Ellenismo e Roma

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Testo

L’ELLENISMO

Alla morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C., egli era riuscito a conquistare un grandissimo impero che comprendeva Grecia, Turchia, Afghanistan, Iran, Sud della Russia, Arabia, Nord dell’Egitto. Arrivato all’Indo, lui voleva proseguire la sua avanzata ma il suo esercito, ormai stanco, voleva tornare indietro. Alessandro accetta di tornare indietro, forse anche a causa di strani fenomeni, ma ad un patto: dopo essersi riposati sarebbero partiti verso l’occidente per sconfiggere e conquistare Cartagine. I suoi ambiziosi piani svanirono poiché, durante il ritorno in patria, si ammalò di febbre e convulsioni e morì a soli 33 anni. In punto di morte, non avendo eredi ed avendo capito che il suo impero non poteva essere governato da una sola persona, lo divide fra i suoi sette generali. L’impero si divide così in sette regni autonomi l’uno dagli altri. Dalla morte di Alessandro e dalla divisione dell’impero, inizia quel periodo denominato “Ellenismo”, nominato così per la prima volta dallo storico tedesco J. G. Droysen, che finirà quando tutti e sette i regni cadranno sotto il controllo di Roma (nel 30 a.C. quando crolla il regno di Cleopatra). Proprio all’interno dell’impero di Alessandro ha inizio l’Ellenismo (Ellenes = Greci Ellas = Grecia) che non è solo un periodo storico, ma diventa uno stile di vita, un concetto culturale; è il superamento dell’antica concezione filosofica greca sulla religione e la politica. Ogni regno, infatti, si differenziò dagli altri per la propria cultura e le proprie abitudini. Ma come è potuto avvenire questa differenziazione? Per quanto riguarda la religione, i greci vennero influenzati dalle religioni misteriche orientali, facendo venir meno il loro aspetto razionalista (Democrito ed Aristotele) e facendo aumentare il loro aspetto misterico (Pitagora e Platone), poiché i greci ebbero sempre entrambi gli aspetti. Per quanto riguarda la politica, gia con Filippo, che unì tutta la Grecia, la polis fu distrutta militarmente. Molti, alla sua morte volerlo tornare indietro, ma con Alessandro non fu più possibile poiché inculcò nei greci un’ideologia che distrusse anche ideologicamente la poleis. L’idea era quella di un’unica polis mondiale sotto il controllo di un’unica persona dove tutti i popoli erano rispettati. I greci però non riuscirono in questo intento, solo Roma ci riuscì per otto secoli. Ciò che poi accomuna la religione e la politica è che proprio in questo periodo c’è il passaggio da una piccola polis ad un impero universale sotto un unico capo. L’ideale ellenistico, infatti, è il cosmopolitismo politico (unione di tutti i popoli) e l’ecumenismo religioso (tutti i popoli della terra). È in questo periodo che in Grecia nascono le ultime tre forme di pensiero filosofico post-Aristoteliche: Stoicismo, Epicureismo, Scetticismo.

LO STOICISMO

La scuola Stoica si può dividere in tre fasi: antica (fino alla metà del II a.C.), media (fino al I a.C.), tarda (fino al II d.C.). Il primo degli Stoici è un certo Zenone di Cizio, nato a Cipro nel 336-335 a.C. e morto nel 264-263 a.C. A circa 22 anni venne ad Atene dove, dopo essere entrato in contatto con il Liceo, l’Accademia e gli Epicurei, diventa discepolo del cinico Cratete ed in seguito del megarico Stilpone e dell'accademico Polemone. Nel 300 fonda la sua scuola in un Portico Dipinto (Stoà Poikíle dal cui nome deriva Stoicismo). Condusse vita semplice, rifiutando l'invito di Antigono Gonata alla corte macedone. Abbiamo frammenti delle sue opere: Logica, Sulle Passioni, Sul Conveniente, Repubblica, Sulla Natura dell'Uomo, Sulla Vita Secondo Natura. Egli unì l'insegnamento cinico ad un sistema filosofico generale. Il secondo fondatore della scuola è considerato Crisippo di Soli (Tarso in Cilicia), nato tra il 281-277 e morto tra il 208-204. Gli Stoici ricercano non già la scienza, ma la felicità per mezzo della virtù. Ma per raggiungere felicità e virtù è necessaria la scienza. Il concetto di filosofia viene così a coincidere con quello della virtù. Il suo fine è quello di raggiungere la sapienza che è scienza delle cose umane e divine, ma l’unica arte per raggiungere la sapienza è l’esercizio della virtù. Ora, siccome le virtù più generali sono tre, la naturale, la morale e la razionale, anche la filosofia si divide in tre parti:
1) Logica: che comprende psicologia e gnoseologia e il cui studio conferisce la virtù razionale.
2) Fisica: che comprende metafisica e teologia che conferisce la virtù naturale.
3) Etica: che comprende la politica e che conferisce la virtù morale.
Tutte e tre sono collegate tra loro poiché la Logica studia le condizioni del pensiero e di conoscere la realtà, la Fisica studia la conoscenza della realtà, l’Etica si fonda sulla Fisica poiché l’uomo deve agire secondo natura. La Logica non è strumento ma parte della filosofia, le ossa ed i nervi, come l'Etica la carne e la Fisica l'anima.

LA LOGICA

Con il termine logica, gli Stoici intendono la dottrina che ha per oggetto i discorsi (logoi). Come scienza dei discorsi continui (orazioni) la logica è retorica; come scienza dei discorsi divisi per domanda e risposta, la logica è dialettica, definita «la scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso e di ciò che non è né vero né falso». La dialettica si può dividere in due parti: la grammatica che tratta le parole; la logica formale che tratta dei significati delle parole. Secondo gli stoici, la conoscenza coincide con il pensare che è mettere in rapporto dati e giudizi. I dati sono le impressioni che provengono dagli stati interni (malvagità, virtù) o dagli stati esterni (oggetti) che imprimono nella nostra anima la sensazione (Àisthesis) e la rappresentazione (Phantasìa). Le fantasie non sono né vere né false poiché la loro verità o falsità dipende dal nostro Assenso. Più le fantasie sono chiare, più daremo il nostro assenso (Fantasie Catalettiche = Phantasìa Kataleptikài); meno le fantasie sono chiare, meno daremo il nostro assenso. Chi dà l’assenso alle fantasie è il nostro cervello (Leggemonito). Un'immagine efficace, attribuita a Zenone o Cleante, spiega ciò:

CONOSCIENZA
MOMENTI
SITUAZIONI UMANE
SIMBOLI
Rappresentazione
le impressioni registrate
la mano aperta
Assenso
l’atto con cui si assente alle impressioni
la mano contratta
Rappresentazione Catalettica
l’atto dell’intelletto che afferra o comprende l’oggetto
la mano stretta a pugno
Scienza
Il possesso saldo del sapere
le due mani strette l’una sull’altra

L'impressione dopo la scomparsa produce il ricordo nella memoria, che connesso ad altri ricordi di stessa specie costituisce l'esperienza. Oltre però ai dati esterni che noi riceviamo, abbiamo alcuni dati interni che hanno tutti gli uomini sin dalla nascita (Nozioni Comuni ). Dalle anticipazioni (prolépsis) o nozioni comuni che provengono dall'esperienza, si giunge ai Concetti Universali, che sono prodotti dell'istruzione e del ragionamento e non esistono nella realtà. I concetti più generali, le categorie di Aristotele, sono quattro: il substrato, la qualità, il modo d'essere, il modo relativo. La categoria che viene dopo determina e racchiude la precedente. Il concetto più esteso, che loro chiamano genere sommo è quello di essere, il più determinato quello di specie. Ma cos’è il concetto? Per gli stoici è un segno che significa le cose. Per esempio il concetto uomo come «animale ragionevole» è un segno che si riferisce a più cose, cioè a quel gruppo di cose che noi chiamiamo «uomini». In ogni segno dobbiamo distinguere tre cose:
1) La cosa che significa, cioè la parola.
2) Il significato, cioè l’immagine o la rappresentazione mentale che c’è o si forma in noi quando sentiamo pronunziare quella parola.
3) La cosa che è significata, cioè l’oggetto reale.
Di questi tre elementi il primo e il terzo sono corporei, il secondo incorporeo. Il linguaggio è un’invenzione umana poiché noi, quando vediamo una cosa, gli diamo un suono per distinguerlo dalle altre cose. Un’altra sezione della logica è quella dei cosiddetti «ragionamenti anapodittici». Secondo gli stoici, un significato è compiuto se può essere espresso in una frase. Un significato compiuto si identifica con l’enunciato (axíoma), una preposizione linguistica di senso compiuto che può essere vera o falsa. Più proposizioni concatenate formano un ragionamento. Per loro il ragionamento per eccellenza non è il sillogismo aristotelico ma quello anapodittico (non-dimostrativo), ovvero un tipo di ragionamento (cui sono riportabili tutti gli altri tipi di ragionamento) nel quale risultano evidenti la premessa e la conclusione. Ci sono cinque figure (trópoi) di base di ragionamenti anapodittici che esprimevano con questi esempi:
1) «Se è giorno c’è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce».
2) « Se è giorno c’è luce. Ma non c’è luce. Dunque non è giorno».
3) «Non può essere insieme giorno e notte. Ma è giorno. Dunque non notte»
4) «O è giorno o è notte. Ma non è giorno. Dunque è notte».
5) «O è giorno o è notte. Ma non è notte. Dunque è giorno»
La forma canonica del ragionamento, dunque, è quella in cui:
A) La Premessa Maggiore contiene un’assunzione ipotetica (“se”) o disgiuntiva (“o…o”).
B) La Premessa Minore una constatazione dei fatti in forma categorica.
C) La Conclusione un’inferenza dedotta coerentemente dalle premesse.
Alla fine i ragionamenti anapodittici non dimostrano nulla: esprimono ciò che si vede o appare evidente.

ARISTOTELE
STOICI
SILLOGISMI
RAGIONAMENTI ANAPODITTICI
Si fonda sui termini.
Si fonda sulle proposizioni
Ha sempre 3 termini.
Ha 2 termini, manca quello medio
Parte da premesse categoriche espresse mediante specifici quantificatori (tutti, alcuni).
Parte da premesse ipotetiche o disgiuntive
Rinvia a delle connessioni razionalmente deducibili fra la sostanza e le sue proprietà.
Rinvia a delle relazioni empiricamente verificabili fra due o più fatti.
Tra le altre forme di ragionamento, gli Stoici ponevano anche quell’insieme di discorsi insolubili che vanno sotto il nome di paradossi, antinominie, dilemmi, sofismi, aporie ecc. Gli esempi maggiori sono:
1) Il dilemma del Mentitore o del Bugiardo: Epimenide, cretese, affermava che tutti i cretesi erano bugiardi. Ma allora diceva il vero o il falso, Epimenide? Se diceva il vero mentiva, giacché cretese, sostenendo che tutti i cretesi erano bugiardi; quindi diceva il falso. Se diceva il falso non mentiva, come cretese, quindi diceva il vero. Quindi se Epimenide diceva il vero mentiva, se mentiva diceva il vero.
2) Il dilemma del Sorite: quanti grani di frumento occorrono per fare un sóros (mucchio)? Poiché un solo chicco non costituisce un mucchio, aggiungendo altri chicchi uno per volta, chi potrà dire con esattezza da quale chicco inizia il mucchio?
3) Il dilemma del Coccodrillo: un coccodrillo, rubato un bimbo, promise alla madre di renderglielo, a patto che essa avesse indovinato la sua intenzione o meno di restituirglielo. Avendo la madre risposto che il coccodrillo non l’avrebbe restituito, il predone cadde in un terribile dilemma. Infatti, non restituendolo, avrebbe reso vera la risposta della madre, e quindi avrebbe dovuto, in base ai patti, procedere alla consegna del bimbo. Restituendolo, avrebbe reso falsa la risposta della madre e quindi, in base al patto, non avrebbe dovuto consegnare il bambino. In entrambi i casi, il coccodrillo si sarebbe trovato in una paralizzante contraddizione con se stesso.

LA FISICA

La fisica è, per gli Stoici, materialistica: corporea è sia la materia che la forma. Gli incorporei (il
lektòn, il vuoto ed il tempo) non hanno né forma né materia.
Per gli stoici esistono due principi, entrambi materia ed inseparabili l’uno dall’altro:
1) Attivo: potenza (dynamis) e ragione (lògos), principio ordinatore immanente, principio di vita, soffio vitale, anima del mondo (Anima Mundi).
2) Passivo: materia.
1) Tutto il mondo è governato dal Logos che quindi è dio, ma siccome tutto il mondo è anche il Logos, lo stesso mondo è dio (Panteismo). Proprio perché il mondo è il Logos, tutto è assolutamente razionale, logico, giusto e non può essere diverso da quello che è (immutabile). Quindi tutto è gia prestabilito e di conseguenza anche il destino umano è prestabilito e l’uomo non ha la libertà. Il Logos è anche il Fuoco (ripreso da Eraclito) che dirige il mondo, distruggendolo e riformandolo. Dei quattro elementi (acqua, terra, aria, fuoco) solo il fuoco è eterno, gli altri hanno origine e destinazione in esso. Secondo gli stoici, l'universo è sferico, finito, continuo; il vuoto è all'esterno in quanto non occupa un corpo. L’universo è composto da semi eterni (lògoi spermatikòòi) che producono ogni cosa e, ogni 36000 anni, il fuoco, con una conflagrazione (ekpyrosis), distrugge ogni cosa e presiede al suo riformarsi (pyr technikòs). Dal raffreddamento del fuoco ha origine l'aria e poi l'acqua, dalla condensazione di questa la terra che per la forza centripeta si pone al centro in equilibrio; attorno ruotano sfere degli elementi e le stelle. Essendo però la ragione sempre uguale, il Fuoco o il Logos ricrea il mondo sempre alla stessa maniera e ciò che è accaduto prima della conflagrazione accadrà anche dopo. Questo ripetersi continuo degli stessi avvenimenti loro lo chiamano: “Eterno Ritorno delle Identiche Cose”. Proprio per questo secondo loro il tempo non è lineare ma circolare. L'unica ragione del mondo (da cui deriva l'anima umana), rende razionali tutte le cose, sottomesse al fato ed unite in un ordine cosmico necessario. Perciò si ritengono esistenti influssi astrali e si crede nella divinazione e nell'interpretazione dei sogni. Proprio perché tutto è gia prestabilito, gli stoici affermano che il destino di ogni essere umano è scritto negli astri, dove si può leggere il disegno razionale di Dio, il senso della vita, il futuro (cosmologia = teologia: chi studia il cosmo studia Dio).
Questa anima del mondo (pnéuma) è principio divino. Dio è unico e ordina le cose. Egli ha un rapporto intimo con gli uomini e il politeismo tradizionale va inteso come personificazione delle potenze cosmiche, fatto che giustifica anche la molteplicità di culti. L'anima dell'uomo, appunto, deriva dall'anima del mondo ed è fuoco vivificante ma materiale, perciò perituro. L'anima perisce anche se non contemporaneamente al corpo. Essa è divisa in otto parti:
2) Egemonica: la principale, produce rappresentazioni ed assenso. È la ragione che ha sede nel cuore o intorno ad esso. Le altre sette parti, subordinate, sono
3) Cinque Sensi.
4) Parola.
5) Forza Generativa.

L’ETICA

Alla base dell’etica stoica vi è l’idea secondo cui ogni essere tende ad attuare o conservare se stesso (oikéiosis) in armonia con l’ordine perfetto del mondo. Ciò avviene attraverso due forze ugualmente infallibili:
1) Istinto: guida infallibilmente l’animale a conservarsi, a nutrirsi, a riprodursi e in generale a prendersi cura di sé ai fini della sua sopravvivenza.
2) Ragione: forza infallibile che garantisce l’accordo dell’uomo con se stesso e con la natura in generale.
L’etica degli Stoici è sostanzialmente una teoria dell’uso pratico della ragione, cioè dell’uso della ragione al fine di stabilire l’accordo tra la natura e l’uomo. Quindi, essendo tutto il cosmo “Logos”, la nostra vita deve essere razionale. L’azione che si prospetta conforme all’ordine razionale è il Dovere: l’etica stoica è quindi fondamentalmente un’etica del dovere e la nozione del dovere è la nozione fondamentale dell’etica. Il dovere è per gli stoici ciò la cui scelta può essere razionalmente giustificata. Ci sono due tipi di dovere:
1) Retto: perfetto ed assoluto, proprio solo del sapiente.
2) Intermedio: comune a tutti e spesso realizzato con il solo aiuto di un’indole buona e di una certa istruzione.
Il dovere non è però il bene, che comincia ad esserci quando la scelta consigliata dal dovere viene ripetuta e consolidata fino a diventare nell’uomo una virtù. Quindi, il bene (virtù) consiste nel “ben pensare”, nel vivere razionalmente dominando le passioni; il male (vizio) consiste nel non vivere secondo ragione, nel cedere alle passioni terrene. Infatti, l’uomo vizioso è quello irrazionale che vive nel disordine e non ha una meta fissa. Questa prevalenza della nozione del dovere conduce gli Stoici a giustificare il Suicidio: quando infatti non si rispettano le regole del dovere, vivendo nel vizio, l’uomo deve uccidersi anche se è al colmo della felicità. Parte integrante dell’etica stoica è la negazione totale del valore dell’emozione (pathos) poiché è dettata dalla leggerezza e, quindi, è un fenomeno di stoltezza e ignoranza consistente nel «giudicare di sapere ciò che non si sa». Per loro ci sono quattro tipi di emozioni: due aventi origine dai beni presunti e due dai mali presunti. I primi due sono la brama dei beni futuri e la letizia dei beni presenti; i secondi due sono il timore dei mali futuri e l’afflizione di quelli presenti. Il saggio non subisce nessuna di queste emozione poiché ne è indifferente (Apatia). Essendo poi il mondo “Logos”, che è sempre uguale, tutti gli uomini sono uguali. Bisogna quindi abbattere le differenze nazionali, vivere secondo le stesse leggi, quelle del “Diritto Naturale” che c’è dentro ogni uomo (le leggi prime per vivere insieme). In base ad esse tutti devono vivere insieme in una grande città: cosmopolitismo.

L’EPICUREISMO

L’ultimo grande filosofo della Grecia è Epicuro. Di origine ateniese, nacque a Samo il 20 gennaio del 341 a.C. Il padre, Neocle, era pedagogo, la madre, Cherestrata, una mezza strega. A Samo inizia ad occuparsi di filosofia ascoltando le lezioni del platonico Panfilo e poi del democriteo Nausìfone. Da lui fu probabilmente iniziato alla dottrina di Democrito del quale, per qualche tempo, si ritenne discepolo ma in seguito affermo la sua completa indipendenza dalla sua dottrina. A 18 anni si trasferisce ad Atene da dove dovette scappare, nel 323, a causa della rivolta del “partito nazionalista ateniese anti-macedone”Ritornerà, poi, nel 306 a.C. e fonderà una sua scuola chiamata “Il Giardino (Kepos)”, chiamata così proprio perché sorse nel giardino della casa di Epicuro. Questa non era una scuola come le altre poiché non era prettamente scientifica ma più che altro di stampo etico, un luogo dove vivere uno stile di vita differente dagli altri, superiore. Epicuro aveva un carattere d'oro, come dimostra ciò che Diogene Laerzio scrisse di lui: «era buono, moltissimi gli erano amici, mostrava gratitudine verso i suoi genitori ed era generoso verso i fratelli, mite nei confronti dei servi, devoto verso gli dèi e pieno di amor di patria». Muore nel 270 a.C. fra terribili sofferenze fisiche che lui sopportò sempre con imperturbabile serenità, come dimostra una lettera, scritta in punto di morte, ad Idomeneo dicendo: «in questo giorno beato, che è anche l'ultimo della mia vita, vi scrivo queste righe. I dolori derivanti dalla stranguria e dalla dissenteria non mi hanno lasciato mai né hanno mai sminuito la loro intensa violenza. Ma a tutti questi mali resiste la mia anima, lieta nella memoria dei nostri colloqui del passato». Di Epicuro conserviamo alcuni scritti in Vaticano ma ciò che sappiamo di lui lo dobbiamo a Diogene Laerzio ma soprattutto a Tito Lucrezio Caro che scrisse un libro interamente dedicato ad Epicuro: il “De Rerum Natura”. Per Epicuro «vano è il discorso del filosofo che non medichi qualche sofferenza umana: come l’arte medica a nulla giova se non ci libera dalle malattie corporee, così la filosofia a nulla giova se non ci libera dai mali dell’anima». Questa sua affermazione è importante per due aspetti:
1) Perché mette in relazione la filosofia con la medicina.
2) Perché critica chi con la filosofia non cura l’anima, con specifici riferimenti ai filosofi del passato, soprattutto Platone, Aristotele, Parmenide, i Sofisti e così via.
Secondo Epicuro la filosofia è la via per raggiungere la felicità, intesa come liberazione dalle passioni. Mediante la filosofia l’uomo si libera da ogni desiderio irrequieto e molesto, dalle opinioni irragionevoli e vane e dai turbamenti che ne derivano. Occorre quindi che l’uomo, con la ricerca scientifica, investighi e capisca la Natura e la propria natura, imparando così a vivere senza paure e dolori, poiché: «se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti, della morte, e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza, della natura». Il valore della filosofia sta dunque nel fornire all’uomo un quadruplice farmaco:
1) Liberare gli uomini dal timore degli dei, dimostrando che per la loro natura beata non si occupano delle faccende umane.
2) Liberare gli uomini dal timore della morte dimostrando che essa non è nulla per l’uomo.
3) Dimostrare l’accessibilità del limite del piacere, cioè la facile raggiungibilità del piacere stesso.
4) Dimostrare la lontananza del limite del male, cioè la brevità e la provvisorietà del dolore.

MALI
TERAPIA
La paura degli dei e dell’aldilà
Gli dei non si occupano degli uomini
La paura della morte
Quando ci siamo non c’è, quando c’è non ci siamo
La mancanza del piacere (della felicità)
Il piacere (la felicità) è facilmente raggiungibile
Il dolore fisico
Se acuto è provvisorio o porta alla morte, se lieve è sopportabile
Epicuro distingue tre parti della filosofia: la Canonica, la Fisica e l’Etica. Ma la canonica era concepita in rapporto così stretto con la fisica che si può affermare che le parti della filosofia sono solo due: la fisica e l’etica. In tutto il dominio della conoscenza, il fine che bisogna aver presente è l’evidenza. Diceva Epicuro: «la base fondamentale di tutto è l’evidenza».

LA CANONICA

Epicuro chiamò canonica, la logica o teoria della conoscenza, in quanto la considerò diretta essenzialmente a dare il criterio della verità e quindi un canone, cioè una regola per orientare l’uomo verso la felicità. Il criterio della verità è costituito dalle sensazioni, dalle anticipazioni e dalle emozioni. La sensazione è prodotta nell’uomo dal flusso degli atomi che si stacca dalla superficie delle cose. Questo flusso produce immagini (éidola) che sono in tutto simili alle cose da cui sono prodotte. Dalle sensazioni derivano le rappresentazioni fantastiche che risultano dalla combinazione di due immagini diverse. Ogni sensazione è manifestata dall'uomo originariamente in un'espressione, in un suono, perciò la prima espressione linguistica è un fenomeno naturale. Convenzionale, e perciò non naturale, è invece il linguaggio, complesso di nomi con cui indichiamo la realtà, necessario alla comprensione reciproca. Dalle sensazioni ripetute e conservate nella memoria derivano pure le rappresentazioni generiche o concetti (anticipazioni). I concetti servono, infatti, ad anticipare le sensazioni future. La sensazione poi è sempre vera ed evidente poiché non può essere confutata né da una sensazione omogenea, che la conferma, né da una sensazione diversa, che, venendo da un altro oggetto, non può contraddirla. La sensazione è dunque il criterio fondamentale della verità. Ma poiché i concetti o anticipazioni derivano da sensazioni, anch’essi sono veri e costituiscono, insieme alle sensazioni, il criterio della verità. Il terzo criterio di verità e l’emozione, cioè il piacere o il dolore, che costituisce la norma per la condotta pratica della vita ed è perciò fuori del campo della logica. L’errore che non può sussistere nelle sensazioni e nei concetti, può sussistere nell’opinione, che è vera, se è confermata dalla testimonianza dei sensi o almeno non contraddetta da tale testimonianza, o falsa, nel caso contrario. Attendendosi ai fenomeni, quali ci sono manifestati dalle sensazioni, si può con il ragionamento estendere la conoscenza anche a cose che alla sensazione stessa sono nascoste; ma la regola fondamentale del ragionamento è in questo caso il più stretto accordo con i fenomeni percepiti.

LA FISICA: L’ATOMISMO

La fisica di Epicuro ha lo scopo di escludere dalla spiegazione del mondo ogni causa soprannaturale e di liberare così gli uomini dal timore di essere alla mercé di forze sconosciute e di misteriosi interventi. Per fare ciò, la fisica deve essere:
1) Materialistica: cioè escludere la presenza nel mondo di ogni «anima» o principio spirituale.
2) Meccanicista: cioè avvalersi nelle sue spiegazioni unicamente del movimento dei corpi escludendo qualsiasi finalismo.
Poiché la fisica di Democrito rispondeva a queste due condizioni, Epicuro la adattò e la fece sua con talune modificazioni. Dopo Democrito, quindi, Epicuro viene definito il filosofo atomista per eccellenza. Lui afferma che tutto ciò che esiste è corpo perché solo il corpo può agire o subire un’azione. D’incorporeo, egli ammette solo il vuoto, ma il vuoto non agisce né patisce alcunché ma permette solo ai corpi di muoversi attraverso se stesso. Tutto ciò che agisce o subisce è corpo e ogni nascita o morte non è che aggregazione o disgregazione di corpi. Perciò afferma che nulla viene dal nulla e che quindi nel cosmo esistono solo due elementi:
1) Atomi: corpuscoli indivisibili che compongono i corpi.
2) Vuoto: luogo dove gli atomi si muovono.
Gli atomi sono pieni, immutabili, ingenerati ed eterni; si differenziano non qualitativamente ma quantitativamente, cioè sono tutti della medesima stoffa materiale ma hanno forme geometriche e grandezze diverse. Secondo gli Epicurei, il loro movimento non ubbidisce ad alcun disegno provvidenziale. Essi, infatti, escludono la provvidenza divina ed argomentano contro l’azione della divinità nel mondo prendendo spunto dall’esistenza del male: «La divinità o vuol togliere i mali ma non può, o può ma non vuole, o non vuole e non può o vuole e può. Se vuole ma non può è impotente, e la divinità non può esserlo. Se può ma non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può è invidiosa e impotente, e la divinità non può esserlo. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l’esistenza dei mali e perché non li toglie?». Per evitare l’accusa di ateismo, ammette l’esistenza della divinità in virtù del suo stesso empirismo: poiché gli uomini hanno l’immagine della divinità, questa, come tutte le immagini, non può che essere stata prodotta in loro da flussi di atomi emanati dalle divinità stesse. Gli déi hanno la forma umana, che è la più perfetta e quindi la sola degna di esseri razionali. Essi intrattengono gli uni con gli altri un’amicizia analoga a quella umana e abitano negli spazi vuoti tra mondo e mondo (Inter Mundia). Ma essi non si curano minimamente né del mondo né degli uomini, poiché ogni cura di questo genere sarebbe contraria alla loro perfetta beatitudine giacché imporrebbe loro un obbligo ed essi non hanno obblighi, ma vivono liberi e beati. Quindi la “Preghiera” è inutile e il solo motivo per cui il saggio li onora è l’ammirazione della loro eccellenza, non il timore.Eliminata così dal mondo l’azione della divinità, non rimangono, per spiegare l’ordine di esso, che le leggi che regolano il movimento degli atomi. Per gli Epicurei, a queste leggi nulla sfugge e costituiscono la necessità che presiede a tutti gli eventi del mondo naturale. Un mondo è, per Epicuro, «un pezzo di cielo che comprende astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nell’infinito». I mondi sono infiniti e tutti sono soggetti a nascita e morte. Tutti si formano in virtù del movimento degli atomi nel vuoto infinito. Epicuro ritiene che gli atomi, in virtù del loro peso, cadano dall’alto verso il basso, in linea retta nel vuoto e con la stessa velocità. Aggregandosi provocano la vita, disgregandosi provocano la morte. In seguito Lucrezio, capendo che se gli atomi si muovono verticalmente non potevano incontrarsi, aggiunge a ciò che gli atomi hanno delle deviazioni casuali durante il loro movimento che permettono il loro incontro (Clinamen).

L’ETICA

Anche l’anima è fatta di atomi, particelle corporee che sono diffuse in tutto il corpo come un soffio caldo. Tali particelle sono più sottili e rotonde delle altre, e quindi più mobili ma sempre materiali. Quando il corpo muore gli atomi dell’anima si separano ed ogni possibilità di sensazione cessa: la morte è, per Epicuro, «privazione di sensazioni» e, perciò, non esiste la vita ultraterrena. Una delle cause principali dell’infelicità umana è la paura del dolore e della morte. Elimina alla radice il problema della morte con questa affermazione: «non bisogna temere la morte perché, in fondo, cos’è la morte, se noi ci siamo, non c’è la morte, se c’è la morte, non ci siamo noi». Finendo quindi la vita con la morte, il senso della vita sta nella ricerca della felicità tramite il piacere poiché: «il piacere è il principio e il fine della vita beata». Il piacere è, infatti, il criterio della scelta e dell’avversione (si tende al piacere, si sfugge il dolore) e il criterio con il quale valutiamo ogni bene. Per Epicuro, vi sono due tipi di piaceri:
1) Piacere Stabile: consiste nella privazione del dolore.
2) Piacere in Movimento: consiste nella gioia e nella letizia.
La vera felicità (catastematica), però, consiste soltanto nel piacere stabile o negativo, «nel non soffrire e nel non agitarsi», ed è quindi data da due elementi:
1) Atarassia: assenza di turbamento nell’anima.
2) Aponia: assenza di dolore fisico.
Chi riesce a vivere in perfetta Atarassia e Aponia è felice, ed infatti afferma che: «il culmine del piacere è la pura e semplice distruzione del piacere». Questo carattere negativo del piacere impone la scelta e la limitazione dei bisogni. Epicuro distingue i bisogni naturali e quelli vani; dei bisogni naturali alcuni sono necessari, altri no. Solo i desideri naturali e necessari vanno appagati, gli altri vanno abbandonati e rimossi. In questa ricerca del piacere, non bisogna, cioè, cadere nell’eccesso, bisogna sempre agire con misura. Questo però non per problemi morali, ma perché l’eccessivo piacere porta al turbamento e al dolore, rendendo infelici. Bisogna quindi calcolare matematicamente i piaceri per non cadere schiavi di essi e quindi nell’eccesso; bisogna saper rinunciare ai piaceri che portano ad un maggior dolore e sopportare i dolori che portano ad un maggior piacere. Per questo l’uomo saggio è colui che da maggiore importanza ai piaceri dell’anima più che a quelli fisici e che si fa guidare da due virtù:
1) Saggio Raziocinio.
2) Prudenza.
Dice Epicuro: «la saggezza è anche più preziosa della filosofia, perché da essa nascono tutte le altre virtù e senza di essa la vita non ha né dolcezza, né bellezza, né giustizia». Le virtù, e prima di tutte la saggezza, appaiono ad Epicuro come la condizione necessaria della felicità. Alla saggezza è dovuto il calcolo dei piaceri, la scelta e la limitazione dei bisogni e quindi il raggiungimento dell’atarassia e dell’aponia. Importante poi per gli Epicurei è il culto dell’amicizia. Dice, infatti, Epicuro: «di tutte le cose che la saggezza ci offre per la felicità della vita, la più grande è di gran lunga l’acquisto dell’amicizia». L’amicizia è nata dall’utile, ma essa è un bene in sé. L’amico non è né chi cerca sempre l’utile né chi non lo congiunge mai all’amicizia poiché il primo considera l’amicizia come un traffico di vantaggi, il secondo distrugge la fiduciosa speranza di aiuto che è tanta parte dell’amicizia. Quanto alla vita politica, Epicuro consigliava al saggio di rimanerne estraneo, di lavarsi le mani della società. Il suo precetto è: «vivi nascosto», poiché essa suscita odi, passioni, rivalità che non permettono di realizzare l’atarassia.
Epicuro è, in definitiva, un atomista, un materialista ed un ateo.

GLI SCETTICI

Gruppo di persone che prendono il nome da Schepsi (ricerca) i cui antecedenti possono essere rappresentati da Socrate e Platone. Il primo di loro è Pirrone, nativo di Elide, dove poté, forse, venire a conoscenza della scuola eleo-megarica che, per molti aspetti, è un antecedente dello scetticismo. Partecipò alla campagna di Alessandro Magno in Oriente, ove venne a contatto con la saggezza indiana. Fondò in patria una scuola che dopo la sua morte, nel 270 a.C., ebbe breve durata. Egli sostenne che, così come i sensi ci ingannano quando il remo immerso in acqua ci appare spezzato, chi può dire che non ci ingannino sempre? E' proprio questo rifiuto di accettazione di tutto ciò che ci viene offerto dai sensi che contribuì a dare il nome di scetticismo alla scuola di pensiero. Non a caso si racconta che Pirrone si facesse investire dai carri e mordere dai cani di sua spontanea volontà , ragionando in questo modo: «chi mi dice che sia un male? I sensi! Ma essi così come mi ingannano con il remo immerso in acqua possono ingannarmi sempre!». Da ciò, trae la conclusione che non ci sono cose vere o false, belle o brutte, buone o cattive per natura e assolutamente, ma soltanto per convenzione e relativamente. Sono, cioè, le abitudini degli uomini, i loro costumi e le loro decisioni a rendere buona o cattiva, vera o falsa, una cosa. Al di fuori di tale credenze e convinzioni, sempre mutevoli, non è possibile nessun giudizio, nessuna valutazione, poiché l’uomo non può conoscere nulla con certezza, al di là dell’apparenza, giacché gli sfugge la “Vera Essenza delle Cose”. Quindi l’unico atteggiamento possibile rimane l’astenersi dal pronunciare giudizi, rimanendo in silenzio (Afasia). Con questa affermazione lui non nega la realtà, ma la sua conoscenza da parte dell’uomo. Per questo motivo occorre sospendere la ricerca della realtà ultima, sospendere il giudizio (Epochè). Secondo lui solo lo scetticismo riesce a procurare l’atarassia, cioè l’imperturbabile serenità della mente. Si racconta, tra l'altro, che gli amici chiedessero a Pirrone, dal momento che si faceva mettere sotto dai carri, mordere dai cani e quant'altro: «perché non ti uccidi?» e che lui rispose: «perchè non so se é un bene o no!». Per Pirrone, siccome non possiamo sapere nulla con certezza (neppure ciò che ci accade), allora non possiamo neanche conoscere le conseguenze di ciò che ci accade: «chi mi dice, infatti, che farmi mordere da un cane sia un male?». Altro scettico è Arcesilao di Pitane. Nato a Pitane nel 315-314, dove studiò con il matematico Autolico, egli si recò successivamente ad Atene. Qui seguì l'insegnamento di Teofrasto, che poi abbandonò per entrare nell'Accademia, di cui fu scolaro dal 256 a.C. sino alla sua morte, avvenuta fra il 244 e il 240 a.C. Seguendo l'esempio di Socrate, egli non scrisse nulla, ma i contenuti della sua attività filosofica ci sono in parte noti attraverso ricostruzioni posteriori. Lui entra in polemica con gli stoici per quanto riguarda la conoscenza. Secondo lui tutte le immagini sono chiare ed identiche, e proprio per questo bisogna utilizzare “l’Epochè”. Nell’Epochè il saggio è felice perché sa che tutto è relativo. Per lui, il saggio é chi non sbaglia né corre il rischio di sbagliare, ma a suo avviso solo l'atteggiamento scettico può salvaguardare questo aspetto del sapiente . Infatti, non c'é alcuna rappresentazione che non possa essere falsa, quindi se il sapiente dà il suo assenso a una rappresentazione, opinerà; ma é proprio del sapiente non opinare; dunque il sapiente sospenderà il suo assenso. Paradossalmente, con questa argomentazione Arcesilao giunge a sostenere che la sospensione dell'assenso del filosofo scettico é la vera realizzazione del modello del sapiente, che non é mai in errore. Ma su quali basi poggerà allora la condotta dello scettico? L’uomo, nell’azione, non può farsi guidare da una conoscenza assoluta, ma può soltanto agire in base ad un motivo più o meno fondato e ragionevole. Così Arcesilao riteneva che il criterio di ciò che si deve scegliere o evitare è il buon senso o la ragionevolezza (eulogìa), che sta alla base della saggezza. Un altro scettico è Carnaeade di Cirene. Nato a Cirene nel 214-212, frequentò l'Accademia, della quale divenne scolaro nel 167-166 a.C. Nel 155 a.C. fece parte della celebre ambasceria inviata a Roma dagli Ateniesi multati per aver saccheggiato Oropo; qui riscosse successo argomentando, in due giorni successivi, a favore e contro l'esistenza di una legge naturale universalmente valida. La sua morte avvenne nel 129-128 a.C. L'obiettivo polemico di Carneade é soprattutto la filosofia stoica, in particolare Crisippo. Egli muove una critica serrata alla teologia stoica, alla sua concezione della provvidenza e della divinazione. In generale, a riguardo del criterio di verità, Carneade afferma che nessuna rappresentazione sensibile può garantire di essere in accordo con i fatti. Alcune rappresentazioni, tuttavia, possono essere apparentemente vere e persuasive: in ciò consiste il criterio del pithanòn (dal verbo greco peitho, persuado), tradotto abitualmente con “probabile”, ma che significa propriamente “persuasivo”. Il carattere di persuasività della rappresentazione riguarda la relazione della rappresentazione non con l'oggetto, bensì con il soggetto della percezione. Infatti, l'unico tipo di rapporto possibile con l'oggetto é dato appunto dalla rappresentazione. Quali devono essere allora i contrassegni di una rappresentazione persuasiva? Secondo Carneade essi sono tre:
1) L’evidenza secondo cui in condizioni di scarsa visibilità, per esempio, non é opportuno fidarsi della vista.
2) Non essere contraddetta da altre rappresentazioni e il concorso (o sindrome) di altre rappresentazioni a supporto di essa;
3) L'esame o controllo di ciascuna rappresentazione in ogni sua parte , sul modello del comportamento del giudice .
Essi determinano in successione il grado crescente di persuasività di una rappresentazione ed é sulla loro base che il filosofo scettico orienterà la propria condotta. Carneade é il fondatore del cosiddetto probabilismo: é vero che non si può conoscere la realtà e che quindi bisogna utilizzare l’Epochè, ma si possono comunque tracciare gradi di conoscibilità, ossia ci saranno cose più vere e cose più false, delle probabilità. Tuttavia allo scetticismo (soprattutto a quello carneadeo) si possono muovere due critiche:
1) Essi dicono che non si può sapere nulla con certezza, ma allora non si potrebbe nemmeno sapere di non sapere nulla con certezza. In altri termini, essi sanno con certezza che non si può sapere nulla con certezza, ma già per il fatto di sapere che non si può sapere hanno una certezza. In parole povere, se non posso sapere niente, allora non posso sapere neanche di non sapere: lo scetticismo é autocontradditorio.
2) Carneade é il fondatore del cosiddetto "probabilismo", ossia della teoria secondo la quale, nell'impossibilità di conoscere la verità, si possono comunque tracciare gradi di conoscibilità: ci saranno, cioè, cose più vere e cose più false, anche se la verità in assoluto resta irraggiungibile. Il concetto di probabilismo risulta però inaccettabile, poiché è correlato a quello di certezza: per poter dire che una cosa é più probabile rispetto ad un'altra, infatti, devo per forza avere una pietra di paragone; in altri termini, se conosco con certezza alcune cose, allora sì che posso parlare di probabilità. Ma se non conosco nulla con certezza (come di fatto sostengono gli Scettici) , allora non posso neanche parlare di probabilità.

LA FILOSOFIA A ROMA

Alla morte di Alessandro, arrivò il popolo più importante della storia, i Romani, che riuscì a conquistare tutti i Regni dell’Impero fondato da Alessandro Magno. I romani, un popolo alquanto rozzo, giunti in Grecia rimasero meravigliati dallo splendore della loro cultura, e riuscirono ad assimilarla e a trasmetterla a tutti i popoli del mondo. Infatti, da questo momento in poi si parlerà di civiltà greco-romana. I greci la hanno fondata, i romani la hanno trasmessa a tutta la terra. I Romani, dopo la conquista della Grecia, iniziarono a coltivare la filosofia, che divenne un elemento indispensabile della cultura romana. Nasce, infatti, l’Eclettismo (ek-lego = scegliere), una filosofia che cercava di fondere le dottrine delle varie scuole, scegliendo gli elementi che si prestavano ad essere conciliati e fusi in un corpo unico. Ma poiché la scelta di questi elementi supponeva un criterio, si giunse ad assumere come criterio l’accordo comune (consensum gentium) degli uomini su certe verità fondamentali, ammesse come sussistenti dell’uomo indipendentemente e prima di ogni ricerca. I romani erano un popolo molto pratico, e non ebbero grandi filosofi e pensatori come in Grecia. Infatti, i romani erano soprattutto grandi generali e statisti, ma ci furono delle eccezioni.

MARCO TULIO CICERONE

Uno dei primi autori è Cicerone (106-43 a.C.) che visse verso gli anni della fine della repubblica. Repubblicano e conservatore, fu uno dei più accaniti avversari di Cesare, ma ciò lo portò alla morte per decapitazione con le liste di proscrizione. Innanzitutto bisogna spiegare che i Romani, arrivati in Grecia, apprezzarono molto di più gli Stoici e gli Epicurei che gli Accademici e i Liceali. Cicerone, amante dello Stoicismo, riuscì ad adattarlo al gusto dei romani. Secondo Cicerone nessuno può avere grandi certezze nella vita, e per questo bisogna accontentarci del probabile, del verosimile, senza ricercare le verità ultime, dogmatiche. In ciò, molto importante è la Retorica, poiché solo parlando si può giungere ad una verosimile verità. Non bisogna però cadere nello scetticismo, poiché alcune verità esistono in tutti gli uomini (nozioni innate). Esiste, cioè, un criterio per stabilire la verità che lui chiama Consenso Universale, principi che tutti in tutti i secoli accettano come veri, universali. Questi principi non sono altro che le norme che costituiscono il Diritto Universale, alla base del quale ci sono delle idee:
1) Di un dio che governa il mondo come provvidenza, poiché tutti i popoli devono credere in una divinità.
2) Dell’immortalità dell’anima.
3) Che l’uomo deve essere guidato dalla razionalità verso se stesso e gli altri.
Aggiunge poi che solo l’uomo razionale che ricerca il conveniente è felice.

LUCIO ALNEO SENECA

Seneca, spagnolo di Cordoba vive nel periodo dell’impero (1 sec. d.C.). Dopo essersi trasferito a Roma, diventa maestro di Nerone a causa del quale si uccide tagliandosi le vene in una vasca piena di acqua bollente (65 d.C.). Seneca, pur vivendo nel periodo imperiale, aveva ancora vivo il ricordo della repubblica che gli trasmisero il padre ed il nonno. Lui voleva tornare alla repubblica ma fu costretto a subire le angherie di Nerone. Anch’egli riprende le ideologie stoiche e soprattutto il discorso del vivere dominando le passioni. Per Seneca, l’uomo schiavo delle passioni, non è degno di essere uomo poiché ha rinunciato alla sua dignità e alla sua libertà; sembra felice, ma in realtà non lo è. Per rimediare a ciò cerca sempre maggiori piaceri cadendo così in un vortice che lo porta alla rovina. Infatti, ciò che bisogna cercare in tutte le cose è la misura, l’equilibrio. Secondo lui il Saggio è «chi sa di non sapere», chi si crede professore o maestro è uno stolto. La vera libertà consiste nella ricerca e costruzione di un ordine universale nel quale fondare la Società (Societas) degli uomini. La Societas perfetta è formata dall’armonia e dall’ordine e questa è la “Res Publica”. Esistono, però, due ideali della “Res Publica”:
1. Ideale degli uomini quali sono.
2. Ideale degli uomini quali dovrebbero essere.
Una soluzione per chi non ama il proprio mondo è quello di crearsene un altro (in questo aspetto può essere avvicinato a Platone). Lui, poi, insiste sul carattere pratico della filosofia, affermando che: «la filosofia insegna a fare, non a dire». Per lui il saggio, in questi termini, è: «l’educatore del genere umano». Per quanto riguarda l’anima, lui si ispira a Platone, distinguendo in essa una parte razionale e una irrazionale che, a sua volta, si distingue in una irascibile, ambiziosa, consistente nelle passioni, e una umile, languida, dedita al piacere. Anche lui afferma che il corpo è prigione e tomba dell’anima e che il giorno della morte del corpo è il giorno della nascita eterna dell’anima.

MARCO AURELIO

Ultimo della famiglia imperiale di Roma degli Antonimi e colui che portò ai massimi splendori l’impero romano, Marco Aurelio nasce nel 121 d.C. da una nobile famiglia. Nipote di Traiano, fu adottato dall’imperatore Antonino e gli successe nel 161 d.C. Morì assassinato nel 180 d.C. durante una battaglia contro i Marcomanni a Pintabona. Stoico, è convinto che il mondo è retto da un ordine razionale, perfetto e provvidenziale, e per questo sia gli uomini, sia le cose “sub specie eternitatis (riguardo l’eternità)” non valgono nulla. L’unico senso della vita umana è seguire il piano della ragione (logos), cioè fare bene la propria parte, qualsiasi essa sia, poiché tutto risponde all’ordine del mondo. Per Marco Aurelio, infatti, il mondo è un teatro dove tutti devono compiere la propria parte, la propria recita per rendere perfetto il mondo e perché è l’unico modo per dare un senso alla propria esistenza, tutto vivendo sempre secondo misura ed amando se stessi e gli altri. A me, dice, è toccata la parte numero 1°, quella di imperatore dell’Impero Romano. Ritiene anche che l’uomo è composto di tre principi: il corpo, l’anima materiale che è principio motore del corpo, e l’intelligenza. Come tutti gli elementi del organismo umano sono parti dei corrispondenti elementi dell’universo, così l’intelletto umano è parte di quello del mondo. Il démone che Zeus ha dato a ciascuno di noi come guida non è altro che l’intelligenza e questa è un «brano» di Zeus stesso. Delle funzioni psichiche, le percezioni appartengono al corpo, gli impulsi all’anima, i pensieri all’intelletto.

IL NEO-PLATONISMO

Il neo-platonismo è l’ultima manifestazione del platonismo nel mondo antico. Esso fonde elementi aristotelici, pitagorici e stoici con il platonismo in una vasta sintesi che doveva influenzare prepotentemente tutto il corso del pensiero cristiano e medievale e, attraverso questo, anche quello moderno. Il neo-platonismo è la manifestazione più cospicua dell’orientamento religioso che prevale nella filosofia dell’età alessandrina.

PLOTINO

Nato a Licopoli in Egitto nel 202-205 a.C., studiò ad Alessandria, centro della cultura. A 28 anni entra in una scuola platonica e a 38 anni iniziò a girare il mondo, partecipando alla spedizione dell’imperatore Giordiano contro i Persiani, studiando le filosofie orientali, soprattutto quelle persiane ed indiane. A 40 anni si trasferisce a Roma dove riesce a crearsi un gruppo di persone che lo seguono. Lui gli legge e commenta scritti di Platone ed Aristotele. Diventa amico e filosofo di corte dell’imperatore Gallieno che, per ringraziamento, gli costruisce una città in campagna per lui e i suoi discepoli: Platonopoli. Muore nel 270 a.C. in Campania a 66 anni. Il suo allievo, Porfilio, raccolse 54 scritti di Plotino e li divise per argomenti in sei trattati di nove libri ciascuno: “Le Enneadi” (nove). Plotino è l’ultimo grande filosofo pagano della storia, però verrà influenzato dai primi trattati che i padri della chiesa avevano scritto e diffuso. Lui, infatti, è il punto di passaggio tra la filosofia classica e quella cristiana, il filosofo neo-platonico più importante. Plotino è sicuramente Platonico, però riconosce che su alcuni punti Aristotele aveva ragione. Così cerca di perfezionare Platone in base all’“Atto Puro” di Aristotele. A ciò, però, aggiunge anche alcuni spunti provenienti dal Cristianesimo. In questo modo, la filosofia di Plotino diventa una fusione tra il Mondo delle Idee di Platone, l’Atto Puro di Aristotele e la Trinità Cristiana. Plotino afferma che la prima esperienza che l’uomo fa è la Molteplicità, cioè capisce che esistono molte cose. La molteplicità, però, si può cogliere solo perché conosciamo il concetto di Unicità. Senza l’“Uno” non è possibile pensare la molteplicità. Lui infatti dice: «ogni cosa è ciò che è, solo in quanto costituisce, in qualche modo un’unità, al punto tale che, tolta l’unità è tolto l’ente». L’Uno è prima di tutto ed è il fondamento (ipostasi = s) di tutto.

LE TRE IPOSTASI

Per Plotino esistono tre ipostasi (realtà sostanziali per sé sussistenti):
1) Uno: concepito come realtà che «è in potenza le cose che da lui si irraggiano (pànton dýnamis)» è, in quanto principio di tutte le cose, diverso dalle cose, é assoluta unità. L’Uno è Infinito, non perché sia interminabile in grandezza o in numero, ma per il fatto che la sua potenza non è circoscritta. In quanto infinito, è privo di forma (àmorphos) e di figura (aneídos) e, siccome dove non c’è forma non c’è essere o essenza, l’Uno è «al di là dell’essere», e «al di là della sostanza». Per questo è al di fuori di ogni determinazione quantitativa e spazio-temporale, cioè non si può dire nulla di positivo perché è ineffabile, in conoscibile. Di lui si può dire solo ciò che non è (teologia negativa). Se proprio dobbiamo definirlo, bisogna affermare che esso è il Bene, soprattutto in relazione al mondo, ma in realtà è al di là del Bene stesso. L’unico modo per rappresentarlo è nel punto di luce da cui partono infiniti raggi. L’Uno può anche essere detto Causa, ma tale espressione vale solo per gli uomini, poiché possiedono qualcosa di lui, e non per lui, perché persevera in se stesso. Ma perché dall’Uno derivano i molti? E come avviene ciò? Circa il primo interrogativo, lui afferma che l’Uno, nella sua perfezione, non ha bisogno del mondo poiché è principio di esso. Esso non rimane unico solo a causa di una «sovrabbondanza» di essere (hyperpléres) che non può fare a meno di «traboccare» e «generare». Quindi il mondo scaturisce inevitabilmente dall’Uno, non perché lui lo voglia. Per il secondo interrogativo, lui afferma che l’Uno genera eternamente tutte le cose emanandole (apòrria) o irradiandole (perílampsis) da se come un punto di luce genera luce. Questa emanazione delle cose avviene tramite una discesa degradante
2) Intelletto: La prima cosa che procede dall’Uno è l’Intelletto. Esso è uno poiché intelletto, ma contiene in se la molteplicità infinita delle idee. Esso è il principio della molteplicità dell’unità e può essere paragonato al “Mondo delle Idee” di Platone.
3) Anima Mundi: emanata dall’Intelletto, è la molteplicità di tutte le cose, la mediatrice tra il mondo intelligibile e quello sensibile e l’anima che dà ordine al cosmo. È divisa in due parti: una superiore rivolta verso il mondo intelligibile; una inferiore rivolta al mondo sensibile. Es.: l’uomo che è formato da anima e corpo. Per lui l’anima non è nel corpo ma è il corpo che è nell’anima e, in tal senso, il corpo è la limitazione, il confine dell’anima. Come la materia non è una realtà in sé, ma è zona d’ombra, così il corpo non è realtà in sé, ma è mancanza d’essere. Quindi nella materia c’è il male: Negatività della Materia (concetto Gnostico). La materia coincide con le tenebre e quindi la corporeità è il livello più basso dell’emanazione dell’Uno. Tutte queste tematiche sono Gnostiche, infatti lui è uno dei massimi esponenti di pensiero di astrologia e magia.

LA CONVERSIONE DELL’ANIMA

Essendo tutto venuto dall’Uno, lo scopo del mondo è quello di ritornare (epistrophé) all’Uno. Come la discesa è stata graduale, anche la risalita è graduale e faticosa. L’anima, per tornare all’Uno, deve purificarsi, liberarsi dalle passioni, arrivare a provare l’“Amore della Bellezza”. Ma per iniziare questo cammino, l’uomo deve ritornare a se stesso e abbandonare le cose esteriori. Solo l’anima liberata dalle passioni e capace di provare l’Amore della Bellezza può vedere la “Piana delle Verità”; lo stesso Amore della Bellezza ci fa tornare a Dio: Principio e Fondamento di ogni bellezza. Per questo afferma che: «l’anima secondo natura ama Dio». Afferma anche che il nostro scopo è quello di tornare alla “Patria Celeste”. Per cogliere nel nostro mondo sensibile la Patria Celeste occorrono Atti di Amore Eterno (Estasi Divina). Mediante la pianificazione e, quindi, l’estasi, l’anima si ricongiunge con l’Uno e, quindi, con Dio.

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