Esplosione dei nazionalismi.

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Testo

Uno degli effetti del disfacimento dell’Urss, del crollo del sistema imperiale sovietico è stato l’emergere delle istanze nazionalistiche nei paesi che facevano capo a tale sistema. L’insorgere dei nazionalismi etnici può produrre conseguenze negative per la pace e per gli equilibri europei: conseguenze già oggi rilevabili drammaticamente nella ex Jugoslavia. Lo sgretolamento del sistema di Stati socialisti d’Europa ha, quindi, portato a una tragedia di vastissime proporzioni: la guerra nei Balcani, che dura da dieci anni e non dal 24 marzo di quest’anno, e il tracollo delle condizioni di vita di mezzo continente, per non parlare del caso della Russia, il più drammatico di tutti.
La morte del comunismo, la crisi dell'Urss e la dissoluzione dell'impero sovietico in Europa centro-orientale ci riconducono per molti aspetti all'Europa del 1919. Anche oggi come allora il crollo di una grande potenza multinazionale ha improvvisamente liberato le energie nazionali che essa imprigionava all'interno delle sue frontiere e della sua zona d'influenza. Anche oggi, come allora, lo Stato «nazionale» sembra essere la naturale aspirazione dei popoli, il necessario traguardo della loro evoluzione politica. E anche oggi come allora la nascita degli Stati nazionali o il ripristino delle sovranità perdute si scontrano con difficoltà obiettive, economiche, etniche, geopolitiche, che rischiano di riprodurre le tensioni e i conflitti degli anni '20 e '30.
Ma prima di giungere a conclusioni affrettate e sommarie occorre mettere in evidenza, insieme alle analogie, alcune differenze, nel bene e nel male. Il profilo etnico degli Stati dell'Europa centro-orientale è cambiato. Grazie agli orrori della guerra e del dopoguerra alcuni di essi sono molto più «nazionali» di quanto non fossero nel 1919. I tedeschi sono stati costretti ad abbandonare la Polonia e la Boemia, i polacchi delle province orientali sono stati trasferiti verso occidente, gli ungheresi hanno lasciato la Slovacchia, gli ebrei, sfuggiti allo sterminio dei campi di concentramento, sono oggi nelle Americhe, in Europa occidentale o in Palestina. In Transilvania vivono tuttora forti minoranze romene e sassoni, ma per la prima volta nella storia moderna dell'Europa centro-orientale i confini di uno Stato coincidono spesso con i confini linguistici e culturali di una nazione. Ciò accade principalmente negli Stati, quali Polonia, Austria, Ungheria, Romania, Germania, che hanno perduto la guerra, nella prima o nella seconda fase del conflitto, e hanno dovuto subire le manipolazioni territoriali e demografiche dei vincitori. Negli Stati che hanno vinto la guerra, Unione Sovietica e Jugoslavia, l'eterogeneità etnica, invece, è stata in molti casi intenzionalmente accentuata. In Jugoslavia i serbi non possono più imporre la loro autorità al resto del paese, ma sono troppo numerosi nelle altre repubbliche per accettare di buona grazia la sua dissoluzione. In Unione Sovietica le autorità hanno favorito l'immigrazione interna per diluire ulteriormente le minoranze e hanno disperso le nazionalità meno docili attraverso il paese. Le repubbliche del Baltico, in particolare la Lettonia dove i lettoni rappresentavano nel 1989 il 53,7 per cento della popolazione, sono oggi meno omogenee di quanto non fossero alla vigilia della seconda guerra mondiale. Nel Caucaso i gruppi nazionali, georgiani, armeni, azeri, osseti, abcasi, formano un groviglio inestricabile. Qui inevitabilmente gli Stati nazionali, se mai riusciranno a costituirsi, riprodurranno le tensioni che opposero le nazionalità dominanti alle loro minoranze nell'Europa di Versailles.
Un'altra osservazione concerne il valore e la forza dei movimenti nazionali in Europa centro-orientale. Come nel 1919, vi è la tendenza a considerarli un fiume sotterraneo che riemerge alla superficie con la sua intatta forza secolare. Se la storiografia marxista assume il proletariato a protagonista della storia, la storiografia nazional-liberale, dal canto suo, attribuisce questo ruolo alle nazioni e concepisce la storia come progresso e affermazione del principio di nazionalità. Meglio varrebbe limitarsi a constatare che i sentimenti di solidarietà nazionale, etnica o comunitaria sono spesso collegati al fallimento di un progetto multinazionale e che il progetto multinazionale, a sua volta, può essere in molte circostanze una risposta razionale ai problemi di una regione. Vi sono minoranze nazionali, i tedeschi del Baltico, i georgiani, gli armeni, che hanno tratto larghi vantaggi dalla loro appartenenza all'impero russo e che hanno preservato la loro originalità nell'ambito di una grande potenza multinazionale meglio di quanto non sarebbe accaduto se avessero cercato di staccarsi dall'impero. Vi sono conflitti etnici, come quelli del Caucaso, che dimostrano la necessità di un potere arbitrale molto più di quanto non dimostrino l'insopprimibile forza del principio di nazionalità. In altre circostanze il riaccendersi delle rivalità etniche nel Caucaso avrebbe sollecitato l'intervento della potenza dominante e rafforzato, in ultima analisi, la sua posizione, come accadde dopo la guerra «tataro-armena» del 1905-1906, in cui i russi sostennero abilmente la parte degli istigatori e dei pacificatori.
Quando il nuovo governo georgiano, nel 1990, soppresse la repubblica autonoma dell’Ossezia meridionale, gli osseti, minacciati dalle persecuzioni georgiane, lanciarono appelli a Mosca. Qui, dopo il colpo di Stato fallito dell'agosto 1991, venne un gruppo di vedove e madri vestite di nero sino ai piedi, con il capo coperto da uno scialle nero. Allineate di fronte al monumento di Puskin, nella piazza che porta il suo nome, tenevano di fronte al petto il ritratto di un uomo ucciso, e una di esse mostrava un cartello in cui poteva leggersi: «Russia che ci hai salvato dal partito comunista, salvaci dai nuovi nazisti». Anche se comunismo e nazismo sono ideologie relativamente nuove, il dramma delle minoranze e l'appello alla giustizia arbitrale di un potere imperiale, là dove non esistono frontiere etniche chiaramente delineate, sono problemi antichi. Ma in una fase in cui lo Stato imperiale è fortemente indebolito dalla propria crisi o è costretto dalla logica delle riforme ad astenersi da interventi repressivi, la rivalità fra gli armeni e gli azeri, fra i georgiani e gli osseti, fra i moldavi e i gauzi diviene agli occhi di tutti una prova dell'impotenza di Mosca. E l'impotenza dello Stato imperiale aggrava la situazione locale, provoca conflitti analoghi in altre parti del paese.
Non è vero che i finlandesi, i baltici, i cechi, gli slovacchi, gli ucraini, gli armeni, i georgiani e gli azeri divengano indipendenti alla fine della prima guerra mondiale perché la loro secolare attesa è stata finalmente premiata dalla storia; divengono indipendenti perché si è rotto il delicato intreccio di diritti e doveri che ha garantito fino a quel momento la loro convivenza in seno all'impero di cui erano sudditi. È questa la situazione che si è prodotta in Urss all’interno del blocco sovietico nel corso del 1989. È questa la situazione che si è prodotta in termini ancora più radicali dopo il fallito colpo di Stato dell'agosto 1991 allorché quasi tutte le repubbliche dell'Unione hanno proclamato la loro indipendenza e tre di esse, Estonia, Lettonia e Lituania, sono state riconosciute dalla maggior parte della comunità internazionale. Ed è questo infine ciò che è accaduto in Jugoslavia dove il potere arbitrale era rappresentato dal partito comunista. La disintegrazione del blocco sovietico e l'emergere delle nazionalità in Urss o in Jugoslavia coincidono con il fallimento del comunismo: ne sono l'effetto non la causa. La fine del comunismo ha liberato, infatti, insieme a tante energie positive, anche le terribili violenze delle “pulizie etniche” nei Balcani. La dissoluzione di un impero, come afferma il giornalista Sergio Romano, “non garantisce necessariamente il futuro delle sue membra”: il riaprirsi di rivalità e di conflitti, spesso difficilmente controllabili, può essere la conseguenza perversa della caduta di un sistema superiore di controllo, quali erano l'Urss e la Jugoslavia. La quasi decennale guerra di dissoluzione della Federazione jugoslava, ad esempio, ha rappresentato una minaccia diretta alla pace in un’area tradizionalmente inquieta dell’Europa sud-orientale. Tale minaccia era ormai incombente su tutti i confini della Serbia, cioè su tutti i Paesi nei quali cinque secoli di dominazione ottomana hanno lasciato un tale intreccio di etnie, di religioni, di culture diverse fra loro, da non lasciare spazio, se non a costo di crudeli “purificazioni”, a progetti (umanamente inaccettabili) di Stati abitati da una sola etnia.
Riemergono intatte, in tal modo, le rivalità che avevano a suo tempo giustificato l'esistenza dell’impero o di un potere arbitrale: lituani contro polacchi, uniati contro ortodossi, moldavi contro ucraini e russi, ucraini contro tatari, cechi contro slovacchi, croati contro serbi, serbi contro albanesi.
Le parole «prigione dei popoli», con cui Lenin descrisse l'impero zarista, non sono meno assurde per la Russia sovietica di quanto lo fossero per la Russia imperiale o per l'Austria-Ungheria. Usarle significa dimenticare quali vantaggi morali, culturali, religiosi, economici molte minoranze abbiano tratto dalla loro appartenenza a un grande Stato. Come i corsi in Francia, anche i giordani e gli armeni hanno avuto nella Russia imperiale o sovietica prospettive di carriera ben più grandi di quelle di cui avrebbero goduto se i loro paesi avessero cercato di sopravvivere come piccoli Stati montanari, schiacciati fra le vette del Caucaso e le coste di due grandi laghi asiatici. Il patriottismo della Georgia è stato per molto tempo appagato dalle grandi carriere georgiane alla corte del potere moscovita e dai vantaggi che ne derivavano per la madrepatria: ne è prova indiretta il tenace culto di Stalin che sopravvive in alcuni settori dell'opinione georgiana. Altrettanto può dirsi di altri patriottismi «riemersi» alla superficie nel corso del 1989.
Queste considerazioni non servono ad anticipare il futuro, ma possono evitare attese inutili e speranze immotivate. La storia europea degli ultimi duecento anni non contiene ricette universali. Dimostra semplicemente che gli Stati nazionali e plebiscitari costituitisi in Europa durante il secolo scorso sono stati incapaci di organizzare il loro «concerto» (intesa, collaborazione) e che il fallimento dello Stato nazionale rilancia in forma continuamente diversa il progetto delle grandi convivenze multinazionali. È quello che è accaduto in Europa alla fine della seconda guerra mondiale.
Gli atti compiuti in Kosovo da Milosevic non possono essere definiti, per quanto ne sappiamo sinora, atti di genocidio, ma discriminazione sulla base di caratteristiche etniche e trasferimento in massa di popolazioni. Tali azioni sono purtroppo presenti in tutta la storia del ventesimo secolo in Europa. Per questo non si dovrebbe fare riferimento alla persecuzione degli ebrei, che prese forme più estreme, ma all’impossibilità per numerose minoranze di ottenere una qualsiasi autonomia, di vedere riconosciuta la loro identità linguistica, religiosa o culturale. La loro sorte fa pensare ai trasferimenti di popolazioni all’interno dell’impero sovietico o all’indomani della seconda guerra mondiale. Da questo punto di vista Milosevic non ha inventato nulla.
L’idea che ad ogni Stato dovesse corrispondere un solo popolo, inoltre, è stata causa di immani tragedie per tutto il Novecento. Nella sola Europa e nel bacino del Mediterraneo, questa follia ha provocato l’esodo di decine di milioni di persone. È il caso dell’Armenia, del Kurdistan, dell’Europa centrale, della Palestina, fino alla Jugoslavia, per la quale si continua a inseguire il miraggio di uno Stato per ogni popolo. La guerra in Kosovo ci ha lasciati attoniti per la dimensione che l’esodo dei profughi kosovari ha raggiunto, sotto la spinta delle violenze dei militari serbi e dei bombardamenti della Nato. Ma l’idea, atroce, di risolvere i problemi di convivenza fra etnie diverse cercando di far coincidere gli Stati con i popoli che li abitano, ha radici antiche e profonde e ha raggiunto il suo culmine nel Novecento. Molteplici sono stati i casi tragici di pulizia etnica e di trasferimento forzato di popolazioni in Europa e nel bacino del Mediterraneo, con il suo corollario di massacri, e in taluni casi, come in quello armeno, di veri e propri genocidi. Questi gli episodi principali di pulizia etnica in Europa, verificatisi nel nostro secolo: è il caso di un milione e 750 armeni, che fra il 1915 e il 1916 furono deportati in Siria e in Mesopotamia; quello dei greci, che nel 1923 in 1 milione e 300 mila dovettero lasciare la Turchia e dei turchi che dovettero abbandonare la Grecia in 400 mila; e, poi, il fenomeno dei profughi della Seconda guerra mondiale, dopo la quale 20 milioni di persone furono costrette a lasciare la loro terra; fra questi i tedeschi che dall’Europa centrale dovettero trasferirsi in Germania e i polacchi che, dalle regioni del loro Paese passate all’Unione Sovietica, si trasferirono nelle regioni che la Polonia aveva prese alla Germania; infine i kurdi, massacrati e deportati da irakeni e turchi, e i popoli della ex-Jugoslavia, dove la pulizia etnica e la violenza sembrano non vedere mai la fine. A queste tragedie si deve aggiungere quella immane degli ebrei, che prima videro l’orrore della deportazione e poi lo sterminio di massa che causò la morte di sei milioni di uomini, donne, bambini, e le centinaia di migliaia di oppositori politici che scomparvero nei lager di Stalin negli anni Trenta.
È indubbiamente giusto che i Paesi di un’area geografica come l’Europa esprimano la loro indignazione quando tali azioni vengono commesse in un Paese vicino, e che cerchino di impedirle. Questi Paesi non sono invece più nel loro diritto se chiedono a uno Stato di rinunciare a una parte del suo territorio, col pretesto che un gruppo militante vuole la secessione. È bene chiedersi in primo luogo quale sia il fine dell’azione intrapresa attualmente nella ex Jugoslavia: è assicurare i diritti delle minoranze etniche, rendere più armonica la coesistenza delle popolazioni con tradizioni culturali, religiose e linguistiche differenti? Bombardare una parte della popolazione in nome dei diritti dell’altra non può certo contribuire alla loro futura coesistenza pacifica. Al contrario, questa azione non può che riaccendere gli antagonismi e aprire ferite che si richiuderanno soltanto tra molto, moltissimo tempo. Il mezzo non corrisponde dunque al fine: ma esisteva un’alternativa? Gli uomini hanno bisogno di riconoscimento sociale per esistere: se non lo trovano altrove, non resta loro che ricorrere all’appartenenza a un’identità collettiva. Diventano allora sensibili ai capi fanatici o cinici, e sono pronti a trasformare in capri espiatori quelli che vivono tra loro, ma non sono come loro.
Come convincerli a cambiare? Dicendo loro che tutto ciò è male, che il loro dovere consiste nell’amare il prossimo, ovvero lo straniero, minacciandoli di una punizione? Dovremmo ormai aver imparato da tempo quanto questi rimedi siano poco efficaci. L’intolleranza finisce quando non serve più: se un individuo ha la possibilità di realizzarsi nella sua esistenza, allora non avrà più bisogno di aggrapparsi alla magra consolazione di appartenere alla comunità dei musulmani, o dei cristiani, o dei serbi, o degli albanesi. I Paesi dei Balcani si trovano in una situazione economica e sociale disastrosa. Non sono mai stati ricchi e il comunismo ha precipitato la loro rovina. In tutti questi Paesi vivono importanti minoranze etniche. Se gli europei e gli americani non vogliono che domani si incendi un altro angolo dei Balcani dovrebbero aiutarli a uscire dal marasma economico e sociale. I capi fanatici o cinici, come Milosevic, diventerebbero allora assurdi anacronismi, e scomparirebbero da soli. Tutto questo costa caro? Certo, ma l’Europa e l’America stanno già spendendo molti soldi per costruire aerei, missili e bombe, per armare i guerriglieri e aiutare i rifugiati, e su queste terre è meglio riversare soldi che bombe. Non è con la guerra che si possono risolvere i contrasti fra le diverse etnie, dovuti principalmente alla povertà delle popolazioni: solo un intervento economico dell’Occidente può essere risolutivo.
Se si crede che gli “Stati etnici” siano l’unico scenario futuro possibile per l’ex-Jugoslavia si può stare certi che ci saranno altri cento anni di guerra. Ce ne sono stati già dieci, ma questo non è servito comunque a far vincere questo progetto. L’idea di creare Stati “etnicamente puri” non è solo aberrante, è anche perdente. La corsa alla “disgregazione”, però, non è soltanto un problema balcanico: è una grande questione europea, legata alla lenta agonia dello Stato-nazione. Ci sono spinte locali ovunque. La soluzione potrebbe essere una prospettiva federalista, che però non è in sé sufficiente a proteggere i gruppi etnici: la convivenza va costruita nel tempo, favorendo la democrazia e sostenendo economicamente le aree coinvolte da questi processi. Insomma, per la democrazia e la stabilità nei Balcani occorrerà attendere, secondo gli studiosi, almeno venti o trenta anni. Ma d’altronde quanto abbiamo impiegato per realizzare una democrazia compiuta nei Paesi usciti distrutti dalla Seconda guerra mondiale?
Questa guerra è la risposta sbagliata contro la politica criminale di Milosevic in Kosovo, perché colpisce solo chi soffre, aggravando incredibilmente il livello di atrocità perpetrate nei confronti dei civili, serbi e albanesi, e innescando una spirale di odio fra i due popoli. Bisognava investire di più sugli aiuti economici alla Jugoslavia, sulla educazione alla convivenza, sulla reintegrazione dei Balcani in Europa. Si sapeva da dieci anni quello a cui si sarebbe andati incontro, ma fare investimenti a lungo termine, evidentemente, non frutta in termini politici. E così oggi i kosovari devono fare i conti, oltre che con le milizie serbe, con le stragi della Nato, come quella di Korisa, dove le bombe “umanitarie” hanno colpito un accampamento di profughi. I tragici errori della Nato, con “danni collaterali” anche gravissimi come il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, uniti alle incertezze sulle prospettive, rendono legittimi anche in chi è convinto della giustezza dell’intervento non pochi dubbi su come l’operazione è stata progettata e gestita.
In tutto questo che fine fa l'Europa? Quale mente immaginifica avrebbe potuto soltanto pensare, appena pochi mesi fa, che il primo atto dell’Europa finalmente unita, sotto le bandiere dell’euro, sarebbe stato quello di combattere, sul proprio stesso continente, una guerra a guida americana? Questo è il problema posto dall'operazione della Nato: se serve ad affermare la potenza unica degli Stati Uniti, allora è come se fosse una bomba lanciata direttamente contro l'Europa per impedirle di svolgere se non una funzione di arbitro, almeno una funzione di equilibrio.
Il dramma dei profughi kosovari, sradicati dalle loro terre e dalle loro case, è l’altra faccia della medaglia dell’euro: è la tragica dimostrazione del fatto che l’Europa non esiste ancora come soggetto politico in grado di superare gli egoismi nazionali in materia di politica estera e di difesa e di recuperare rispetto agli Stati Uniti la sua autonomia politica, culturale, militare.
L’Europa del Duemila ha, dunque, una moneta unica, una banca centrale, ma non ha un ideale unitario, non ha valori umanitari sui quali fondare le sue costruzioni economiche. Ed è forse per questo che, con tutta la buona volontà dei grandi media televisivi e giornalistici, la nascita dell’Unione monetaria europea è stata una festa comandata ma non sentita, un’unione senz’anima. Forse non si poteva far altro; forse nei tempi che corrono l’economia, la moneta è l’unico valore che possa tenere assieme undici Paesi; forse l’unica vera frontiera europea di cui oggi si capisca la difesa è quella della moneta forte, stabile, inattaccabile dall’inflazione.
L’Europa che dobbiamo impegnarci a costruire deve essere soprattutto un’Europa di pace, un’“Europa dei popoli”, impegnata nell’ambito dell’Onu a creare sviluppo e sicurezza per tutti: non possiamo assolutamente accettare un’Europa in cui l’unico valore comune, l’unico modello ritenuto “vincente” sia quello americano del capitalismo sfrenato, né tantomeno possiamo accettare un’Europa prigioniera della logica della guerra.
Il principio ispiratore della nuova Europa, inoltre, deve essere il rifiuto della separazione etnica e l’affermazione di una società tollerante multiculturale. Il sogno multirazziale è la speranza di iniziare il prossimo millennio fuori dalla angosciante ambivalenza dei nostri giorni per cui metà del mondo si illude di aver superato ormai ogni diversità, e l’altra metà ancora si affronta barbaramente in nome delle differenze di razza, religione, cultura, abitudini e altro ancora. Non è la speranza illusoria di ritrovarsi tutti uguali, ma quella più concreta di imparare a rispettarsi davvero nelle reciproche diversità e nelle diverse ricchezze culturali. La speranza insomma di coniugare dialetticamente la globalizzazione e il localismo. Il globale, in questa visione, può rispettare il locale, e viceversa.
All’osservazione di ciò che è accaduto e sta accadendo in Europa dal 1789 fino ai nostri giorni ci coglie l'impressione che la storia sia davvero circolare e gli uomini condannati a ripercorrere lo stesso cammino senza mai ricordare e imparare. Ma lo storico commetterebbe un errore se credesse che questa circolarità della storia lo autorizza a prevedere il futuro. Non è vero che i popoli siano completamente privi di memoria. Nel ritornare sul cammino già percorso essi dimostrano di avere appreso dalla storia quanto basta per schivare qualche vecchio errore, non abbastanza per evitare i nuovi.
ESPLOSIONE DEI I NAZIONALISMI IN EUROPA NEL CORSO DEL 900

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