Filosofie orientali

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Testo

- Filosofie orientali -

Un detto popolare cinese afferma: “3 sono le religioni, una solo è la ragione”.
Il detto è singolare perché riflette il particolare rapporto che per la mentalità cinese intercorre tra ragione e religione. Solo la ragione, infatti, è per i Cinesi in grado di riflettere un concetto totale che la assimila alla verità e alla conoscenza. Le religioni tradizionali(confucianesimo, taoismo, buddismo e quell’insieme di elementi che costituiscono la “religione naturale cinese” la cui caratteristica essenziale è il “polidemonismo”, la credenza cioè in innumerevoli forze o “spiriti” buoni o cattivi) sono soltanto veicoli per raggiungere quella comprensione totale delle leggi che regolano il cosmo che è il fine ultimo cui tende il pensiero cinese. Ne deriva che il buddismo, il confucianesimo e il taoismo(quest’ultimo almeno nella sua fase primitiva)debbono considerarsi religioni “ateistiche” o meglio “impersonalistiche”,religioni alle quali è totalmente estraneo ogni concetto di un dio trascendente.

IL BUDDISMO

Tale religione fu fondata in India (Nepal) da Siddhartha Gautama, detto Buddha, nel sec. VI a.C. Essa si stacca dalla precedente concezione politeistica (risalente ai Veda) per rispondere alle esigenze di una «salvezza umana» (senza mediazione divina). Tale «salvezza» è essenzialmente un riscatto dalla condizione umana, sentita come penosa e insostenibile. Il buddismo conseguì un immediato successo, perché i problemi in esso proposti erano già presenti nella tradizione religiosa indiana, lasciando adito a soluzioni ambigue e contraddittorie rispetto all'ortodossia vedica. Il rapporto tra uomini e dei, nell'originaria concezione politeistica costituiva un limite alla condizione umana e, al tempo stesso, una salvezza, mediante l'aiuto divino ottenuto dall'azione cultuale. Tale rapporto si andò col tempo modificando, nel senso che l'azione cultuale da semplice strumento di mediazione divenne l'interesse precipuo della religione indiana, perché i sacerdoti, da mediatori tra uomini e dei, esaltarono l'atto di mediazione, il rito, come atto assoluto, generatore di quella forza (brahman) di cui gli stessi dei avevano bisogno per esistere. In questa si videro molti eremiti, asceti, santoni cercare, al di fuori di ogni sistema organizzato dalla casta sacerdotale, la propria via alla salvezza, attirando talora dei discepoli, che da soli si sentivano impari al ponderoso compito. Uno di questi gruppi, operante nell'India settentrionale, ebbe una fortuna particolare dando vita al buddismo, religione che, assieme al cristianesimo e all'islamismo, costituisce ancor oggi la triade delle religioni universalistiche.

-LE QUATTRO "VERITÀ"

La fortuna iniziale del buddismo va in gran parte attribuita alla semplicità, alla chiarezza e alla coerenza delle sue risposte ai problemi impostati dalla tradizione religiosa indiana. Quattro sono le «verità» fondamentali: la verità dell'esistenza del dolore; la verità dell'origine del dolore; la verità della fine del dolore; la verità dei mezzi per porre fine al dolore. Tutto è dolore nel mondo: nascere, vivere e morire; ma quale la sua origine? La risposta è: ha origine dal desiderio; si vive perché si desidera vivere; ma la vita è dolore, e perciò il desiderio, fonte di vita, è anche fonte di dolore. Né, per sottrarsi al desiderio, basta morire; in tal caso si desidererebbe la morte, e si resterebbe perciò prigionieri del desiderio (d'altra parte anche morire è un dolore). Bisogna, invece, semplicemente far cessare ogni desiderio (sia il desiderio di esistere sia quello di non esistere). A questo punto, il buddismo abbandona la speculazione filosofica e si fa decisamente religione, sia perché s'innesta nelle pratiche rituali (d'ordine ascetico) della tradizione religiosa indiana, sia perché utilizza certe sue concezioni metafisiche (quali il karman e la «reincarnazione»). La quarta «verità», infatti, quella che concerne i mezzi di liberazione dal desiderio, non può che fornire una pratica di vita sommamente ritualizzata, con precise regole di comportamento dello stesso genere di quelle che di solito ci fanno individuare una religione tra gli altri fatti culturali. Le regole buddiste sono essenzialmente raccolte in otto serie parallele e distinte (l'«ottuplice sentiero»). Esse tendono a sottrarre il praticante dalla vita mondana o profana; teoricamente dovrebbero portarlo all'inazione assoluta, perché ogni azione produce karman, ossia, secondo la tradizione religiosa indiana, un qualcosa che costringe a prolungare l'esistenza. Neanche la morte annulla il karman accumulato in vita, e perciò, cessata la vita in una forma, si torna a vivere in un'altra forma e ad accumulare altro karman. Per sottrarsi alla ferrea legge del karman che tiene prigioniero l'uomo nel ciclo delle rinascite, il buddismo suggerisce dunque certe sue regole di comportamento (teoricamente di inazione). Esaurito il karman accumulato in precedenti vite, il buddista esce finalmente dall'esistenza ed entra nel nirvana, la condizione opposta a quella dell'esistenza: può essere inteso come non-esistenza pura e semplice o come una specie di paradiso. L'una e l'altra interpretazione, con diverse gradazioni d'accento, sono state proposte sia dalle scuole buddiste sia dagli studiosi occidentali. In realtà si tratta di un concetto essenzialmente religioso, e dunque irriducibile agli schemi di una qualsiasi filosofia. Diremo perciò: il nirvana sta all'esistenza come le regole di comportamento religioso predicate dal buddismo stanno alla vita profana.

-SVILUPPO DEL BUDDISMO

In forza dei suoi stessi principi il buddismo. poteva realizzarsi appieno soltanto in comunità monastiche, disciplinate da una rigida regola. Ma in realtà si ebbe subito anche un laicato buddista, dovuto al fatto che il laico in India manteneva da sempre i sacerdoti e la tradizione continuò anche verso i monaci buddisti. Anzi, tali contributi vennero canonizzati e il laico che aderiva al buddismo. doveva farlo non più con elargizioni saltuarie ma con una formula rituale nella quale dichiarava di «prendere rifugio» nel Buddha, nel Dharma (la «dottrina» buddista) e nel Samgha (la comunità dei monaci). Dopo di che anche il laico era legato a certe norme di vita riflettenti l'etica buddista, e le sue speranze giungevano alla convinzione di una rinascita nella forma di un monaco buddista, e cioè nella forma più adatta per conseguire quel perfezionamento che conduceva al nirvana. Al monaco preoccupato della sola salvezza personale si sostituì il maestro di dottrina misericordioso che, sull'esempio del Buddha, aiutava gli altri a raggiungere la salvezza. Questo nuovo buddismo. si chiamò Mahayana, ossia Grande Veicolo, in spregio al più antico buddismo che era detto Hinayana (Piccolo Veicolo). Il buddismo del Grande Veicolo aprì nuove prospettive: per la parte teorica vi fu una fioritura di scuole «filosofiche» in cui si cercava di definire la «buddhità» (lo stato di perfezione in senso buddhista).

-LA PRATICA BUDDHISTA

Quanto alla pratica, l'idea del Buddha che si volge misericordioso alla salvezza altrui portò alla concezione di entità metafisiche Buddha e Bodhisattva, da invocare non solo per la salvezza assoluta, ma anche nei bisogni quotidiani. Di nuovo compare il rito anche in questa religione che aveva preso le mosse da un anti-ritualismo programmatico in quanto rottura con il culto divino e con quella casta sacerdotale che a tale culto era addetta. Sviluppo ulteriore sono le forme del buddismo tantrico (o Vajrayana), che esaltano in senso ora magico e ora salvifico appunto l'azione rituale, a cui viene ormai assimilato l'esercizio spirituale o psicofisico (yoga) già noto all'ascesi più antica. I libri canonici del buddismo sono tre raccolte, o «canestri» (appunto Tripitaka, Tre Canestri), una concernente la disciplina monastica (Vinaya), una che espone gli insegnamenti del Maestro (Sutra) e la terza dedicata alla dottrina (Abhidharma).

-DIFFUSIONE DEL BUDDHISMO

Il buddismo comincia a conquistare un posto rilevante in India con l'imperatore Asoka (sec. III a.C.). Diviene presto un fatto culturale di tale importanza da varcare i confini dell'India, diffondendosi a Ceylon, nell'Indocina, in Cina, in Corea, in Giappone, nel Tibet. Il buddismo cinese, come anche il buddismo giapponese, dà vita a riplasmazioni teoriche e a sette originali. Tra queste ricordiamo: la «Terra Pura» che si svolge dalla venerazione del dhyani-Buddha Amitabha (in Giappone amidaismo, da Amida, il nome giapponese di Amitabha); la scuola Ch'an (il futuro Zen giapponese); la setta T'ien (che sarà per i Giapponesi il tendai) che cerca di conciliare i vari indirizzi buddisti. Nel Tibet il buddismo penetra nel sec. VII d. C. come tantrismo per alcuni caratteri delle sue concezioni «magiche», affini alle forme della tradizione religiosa indigena. Nella lotta tra i vari monasteri, prevalse quello di Lhasa. Il buddismo tibetano si chiamò lamaismo.

IL TAOISMO

Il taoismo è una formazione particolare della religione nazionale cinese che si realizza presumibilmente intorno al sec. V a.C. in concorrenza con il confucianesimo, come sbocco pragmatico e soteriologico di una vasta crisi politico-sociale. In tal senso è possibile differenziare l'orientamento confuciano da quello taoista come «restauratore» il primo e «rigeneratore» il secondo. Il confucianesimo pone la salvezza individuale in una «restaurazione» dell'Impero, sia pure su nuove basi etico-religiose, mentre il t. pretende di «rigenerare» individuo e società svincolandoli dall'«ordine imperiale» e vincolandoli (o adeguandoli) all'«ordine cosmico», o a un principio cosmico chiamato tao. La concorrenza al confucianesimo si esplica a vari livelli: si contrappone a Confucio un maestro-fondatore dello stesso prestigio, Lao-Tse, figura più o meno leggendaria; a una letteratura confuciana si oppone un canone taoista (una raccolta sterminata di testi, studiata solo parzialmente); all'esaltazione confuciana della cultura si oppone l'esaltazione della natura, o di una condizione naturale più adeguata al tao. Quest'ultima contrapposizione, che è fondamentale per la comprensione del t., ha tuttavia ingenerato interpretazioni equivoche: si è spesso voluto vedere nel t. una religione popolare (contadina) che tuttavia non avrebbe mancato di ispirare filosofi e persone d'alta cultura, ferma restando una specie di frattura tra la teoria di questi e la pratica delle masse. C'è persino chi ha voluto distinguere nello stesso t. di massa tra un'adesione formale ai rituali taoisti e un'interpretazione popolare (magistica e animistica) dei rituali stessi; così che si è all'assurda classificazione di tre t.: t. filosofico, t. cultuale e t. popolare. In realtà si può e si deve parlare di un unico t. in cui la cultura popolare (contadina) non è né fonte d'ispirazione per una sistematica filosofica, né fonte di degradazione di questa stessa sistematica, ma è semplicemente un segno distintivo del modo d'essere taoista che si realizza in opposizione all'«ordine attuale» contrassegnato a sua volta dalla «città» (contrapposta alla «campagna») e dall'«erudizione» (contrapposta all'«ignoranza» contadina). Quanto agli elementi tradizionali – e dunque «popolari» – utilizzati dall'ideologia taoista per la propria realizzazione, essi sono altrettanto «popolari» di quelli confuciani, attingendo entrambe le formazioni religiose al patrimonio tradizionale cinese; p. es. il culto dei morti trova addirittura più rispondenza nel confucianesimo che nel taoismo. E dunque non sono questi elementi che possono distinguere i due diversi orientamenti, il confuciano e il taoista, ma è piuttosto il modo con cui gli elementi stessi sono strutturati. Il t., se si segue questa linea esegetica, ci appare realmente un indirizzo univoco, quali che siano le sue contingenti formulazioni storiche. Il suo fine è un ritorno alla natura inteso anche come un ritorno alle «condizioni paradisiache» originarie del mondo. Il momento delle origini che, rispetto all'ordine attuale è qualificabile negativamente come caotico, nell'orientamento taoista, che invalida l'ordine attuale, assume al contrario valori positivi e diventa un'età aurea anteriore al tempo storico. È un'«età aurea» che a volte trova un'oggettivazione oltre che in un tempo cosmico (un tempo «prima» del tempo in cui vive l'umanità attuale), anche in un luogo cosmico (un luogo «fuori» del luogo in cui vive l'umanità attuale): le isole fluttuanti su un mare abissale, nelle quali vivono i Santi Immortali. È un luogo che non sta in «nessun luogo»: è letteralmente un'utopia. E di fatto si ha notizia di movimenti utopistici che puntualizzano la storia del taoismo. Si prenda come caso esemplare, o come il più clamoroso, quello dell'utopia T'ai p'ing («Grande Pace»). Un santone taoista, Chang Chao, nel sec. II, in risposta alla crisi politico-sociale che finì con l'eliminazione della dinastia Han, predicava l'avvento di un'era T'ai p'ing che, nello schema tipico del t., si doveva realizzare con la rottura dell'ordine attuale «imperiale» e «cittadino», per iniziativa della popolazione «contadina». La predicazione trovò immediata rispondenza presso le classi oppresse e provocò la ribellione all'Impero; la rivolta dei Turbanti Gialli, che organizzati da Chang Chao in 36 armate di una decina di migliaia di uomini ciascuna, in poco tempo conquistarono tutto il territorio a nord del Fiume Giallo. All'organizzazione militare Chang Chao fece seguire un'organizzazione civile, naturalmente teocratica, con a capo lui stesso come Duca del Cielo. La rivolta fu domata con una sanguinosa repressione, ma l'utopia di Chang Chao restò come modello d'orientamento per una prospettiva sociale del t. anti imperiale e anticonfuciana. Sul piano della salvezza individuale evidentemente il t. si espresse in altro modo: all'utopia subentrò l'estasi, alla rivolta armata la tecnica estatica, all'edificazione di un corpo sociale l'edificazione o il potenziamento del corpo (fisico) individuale, alla concorrenza con il confucianesimo la concorrenza con il buddismo. Ferma restava la rottura con ogni principio etico fondante l'ordine attuale, secondo gli insegnamenti del Tao-te-ching, il più antico testo taoista: la «bontà» e l'«equità» sono idee artificiose sorte per giustificare le azioni non più conformi al tao; la «prudenza», la «saggezza», la «lealtà» non sono virtù ma strumenti del potere politico; la «pietà filiale» e l'«amore paterno» sono artifici per tenere in piedi un istituto familiare in realtà disgregato dal disarmonico comportamento dei suoi membri. Sono idee che se a livello collettivo portavano alla rivoluzione (o alla distruzione del mondo attuale), a livello individuale portavano alla rinuncia della vita di relazione, ossia del «mondano», una rinuncia che, nei termini della nostra cultura, si definirebbe mistica. Su questo terreno, come si è detto, il t. si pose in concorrenza con il buddhismo, anche se non mancò di accoglierne certi principi e soprattutto le tecniche estatiche caratterizzanti il tantrismo. Senonché il t. rivendicò la paternità delle presumibili derivazioni buddhiste, asserendo che il buddhismo derivava dal t., e persino che Buddha non è altri che una reincarnazione di Lao-Tse. Si è detto che il t. si originò presumibilmente intorno al sec. V a.C.; tuttavia le notizie certe di una religione taoista organizzata non vanno oltre il sec. II a.C., quando il t. penetrò nel mondo dell'ufficialità. Bisogna giungere al sec. V d. C. per trovare una complessa organizzazione di tipo ecclesiastico, retta da un Maestro Celeste, il cosiddetto «papa taoista». In tale organizzazione s'istituzionalizzarono concetti fondamentali e modi di espressione. Gli astratti principi si personificarono in esseri sovrumani. Si stabilì una relazione di culto tra gli uomini e questi esseri. L'universo si popolò di geni e di «santi», o «puri», o «venerabili». Su tutti primeggiava una triade costituita da Yu Ching, Shang Ching e Tai Ching. Il culto, che ignora il sacrificio, consiste sostanzialmente nella preghiera e in riti di venerazione. Il fondamentale rifiuto del mondano ha trovato espressione nell'istituto monastico, di chiara derivazione buddhista. Sotto la dinastia Tang (a partire dal sec. VII) il t. raggiunse oltre che il riconoscimento ufficiale anche un prestigio tale da varcare i confini della Cina; penetrò persino in India (Assam). L'ultimo imperatore Tang, tuttavia, mise al bando il t., insieme al buddhismo e ad altre religioni penetrate in Cina (nestoriani, manichei, zoroastriani), in una politica di rivalutazione del confucianesimo (sec. X). Con l'avvento dei Mongoli e la loro politica favorevole al buddhismo, fu quest'ultimo e non più il confucianesimo l'avversario del taoismo. Il t. perse irrimediabilmente prestigio e non sarebbe mai più tornato all'ufficialità. Sopravvisse tuttavia come un autentico prodotto della cultura cinese, emergendo in varie occasioni e in varie forme di contestazione dell'ordine costituito o, in assoluto, della mondanità.

IL CONFUCIANESIMO

Il termine cinese, che si è soliti tradurre come confucianesimo, ossia ju chia, non contiene, a dire il vero, riferimento alcuno al nome di Confucio, ma significa, a un dipresso, “comunità degli uomini colti”, “comunità dei letterati”. Esso ha quindi un'accezione più ampia e indeterminata del termine “confucianesimo”. I ju erano invece semplicemente coloro che condividevano una concezione della vita in cui la cultura e l'impegno politico-amministrativo avevano un'importanza preminente. Il termine dovrebbe far pensare al sophos greco, al clericus medievale, al philosophe francese piuttosto che evocare l'idea dell'uniformità di concezioni filosofiche come avviene quando diciamo, per es., aristotelico, hegeliano, crociano, ecc. Questo spiega come si chiamino confuciani individui che mai scrissero opere di pensiero o pensatori che differivano da Confucio per molte concezioni e che spesso criticarono Confucio aspramente. La denominazione è tuttavia giustificata dal fatto che le caratteristiche dei ju sopra descritte furono sviluppate soprattutto da Confucio, primo luminoso esempio di ju della storia cinese; e dal fatto che l'educazione che conferiva il rango di ju e apriva attraverso gli esami imperiali l'accesso alle carriere amministrative era basata quasi esclusivamente sullo studio dei testi classici del confucianesimo (ching). Il termine “classici” non è per i cinesi generico come nelle lingue occidentali; esso indica un gruppo ben determinato di opere fatte risalire a Confucio o alla tradizione immediatamente posteriore, e taluni commentari di tali opere. Esistono però diverse classificazioni dei classici. La più autorevole e la più antica ( II sec. a.C. circa) elenca cinque classici e cioè: Shih-ching (Classico della poesia, noto anche come Libro delle odi); Shu-ching (Libro dei documenti) che contiene discorsi e altri documenti storici attribuiti agli inizi dell'era Chou (intorno al 1000 a.C.); Yi- ching (Classico delle mutazioni), intorno all'arte di trarre gli auspici; Ch'un Ch'iu (Primavere e Autunni), gli annali del regno di Lu nel periodo 722-481 a.C.; Li-chi(Memoriale dei riti), una miscellanea di testi liturgici. Una classificazione posteriore di almeno un millennio all'era Chou porta i classici a tredici, aggiungendone altri otto fra cui lo Tso- chuan (un commentario al Ch'un Ch'iu), il Lun-yü(Conversazioni o Analettici di Confucio) e il Meng- tzû (Libro di Mencio). Intorno all' XI sec. d.C. , con l'affermarsi del neoconfucianesimo, acquistarono importanza preponderante fra tutti i classici i “Quattro libri” che divennero il fondamento dell'educazione dei letterati. Questi erano due capitoli del Li-chi (Memoriale dei riti), noti separatamente con i nomi di Ta-hsüeh (Grande scienza) e Chung-yung(Giusto mezzo); nonché il Lun-yü e il Meng-tzû.
Confucio aveva dato alla morale del suo tempo, che era una morale feudale, un carattere più elevato, mettendo in rilievo il valore dell'autodisciplina e della sincerità nei rapporti umani. I suoi discepoli svilupparono il concetto secondo il quale, coltivando la propria persona, il saggio diffonde attorno a sé un principio di ordine che, riflettendosi sulle persone vicine, si propaga per tutto l'universo. I due più importanti seguaci di Confucio, nell'antichità, furono Mencio (Meng-tzû) e Hsün-tzû. Il primo definì il tipo ideale del letterato che deve vivere secondo le virtù dell'umanità e dell'equità. Hsün-tzû voleva che l'educazione e il governo fossero basati su un codice etico-rituale che assegnasse a ciascuno il posto che gli conveniva in una società gerarchizzata. Dopo il fallimento di Ch'in Shih Huang-ti che aveva voluto fondare l'Impero sulle teorie dei legisti, secondo cui la legge, identificata con la volontà del sovrano, è l'unico principio regolatore della vita sociale, gli Han adottarono il confucianesimo come ideologia ufficiale dello Stato imperiale cinese e instaurarono il sistema del reclutamento dei funzionari attraverso gli esami imperiali. A questo periodo risale anche la religione imperiale con la quale si identifica talora la religione confuciana. L'imperatore, figlio del Cielo, è il primo sacerdote dell'Impero: a lui spetta praticare il culto del Cielo e della Terra, inaugurare l'aratura primaverile, promulgare l'almanacco nel quale sono stabiliti i lavori da fare e i giorni in cui vanno fatti. I prefetti e i sottoprefetti, che rappresentano nelle loro rispettive circoscrizioni l'imperatore, praticano i medesimi culti su scala locale. L'imperatore, inoltre, più che ogni altro, deve conformarsi alle prescrizioni rituali che hanno lo scopo di mettere la sua vita in armonia con quella dell'universo. Se il suo comportamento è cattivo l'armonia viene sconvolta e sulla terra si abbattono calamità e disgrazie: il figlio del Cielo è quindi responsabile dell'ordine naturale. Dopo la parziale eclisse avvenuta nel periodo detto delle “Sei dinastie” e una brillante ripresa nei secoli della dinastia T'ang, il confucianesimo subì una notevole trasformazione. Sotto l'influsso del taoismo e soprattutto del buddhismo (anche se a questi si opponeva come rigida antitesi) si sviluppò sotto la dinastia Sung una nuova scuola filosofica di ispirazione confuciana, generalmente nota in Occidente come neoconfucianesimo. A differenza di quello antico, esso cercò di fondare le proprie dottrine etiche e politiche su organiche premesse metafisiche, psicologiche e gnoseologiche, elaborando complessi sistemi filosofici, quali il pensiero cinese non aveva conosciuto sino ad allora. Il neoconfucianesimo si divise ben presto in due scuole maggiori, quella detta Hsing Li (dell'identità tra ordine naturale e natura umana), che ebbe in Chu Hsi il massimo rappresentante; e quella detta Hsing Hsin (della identità tra natura umana e coscienza), che raggiunse il suo massimo sviluppo più tardi, con Wang Yang-ming (1472-1528). La prima fu tuttavia quella che ebbe maggiore fortuna: i commentari ai classici elaborati da Chu Hsi furono dichiarati ortodossi e divennero in tal modo testi d'esame per la carriera mandarinale. Tutto ciò trasformò il neoconfucianesimo di Chu Hsi nell'ideologia ufficiale dell'Impero e, più tardi, anche degli altri paesi di cultura cinese: Vietnam, Corea, Giappone.
Nel XVII sec., sotto la dinastia Ch'ing, si verificò un movimento di reazione alle scuole neoconfuciane che propugnavano un ritorno al confucianesimo del periodo Han: a questo movimento si ispirarono alla fine del XIX e agli inizi del XX sec. anche alcuni riformatori, che volevano adattare il confucianesimo al mondo moderno e agli orizzonti aperti dalla cultura europea, che in quegli anni si diffondeva in Cina.
Confucianesimo giapponese. In Giappone il confucianesimo penetrò con la cultura cinese verso la metà del VI sec., ma non ebbe mai le caratteristiche di una specifica corrente filosofica o religiosa: fu, in certo senso, la cultura per antonomasia, che veniva accettata (salvo alcune caratteristiche politiche), ma non discussa o elaborata. Sotto lo shogunato dei Tokugawa (1600-1868), le varie scuole del neoconfucianesimo furono invece introdotte in modo più cosciente e consapevole e quella di Chu Hsi divenne anzi l'ideologia ufficiale del regime politico vigente. Si ebbero così tre scuole ben distinte, rifacentesi rispettivamente alle due correnti neoconfuciane (note nell'isola come Shushi-gaku, scuola di Chu Hsi, e come Yomei-gaku, scuola di Wang Yang-ming) e al movimento sviluppatosi sotto la dinastia Ch'ing (Ko-gaku, scuola antica). Le tre correnti ebbero una originalità abbastanza ridotta; in tutte è possibile riscontrare una certa impronta nazionalistica, particolarmente viva nella terza, che ispirerà gli ideali etico- cavallereschi del bushido. Nel XVIII sec. la suddivisione in scuole andò attenuandosi perché il contrasto ideologico venne a polarizzarsi piuttosto tra i nazionalisti della koku-gaku (scuola nazionale) e quanti si rifacevano invece prevalentemente, ma con indubbia originalità di interessi e di ispirazione, alla cultura cinese. Tra questi sono uomini come Arai Hakuseki (1656-1725), i cui studi storici ed economici sono ancor oggi di estremo interesse, e Miura Baien (1723- 1789), il cui sistema di logica dialettica costituisce una delle pagine più alte e originali di tutto il pensiero nipponico.

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