Gli Ebrei

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Testo

Ebrei
Con questo nome si indicano gli appartenenti alla comunità etnica e religiosa che trae le sue origini da alcune tribù semitiche nomadi stanziate nell'area del Mediterraneo orientale prima del 1300 a.C., e insediatesi poi nella "terra di Canaan", ovvero l'antica Palestina. Qui, rafforzando il loro legame fondato sul culto monoteistico di Jahve, costituirono verso il 1020 a.C. un organismo politico unitario retto da un re. Se come "ebrei", termine derivato dal nome di Eber, indicato dalla Bibbia (Genesi, 10:21) come uno dei discendenti di Sem, si identificavano gli stessi appartenenti a questo popolo nella fase più antica della loro storia, di origine remota è anche il nome "Israele": dapprima esso fu proprio del patriarca Giacobbe (Genesi 39:29), poi venne esteso a tutto il popolo considerato sua discendenza (Genesi 32:33). Seguendo i testi biblici, che esaltano Jahve come "Dio di Israele" e dei "figli di Israele" (Esodo, 1:7), riferendosi soprattutto al periodo compreso fra la conquista della terra di Canaan e la caduta, nel 721 a.C., dell'omonimo Regno di Israele per mano di Sargon II, re degli assiri dal 722 al 705, la lingua italiana indica gli ebrei anche come "israeliti". Fin dall'epoca della cattività babilonese, tuttavia, il termine "ebrei", come pure le denominazioni derivate dalla parola "Israele", furono sostituiti con l'ebraico yehudhi, originariamente indicante i membri della tribù di Giuda e successivamente tutto il popolo. I romani denominarono Judaea la Palestina e judaei i suoi abitanti, identificati come depositari di una tradizione religiosa: da judaei derivano, oltre all'italiano "giudei", poco utilizzato dalla lingua comune, i termini impiegati dalle principali lingue europee per indicare gli ebrei: in inglese jews, in francese juifs e in tedesco juden. Occorre comunque precisare che il termine "giudei" sopravvive in italiano soprattutto con un'accezione religiosa che esprime un riferimento esplicito, anche nelle traduzioni dei testi del Nuovo Testamento, agli ebrei avversari dell'ebreo Cristo e, in misura ancora maggiore, agli ebrei che, rivendicando la fedeltà ai principi della loro tradizione religiosa, furono identificati come oppositori dalla stessa componente ebraica della prima comunità cristiana. L'ideale religioso, infatti, pur abbandonato dal XIX secolo da un numero non trascurabile di israeliti, ha costituito il motivo fondamentale per l'identità e l'unità degli ebrei della diaspora, dispersi nei diversi paesi, dall'Europa allo stesso Medio Oriente fino agli Stati Uniti, dal 135 d.C., anno del fallimento dell'ultima rivolta antiromana, fino alla fondazione, nel 1948, dello stato di Israele. Stabilendo un criterio univoco per identificare gli eredi di questa millenaria tradizione, etnica e religiosa insieme, il parlamento israeliano ha definito per legge, nel 1970, come ebreo chiunque sia nato da madre ebrea. Nel mondo vivono circa 14 milioni di ebrei, di cui il 40% in Israele, il 40% in USA ed il resto in altri paesi. In Italia vi sono circa 30 mila ebrei. Gli ebrei sono chiamati anche "Il popolo del Libro" perché danno estrema importanza a quello che c'e' scritto nella Torah. Da millenni studiano, interpretano e tramandano ai propri figli la Torah, intesa come la Legge.
La storia
La ricostruzione della storia più antica degli ebrei nel quadro delle migrazioni dei popoli del Vicino Oriente fra il III e il II millennio a.C. appare oltremodo difficile. Gli studiosi fin dal XIX secolo hanno tentato di reinterpretare, specialmente sulla base dei dati archeologici, i contenuti della tradizione biblica, e soprattutto il materiale relativo all'epoca dei cosiddetti patriarchi, confluito nel libro della Genesi intorno al VI secolo a.C., epoca della sua redazione definitiva, assieme agli altri quattro libri della prima e fondamentale sezione della Bibbia: Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Se, infatti, la storia ebraica può essere ricostruita su fondamenti sufficientemente attendibili soltanto a partire dall'epoca monarchica, la tradizione religiosa degli ebrei, invece, attribuisce un'importanza centrale proprio alle vicende che precedettero questa fase più propriamente storica nel senso moderno del termine. La tradizione biblica identifica dunque gli antenati degli ebrei con i nomadi aramei della Mesopotamia meridionale che si erano stabilite nella regione di Canaan (l’odierna Palestina) e furono riunite in un unico regno da Davide e da Salomone, con capitale Gerusalemme. Alla morte di Salomone si formarono due regni: il regno d’Israele al nord con capitale Samaria e il regno di Giuda al sud con capitale Gerusalemme. Israele conservò la propria autonomia fino al 586 a.C. quando la città fu conquistata dal babilonese Nabucodonosor e il re e la classe dirigente furono deportati a Babilonia. Grazie all’editto emanato nel 538 a.C. da Ciro, re dei Persiani, una parte degli esiliati in Babilonia decise di ritornare in Giudea: nel 515 a.C. fu inaugurato il Tempio ricostruito e riorganizzato il culto. All’interno della società ebraica la classe sacerdotale svolse quella funzione di guida che nell’età precedente era stata svolta dalla monarchia. Quando Alessandro Magno conquistò il Vicino Oriente, la Giudea passò prima sotto il dominio dei Tolomei d’Egitto e poi sotto quello dei Seleucidi di Siria. Nel 142 a.C., in seguito alla rivolta di gruppi ebraici guidati dai Maccabei, la Giudea riconquistò l’autonomia politica. Con Erode la regione diventò una provincia romana e prese il nome di Palestina.
Nei secoli I-VII in Palestina, prima sotto la dominazione romana e poi sotto quella bizantina, e in Babilonia, con i Persiani, gli ebrei sistemarono il loro patrimonio religioso tradizionale: la “Legge scritta” nella Bibbia e la “Legge orale” nel Talmud.
Dal secolo VIII in poi, in seguito all’avvento dell’islamismo, conobbero un particolare sviluppo le comunità ebraiche del Vicino Oriente; gli ebrei si diffusero anche in Italia, Francia e Germania.
Proprio in questo periodo visse il più grande filosofo ebraico di tutti i tempi: Mosè Maimonide. Nato a Cordoba nel 1135, l’opera di Maimonide, Rabbi Mosè Ben Maimon (conosciuto in ebraico con l’acronimo Rambam) è, per la vita quotidiana di qualsiasi ebreo, da circa 800 anni, più importante delle stesse Sacre scritture. Fu infatti Maimonide a scrivere il Commentario alla Mishna, e un anno dopo Mishne Torah. Testi, in cui, stabilisce il Taryag mitzvoth: le 613 regole, 248 positive e 365 negative a cui un ebreo osservante è obbligato attenersi. In quell’opera Maimonide codifica l’intero corpus dell’ebraismo in un modo comprensibile per chiunque sappia leggere e scrivere (e quindi per tutti gli ebrei maschi). Senza quell’opera la sopravvivenza dell’ebraismo nella Diaspora sarebbe stata impossibile. Più importante di tutto: Maimonide stabilisce che Dio è un’entità non corporea, e che quindi ogni riferimento a Dio in sembianze umane contenuto nella Bibbia è solo una «metafora, per rendere la Scrittura comprensibile agli umani». Maimonide per altro non appartiene solo agli ebrei. Filosofo che cerca di conciliare la fede con la ragione, la sua opera è radicata nel pensiero arabo e islamico dell’epoca e per molti versi, nella struttura, ricalca gli “hadith” (libri che trattavano la tradizione orale) dei filosofi musulmani. Infine, Maimonide non era solo filosofo; era anche medico alla Corte di Alfadhel, il gran visir di Saladino.
Nell’età moderna avvennero tre fattori decisivi.
1. Espulsi dall'Inghilterra nel 1290 per iniziativa del re Edoardo I e dalla Francia per decreto emanato dal re Carlo VI nel 1394, gli ebrei di Spagna furono costretti a convertirsi in massa al cristianesimo, e ben presto l'Inquisizione spagnola, istituita nel 1478, si impegnò a scovare quegli israeliti bollati come marranos (in spagnolo "porci") perché accusati di continuare a professare segretamente la propria religione nonostante l'accettazione formale della fede cristiana. Espulsi anche dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1497, gli ebrei trovarono rifugio, oltre che in Olanda e a Costantinopoli, nell'Europa orientale, soprattutto in Polonia, dove il loro numero ammontava nel 1648 a circa 500.000 individui. Qui essi vissero raccolti in comunità che godettero di una certa autonomia culturale e religiosa prima di divenire oggetto, fra il 1648 e il 1658, della violenta persecuzione scatenata dai seguaci del leader dei cosacchi ucraini.
2. In quegli stati i contatti con il mondo non ebraico furono ridotti, se non eliminati. Gli ebrei furono rinchiusi nei ghetti o costretti a vivere solo nelle “zone di residenza”.
3. I contatti fra ebrei e non ebrei furono limitati, se non annullati. Il giudaismo si rinchiuse nello studio dei propri testi giuridici, rituali e mistici.
In Germania in ben poche città sopravvissero comunità ebraiche. Al loro posto c’erano gruppi dispersi che, grazie a un invito del consiglio della città o di un principe locale, usufruivano di permessi di soggiorno. Ma solo pochi riuscirono a diventare “Ebrei di corte” e a godere di un certo benessere. A loro i principi affidarono gli affari dello stato affinchè si occupassero delle finanze, amministrassero i monopoli, fornissero prestiti e sviluppassero nuove industrie. Il ruolo svolto dagli ebrei nella vita economica della Germania era così rilevante che il dissidio fra gli elementi proebraici e antiebraici di tutta la nazione raggiunse proporzioni pubbliche senza precedenti in Europa.
L'epoca moderna
Ritornati in Inghilterra dopo il 1650, all'epoca di Oliver Cromwell, e incoraggiati a insediarsi nelle colonie americane, gli ebrei furono riammessi anche in Francia nel 1791. Con la proclamazione dei principi di libertà, uguaglianza e fraternità, gli ebrei furono progressivamente strappati dal loro isolamento religioso, culturale, civile e politico per essere ammessi nel corso della civiltà contemporanea. La storia ebraica di questi ultimi due secoli è animata dal duplice tentativo di inserirsi a pieno titolo nella società e nello stesso tempo di conservare la propria identità. Il compito non è stato e nonè tuttora facile perché all’appuntamento con la rivoluzione francese gli ebrei arrivarono impreparati. Alla fine del XVIII secolo l’ebreo del ghetto mostrava un grave ritardo rispetto alle posizioni più avanzate della cultura contemporanea. La nuova politica di repressione, favorita dalla Restaurazione dopo il 1815, non bloccò comunque il processo di integrazione degli ebrei nella vita sociale dei paesi dell'Europa occidentale, e intorno al 1860 la loro cosiddetta "emancipazione" poteva dirsi fatto compiuto. L'Europa orientale conobbe invece un'epoca di inasprimento delle persecuzioni antiebraiche soprattutto dopo l'annessione alla Russia, fra il 1772 e il 1796, delle regioni orientali della Polonia; il regime zarista favorì direttamente i pogrom, periodici massacri di ebrei, la cui presenza era considerata una fonte di diffusione degli ideali liberali nel contesto ancora semifeudale dell'impero russo della fine del XIX secolo. Per sottrarsi alle persecuzioni, scatenate fino alla rivoluzione comunista del 1917, circa due milioni di israeliti viventi nei territori posti sotto il controllo russo emigrarono negli Stati Uniti fra il 1890 e la fine della prima guerra mondiale, unendosi alle comunità già presenti in quel paese fin dal 1654, anno dell'immigrazione di un gruppo di marranos brasiliani, a cui fece seguito l'insediamento, dal 1780, e, in misura maggiore, dal 1815, di ebrei europei e soprattutto, dopo il 1848, tedeschi. Nel 1924, pertanto, la popolazione statunitense di origine ebraica ammontava, quando furono imposti limiti al flusso migratorio, a circa tre milioni di unità. L'emancipazione ormai raggiunta in Europa occidentale spinse gli ebrei a superare il loro isolamento integrandosi nella vita sociale e politica dei paesi in cui si trovavano, e il XIX secolo conobbe così, accanto a figure come quella di Moses Mendelssohn, traduttore della Bibbia in tedesco e fondatore di un ebraismo che sarà detto "riformato" a motivo dell'atteggiamento di apertura verso le istanze della cultura moderna, personaggi quali il poeta tedesco Heinrich Heine, ebreo convertito al cristianesimo, e lo statista inglese Benjamin Disraeli, figlio di un ebreo convertito. Se Karl Marx e Sigmund Freud erano ebrei apparentemente lontani dalla cultura dei padri, come anche Albert Einstein e il pittore Camille Pissarro, i decenni a cavallo fra il XIX e il XX secolo saranno caratterizzati dall'attività di alcuni movimenti che, prendendo le mosse dalle istanze di rinascita culturale tipiche della Haskalah, o "illuminismo ebraico", inviteranno le comunità israelitiche a riscoprire, anche al di fuori della dimensione religiosa, la propria identità tradizionale e la propria storia, promovendo il ritorno all'uso dell'ebraico come lingua parlata. Quest'epoca di intensa attività intellettuale sarà caratterizzata dal sorgere di una nuova forma di ostilità nei confronti della popolazione di origine ebraica, il cosiddetto antisemitismo, termine utilizzato per definire l'atteggiamento proprio dei diversi movimenti di pensiero inclini a individuare gli ebrei, indipendentemente dal loro orientamento in materia politica e religiosa, come componente razziale da considerarsi comunque non appartenente al novero dei popoli europei. Il diffondersi di posizioni di questo genere in Francia condizionò sicuramente la vicenda nota come affare Dreyfus, dal nome dell'ufficiale ebreo ingiustamente condannato per tradimento al termine di un celebre processo, che ebbe fra i suoi spettatori più attenti l'ebreo austriaco Theodor Herzl. Quest'ultimo, nel 1896, fondò il movimento del sionismo, per dare voce agli israeliti decisi a rivendicare la creazione di uno stato ebraico indipendente come unica soluzione al problema dell'antisemitismo e di ogni forma di intolleranza. Le speranze del sionismo si realizzeranno compiutamente soltanto nel 1948, con la creazione dello stato d'Israele dopo le tragiche vicende dell'Olocausto (in ebraico shoah), lo sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti negli anni della seconda guerra mondiale.
Cause della persecuzione degli ebrei tedeschi durante il nazismo
Come conseguenza delle idee nazionaliste e razziste proclamate da Hitler nel Mein Kampf (1925), il regime nazista, sin dall'inizio, adottò misure di discriminazione sistematica contro gli ebrei, formalizzate in seguito nelle leggi di Norimberga (5 settembre 1935). Una prima legge, quella sui "cittadini del Reich", privava gli ebrei della cittadinanza e quindi dei diritti politici (diritto al voto, partecipazione alla vita politica), garantiti solo ai "cittadini del Reich"; una seconda legge, intesa a "tutelare il sangue e l'onore tedesco" vietava matrimoni e rapporti sessuali tra ebrei e tedeschi. Secondo l'ideologia antisemita e razzista del regime, ebreo era chiunque risultasse avere tre o quattro nonni osservanti della religione ebraica, indipendentemente dalla sua effettiva partecipazione alla vita della comunità ebraica; mezzo-ebreo era chi aveva due nonni osservanti o era sposato con un ebreo; chi aveva un solo nonno ebreo veniva designato come mischlinge (meticcio). Sia gli ebrei sia i mischlinge erano non-ariani e come tali soggetti a leggi e direttive discriminatorie. Per l’ideologia nazista gli ebrei costituivano una razza inferiore che, in quanto tale, doveva essere eliminata. In realtà le cause furono molteplici e vanno ricercate un po’ dovunque: nell’odio religioso come nell’ostilità verso lo straniero e nei conflitti economici come nella volontà di distruzione dei valori tradizionali. L’ideologia nazista diventò la summa di tutti i comportamenti intolleranti e discriminatori che la società aveva tenuto verso gli ebrei nel corso dei secoli. L’antisemitismo –l’atteggiamento ostile verso gli ebrei- che nell’antichità e nel Medioevo si basava su stati d’animo, su pregiudizi e su motivi teologici, trovò la sua giustificazione pseudo-scientifica negli ultimi vent’anni del secolo scorso. L’antigiudasmo è strettamente collegato alla diaspora e al rifiuto di adeguarsi al sistema di vita della maggioranza. L’attaccamento alla propria diversità hanno salvaguardato la separazione degli ebrei dagli altri popoli, ma nello stesso tempo li hanno esposti alla diffidenza e all’ostilità dei non ebrei. A questi motivi do natura etnica e religiosa se ne sovrapposero altri di ordine politico e finanziario. Gli ebrei, una volta conseguita l’emancipazione, spesso parteciparono molto attivamente ai movimenti rivoluzionari. Talora, quando i governi rivoluzionari volevano colpire il liberalismo e l’industrialismo, non avevano altro da fare che etichettare questi fenomeni come “ebraici”. Inoltre, gli ebrei, molti dei quali occupavano posizioni elevate nell’alta finanza, erano accusati di essere la causa delle difficoltà economiche e delle tensioni sociali che trvagliavano le nazioni.
L'"arianizzazione" dell'economia
Dal 1933 al 1939 Partito nazista, enti governativi, banche e imprese misero in atto un'azione comune volta a emarginare gli ebrei dalla vita economica del paese. I non-ariani vennero licenziati dalla pubblica amministrazione; gli avvocati e i medici ebrei persero i clienti ariani; le ditte di proprietà ebraica furono liquidate o acquisite da non-ebrei a un prezzo molto inferiore al valore reale; i ricavi ottenuti dal trasferimento delle imprese dagli ebrei ai nuovi proprietari (la cosiddetta "arianizzazione" dell'economia) furono assoggettati a speciali tasse di proprietà; gli ebrei impiegati in ditte liquidate o arianizzate persero il lavoro.
La notte dei cristalli
Obiettivo dichiarato del regime nazista prima della seconda guerra mondiale era spingere gli ebrei all'emigrazione. Nella notte dell'8 novembre 1938, come rappresaglia all'assassinio a Parigi di un diplomatico tedesco da parte di un giovane ebreo, in Germania furono incendiate tutte le sinagoghe, infrante le vetrine dei negozi di proprietà ebraica e arrestate migliaia di ebrei. La cosiddetta notte dei cristalli convinse molti ebrei tedeschi e austriaci ad abbandonare il paese senza ulteriori indugi; centinaia di migliaia di persone trovarono rifugio all'estero, ma altrettante si videro costrette o scelsero di rimanere.
In Italia
Nel 1938 anche il governo italiano decise la campagna antisemita: gli ebrei adulti furono cacciati dal lavoro, gli ebrei ragazzi e bambini furono cacciati dalle scuole. La discriminazione colpì ogni aspetto della vita quotidiana di cui scrisse una drammatica testimonianza Primo Levi nell’opera “Se questo è un uomo”. Non ha molta importanza se vi siano stati incitamenti tedeschi a Mussolini; in ogni modo la decisione mostra fino a che punto il modello nazista aveva permeato la politica italiana. In confronto ai nazisti, che uccidevano scientificamente gli ebrei, i razzisti italiani si limitavano a togliere loro le possibilità materiali di lavoro e di formazione; anche se più tardi i fascisti della Repubblica Sociale Italiana avrebbero dato la caccia agli ebrei per farli uccidere dai tedeschi. Ma il modello era quello. Da noi gli ebrei erano come tutti gli altri italiani: c’erano dei fascisti più o meno accesi, degli indifferenti, degli antifascisti più o meno impegnati. Perché quel tanto di antisemitismo popolare che c’era stato in Italia era cattolico, non biologico.
L'occupazione della Polonia
Allo scoppio della seconda guerra mondiale (settembre 1939) l'esercito tedesco occupò la Polonia occidentale, che contava tra gli abitanti due milioni di ebrei, i quali vennero sottoposti a restrizioni ancor più severe di quelle vigenti in Germania. Furono infatti costretti a trasferirsi in ghetti circondati da mura e filo spinato; ogni ghetto aveva il proprio consiglio ebraico cui era demandata la responsabilità degli alloggi (sovraffollati, con sei-sette persone per stanza), della sanità e della produzione. Quanto era prodotto al loro interno veniva scambiato con forniture di carbone e cibo (perlopiù grano e verdure) in quantità sufficiente a raggiungere la razione ufficialmente stabilita di 1200 calorie a persona.
L'invasione dell'Unione Sovietica
Nel giugno del 1941, nelle immediate retrovie delle armate tedesche impegnate nell'invasione dell'Unione Sovietica, l'Ufficio centrale di sicurezza del Reich inviò 3000 uomini organizzati in corpi speciali con il compito di individuare ed eliminare sul posto la popolazione ebraica dei territori occupati. Questi Einsatzgruppen (squadre d'azione) compirono veri e propri massacri nelle periferie delle città; la notizia si diffuse immediatamente in molte capitali del mondo, ma fu rapidamente rimossa e non provocò alcuna iniziativa da parte dei governi democratici.
La "soluzione finale"
A un mese dall'inizio delle operazioni in Unione Sovietica, il numero due del Reich, Hermann Göring, inviò una direttiva al capo dei servizi di sicurezza, Reinhard Heydrich, incaricandolo di organizzare una "soluzione finale" della questione ebraica in tutta l'Europa controllata dalla Germania. A partire dal settembre 1941 gli ebrei tedeschi furono costretti a indossare fasce recanti una stella gialla; nei mesi seguenti decine di migliaia di ebrei furono deportate nei ghetti in Polonia e nelle città sovietiche occupate. Si realizzarono i primi campi di concentramento (lager), strutture concepite appositamente per eliminare le vittime deportate dai ghetti vicini (300.000 dal solo ghetto di Varsavia). Bambini, vecchi e tutti gli inabili al lavoro venivano condotti direttamente nelle camere a gas; gli altri invece erano sfruttati per un certo periodo in officine private o interne ai campi e poi eliminati. Il maggior numero di deportazioni ebbe luogo nell'estate-autunno del 1942. Anche in questo caso, voci riguardo a stermini di massa giunsero agli ambienti ebraici all'estero e ai governi di Stati Uniti e Gran Bretagna. I casi di resistenza alle deportazioni furono rarissimi. Nell'aprile del 1943 gli ultimi 65.000 ebrei di Varsavia tentarono di opporsi alla polizia, entrata nel ghetto per la retata finale, ma vennero massacrati nel corso degli scontri, protrattisi per tre settimane.
I lager
Il lager è un progetto sistematico di annientamento dell'umana personalità. Fin dal primo momento in cui giungono al campo i detenuti subiscono una violenta cancellazione di tutto ciò che rappresenta la loro storia, la loro cultura, la loro identità.
Il lager impone alle vittime questa metamorfosi, da esseri umani ad oggetti, a numeri, ad elementi di un sistema, parti d'una macchina, sempre perfettamente rimpiazzabili. Spoliati d'ogni libertà e d'ogni individualità, le vittime del Lager devono ridurre il proprio livello d'esistenza al puro momento biologico: la fame, il cibo diventano la sola ragione d'esistenza. Non c'è posto per la spiritualità, per l'interiorità, per le manifestazioni dell'arte o della cultura.
Il cadavere stesso non è più il segno del ricordo, degli affetti, del dolore, ma è cosa fra le cose, da stivare in un magazzino e da eliminare nei forni crematori.
Il contatto con tanta disumanità sgomenta i sopravvissuti, resta nella loro memoria come l'esperienza più difficile e più incredibile da narrare. Perché raccontare quel dramma spaventoso significa entrare in una contraddizione irrisolvibile ma che, pure, bisogna affrontare. Una contraddizione che Elie Wiesel enuncia così: "Tacere è proibito, parlare è impossibile". Bisogna, cioè, conservare la memoria di quegli eventi, impedire che vengano cancellati dal tempo. Ed infatti le testimonianze diventano più intimamente sofferte e più coinvolgenti di fronte ai singoli, a quel morente nudo, solo, isolato, di cui parla Aldo Carpi, a quel padre senza un lenzuolo che ne avvolga il corpo, a quel ragazzo agonizzante di cui ci narra Wiesel, di fronte al quale i detenuti sono costretti a sfilare.
Le deportazioni
In tutta Europa le deportazioni crearono problemi di ordine politico, amministrativo e logistico. Nella stessa Germania sorsero accese discussioni sulla sorte dei mischlinge, che furono infine risparmiati. In Slovacchia e in Croazia vennero condotti veri e propri negoziati diplomatici riguardo alle deportazioni, mentre il governo collaborazionista francese di Vichy emanò direttive antisemite ancor prima che vi fosse una richiesta tedesca in tal senso. In Italia il governo fascista, che pure aveva spontaneamente introdotto leggi "a difesa della razza", rifiutò di collaborare con l'alleato nazista in questo campo, sino all'occupazione del settembre 1943; analoga riluttanza mostrarono il governo ungherese e quello rumeno, sino a quando ebbero un margine di autonomia (1944). Nella Danimarca occupata, cittadini di ogni estrazione sociale si impegnarono per mettere in salvo i concittadini ebrei, imbarcandoli verso la neutrale Svezia e sottraendoli così alla morte. I beni dei deportati (conti bancari, proprietà immobiliari, mobili, oggetti personali) vennero sistematicamente confiscati dal governo tedesco.
I campi della morte
Il trasporto delle vittime nei campi di sterminio avveniva generalmente in treno. I treni, viaggiavano lentamente verso la destinazione e molti deportati morivano lungo il tragitto. Le destinazioni più tristemente famose, fra le tante, furono Buchenwald, Dachau, Bergen-Belsen, Flossenburg (in Germania), Mauthausen (in Austria), Treblinka, Birkenau, Auschwitz (in Polonia). Quest'ultimo era il più grande tra i campi di sterminio; vi trovò la morte oltre un milione di ebrei, molti dei quali furono prima usati come cavie umane in esperimenti di ogni tipo. Per una rapida eliminazione dei corpi, nel campo vennero costruiti grandi forni crematori.
Reazione all'olocausto
Al termine della guerra, nell'olocausto avevano trovato la morte milioni di ebrei, slavi, zingari, omosessuali, testimoni di Geova e comunisti; tra gli ebrei le vittime ammontarono a più di sei milioni. Ma quale fu l’atteggiamento della grande maggioranza degli italiani, dei non ebrei, rispetto alla degradazione e agli immensi sacrifici morali e materiali imposti a una loro minoranza, a gente che fino al giorno prima era vissuta in mezzo a loro, come loro, senza gerarchie di valori? Il dato più evidente è stato l’indifferenza. Non vi fu protesta, almeno pubblica e operante, da parte della Chiesa. Non vi fu protesta visibile da parte degli intellettuali, neanche da quelli che di lì a pochi anni avrebbero brillato come campioni di democrazia. Quel silenzio è pesante per l’antifascismo intellettuale del secondo dopoguerra. La Chiesa condannava il razzismo in linea di principio ma né il clero né gli ordini religiosi e neppure l’associazionismo cattolico mossero alcunchè. L’opinione in generale è rimasta inerte fino al 1943. Alla base dell’indifferenza di quegli anni c’era forse l’idea che tutto sommato si trattava di piccole cose in confronto alla tragedia degli ebrei dell’Europa centrale. Ma la colpa degli intellettuali, laici o religiosi, comunisti o democratici, è stata appunto quella di non aver capito che i mali grandi e irrimediabili dipendono dall’indulgenza verso i mali ancora piccoli e rimediabili.
L’antisemitismo nel dopoguerra
La Chiesa cattolica ha condannato l'antisemitismo e ha cercato di rimuoverne le basi religiose: nel Concilio Vaticano II (1962-1965) infatti fu ufficialmente negata la responsabilità degli ebrei nella morte di Cristo e fu duramente condannato il regime nazista. Recentemente la Chiesa cattolica ha compiuto anche altri passi nel riconoscimento delle proprie responsabilità nella diffusione del pregiudizio antisemita. Nonostante l'universale sdegno suscitato nell'opinione pubblica dai crimini nazisti, dal dopoguerra a oggi si sono verificati ancora in diversi paesi europei atti di violenza e di ostilità nei confronti degli ebrei, fra cui tristemente comune è la profanazione dei cimiteri ebraici. Dalla fine degli anni Sessanta in poi, gruppi neonazisti hanno continuato a fare propaganda antisemita in Europa e negli Stati Uniti d'America. Anche in America latina, rifugio di molti nazisti fuggiti alla fine della guerra, si sono verificati episodi antisemiti, ad esempio dopo la cattura del criminale nazista Adolf Eichmann, avvenuta in Argentina nel 1960 da parte dei servizi segreti israeliani. A dispetto dell'enorme patrimonio storiografico, letterario e di testimonianze sul dramma provocato dall'antisemitismo, questo è ancora lontano dall'essere debellato. Ma chi sono gli antisemiti ?(Wlodek Goldkorn). Il settimanale tedesco “Die Woche” pubblica i risultati di un sondaggio di oggi che permette di capire i razzismi di ieri. Stando ai criteri adottati dagli autori, il 20 per cento dei tedeschi nutre «latenti» sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei. Scomponendo però i risultati, viene fuori che tra coloro che hanno meno di 50 anni - e quindi sono nati dopo la caduta del nazismo - la percentuale degli antisemiti, sempre «latenti», scende sotto il 10 per cento. Mentre tra i tedeschi con più di 64 anni, ben il 40 per cento è antisemiti.
Insomma, la democrazia, la società aperta, il pluralismo (che i tedeschi occidentali hanno vissuto a partire dal 1945) sono le migliori armi per debellare la piaga dell’antisemitismo. Trova così conferma una tesi, spesso contestata, di uno dei comandanti dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia, Marek Edelman, secondo cui l’antisemitismo (a differenza del pregiudizio, che è un’altra cosa) è sempre e soprattutto un’arma politica in mano a regimi e movimenti autoritari e totalitari, che se ne servono per suscitare l’odio nei confronti dei presunti diversi. E’ su quest’odio, facilmente indotto (grazie al pregiudizio), che si basa il consenso.
Ulteriore prova di questa tesi la fornisce un libro di recente uscita: Giorgio Fabre (“L’Elenco, Censura fascista, editoria e autori ebrei”). Fabre, vi ripercorre le vicende della censura fascista e quelle della compilazione di uno speciale elenco di autori ebrei i cui libri dovevano essere tutti proibiti per «motivi razziali». Ne risulta, tra le altre cose, quanto l’antisemitismo sia cresciuto man mano con l’inasprimento di tutte le altre misure repressive del regime fascista, e quanto sia naturale per un regime autoritario essere razzista. Ma si capisce anche come l’adesione all’antisemitismo sia stata dovuta, per lo più, al bieco opportunismo e non alla intima convinzione. Esemplare da questo punto di vista, il caso di Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale. Bottai non era un antisemita nell’animo, ma impose nell’ambito delle sue prerogative una politica anti-ebraica estremamente drastica, per calcoli puramente politici: per dimostrare a Mussolini che il suo dicastero era ancora più ligio agli ordini del Duce di quello concorrente, della Cultura Popolare. Gli editori addirittura sono stati complici attivi della politica antisemita. Solo per opportunismo.
Ma Freedman si ostina a dire che oggi non è così. E ricorda che negli Usa ci sono ben 34 deputati ebrei al Congresso, che le discriminazioni che impedivano l’accesso degli ebrei ad alcune università, club, ditte, sono cessati. E che il fatto che più della metà degli ebrei sposi partner non ebrei è un altro indice dell’integrazione in seno alla società americana. Insomma, sostiene, era «bello avere i non ebrei come nemici. C’è la nostalgia di questi tempi». Non una nostalgia masochistica, ma dell’unità in seno alla comunità, infranta dalla secolarizzazione, dal raggiunto benessere e status sociale, ma anche dalle divergenti scelte politiche.
Una provocazione che sembra utile anche in Italia, quella di Freedman, perché induce a porsi una domande chiave. Ora, è vero che gli ebrei italiani, delle persecuzioni hanno ben altra (e recente) memoria, rispetto a quelli americani. E tuttavia, come si fa a trasformare il ricordo di essere stati vittime, in una identità positiva, vivendo in un mondo in cui il punto centrale dell’appartenenza non è più la sinagoga né la famiglia tradizionale? Durante gli anni Novanta nell'Europa occidentale, in quella orientale seguita alla dissoluzione del sistema comunista, negli Stati Uniti, c'è stato un forte ritorno del pregiudizio antisemita, testimoniato dalla rinascita e dal successo elettorale di partiti dichiaratamente o velatamente neonazisti e razzisti e dalla diffusione e, sfortunatamente, dal successo, di opere di revisionismo storiografico tendenti a negare la realtà stessa dell'Olocausto. Uno dei massimi esponenti è sicuramente Ernest Nolte, secondo il quale gli ebrei sarebbero stati uccisi per odio verso il bolscevismo, nemico dell’umanità. Secondo Nolte ci si ostina a considerare gli ebrei come compartecipanti di una tragedia e li si vuole solo come vittime di un impresa infame.
Il nazismo nasce come reazione al bolscevismo e prende esempio dal bolscevismo per questo per Nolte esiste un nesso tra Gulag ed Aushwitz , i nazisti si sono ispirati al modello di distruzione di massa che era stato fornito da Lenin il cui oggetto principale poteva difficilmente essere un altro gruppo che non gli ebrei.
Per Nolte l’affermazione per cui gli ebrei sarebbero stati nella storia da sempre gli autori di “ ogni qualsivoglia ingiustizia sociale” era manifestatamente irrazionale anzi ridicola e nient’altro che una curiosa corrispondenza con le tesi del primo socialismo e del marxismo circa il carattere distruttivo della proprietà privata. Ma il nucleo razionale dell’antiebraismo consiste nella realtà fattuale del grande ruolo che un alto numero di singole personalità di origine ebraica giocano nel movimento mondiale socialista e comunista. Quindi quest’evento avrebbe voluto non solo risolvere la questione ebraica bensì annientare il socialismo più precisamente quello marxista ma in fin dei conti la stessa modernità. Nolte addossava contemporaneamente agli ebrei la responsabilità di due sistemi sociali che nella realtà sono aspramente contrapposti (capitalismo e comunismo) che per Lui sono due facce della stessa medaglia.
Inoltre secondo Nolte le cifre sul numero delle uccisioni e sul modo di uccidere sarebbero state gonfiate. Le alte fiamme divampanti dai camini dei crematoi di cui parlano molti testimoni oculari devono essere dovuti a illusione ottica in quanto non esistevano i presupposti tecnici per annientare 24 mila cadaveri al giorno. Contesta le uccisioni avvenute nella camera a gas perché non sono state riscontrate tracce rilevanti di cianuro nelle pareti e perchè i buchi secondo cui veniva introdotto il veleno furono fatti successivamente. Fa parte del revisionismo storico anche Furet che è molto più moderato di Nolte e si distacca in certe sue considerazioni.
L’esistenza di grandi capitalisti ebrei o la presenza di un certo numero di ebrei nel primo stato maggiore bolscevico non giustificano l’azione di Hitler. Sicuramente per Hitler gli ebrei incarnano non solo il bolscevismo ma anche il capitalismo apolide. Dunque permettono di riunire magicamente nello stesso odio l’unico popolo che viene considerato l’incarnazione di due idee e due regimi sociali contraddittori per cui, secondo Furet, Hitler non ha avuto bisogno del precedente sovietico della liquidazione dei Kulaki per progettare, prevedere, raccomandare la liquidazione degli ebrei.
Il carattere particolare del nazismo, come idea e come regime, sta nel tentativo di trasformare l’odio per gli ebrei come una passione politica diffusa in tutta l’Europa dell’epoca, in un generale massacro degli ebrei, nella liquidazione fisica di un popolo considerato non appartenente al genere umano.
Lo sterminio degli ebrei costituisce il punto culminante dei crimini commessi nel XX° secolo in nome di una ideologia politica. Anche se questo non attenua affatto gli altri massacri (il massacro dei Kulaki, all’inizio degli anni ’30, e l’assassinio in massa delle élite polacche a Katyn nel 1940, ecc.). Fra tutte queste figure politiche del male ciò che contraddistingue l’olocausto ebraico deriva da due ordini di ragioni: il primo è che l’impresa di sterminio prende di mira uomini, donne e bambini per il solo fatto che sono nati tali, indipendentemente da ogni intellegibile considerazione legata alla lotta per il potere. Il terrore antisemita ha perso qualsiasi rapporto con la dimensione politica in cui ha preso origine; la seconda ragione riguarda il carattere del popolo ebraico nella storia dell’umanità e in quella dell’Europa in particolare. Il popolo della Bibbia è inseparabile dall’antichità classica e dal cristianesimo. Sopravvive nel Medio Evo cristiano come testimone perseguitato di una promessa diversa. Prende parte al sorgere delle nazioni e all’avvento della democrazia in misura sproporzionata rispetto alla sua entità numerica. Martirizzandolo, cercando di distruggerlo, i nazisti uccidono la civiltà dell’Europa con le armi di uno dei popoli più civili d’Europa. Noi non siamo usciti da questa disgrazia che a noi sopravviverà. Le forme di memoria che assume e il tipo di pedagogia non sono sempre profondi, ed essa può venire utilizzata per fini politici.
Ma quello che esprime deve essere considerato un sentimento politico essenziale per i cittadini dei paesi democratici di questo secolo.
Il tentativo di giustificare Hitler oggi è assai diffuso: Hitler sarebbe solo una replica, un rifiuto di qualcos’altro. Questi esercizi giustificatori possono fare sorridere per la loro ingenuità ma sono molto pericolosi perché finiscono per cancellare e oscurare la natura stesa del nazifascismo, la sua capacità attiva di costruire odio e guerra.
Prima di fare qualsiasi considerazione guarda bene quest’immagine. E' l'immagine di un bambino a mani alzate di fronte ad un fucile nazista.
Quel bimbo si e' salvato.
Altri milioni di bimbi sono morti.

... poteva capitare a me...
ogni guerra e' un perdita di tempo
che provoca solo miliardi di vittime
e quindi ogni guerra non e' mai giusta
... ne rimasero solo 100...

se oggi abbiamo la felicita',
50 anni fa avremmo avuto la morte
basta un bastone per 100 botte,
bastano 100 botte per uccidere un bambino
i bambini non mollano mai
sono un ragazzo fortunato
terezin 1943, kosovo 1999:
forse hanno dimenticato?
non vorrei aver vissuto quello che avete vissuto voi
quando finira' la guerra
saremo troppo stanchi per goderci la pace
non c'e' cosa piu' inumana che la distinzione razziale
le persone che hanno fatto questo massacro
saranno colpevoli per sempre
questi disegni lanciano un solo grido:
non dimenticare!

La nascita dello stato di Israele
Il ricordo delle vittime ebree svolse un ruolo di primo piano nella formazione di un ampio consenso nel dopoguerra attorno al progetto di costituire in Palestina uno stato ebraico che potesse accogliere i sopravvissuti alla tragedia: il futuro stato di Israele. Nel 1947 gli inglesi chiesero l'intervento della neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, che stabilì un piano per la divisione della Palestina in due stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo, mentre Gerusalemme sarebbe diventata zona internazionale controllata direttamente dall'ONU. Il 14 maggio 1948, a Tel Aviv, un governo provvisorio proclamò la nascita dello stato d'Israele "aperto all'immigrazione di ebrei provenienti da tutte le parti del mondo"; il giorno seguente gli eserciti di Egitto, Transgiordania (l'attuale Giordania), Siria, Libano e Iraq si unirono alle popolazioni palestinesi e alla guerriglia araba che stavano lottando contro le forze ebraiche sin dal novembre del 1947, dando avvio alla prima guerra arabo-israeliana. Gli arabi, tuttavia, non riuscirono a evitare la formazione del nuovo stato e la guerra si concluse nel 1949 con quattro armistizi approntati dall'ONU tra Israele ed Egitto, Libano, Giordania e Siria. Il conflitto alterò profondamente gli equilibri etnici. Gli accordi estesero il territorio israeliano al di là dei confini stabiliti inizialmente dall'ONU (da circa 15.500 a 20.700 km2), comprendendo anche la parte nuova di Gerusalemme, che fu eretta a capitale; la striscia di Gaza, sul confine tra Israele ed Egitto, venne affidata a quest'ultimo, mentre la Cisgiordania e la parte antica di Gerusalemme furono annesse dalla Giordania. Degli oltre 800.000 arabi che abitavano la Palestina nel 1949, ne rimasero solamente 170.000; i rimanenti si rifugiarono nei paesi confinanti. Nel 1949 si tennero le prime elezioni per la Knesset (il Parlamento) e Chaim Weizmann, eminente leader sionista, divenne il primo presidente del paese.
Il governo di Ben Gurion
La carica di primo ministro spettò a David Ben Gurion, leader del Mapai. Questi pose l'accento sulla sicurezza nazionale e sullo sviluppo di un esercito moderno, il quale divenne anche il centro educativo per centinaia di migliaia di nuovi cittadini dello stato israeliano. Nei suoi prima anni di vita il nuovo stato dovette far fronte a non pochi problemi e, nonostante gli aiuti degli Stati Uniti, i primi anni Cinquanta furono caratterizzati da recessione economica e inflazione.
Gli ultimi anni di Ben Gurion
Durante l'ultimo governo di Ben Gurion, Israele continuò a potenziare l'esercito (soprattutto l'aviazione); la situazione economica migliorò e fu creata una rete idrografica al fine di facilitare lo sviluppo dei nuovi insediamenti nelle regioni meridionali del paese. Sebbene di dimensioni più contenute, il flusso di immigrati provenienti perlopiù dal Marocco continuò anche nei primi anni Sessanta e uno dei problemi fu l'assorbimento dei nuovi arrivati, notevolmente più poveri dei precedenti. Ben Gurion si dimise nel 1963 e gli succedette Levi Eshkol. Nel 1965 l'ex primo ministro lasciò il Mapai – il quale, fusosi con altri gruppi di sinistra, andò a formare il Partito laburista, che governò fino al 1977 – per andare a costituire un gruppo di opposizione chiamato Rafi. I due maggiori partiti di opposizione, liberali e Herut, si fusero nel 1965 nel Gahal, guidato da Menhaem Begin, e diedero in seguito vita al Likud.
La guerra dei Sei giorni
Dopo il conflitto del 1956 il nazionalismo arabo toccò l'apice e nel 1967 la costituzione di un contingente militare arabo unito, la chiusura dello stretto di Tiran e il ritiro delle truppe dell'ONU dalle zone di confine meridionali, indussero Israele ad attaccare contemporaneamente la Giordania, la Siria e l'Egitto. Forti della loro supremazia aerea, dopo sei giorni di combattimento gli israeliani ebbero la meglio. Al termine della guerra, Israele – contro le risoluzioni dell'ONU – prese possesso di Gaza e della penisola del Sinai, della zona araba di Gerusalemme (Gerusalemme orientale) e della Cisgiordania (sottratte alla Giordania), delle alture del Golan (già appartenenti alla Siria), raggiungendo un'estensione quattro volte superiore rispetto a quanto stabilito dall'armistizio del 1949. I territori occupati erano abitati da circa un milione e mezzo di palestinesi.
I territori occupati e la resistenza araba
Dopo il conflitto, la questione dei territori occupati dominò il dibattito politico. Alcuni giorni dopo la fine della guerra, tuttavia, Israele unì formalmente le due zone di Gerusalemme. A ciò fece seguito una recrudescenza del nazionalismo arabo palestinese; alcune fazioni interne all'Organizzazione per la liberazione della Palestina intrapresero attacchi terroristici contro scuole, mercati e aeroporti israeliani con l'obiettivo dichiarato di liberare la Palestina.
La guerra del Kippur e le sue conseguenze
Nel 1973 l'Egitto si unì alla Siria in una nuova guerra contro Israele, detta del Kippur, per recuperare i territori perduti nel 1967. Alla fine della guerra, l'Arabia Saudita e altri paesi produttori di petrolio ridussero le proprie esportazioni di greggio agli Stati Uniti e ad altre nazioni occidentali per l'aiuto prestato a Israele. In seguito, nel tentativo di incoraggiare una sistemazione pacifica della regione, il presidente americano Richard Nixon incaricò il segretario di stato, Henry Kissinger, di condurre i negoziati tra Israele, Egitto e Siria, che portarono, nel 1974, alla smilitarizzazione del Sinai e delle alture del Golan. La conclusione della guerra del Kippur non pose fine né ai disordini, né all'insoddisfazione generale nel paese che portarono al potere Begin, leader del Likud e contrario a qualsiasi concessione territoriale o politica ai palestinesi, assunse la guida del paese.
Il governo di Begin
Il programma economico conservatore del nuovo governo, che mirava ad arginare il deterioramento dell'economia (dovuto soprattutto alle ingenti spese militari), fallì. Malgrado la sua politica volta a favorire la formazione di nuovi insediamenti israeliani nei territori occupati e le sue azioni militari contro le zone meridionali del Libano, Begin fu il primo leader israeliano a raggiungere un accordo di pace con uno stato arabo; tale accordo fu il risultato di una sorprendente iniziativa del presidente egiziano Anwar al-Sadat, il quale nel novembre del 1977 si recò a Gerusalemme per intraprendere negoziati di pace. Questi, mediati dal presidente americano Jimmy Carter a Camp David (Maryland, USA), condussero alla firma del trattato di pace tra Egitto e Israele (Washington, 26 marzo 1979), il quale prevedeva la restituzione del Sinai all'Egitto, rafforzando così il controllo israeliano in Cisgiordania. L'accordo firmato con Israele costò all'Egitto l'espulsione dalla Lega araba.
Israele negli anni Ottanta
Nel 1981, anno in cui il Likud tornò alla guida del paese, Israele inviò alcuni bombardieri a distruggere un reattore nucleare in costruzione nei pressi di Baghdad, in Iraq, suscitando reazioni negative a livello internazionale, che furono accentuate poi dall'annessione unilaterale delle alture del Golan. Nonostante questi sviluppi e le complicazioni causate dall'assassinio di Sadat (ottobre 1981), nel 1982 venne completato il ritiro israeliano dal Sinai. Due mesi dopo Israele invase il Libano, con l'intenzione di disfarsi della presenza dell'OLP in quell'area e di instaurarvi un governo filoisraeliano; dopo aspri combattimenti nei dintorni di Beirut, i palestinesi ritirarono le proprie forze dalla città, mentre le truppe israeliane rimasero di stanza nella zona meridionale del paese. In seguito alle proteste internazionali – dovute anche al vasto massacro commesso da milizie cristiane nei campi profughi palestinesi controllati dagli israeliani – e alla continua crisi economica, Begin annunciò le sue dimissioni da primo ministro e da leader del Likud nell'agosto del 1983. Nelle elezioni del 1984 vinsero di stretta misura i laburisti che, insieme al Likud, formarono un governo unitario, nell'intento di ristabilire le relazioni internazionali. La carica di primo ministro fu così affidata a Shimon Peres, leader laburista fino al 1986.
Le rivolte palestinesi
I rapporti tra israeliani e palestinesi entrarono in una nuova fase nei tardi anni Ottanta, con l'avvio dell'intifada (1987), una serie di rivolte palestinesi nei territori occupati. La dura risposta del governo attirò le critiche dell'Occidente e dell'ONU. La coalizione Likud-laburisti crollò nel 1989 e Shamir guidò un governo provvisorio sino al giugno del 1990. Tra il 1989 e il 1990 giunsero oltre 200.000 ebrei dall'Unione Sovietica; questa nuova ondata immigratoria minò gravemente la già debole struttura economica del paese. Durante la guerra del Golfo, in cui molti palestinesi appoggiarono l'Iraq, numerosi missili Scud colpirono ripetutamente Israele, ma Israele non si lasciò coinvolgere nel conflitto.
Verso la pace
I primi colloqui di pace tra Israele, le delegazioni palestinesi e i confinanti stati arabi iniziarono nell'ottobre del 1991. Nel 1992 il Likud perse le elezioni parlamentari e il leader del Partito laburista Yitzhak Rabin formò un nuovo governo. Nel 1993 il primo ministro Rabin e il leader dell'OLP Yasser Arafat firmarono a Washington uno storico trattato di pace (frutto di un lungo lavoro preparatorio svoltosi nei mesi precedenti a Oslo in gran segreto). Il leader palestinese riconosceva a Israele il diritto a esistere come stato; Israele si impegnava a concedere l'autogoverno palestinese nei territori occupati, prima nella striscia di Gaza e nella città di Gerico e successivamente in altre aree della Cisgiordania. Nel maggio dello stesso anno, le truppe israeliane si ritirarono da Gerico e dalla striscia di Gaza, che passarono sotto l'autorità palestinese. A luglio, Rabin e Hussein di Giordania firmarono a Washington un accordo di pace che, fondamento per il vero e proprio trattato del 26 ottobre, pose fine a 46 anni di guerra tra i due paesi.
Lo stallo
Le trattative tra Israele e Siria nell'aprile del 1995 furono bloccate dal disaccordo sul possesso delle alture del Golan; nello stesso mese il governo annunciò l'espropriazione delle terre arabe a Gerusalemme orientale. La lentezza nell'applicazione degli accordi di Oslo intanto causava nei territori occupati un grande malcontento verso l'autorità palestinese e un rafforzamento delle forze ostili all'accordo di pace, in particolare i movimenti integralisti islamici Hamas e Jihad, che intensificarono l'attività terroristica compiendo gravi attentati nelle città israeliane. Anche in Israele si rafforzarono le posizioni di quanti erano ostili all'accordo di pace e furono commessi diversi attentati contro la comunità arabo-israeliana (ad esempio a Hebron, dove un militante della destra integralista ebrea fece un'irruzione armata in una moschea uccidendo 29 persone). Ma malgrado le proteste spesso violente, il processo di pace non si arrestò.
L'assassinio di Rabin
Il 4 novembre 1995 il primo ministro Rabin fu assassinato da un estremista ebreo; l'episodio suscitò una profonda emozione e la reazione della società israeliana fu immediata e massiccia. Il paese voleva la pace, ma, lacerato dalle divisioni, era sull'orlo della guerra civile. Tra febbraio e marzo del 1996 attentati islamici colpirono le maggiori città israeliane causando decine di vittime. Alle elezioni del maggio 1996 il Likud vinse le elezioni per una differenza di appena 26.000 voti. Benjamin Netanyahu, il leader del partito, fu eletto primo ministro e formò un governo con i partiti della destra religiosa, contrari all'accordo di pace e fautori dell'estendersi della colonizzazione israeliana nei territori occupati.
Crisi del processo di pace
Dal 1996 il governo israeliano ribadì più volte la necessità di rivedere gli accordi di Oslo, sia per quanto riguardava l'autonomia palestinese, sia, e soprattutto, per quanto riguardava la possibilità di insediare nuove colonie ebraiche nei territori occupati. Le crisi nelle relazioni israelo-palestinesi da allora si susseguirono, arrivando nel settembre allo scontro armato tra esercito israeliano e polizia dell'autorità palestinese, che causò 76 morti e centinaia di feriti. La situazione non migliorò nel 1997, quando il continuo rinvio dell'applicazione degli accordi di Oslo e ulteriori concessioni alla destra religiosa da parte del governo israeliano (come l'approvazione di un'altra colonia, la sesta, a Gerusalemme Est) cacciarono il processo di pace in un vicolo cieco. Verso la metà dell'anno, nell'intento di far avanzare le relazioni tra le due parti in conflitto e far uscire Israele dall'isolamento internazionale, ripartì l'attività diplomatica statunitense che continua ancora oggi.
Colui che ha mostrato grande sensibilità verso questo processo di pace è stato il Papa, che proprio in questi giorni ha iniziato la tappa più delicata del viaggio in Terra Santa.
«Gerusalemme accoglie il suo Santo Padre»
Tel Aviv, 21 Marzo
Poco dopo essere sceso dall'aereo, il Papa ha tenuto un discorso in inglese e si e' subito recato in elicottero in una Gerusalemme blindata per le eccezionali misure di sicurezza che sono state adottate. Per lo storico evento sono 18.000 i poliziotti e 4.000 i soldati mobilitati, un contingente molto più ampio di quello che venne utilizzato per il viaggio di Clinton nel 1988.
Ad attendere il Papa sulla pista dell'aeroporto c'erano il presidente israeliano Ezer Weizman, il premier Ehud Barak e una decina di ministri del governo israeliano. Presenti anche il Nunzio apostolico Mons. Pietro Sambi, l'ambasciatore d'Italia in Israele Gian Paolo Cavarai e numerosi esponenti delle varie comunità religiose in Israele.
Squilli di tromba e le telecamere di tutte le più importanti televisioni del mondo, hanno accompagnato la solennità del momento. Si tratta infatti della prima visita papale dalla normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e lo Stato del Vaticano.
Prima di Giovanni Paolo II, solo Paolo VI aveva visitato la regione nel 1964. Durante quella visita però il Pontefice non pronunciò mai il nome di Israele e visitò solo i luoghi santi della cristianità.
Il messaggio del Papa
"La mia visita e' un pellegrinaggio personale e poi un viaggio spirituale della Chiesa di Roma per risalire alle origini della fede nelle terre che hanno visto la mano di Dio", ha detto il Papa nel messaggio di saluto.
"Questo viaggio e' anche un tributo per le tre religioni", ha aggiunto, "io prego perché questa visita possa incoraggiare un aumento del dialogo tra le religioni". Il Papa ha concluso il suo discorso, ripetendo più volte la parole pace, shalom.
L'arrivo a Gerusalemme
"Gerusalemme accoglie il suo Santo Padre". E' la scritta a caratteri cubitali su sfondo giallo e blu, ornato dalle bandiere della Santa Sede, della città di Gerusalemme e dello Stato di Israele, che ha accolto il Papa giunto in elicottero da Tel Aviv alle 19.15, ora locale.
A ricevere Giovanni Paolo II c'erano il sindaco della città, Ehud Olmert, il capo della sicurezza e il rettore dell'università' ebraica. Olmert gli ha consegnato il rituale della città.
Un telegramma per Arafat
Durante il volo da Amman a Tel Aviv il Papa ha inviato un telegramma al presidente dell'Autorità' nazionale palestinese, Yasser Arafat. Se e' prassi che il Pontefice indirizzi messaggi di saluto ai capi di stato o ai regnanti delle nazioni che sorvola, e' meno consueto che rivolga il messaggio anche ai rappresentanti di territori non costituti in stato.
Con questo gesto il Papa rafforza l'atteggiamento dell'accordo recentemente stipulato da Santa Sede e Anp, dove già l'Autorità' era considerata in termini sovrani.
"Mentre il mio volo da Amman a Tel Aviv mi conduce sulle zone autonome palestinesi - scrive papa Wojtyla ad Arafat - saluto vostra eccellenza e, nell'attesa ansiosa della mia visita a Betlemme e nei territori palestinesi, chiedo a Dio onnipotente di benedire il popolo palestinese e di rinforzare in tutti i popoli del Medio oriente la determinazione a stabilire una pace giusta e stabile nella regione".
Questo viaggio è stato commentato da Shimon Peres in suo articolo
Da: Repubblica.
Titolo: L'ultima pietra miliare
ROMA - Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa è un grande avvenimento per Israele, per il popolo ebraico, per tutto il Medio Oriente. Un avvenimento di dimensioni storiche, perché la visita del papa è il culmine di un lungo processo di riavvicinamento tra grandi religioni e grandi civiltà, nate dagli stessi profeti e dal medesimo libro, la Bibbia, ma divise da secoli di tensioni, incomprensioni e pregiudizi che hanno creato innumerevoli tragedie.
Oggi, finalmente, sentiamo di esserci incamminati verso una nuova epoca, nella reciproca comprensione di ciò che ci accomuna e di ciò che ci distingue: e se siamo giunti a un tale risultato, larga parte del merito è di un pontefice che si è rivelato uno dei più importanti leader spirituali del nostro tempo.
So che questo viaggio verso Gerusalemme rappresenta una pietra miliare nella sua vita.
Ma sarà una pietra miliare anche nella vita del Medio Oriente.
Le innovazioni introdotte dal suo pontificato sono state decisamente rivoluzionarie per la Cristianità.
Per lungo tempo la Chiesa cattolica ha considerato quale scopo del suo ministero l'imposizione dei suoi dogmi al mondo intero.
E per lungo tempo non ha esitato a ricorrere alla forza per realizzare i suoi obiettivi.
Ma la Chiesa odierna è irriconoscibile rispetto a quella delle Crociate, dell'Inquisizione, dell'inflessibile dogmatismo.
L'imposizione è stata rimpiazzata dalla tolleranza.
La Chiesa, in buona misura grazie a questo papa, ha compreso che un'autentica armonia universale non si realizza attraverso l'affermazione di un unico credo su tutti gli altri, bensì tramite il dialogo, la coesistenza e la comprensione.
E di questo mutamento, gli ebrei hanno avuto una prova dopo l'altra da parte di Giovanni Paolo II.
Egli è stato il primo papa a visitare una sinagoga, il primo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, il primo a condannare senza mezzi termini l'antisemitismo, a definirlo un peccato contro Dio e a correggere il pregiudizio storico secondo cui gli ebrei erano responsabili e maledetti per la crocifissione di Gesù Cristo.
Ora è arrivato al punto di pronunciare uno storico mea culpa per le sofferenze causate dai cristiani agli ebrei.
Qualcuno ritiene che dovrebbe fare e dire ancora di più: ma anche se non fossimo soddisfatti al 100 per cento dalle sue opere e dalle sue parole, non possiamo che esprimergli gratitudine e rispetto per quanto ha fatto verso l'Ebraismo.
E credo che questo sentimento sia maggioritario tra la gente di Israele.
Ai cristiani, agli italiani, agli europei, suggerisco di non lasciarsi fuorviare dalle proteste o critiche contro il pontefice espresse dalla comunità ultra-Ortodossa ebraica.
Gli 'haredim' (Ultra ortodossi) non si limitano a denunciare il papa, perché non rispetta le norme dello Shabbat: essi denunciano, per le medesime ragioni, il proprio stesso popolo, quel 80 per cento di israeliani che non sono religiosi osservanti.
Gli ultra-Ortodossi sono una ristretta minoranza della popolazione di Israele (meno del uno per cento)
E comunque le più alte autorità rabbiniche hanno invitato a rispettare il papa e ad accoglierlo senza creare problemi.
E' il caso di ripetere quel detto della Torah secondo cui l'Ebraismo ha settanta volti, ciascuno con le sue caratteristiche e posizioni.
Siamo fatti così, in modo piuttosto complicato: non c'e' niente da fare.
Ma non è solo per il suo rapporto con l'Ebraismo che Israele ammira Giovanni Paolo II.
Fin dall'inizio del suo pontificato, egli si è coraggiosamente battuto contro ogni sistema totalitario, ha sempre difeso la democrazia e ha appassionatamente sostenuto la pace in Medio Oriente.
Questo papa ha lottato con tutte le sue forze per creare un mondo migliore, forse perché sentiva che la pace non può essere solo il freddo risultato di una trattativa diplomatica: deve essere anche pace economica e pace spirituale.
Così, per conto mio, è un bene che anche i palestinesi salutino la visita del papa come un avvenimento storico ed abbiano buoni rapporti con il Vaticano.
Da ormai un decennio, Israele ha imboccato una strada che porta a relazioni di amicizia con il popolo palestinese: e se noi ci sentiamo oggi amici sia dei palestinesi, sia della Chiesa, perché mai palestinesi e Chiesa non dovrebbero essere amici tra loro?
E' vero che il governo israeliano ha criticato il recente trattato tra la Santa Sede e l'Autorità' Palestinese: ma non per gelosie, o perché preferiremmo avere l'esclusiva dell'amicizia del papa.
E' solo che a nostro avviso quel trattato è un po' prematuro: i palestinesi non sono ancora uno stato, è probabile che lo diventeranno presto ma solo come risultato di un accordo di pace con Israele, al termine di un negoziato che non è ancora finito e che riguarda esclusivamente le due parti in causa, cioè noi e loro, senza pressioni o interferenze esterne.
Ma questo dissidio non rovinerà certamente l'atmosfera della visita di Giovanni Paolo II.
Io posso fare i confronti con quella del suo predecessore Paolo VI, trentasei anni fa.
E' noto che Paolo VI non volle neppure pronunciare il nome Israele, ma basterebbe un dettaglio per illustrare l'abissale differenza rispetto al presente.
Provenendo dalla Giordania, il papa Paolo VI annunciò che voleva entrare in Israele a Megiddo, nella bassa Galilea, e per giorni cercammo di capire cosa c'era sotto.
Perché proprio Megiddo?
Cosa significava quella scelta?
Finché scoprimmo che il Vaticano aveva deciso il percorso sulla base di vecchie mappe della prima guerra mondiale, sulle quali l'unica strada per la Galilea passava appunto per Megiddo.
Non c'era sotto niente, insomma, tranne una colossale ignoranza e nessuna volontà di cancellarla.
Il papa di oggi usa, per così dire, mappe più aggiornate, e gira il mondo per aprire sempre nuove porte, non per chiuderne.
Ho avuto il privilegio di firmare con il Santo Padre l'accordo che ha creato rapporti diplomatici tra Vaticano e Israele, così conoscendolo un po' più da vicino: mi e' sembrato un uomo di convinzioni profonde, carattere forte e grande intelligenza. Doti senza le quali non avrebbe potuto guidare la Chiesa per oltre vent'anni, senza sbagliare mai una parola o una mossa, tenendola unita e addirittura rafforzandola nell'era della televisione, di Internet, della globalizzazione.
Ora che quest'uomo eccezionale viene in pellegrinaggio a Gerusalemme, tanti si chiedono se riuscirà a risolvere anche l'eterno conflitto intorno alla Città Santa.
Personalmente, ho fiducia che il papa porterà un'atmosfera migliore, aiutando arabi ed ebrei a comprendersi meglio.
Sarebbe già molto.
Non spetta al pontefice, infatti, produrre il lieto fine che molti sognano per il Medio Oriente.
Del resto, io penso che non finirà proprio niente: la Storia continua il suo corso.
E poi, come ebbe a dire Flaubert, soltanto il Signore Iddio nell'alto dei cieli e' responsabile dell'Inizio e della Fine: noi uomini quaggiù sulla terra siamo responsabili per tutto quello che c'e' nel mezzo, tra Inizio e Fine.
Così mi ostino a sperare di poter migliorare l'intermezzo dell'umana esistenza, anche con l'aiuto del papa.
SHIMON PERES

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