo ma che ha ricompense in ambito religioso. Il pensiero borghese verrà alimentato da quest’ultima considerazione nel seguire il lavoro come fonte di virtù e di profitto, una concezione su cui scrivono due illustri filosofi dell’ottocento: Hegel, filosofo idealista e Comte, un positivista. Entrambi analizzando il rapporto tra signore e servo sostengono che solo quest’ultimo conoscendo la realtà naturale e stando a contatto diretto con la materialità delle cose, possiede la chiave del progresso e dell’indipendenza dalla natura.
Finalmente con questi presupposti si giungerà ad un alto concetto di lavoro, che è quello attuale ovvero di strumento chiave per una visione unitaria sia del mondo che della vita.
-LE IDEOLOGIE DEL LAVORO-
L’ideologia liberal-borghese
IL filosofo John Locke rappresenta il primo vero esponente della tradizione liberale in quanto afferma che il lavoro è ciò che crea il diritto alla proprietà. Infatti Locke sosteneva che il lavoro dell’uomo sulla natura togliesse al oggetto-frutto la condizione che la stessa natura gli aveva dato e che escludesse gli altri uomini dall’appropriarsi di esso. Con la diffusione del denaro vi è la possibilità però di creare una cosiddetta “proprietà accumulata” che utilizza il lavoro altrui impadronendosi dei suoi prodotti. Ciò significa che secondo determinate leggi si può stabilire il valore delle cose, il lavoro costituisce quindi il metro di misura. Secondo il filosofo Locke il valore di un oggetto deve comprendere tutti i lavori che partendo dalle materie prime hanno permesso la sua realizzazione. Da tale concetto di lavoro si deduce come già nel diciassettesimo e diciottesimo secolo si stava raggiungendo la concezione moderna del lavoro, separata da qualsiasi influenza religiosa.
In questo periodo infatti l’uomo ideale coincide con il personaggio Robinson Crusoe che rappresenta il modello perfetto di laboriosità, frugalità e intraprendenza e la nuova etica del lavoro si concretizza nei volumi della grande enciclopedia illuminista in cui vengono descritte 177 professioni. Filosofi, scrittori e artisti, fino ad allora vincolati alla casa dei ricchi o nobili del re, conquistano una propria indipendenza economica traendo guadagno dalle loro opere, così anche essi entrano a far parte della sfera dei lavoratori.
Il fondatore dell’economia politica, A. Smith (1723-1790), formula la teoria del valore-lavoro che si basa sul principio secondo cui il valore della merce è dato dalla quantità di lavoro in essa incorporato. Smith integra il pensiero di Locke considerando il lavoro come sacrificio e non solo come fonte di proprietà ma anche come fonte di ricchezza; inoltre lo identifica come agire produttivo: in questo modo rovescia i valori tradizionali mettendo sullo stesso piano l’agire dei politici, dei guerrieri, dei preti e dei letterati e l’agire improduttivo dei domestici. Si rovescia anche il significato di ozio: l’otium latino equivale all’impegnarsi nella cultura o nella politica disponendo di altre persone che lavorano per lui; mentre per il borghese l’ozio significa il non far nulla, il vivere di rendita.
Il lavoro acquista sempre più i connotati di un diritto e la stessa borghesia lo rivendica con la forza chiedendo l’eliminazione delle leggi corporative che impedivano la libera iscrizione alle arti e la formazione di un libero mercato di manodopera. Si capisce che alla base dell’ideologia borghese è costantemente presente il valore del capitale e che il lavoro deve essere funzionale all’accumulazione; esso diventa la strada per raggiungere il progresso. Di conseguenza per il borghese ha scarsa importanza il fatto che il lavoro duri 12, 14 o più ore poiché non ci si deve dimenticare che il lavoro è fonte di proprietà, perciò bisogna giudicarlo una dolorosa necessità, un mezzo obbligato per conseguire i propri obiettivi.
Secondo quest’ultimo aspetto si può dire che in un certo senso l’ideologia borghese giustifichi lo sfruttamento della manodopera e quasi il lavoro minorile perché ad esempio proponeva salari bassi in modo tale da non indurre il lavoratore all’ozio e faceva rientrare la fatica e lo stato di bisogno tra gli interessi dello stesso lavoratore.
L’ideologia della chiesa.
Nel magistero della chiesa si possono individuare significati ed accezioni diversi del termine lavoro. Il papa Giovanni Paolo II ritiene che il lavoro possa essere indicato come mezzo per guadagnarsi da vivere, come una forma di dominio sulla natura, ma soprattutto come espressione dell’essenza stessa dell’uomo. Con il Concilio Vaticano II la chiesa ha accolto concezioni innovatrici del lavoro in cui esso viene presentato come il mezzo attraverso il quale l’uomo partecipa e collabora al progetto di Dio, una sorta di “contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia”(Giovanni XXIII). Nell’insegnamento della Chiesa si nota però come sia rimasta costante la visione del lavoro come pena e sofferenza, dovute ad una colpa commessa. Solo recentemente l’attuale pontefice, nella Laborem exercens, ha sottolineato la positività del lavoro che si esplica nella visione teologica di esso: fatica e speranza, pena e realizzazione umana, sono viste unicamente sotto la luce del mistero pasquale di croce e resurrezione di Gesù Cristo. Quindi il lavoro nel significato di redenzione prende spunto dalla vita stessa di Cristo che, venuto ad operare un riscatto affinché l’uomo possa ricongiungersi con Dio; permette che la realtà assieme al lavoro sia posta nelle condizioni di operare una conversione.
Per quanto concerne il lavoro dipendente, la Chiesa accetta sia l’idea di proprietà, sia la distinzione tra le classi sociali e le differenze economiche; sostenendo il solidarismo e la dottrina della “giusta mercede”. Quest’ultima consiste nell’affermare che il salario non può essere basato solo su leggi di mercato perché il lavoratore non è paragonabile a una merce come tutte le altre perciò non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio stesso. Si deduce la difficoltà nel stabilire la soglia minima sotto cui il lavoratore diventa pagato ingiustamente e ciò rappresenta un problema assai diffuso nei paesi industrializzati.
L’ideologia marxiana
Karl Marx riprende la teoria fondata da Smith, ovvero la teoria classica del valore-lavoro. Tuttavia partendo dal pensiero di Smith elabora una propria teoria dello sfruttamento, avendo inteso la contraddizione esistente tra il lavoro ideale e quello reale. Marx sviluppa un vero e proprio progetto di liberazione dei lavoratori: egli individua un plus-lavoro, che non viene pagato dal capitalista e che fornisce un plus-valore; l’accumulazione del capitale deriva proprio da questo sfruttamento della forza lavoro. Tale progetto fa leva sul proletariato, classe sociale cosciente dello sfruttamento cui è sottoposta e consapevole del proprio ruolo di classe lavoratrice, di forza produttrice per eccellenza.
Marx sostiene inoltre secondo la sua antropologia che l’uomo si realizza oggettivandosi nel lavoro ossia nella trasformazione della natura fisica. Quando questo processo viene impedito, quindi quando il lavoratore è un salariato; il lavoro è alienato e generalmente vissuto come negatività. Il lavoratore è dunque alienato quando viene privato della sua essenza cioè non si riconosce più nel suo lavoro e in ciò che produce e perde anche la cosciente e libera trasformazione della natura. Marx ritiene il lavoro, contrariamente a Smith, un’attività positiva, creativa: infatti giudica il lavoro non solo sacrificio, ma anche un particolare rapporto che si costituisce tra l’individuo e la cosa che egli elabora secondo le proprie attitudini naturali al lavoro. In pratica per Smith il lavoro è fonte di ricchezza e unicamente per questo è importante, altrimenti è un qualcosa di negativo. Marx invece sostiene che il lavoro in sé sia positività, ma che lo sfruttamento nel corso della storia abbia distorto tale immagine del lavoro. Vi è anche un illustre filosofo, Hegel, che coglie del lavoro solo l’aspetto positivo, tralasciando le condizioni in cui il lavoro si esplica che sono alienanti.
Le idee di Marx si concretizzano quando nell’opera “l’ideologia tedesca“ descrive la società comunista, una società in cui ogni persona non ha una sfera di attività esclusiva, ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo o disciplina; una società che controlla la produzione generale e permette che ognuno si occupi di diversi mestieri a suo piacimento. Questa immagine viene ripresa in un ‘altra opera, “il Capitale”, dove si discute del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. Il primo deve essere sottoposto al comune controllo dei produttori associati ed al di là di esso comincia poi il vero regno della libertà dove ha inizio lo sviluppo delle capacità umane. Tutto ciò è possibile, secondo Marx, se avviene la riduzione della giornata lavorativa.
2° PARTE
-IL MONDO DEL LAVORO-
FORME DEL LAVORO
Il lavoro può essere classificato in base al settore di attività: produzione di materie prime, come nell'attività mineraria e nell'agricoltura; produzione industriale nel senso più lato del termine, ossia trasformazione delle materie prime in oggetti utili all'uomo; distribuzione, cioè trasferimento di oggetti utili da un luogo all'altro a seconda delle necessità umane; operazioni relative alla gestione della produzione, come contabilità e lavoro d'ufficio; e servizi, come quelli offerti da medici e insegnanti, ricercatori, pubblicitari e esperti di finanza, addetti ai trasporti, gente dello spettacolo ecc. Un'altra classificazione fa riferimento al rapporto sociale o al tipo di contratto entro il quale il lavoro si svolge: lavoro subordinato e lavoro autonomo, attività professionale ecc. Il lavoro dipendente a sua volta comprende figure diverse, dal dirigente d'impresa all'impiegato, all'operaio. A seconda del tipo di risorse umane applicate si distingue ancora tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.
NELLA STORIA ……
Nell'antichità e nel Medioevo il lavoro, e in particolare quello manuale, era svolto prevalentemente in condizioni servili. Molti lavoratori erano cioè schiavi, appartenenti a un proprietario, o servi, dipendenti da un signore feudale o territoriale, posti nell'impossibilità di disporre di sé, cambiare residenza o occupazione, e sottomessi a corvées (giornate di lavoro gratuito obbligatorio). La liberazione dei lavoratori dai vincoli feudali fu una delle condizioni fondamentali dello sviluppo del capitalismo.
In seguito alla rivoluzione industriale, sul finire del XVIII secolo, la maggior parte dei lavoratori dipendenti fu impiegata nelle fabbriche in attività sempre più standardizzate. Gli operai dell'industria erano sostanzialmente indifesi contro lo sfruttamento (orari di lavoro prolungati, disciplina di fabbrica) e privi di protezione dalle conseguenze di malattie, invalidità e disoccupazione. Nei primi decenni del XIX secolo, la crescente riflessione ai guasti sociali di un mercato del lavoro inumano e incontrollato portò a campagne di opinione contro gli abusi più gravi come il lavoro minorile e alla nascita di un movimento politico che aveva nel suo programma la difesa delle condizioni di vita dei lavoratori: il socialismo. I lavoratori organizzati in partiti politici, sindacati, cooperative, società di mutuo soccorso acquistarono una notevole forza, che permise loro di ottenere numerosi risultati sul piano economico, sociale e politico. Le legislazioni del lavoro e i sistemi di welfare state sviluppatisi nei paesi industrializzati durante il XX secolo attestano il successo delle moderne organizzazioni dei lavoratori.
DIVISIONE DEL LAVORO
Divisione del lavoro in economia significa scomposizione del lavoro impiegato nella produzione e nel commercio in operazioni eseguite da diversi lavoratori o gruppi di lavoratori. La divisione del processo produttivo in singole operazioni, ciascuna svolta da gruppi diversi di lavoratori, è una caratteristica comune a molte fabbriche moderne e costituisce il presupposto della "catena di montaggio". L'automobile, ad esempio, è composta da migliaia di parti, ognuna delle quali richiede un certo numero di processi produttivi: queste parti vengono fabbricate in impianti e da lavoratori specializzati per ogni singola fase di lavorazione. Il maggior vantaggio della divisione del lavoro è l'aumento della produttività, che deriva da vari fattori. I principali sono: un marcato aumento dell'efficienza individuale e collettiva dovuta alla specializzazione e al conseguente aumento di abilità; il risparmio, soprattutto di tempo, nell'apprendistato dei lavoratori; l'uso continuativo di strumenti che altrimenti resterebbero inutilizzati durante gli spostamenti dei lavoratori da processo a processo; lo sviluppo di utensili, macchinari e attrezzature altamente produttivi e specializzati.
NELLA STORIA ……
La divisione del lavoro ha caratterizzato la produzione sin dalle origini, sebbene questa si verificasse essenzialmente fra i diversi tipi di attività. Con l'evolversi degli strumenti e delle tecniche produttive, i mestieri artigianali e agricoli si separarono e vennero svolti da gruppi distinti; la crescita delle città favorì poi una maggiore specializzazione tra gli artigiani.
La divisione del lavoro si diffuse celermente durante il Medioevo grazie alla creazione delle corporazioni. Nel tardo Medioevo, essa apparve per la prima volta su vasta scala, insieme a un aumento della produzione dei beni di consumo. Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo la rivoluzione industriale creò il moderno sistema industriale e diede un fortissimo impulso allo sviluppo della divisione del lavoro. Nell'industria moderna, la divisione del lavoro in migliaia di processi e specializzazioni individuali ha creato complessi problemi tecnici, organizzativi e di personale, per affrontare i quali sono state approntate tecniche di organizzazione industriale.
LO STATUTO DEI LAVORATORI
Lo “Statuto dei lavoratori” è una legge introdotta in Italia nel 1970, in seguito a un lungo periodo di lotte sociali, per tutelare i diritti fondamentali e inviolabili dei lavoratori. La prima parte della legge tutela la libertà e la dignità dei lavoratori i quali hanno diritto di manifestare liberamente il loro pensiero nel luogo dove lavorano, hanno diritto di lavorare in un luogo che non metta in pericolo la loro salute fisica e hanno diritto a essere compensati in corrispondenza delle mansioni che effettivamente svolgono. La prima parte limita inoltre il ricorso alle perquisizioni personali, a impianti audiovisivi per controllare il lavoratore e vieta ogni tipo di indagine sulle sue opinioni politiche, sindacali o religiose. La seconda parte dello statuto, in applicazione di principi generali espressi dall'art. 39 della Costituzione, tutela la libertà sindacale. Il datore di lavoro non può discriminare il lavoratore nell'assunzione, nelle mansioni, in trasferimenti, in provvedimenti disciplinari, nella retribuzione per le sue opinioni e attività sindacali. Lo statuto prevede poi che nelle aziende che hanno più di 15 dipendenti, il lavoratore che è stato licenziato ingiustamente abbia diritto a riavere il suo posto di lavoro. Se infatti il giudice al quale il lavoratore si è rivolto ritiene che il licenziamento non sia giustificato, l'imprenditore è tenuto a reintegrare il lavoratore nel suo posto e a risarcirgli i danni subiti. La terza parte dello statuto tutela l'attività sindacale. Il lavoratore ha diritto di svolgere attività sindacale nelle associazioni sindacali e di riunirsi in assemblea nei luoghi di lavoro.
DIRITTO DEL LAVORO
Diritto del lavoro è un ramo del diritto che comprende al suo interno sia la disciplina del rapporto di lavoro individuale, cioè la disciplina relativa ai diritti e doveri del singolo lavoratore nei confronti del datore di lavoro e viceversa, sia il diritto sindacale, che riguarda gli interessi collettivi dei lavoratori.
L'ambito del diritto del lavoro comprende sia il diritto della previdenza sociale sia le discipline giuridiche che attengono al lavoro subordinato, come ad esempio il diritto processuale del lavoro e il diritto internazionale del lavoro. Il diritto del lavoro subordinato nasce e si sviluppa in conseguenza dell'avvento del capitalismo e della rivoluzione industriale dal quale è emersa la figura del lavoratore salariato. La ragione che ha favorito lo sviluppo della disciplina relativa al rapporto di lavoro subordinato è da ricercarsi nel fatto che il lavoratore, da un certo momento in poi, ha avuto bisogno di essere tutelato giuridicamente, soprattutto alla luce della disparità evidente sorta tra le parti del rapporto: da una parte il lavoratore, dall'altra il capitalista. Questo è dunque il motivo che spiega perché il legislatore, in questa materia, ha stabilito l'inderogabilità delle norme poste a tutela della parte più debole. Si tratta dunque di una disciplina volta a tutelare il lavoratore e quindi a predisporre delle norme minimali sotto la soglia delle quali non è possibile scendere; è infatti preclusa ogni deroga alla disciplina in senso più sfavorevole al lavoratore, mentre è ammessa qualsiasi deroga in senso migliorativo. Nell'ambito di una società industriale, quale è quella odierna, in realtà, il diritto del lavoro è lo strumento per mezzo del quale viene realizzato il contemperamento dei contrapposti interessi del lavoratore e dell'imprenditore.
IL DIRITTO SINDACALE
Il diritto sindacale si è sviluppato in modo diverso e per certi versi più lento rispetto al diritto del rapporto di lavoro subordinato. La disciplina ha come oggetto le organizzazioni collettive dei datori di lavoro e dei lavoratori (vedi Sindacati dei lavoratori), il contratto collettivo di lavoro e fenomeni di conflitto collettivo quali lo sciopero e la serrata. Fonti del diritto sindacale sono quelle consuete anche se, vista la peculiarità dell'oggetto, vengono prese in considerazione norme specifiche come ad esempio quelle della Costituzione che attengono propriamente al diritto sindacale (articolo 39 organizzazione sindacale e contrattazione collettiva; articolo 40 sciopero; articolo 46 partecipazione dei lavoratori all'impresa); oppure leggi specifiche quale lo Statuto dei lavoratori del 1970 e soprattutto la contrattazione collettiva che, in Italia, ha avuto un notevole sviluppo a partire in particolare dagli anni Settanta.
-I PROBLEMI DEL LAVORO-
LA DISOCCUPAZIONE
La “disoccupazione” è la condizione delle persone che, pur essendo idonee a svolgere un'attività lavorativa e desiderose di lavorare, non trovano un'occupazione. La disoccupazione è un problema molto serio, causa di povertà e di frustrazione psicologica. Per questo motivo, il tasso di disoccupazione viene utilizzato come una misura del benessere dei lavoratori oltre che come indicatore della utilizzazione delle risorse umane.
MISURAZIONE
Il più diffuso metodo per misurare la disoccupazione fu sviluppato negli Stati Uniti d'America negli anni Trenta del XX secolo e viene seguito ancor oggi da molti altri paesi su raccomandazione dell'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO). Dall'analisi mensile di un campione di famiglie rappresentanti l'intera popolazione del paese si raccolgono informazioni circa l'attività di ciascuna persona in età lavorativa. Gli intervistatori fanno riferimento a una determinata settimana: una persona che durante quella settimana non abbia lavorato ma stia cercando lavoro viene considerata disoccupata. Il numero dei disoccupati viene diviso per il totale delle forze di lavoro (cioè la somma degli occupati e dei disoccupati) al fine di calcolare il tasso di disoccupazione. In alcuni paesi, anziché per mezzo di indagini a campione, la stima della disoccupazione viene ottenuta dai dati rilevati presso gli uffici di collocamento e gli enti preposti ai sussidi di disoccupazione.
CAUSE
Gli economisti distinguono quattro tipi di disoccupazione: "frizionale", "stagionale", "strutturale" e "ciclica". La disoccupazione frizionale si ha quando i lavoratori in cerca di impiego non lo trovano immediatamente: durante la ricerca vengono considerati disoccupati. L'ammontare della disoccupazione frizionale dipende dalla frequenza con la quale i lavoratori cambiano lavoro e dal tempo impiegato per trovarne uno nuovo. Questo tipo di disoccupazione può essere in qualche modo ridotto da un più efficace servizio di collocamento; un certo livello di disoccupazione frizionale è comunque ineliminabile. La disoccupazione stagionale si verifica quando le industrie hanno un calo di produzione in un certo periodo dell'anno, come il settore edilizio durante l'inverno; essa aumenta inoltre alla fine dell'anno scolastico, quando un gran numero di studenti e laureati cerca lavoro.
La disoccupazione strutturale nasce dallo squilibrio tra il tipo di lavoratori richiesto dai datori di lavoro e le persone in cerca di occupazione. Il progresso tecnologico, per esempio, impone nuove specializzazioni in molti settori, rendendo inadeguati i lavoratori che ne siano privi. Lo stabilimento di un'industria in crisi può chiudere o trasferirsi in un'altra zona, licenziando quei dipendenti che non accettano di trasferirsi; d'altro canto, persino i lavoratori più qualificati possono restare disoccupati, se non c'è sufficiente domanda per il loro tipo di professionalità. Se poi i datori di lavoro reclutano il personale secondo principi discriminatori di sesso, razza, religione, età o provenienza, la disoccupazione può aumentare anche in presenza di una forte richiesta di manodopera.
La disoccupazione ciclica viene determinata da una generale carenza di offerta di lavoro, causata da un calo della domanda di beni. Quando il ciclo economico tende verso il basso, la domanda di prodotti e servizi cade, provocando ondate di licenziamenti.
Una questione fondamentale della politica economica è il rapporto fra disoccupazione e inflazione. In teoria, quando la domanda di lavoro cresce fino al punto in cui la disoccupazione è molto bassa e per le imprese è difficile reperire lavoratori qualificati, i salari aumentano, e trasferiscono i loro aumenti sui costi di produzione e i prezzi, contribuendo così all'inflazione; quando la domanda cala e la disoccupazione aumenta, le pressioni inflazionistiche su salari e costi di produzione si allentano. Senonché, smentendo questa teoria, negli anni Settanta i tassi di inflazione e di disoccupazione aumentarono simultaneamente, dando luogo alla cosiddetta stagflazione (stagnazione più inflazione).
LA GRANDE DEPRESSIONE
Il periodo di disoccupazione di massa più generalizzato, prolungato e grave dei tempi moderni fu la Grande Depressione, che seguì al crollo di Wall Street nel 1929, e creò 14 milioni di senza lavoro negli Stati Uniti, 6 milioni in Germania e 3 milioni in Gran Bretagna; in Italia, la disoccupazione crebbe da 300.000 unità nel 1929 a un milione circa nel 1933. L'instabilità sociale, la migrazione in cerca di lavoro e l'estremismo politico diventarono la norma. I decessi per malattie dovute alla malnutrizione aumentarono sensibilmente in tutto il mondo industrializzato.
La Grande Depressione determinò una svolta nell'affrontare e risolvere il problema, rappresentata soprattutto dal New Deal del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, il quale introdusse negli Stati Uniti la previdenza sociale, il sussidio di disoccupazione e programmi di lavori pubblici per utilizzare la manodopera eccedente. La ripresa economica prodotta da queste misure dimostrò che la disoccupazione peggiorava la depressione causando una caduta della domanda e che l'erogazione del sussidio di disoccupazione era un onere molto meno pesante per l'economia della perdita del potere d'acquisto dei lavoratori disoccupati. La depressione ispirò a John Maynard Keynes il suo importante saggio, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936), nel quale dimostrò che un'economia depressa sarebbe rimasta tale fino a che la spesa statale non l'avesse rivitalizzata, anche a costo di provocare grandi deficit di bilancio.
LA DISOCCUPAZIONE NELL'ETÀ CONTEMPORANEA
Il periodo che seguì alla seconda guerra mondiale fu caratterizzato in Europa da forti aumenti della disoccupazione conseguenti ai danni che il conflitto aveva arrecato a molte industrie e al ritorno a casa dei reduci. La ripresa economica, tuttavia, fu rapida e, negli anni Cinquanta, la maggioranza dei paesi industrializzati capitalisti presentava bassi livelli di disoccupazione. Negli anni Sessanta, quando il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti raggiunse una media del 5-6% e in Canada toccò il 7%, l'Italia era al 4% e tutti gli altri paesi industrializzati dell'Europa occidentale, al pari del Giappone, registravano tassi del 2% o meno.
Nei paesi in via di sviluppo di Asia, Africa e America latina, un problema di proporzioni assai gravi è la sottoccupazione, che vede le persone impiegate solo saltuariamente o per poche ore al giorno o in un lavoro improduttivo, con un conseguente basso reddito, insufficiente per i propri bisogni; è il serbatoio della sottoccupazione ad alimentare, nei paesi in via di sviluppo, la migrazione dalle zone rurali ai centri urbani.
Nei paesi industrializzati, per effetto delle indennità di disoccupazione e di altre forme di sostegno del reddito, come, in Italia, la cassa integrazione, la disoccupazione non è più causa di gravi stenti come un tempo. Tuttavia è la principale causa di povertà e vi sono segni che stia diventando sempre più difficile da affrontare, specialmente dopo il parziale abbandono delle politiche keynesiane e l'affermazione del monetarismo quale credo economico prevalente presso le autorità economiche e monetarie. L'Italia e la Francia in particolare devono affrontare la sfida di una grave disoccupazione strutturale apparentemente ineliminabile, mentre altri paesi, come il Giappone, sembrano capaci di sostenere bassi tassi di disoccupazione durante le recessioni con manovre economiche che sarebbero giudicate paralizzanti da molti altri paesi. Endemico è il problema della disoccupazione nel Sud d'Italia, dove il divario tra le regioni meridionali e il resto del paese in termini di sviluppo economico non accenna a ridursi. Negli Stati Uniti, trascurando differenze sostanziali nei criteri di calcolo dei disoccupati, si è ottenuta negli anni Novanta una sostanziale discesa del tasso di disoccupazione con la liberalizzazione del mercato del lavoro, ma a prezzo di una caduta dei salari più bassi al di sotto della soglia della povertà.
Il problema dei governi odierni è garantire ai rispettivi sistemi economici i benefici della flessibilità del lavoro e dell'aumento della produttività e nello stesso tempo ridurre il numero dei senza lavoro, abbreviare i periodi di disoccupazione, sostenere il reddito dei disoccupati e aiutarli a tornare nel mondo del lavoro con riqualificazioni professionali.
-RASSEGNA STAMPA-
DOCUMENTO N°1
Sabato 13 novembre 1999 pag. 5
Rapporto Cnel : sono più di due milioni i disoccupati tra i 15 e i 34 anni
Giovani, il lavoro è una chimera
ROMA - Sono più di due milioni i disoccupati italiani compresi nella fascia di etá tra i quindici e i trentaquattro anni. E più della metà di loro (55%) è in cerca di prima occupazione, ossia di un primo inserimento nel circuito lavorativo. Il terzo rapporto del Cnel sulla condizione giovanile - quest'anno dedicato al mercato del lavoro - conferma poi un altro dato preoccupante: è ormai chiaro che esiste un problema di disoccupazione di lunga durata anche per i giovani. Degli italiani al di sotto dei trentaquattro anni che sono alla ricerca di un lavoro, infatti, ben il 65% attende da più di un anno, Una percentuale che si avvicina pericolosamente alla media generale dei disoccupati di lungo corso, ferma attorno al 69 per cento. Nonostante qualche sfumatura di «cauto ottimismo» dovuta ai dati Istat di luglio (il tasso di disoccupazione giovanile si è contratto in un anno di circa due punti percentuali) il quadro delineato dal Cnel rimane dunque a tinte fosche: sono confermate le difficoltà e i gravi ritardi con i quali avviene l'inserimento dei «giovani nel mercato del lavoro, e soprattutto sono confermate le forti disparità territoriali: se è vero che in alcune aree del Centro-Nord (aree metropolitane e aree sottoposte a riconversione industriale) il fenomeno della disoccupazione giovanile assume contorni di una certa gravità, rimane la forte connotazione meridionale del problema. Al Sud, infatti, il tasso di disoccupazione nella fascia di età compresa tra i quindici e i venticinque anni è inchiodato al 56%, mentre scende al 29,6% per la fascia tra i venticinque e i ventinove anni. Se si considera che nel Nord-Est i rispettivi numeri percentuali sono 12,9 e 6,2, il problema dei giovani meridionali risalta in tutta la sua evidenza. E la situazione risulta bloccata: le nove regioni italiane che già nel 1996 si trovavano nella "lista nera" delle venti regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione giovanile, ci sono rimaste anche l'anno successivo (Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Basilicata, Molise, Lazio, Puglia e Liguria). Non sarà un caso che nel nostro Paese la quota di giovani che conseguono un diploma o un attestato di qualifica professionale (79 su 100) è ancora lontana dalla media europea (85-90 su 100).
Lavoro in giovane età come traguardo ancora difficile da raggiungere - soprattutto al Sud - ma anche lavoro sempre più "atipico", ormai lontano dal modello tradizionale basato sul contratto di scambio tra salario e impiego a tempo pieno, indeterminato ed esclusivo. L'altro importante dato che emerge dallo studio del Cnel, infatti, conferma che sono proprio i giovani i protagonisti dell'evoluzione in atto nel mercato del lavoro. Nel 1998 il numero di occupati a tempo determinato è risultato pari a 1.288.000, l'8,9% del complesso degli occupati rispetto al 6% del 1993. E l'incremento registrato di 118mila unità è dovuto in gran parte (56%) alla componente dei più giovani (tra i quindici e i ventinove anni). Anche il part time è più diffuso tra i lavoratori al di sotto dei ventinove anni che nelle altre classi di età. Ma nonostante il crescente coinvolgimento dei giovani in queste forme di impiego "atipiche" tra le quali va anche segnalato il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, in crescente diffusione - anche su quest'aspetto resistono notevoli differenze tra il nostro Paese e il resto dell'Ue: se in Italia l'incidenza dell'occupazione temporanea tra la popolazione compresa tra i quindici e i ventiquattro anni è del 22,4%, nel resto dell'Ue è del 37,6 per cento. E per il part time il confronto è ancora più deludente: 8,9% tra i giovani in Italia, di fronte a una media comunitaria dei 22,1 per cento.
Emilia Patta
DOCUMENTO N°2
Sabato 26 febbraio 2000 pag. 17
Niente «status» a chi non aderisce alle attività di orientamento o a una proposta d'impiego
Disoccupazione, più rigore
Incentivi nel franchising ai giovani
ROMA - Prima tappa per l'avvio delle politiche attive di lavoro, quelle cioè che non prevedono mera erogazione di sussidi ma aiutano i disoccupati a cercare un posto. Con il varo ieri al Consiglio dei ministri dei tre decreti legislativi sulla riforma dei lavori socialmente utili, stato di disoccupazione e riordino degli incentivi destinati all'imprenditoria giovanile con agevolazioni per il franchising, da un lato il Governo prova a ridurre i margini degli interventi assistenziali, dall'altro comincia a mettere in campo dei servizi per facilitare il disoccupato a cercare un lavoro.
Stato di disoccupazione. Primi segnali in vista della riforma degli ammortizzatori: è premiato il disoccupato che dimostra la propria disponibilità a lavorare e a cercare un posto di lavoro, viene "punito" invece chi non sfrutta i servizi offerti dal collocamento. Un test non solo per chi si dichiara disoccupato ma, soprattutto, per i servizi all'impiego pubblici che dovranno mettere in campo le iniziative di cui il decreto parla.
La novità più rilevante del decreto legislativo riguarda la perdita dello stato di disoccupazione. In particolare, il disoccupato che non si presenta ai colloqui di orientamento previsti, perde lo stato di disoccupazione. Inoltre, è prevista la perdita dell'anzianità di disoccupazione e dei trattamenti previdenziali connessi allo status, se il disoccupato rifiuta un posto di lavoro a tempo indeterminato (nel raggio di 100 chilometri) o determinato (nel raggio di 50 chilometri) ma che abbia una durata di almeno tre mesi. E' previsto poi che chi è senza lavoro debba dichiararlo al servizio per l'impiego competente che provvederà a verificarlo e a offrirgli una serie di colloqui di orientamento o proposte di inserimento formativo, di riqualificazione professione o di reinserimento lavorativo. Sul decreto ora si attendono i pareri della Conferenza unificata e delle competenti commissioni parlamentari.
Imprenditorialità giovanile. Si tratta di un decreto legislativo che mette ordine in tutte le leggi e le fonti di finanziamento a sostegno dell'imprenditoria giovanile (dai 18 ai 35 anni o soci maggioritari tra i 18 e i 29 anni, residenti nelle aree dell'Obiettivo 1 e 2), alle donne imprenditrici e ai soggetti svantaggiati, con una novità: la promozione del franchising. I benefici sono quelli già previsti: contributi a fondo perduto e mutui agevolati, assistenza tecnica in fase di realizzazione degli investimenti e di avvio dell'impresa, formazione e qualificazione. Un pacchetto di agevolazioni che con questo decreto viene esteso alle ditte individuali e società, anche con un unico socio, costituite in forma di franchising. Gli incentivi riguarderanno i residenti delle aree Obiettivo 1 e 2, senza lavoro, e coinvolgeranno tutti i settori della produzione e commercializzazione di beni e servizi. Il decreto ora deve passare all'esame delle commissioni parlamentari.
Riforma dei lavori sociali. Con il via libera di ieri dal Consiglio dei ministri, tagliano il traguardo definitivamente le nuove regole che riguardano i lavoratori socialmente utili (Lsu). E' stato anche approvato un decreto legge che prevede 1.851 contratti a tempo determinato, della durata di 18 mesi, per altrettanti Lsu da impiegare al ministero di Giustizia per le esigenze legate all'istituzione del giudice unico.
La riforma degli Lsu ha tre capisaldi: cambia il meccanismo di finanziamento pubblico; arrivano incentivi di 18 milioni per ogni Lsu assunto da privati e da enti pubblici economici; si favorisce l'impiego di Lsu nei processi di esternalizzazione della P.a.; infine, viene replicato il modello premiale/punitivo previsto per lo stato di disoccupazione (si veda la scheda qui accanto). In particolare, dal primo novembre 2000 e fino all'aprile 2001, lo Stato pagherà solo il 50% dell'assegno di 850mila lire mensili dovute al lavoratore sociale, il resto dovrà essere versato dall'ente che lo ha impiegato. Secondo il Lavoro. la norma servirà a responsabilizzare la pubblica amministrazione che, finora, ha abusato dello strumento. Sono invece "cadute" due norme: l'incentivo di 18 milioni anche per l'amministrazione per l'assunzione di Lsu e la possibilità, per gli enti locali di accedere ai soldi del Fondo per l'occupazione per finanziare gli interessi da prestiti contratti per attivare processi di esternalizzazione.
LINA PALMERINI
DOCUMENTO N°3
Mercoledì 9 febbraio 2000 pag. 16
Tasso di occupazione Ue: Italia ultima
BRUXELLES - Italia fanalino di coda in Europa per il tasso di occupazione e in penultima posizione nel part-time, davanti alla sola Grecia. Non sono sorprese assolute. Ma il rapporto di Eurostat sui conti economici dell'Unione europea nel '98 ha dato una ulteriore conferma delle deludenti performance degli anni precedenti e della urgente necessità di una modernizzazione del mercato del lavoro italiano.
Nel '98 il tasso di occupazione complessivo delle persone tra 15 e 64 anni in Italia è stato del 50,8%, ben dieci punti percentuali sotto la media europea di 60,8%. Siderale la distanza dalla Danimarca, prima della classe con il 75,3%, o dalla Gran Bretagna seconda con il 70,2%, ma consistente il divario anche dalla penultima Grecia che si assesta al 55,6 per cento. Solo il mercato del lavoro greco evidenzia, invece, con il 3,1% una percentuale di occupazione a tempo parziale inferiore all'Italia, che mette a segno un esiguo 3,7 per cento. Resta da vedere ora quale sarà l'effetto delle ultime misure varate dal Governo italiano sul part-time, ma certo molta è la strada da fare per raggiungere i Paesi Bassi, battistrada in Europa con il 26,6%, ma anche altri buoni esempi di flessibilità che si trovano a Nord del continente come Regno Unito (16,9%), Danimarca (16,6%) o Svezia (15,6%).
Il rapporto di Eurostat sottolinea che il lavoro standard a tempo pieno è meno diffuso nell'Unione europea. Si diffondono sempre di più l'occupazione part-time, la riduzione e la "polarizzazione" degli orari di lavoro (con abbandono della tradizionale settimana lavorativa a favore di orari giornalieri più lunghi o più corti). Ai tratti distintivi dei moderni mercati del lavoro europei, l'Italia pare adeguarsi con fatica.
Nel nostro Paese resta squilibrato anche il grado di occupazione tra i sessi. Mentre nella media europea la differenza del tasso d'impiego è di 20 punti percentuali (70,5% per gli uomini,e 51,1% per le donne) in Italia sfiora i trenta (65,1% per gli uomini e 36,7% per le donne). Il nostro Paese si è ritrovato nel '98 al terzultimo posto per il tasso di disoccupazione femminile (16,7%) seguito da Grecia (17,4%) e Spagna (26,6%), mentre per gli uomini italiani ci si ferma al 9,4 per cento, Eurostat osserva che, invece, Paesi più favorevoli all'occupazione femminile sono Islanda, Svezia e Regno Unito. Anche nell'occupazione part-time delle donne l'Italia è penultima con un tasso del 5,2%, ad abissale distanza dall'Olanda dove più di una donne su tre hanno un'occupazione a tempo parziale (39,8%).
La problematicità del mercato del lavoro italiano viene confermata anche da altri dati contenuti nel rapporto comunitario. All'Italia nel '98 è andato infatti il poco onorevole record della disoccupazione di lungo periodo in rapporto al totale dei senza lavoro (67,3%); segue il Belgio con il 61,7%, mentre la media europea è del 48,9% e il miglior risultato spetta alla Danimarca con il 27,1 per cento.
Altro primato poco rassicurante è la più alta percentuale dì giovani disoccupati di lungo periodo che arriva all'81,4% in Italia rispetto a una media europea dei 58,6 per cento. Eurostat sottolinea che nel nostro paese e in Grecia il tasso di disoccupazione giovanile è oltre tre volte quello delle persone al di sopra dì 25. anni. Nel '98 il 31,6% dei giovani italiani è risultato disoccupato (la media europea è del 19,5%) e il 9,1% dei più vecchi.
Enrico Brivio
DOCUMENTO N°4
Giovedì 27 gennaio 2000 pag. 7
Da domani un Forum a Napoli sulle politiche di tutela per le pari opportunità
La donna (che lavora) è mobile....
ROMA - Negli ultimi quattro anni si sono persi circa 680mila posti di lavoro: nell'80 per cento dei casi si è trattato di lavoro maschile nel settore industriale. Nello stesso periodo, i nuovi posti creati sono stati circa un milione e 50mila: nati nel 70% dei casi, nel settore dei servizi e della comunicazione e con una forte incidenza, della componente femminile. Nel 1999 il lavoro atipico ha coinvolto soprattutto i giovani (più dei 60% dei parasubordinati ha meno di 40 anni), ad alta scolarità (il 30% sono laureati e il 55% diplomati, e nella fascia degli «under 35» la componente femminile è prevalente.
Su questi dati, frutto di elaborazioni su numerose fonti (Istat, Inps, ministero dei Lavoro, Assointerim) realizzate dal ministero per le Pari opportunità si apre il confronto a Napoli dove domani (alla Mostra d'Oltremare) si apre il convegno «Lavorare & Vivere con pari opportunità». Alla due giorni (si continua anche sabato). sono attesi il presidente dei Consiglio Massimo D'Alema, tre ministri (Laura Balbo, Cesare Salvi, Livia Turco). esponenti politici, economisti, esperti del lavoro e delle tematiche delle pari opportunità.
Se le donne e i giovani sono i primi della crescita del lavoro flessibile e anche qualificato in Italia, è il messaggio del meeting, la sfida oggi è valorizzare la componente innovativa di queste modalità di occupazione e di vita. Investire su politiche per le pari opportunità ha il senso di una scelta di politica economica e sociale in senso generale. Gli indicatori statistici utilizzati dal ministero delle Pari opportunità puntano infatti a dimostrare come la capacità di un sistema di accogliere il lavoro femminile e giovanile costituiscano il più efficace strumento di misurazione della qualità dei sistema stesso. Dai nuovi soggetti inoltre, viene la spinta per un aggiornamento del nostro sistema di tutela alla luce delle esigenze del lavoro mobile e di chi imbocca questi percorsi lavorativi.
In Italia la crescita della domanda di lavoro delle donne è stata costante negli ultimi armi: poco più di un terzo ha una occupazione riconosciuta. E' in atto un recupero parziale rispetto alla media delle nazioni europee, nei quali la metà delle donne lavora, ma recupero riguarda solo le aree più sviluppate del Paese: il tasso di attività femminile è dei 40% nel Nord e del 28% nel Sud.
I dati delle Pari opportunità mostrano una tendenza evidente: la crescita della quota di occupazione femminile in questi ultimi anni è avvenuta contestualmente alla crescita della componente flessibile del mercato dei lavoro: come tendenza, le lavoratrici "mobili" sono Più numerose dei colleghi maschi. Tra il 1992 e il 1998 la componente femminile del lavoro standard cala dall'86 all'81%, mentre la corrispondente riduzione della quota maschile è di molto inferiore. La partecipazione delle donne al lavoro flessibile è, in termini percentuali, costantemente superiore a quella maschile, soprattutto per le due modalità più in crescita: il part time e il parasubordinato. In quest'ultimo si colloca l'8% dell'occupazione maschile e l'11% di quella delle donne. La percentuale delle parasubordinate cala in rapporto all'età. Per le donne il lavoro flessibile resta il principale strumento di ingresso, mentre dagli uomini è più utilizzato nella dimensione professionale e imprenditoriale, anche in uscita da condizioni di lavoro standard. Non c'è un comportamento diverso dei due sessi invece nelle forme di ingresso al lavoro di .tipo formativo e negli strumenti di promozione dell'occupazione giovanile, in cui il rapporto tra ragazzi e ragazze è sostanzialmente omogeneo.
La maggiore scolarizzazione e presenza dei mercato del lavoro rende la donna sempre più attrezzata culturalmente a percorsi di. lavoro flessibile, nonché più attenta a valori come la qualità della vita e la gestione autonoma del tempo di lavoro. La crescita della condizione del lavoro femminile è evidente soprattutto nel lavoro autonomo e nella libera professione: il lavoro indipendente femminile cresce più di quello maschile e lo stesso processo si riscontra in tutti i segmenti del lavoro qualificato e professionale ad elevata specializzazione.
Il ritardo sui partner europei nella presenza delle donne nel mercato del lavoro corrisponderebbe quindi al ritardo italiano, soprattutto meridionale, nel creare opportunità di impiego qualificato. La donna, come evidenziano i dati che saranno presentati a Napoli, ha più chance in un sistema in cui si richiede di lavorare meglio ed esistono condizioni ambientali favorevoli all'impresa: le aree del Paese che hanno investito in questi anni per facilitare gli insediamenti produttivi e la migliorare qualità dell'habitat hanno determinato condizioni più favorevoli per lo sviluppo occupazionale femminile e giovanile.
R.San
IL LAVORO MINORILE
In tutte le epoche e in tutte le società i fanciulli sono stati utilizzati per lavori propri degli adulti; l'utilizzo di manodopera minorile non fu tuttavia considerato un problema sociale fino alla rivoluzione industriale, che introdusse diversi tempi e ritmi nel lavoro, mutandone completamente l'organizzazione. Pertanto, l'espressione "lavoro minorile" nel XIX secolo designava il ricorso in fabbrica al lavoro dei bambini; attualmente è utilizzata per definire in generale l'impiego di minori, specialmente per lavori che potrebbero interferire con la loro educazione o danneggiare la loro salute.
STORIA DEL LAVORO MINORILE
Poiché la Gran Bretagna fu la prima nazione a sperimentare la rivoluzione industriale, essa fu anche la prima a manifestare particolari problemi di lavoro minorile connessi alla produzione industriale. Alla fine del XVIII secolo, i possessori di cotonifici reclutavano gli orfani e i figli di famiglie povere in tutto il paese, utilizzandoli in cambio del semplice mantenimento; in alcuni casi, fanciulli di cinque o sei anni erano costretti a lavorare dalle tredici alle sedici ore al giorno.
All'inizio del XIX secolo i riformatori sociali cercarono di ottenere restrizioni legislative per ovviare agli aspetti più negativi del lavoro minorile, ma con risultati molto scarsi. Spesso con l'approvazione dei dirigenti politici, sociali e religiosi, si consentiva di impiegare i fanciulli in mansioni pericolose, come quelle tipiche delle miniere. I risultati erano l'analfabetismo, l'ulteriore impoverimento di famiglie già misere e una moltitudine di fanciulli ammalati e invalidi.
Le agitazioni popolari per ottenere delle riforme aumentarono allora in modo costante. La prima importante legislazione britannica entrò in vigore nel 1878, quando l'età minima di impiego fu portata a dieci anni, e ai datori di lavoro fu richiesto di ridurre l'utilizzo di fanciulli tra i dieci e i quattordici anni, facendoli lavorare a giorni alterni o a mezza giornata. Oltre a rendere il giorno del sabato per metà festivo, questa legislazione limitò anche la giornata lavorativa dei minori tra i quattordici e i diciotto anni a dodici ore, con una pausa di due ore per i pasti e il riposo.
Lo sviluppo del sistema industriale generò anche in altre nazioni uno sfruttamento del lavoro minorile simile a quello che si verificava in Gran Bretagna. Durante i primi anni del XIX secolo i bambini tra i sette e i dodici anni costituivano ad esempio un terzo della manodopera delle fabbriche statunitensi.
La legislazione adottata a fine Ottocento da molti paesi per contenere l'analfabetismo fra i fanciulli lavoratori stabilì l'età lavorativa minima e il numero massimo di ore giornaliere e vietò il lavoro minorile all'interno di fabbriche pericolose. La prima Conferenza internazionale del lavoro, tenuta a Berlino nel 1890, costituì il primo tentativo internazionale concertato per elaborare delle norme sull'impiego dei minori.
La moderna legislazione sul lavoro minorile nel mondo industrializzato generalmente è legata alla legislazione scolastica sulla frequenza della scuola dell'obbligo. Sebbene sia vietato alla maggior parte delle industrie e delle attività produttive di utilizzare ragazzi in età scolare per impieghi a tempo pieno, i fanciulli vengono largamente impiegati nel "primo" e nel "secondo" mondo in lavori d'altro genere o part-time.
PROBLEMI INTERNAZIONALI
Il lavoro minorile continua a costituire anche oggi un grave problema in molte parti del mondo, soprattutto nei paesi sottosviluppati dell'America latina, dell'Africa e dell'Asia, dove le condizioni di vita dei fanciulli lavoratori sono misere e le possibilità di istruzione minime. Quindi, poiché i magri guadagni dei fanciulli sono indispensabili per la sopravvivenza della famiglia, in certi casi essi vengono ceduti dalla famiglia stessa a datori di lavoro che hanno anticipato una somma di denaro sulla quale sono dovuti onerosi interessi, che i fanciulli devono rimborsare col proprio lavoro, venendo così a trovarsi in una situazione di vera e propria schiavitù.
In alcune nazioni l'industrializzazione ha creato per i minori condizioni lavorative simili a quelle delle fabbriche e delle miniere europee del XIX secolo, anche perché i vincoli legali talvolta esistenti vengono aggirati mediante clausole che permettono il lavoro all'interno della famiglia. È difficile ottenere statistiche precise poiché il lavoro minorile è ufficialmente illegale quasi ovunque: per le autorità è molto difficile quantificare il problema, e quindi controllarlo. Secondo statistiche largamente accettate, il lavoro minorile si colloca comunque tra il 2 e il 10% della forza lavoro globale di alcune aree dell'America latina e dell'Asia, e supera il 10% per cento in alcuni paesi del Medio Oriente.
I problemi del lavoro minorile non sono, ovviamente, limitati alle nazioni in via di sviluppo. Essi esistono ovunque vi siano situazioni di povertà e quindi anche in Europa e nell'America del Nord. In Gran Bretagna la Low Pay Unit, commissione creata per il controllo dello sfruttamento, ha recentemente stabilito che circa 2 milioni di minori sono stati assunti per lavori part-time: si tratta del dato più negativo dell'intera Unione Europea. Inoltre, negli ultimi anni è andata aggravandosi anche in Italia la piaga della prostituzione minorile nei centri urbani.
I maggiori sforzi per eliminare lo sfruttamento della manodopera minorile nel mondo sono stati compiuti dall'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), fondata nel 1919 e ora istituto specializzato dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). L'organizzazione ha introdotto varie regolamentazioni sul lavoro minorile, incluse l'età minima di sedici anni per venire ammessi a qualsiasi tipo di lavoro (anche all'interno della famiglia), un'età minima maggiore per particolari lavori, visita medica obbligatoria e regolamentazione del lavoro notturno. L'ILO non ha tuttavia il potere di imporre queste norme ai paesi membri. Pure la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia, adottata nel 1989, include restrizioni sul lavoro minorile ed è ufficialmente vincolante per tutte le nazioni che l'hanno sottoscritta, anche se non prevede nessuna clausola che ne imponga l'adozione. L'ONU stima che entro il 2000 saranno 375 milioni i minori utilizzati in tutto il mondo come lavoratori.

-IMMAGINI-
DOCUMENTO N°1
Lavoro minorile, north Carolina
Lo sviluppo industriale che seguì alla guerra civile americana impose un immediato e massiccio reclutamento di manodopera. Vennero frequentemente utilizzati anche minori, assegnati a mansioni pericolose senza alcuna forma di tutela legale né di prevenzione degli infortuni: molti morirono o rimasero invalidi.
DOCUMENTO N°2:
Bambini al lavoro sul fiume Mekong, Laos
Il fiume Mekong e i suoi affluenti costituiscono la principale risorsa d’acqua per l’agricoltura del Laos. Numerosi bambini sono impiegati nel lavoro di irrigazione delle risaie, condotto in gran parte con metodi manuali.

1

Esempio