Materie: | Altro |
Categoria: | Religione |
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Data: | 22.02.2007 |
Numero di pagine: | 32 |
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Testo
UN TESTIMONE
Il 9 aprile del 1945, poco prima della fine della Seconda Guerra mondiale, dopo due anni di detenzione, veniva impiccato, nel lager di Flossemburg, il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945). Figlio di una famiglia dell'alta borghesia berlinese, fin dal 1933 egli si era opposto a Hitler e all'ideologia nazista ed era entrato nella resistenza attiva. A sessant'anni dalla sua morte, il suo senso di responsabilità cristiana spinto fino al limite, la sua premura coraggiosa per il bene e il giusto, la calda irradiazione della sua personalità, suonano come monito ad “immergersi nella realtà complessa del mondo” senza facili moralismi e con “il rischio del compromesso”.
All'inizio dello scorso giugno '04 si è celebrato il sessantesimo anniversario della liberazione di Roma e dello sbarco alleato in Normandia, celebrazioni nelle quali è affiorato anche il ruolo della Resistenza antinazista.
In questo contesto sarà forse utile ricordare che anche in Germania, molti tedeschi hanno pagato con la vita la loro lotta attiva contro il nazismo. A riprova, se ce ne fosse bisogno, che le coscienze limpide non sono chiuse dentro ristretti confini.
“Se il capo si lascia attirare a diventare l'idolo di coloro che guida - e colui che è guidato spera sempre ciò dal suo capo - allora l'immagine del capo (=Fuhrer) degenera in quella di seduttore (Verfurer) ”.
Colui che osa denunciare in termini così chiari il pericolo della dittatura è un giovane pastore della Chiesa luterana: Dietrich Bonhoeffer. E lo fa alla radio, il primo febbraio 1933, pochi giorni dopo che Hitler si è impadronito del potere! Quando Hitler prende le prime misure contro gli Ebrei, Bonhoeffer esclama: “Solo chi grida in favore degli Ebrei ha il diritto di cantare il gregoriano”. Man mano che il nazismo penetra negli spiriti tedeschi, Bonhoeffer acumina le sue frecce: “Non aspettiamoci ingenuamente che Hitler si converta. Siamo noi che dobbiamo convertirci. Hitìer è indurito e questo deve spingerci a parlare ad alta voce”. Ma chi era questo giovane pastore, che aveva solo 27 anni quando Hitler prese il potere? Dietrich nasce il 4 febbraio 1906, sesto di otto figli, con la sorella gemella Sabine, da una famiglia dell'alta borghesia berlinese. Suo padre era un eminente psichiatra, uno dei suoi zii generale comandante della piazza di Berlino. La sua educazione borghese gli aveva dato, secondo il suo proprio giudizio, “un terreno solido sotto i piedi per vivere e morire”. In breve, era un uomo forte, istruito, amante della vita. Lo stupore di suo padre è grande quando Dietrich vuole diventare pastore. In realtà, racconta il biografo Bethge, Bonhoeffer “nutrì il desiderio di divenire pastore e teologo fin da bambino, e lo mantenne, presumibilmente senza essenziali interruzioni, fin che non l'ebbe realizzato”. Riceve i primi rudimenti scolastici dalla madre, il che gli permette in seguito di superare senza problemi le tappe ulteriori e di frequentare a soli 17 anni l'università. Segue poi i corsi accademici prima a Tubinga e poi a Berlino dove si laurea a 21 anni in teologia. In lui si accentua, sempre più, la convinzione ecumenica dell’esigenza delle varie confessioni religiose cristiane di allargare i propri orizzonti e di cercare una riunificazione radicale, sulla base della comune fede in Cristo.
La sua coerenza
A venticinque anni è già assistente alla facoltà di teologia di Berlino. Ardente ecumenista, egli viaggia per tutta l'Europa stabilendo delle forti amicizie che userà poi nella sua crociata contro il nazismo.
Sin dagli albori dell'ascesa nazista in Germania, si pone all'opposizione, insieme con i suoi familiari ed alcuni compagni di studio e di lavoro. Con essi prende posizione pubblicamente contro il regime hitleriano e la sua politica discriminatoria, impegnandosi fortemente nell'organizzazione della “Chiesa confessante”. Questa è in lotta con l'ala delle Chiese luterane tedesche allineatesi alle direttive razziali discriminanti del governo.
A motivo del suo impegno politico ed ecclesiale, nel 1938 gli viene ritirata l'autorizzazione all'insegnamento universitario. Ma ciò non gli impedisce di proseguire la sua attività in favore della sua Chiesa con frequenti viaggi all'estero.
Con una grande lucidità, il giovane pastore analizza la situazione che sta ora di fronte ai cristiani della “Chiesa confessante”, se vogliono essere coerenti con la loro fede: “Essi si troveranno di fronte - scrive - ad una terribile alternativa: o volere la sconfitta della loro nazione perché la civiltà cristiana possa sopravvivere, o volere la vittoria della loro nazione e per ciò stesso, la distruzione della nostra civiltà. Io so quale dev'essere la scelta, ma non la posso fare con sicurezza”.
Ha una grave crisi di coscienza, che supera, egli pastore luterano, decidendo di entrare a far parte della Resistenza tedesca. Motiva la sua scelta pensando che se un auto potente, guidata da un autista ubriaco, semina la strage, non è sufficiente venire in soccorso alle persone investite, ma è necessario fermare in ogni modo il guidatore.
Nelle condizioni imposte dal regime hitleriano, la resistenza non poteva che prendere la forma di una congiura. Bonhoeffer entra in una rete il cui scopo è quello di fare sparire il tiranno. Rischio enorme.
Intanto gli avvenimenti precipitano: il 30 settembre del 1938 c'è il patto di Monaco, il 15 marzo del '39 l'invasione della Cecoslovacchia.
Le difficoltà
Bonhoeffer sente il bisogno di prendere un po' di distanza dagli avvenimenti. Così, il 2 giugno 1939, risponde all'invito che gli è stato fatto di una missione che l'avrebbe trattenuto a New York qualche mese. Ma appena arrivato prende coscienza del suo errore: “lo devo passare questo tempo difficile della nostra storia nazionale con il popolo cristiano di Germania”. Ritoma a Berlino il 27 luglio. Il primo settembre cominciava la Seconda Guerra mondiale.
Bonhoeffer si impegna sempre più nella cospirazione. Molti tentativi di assassinare il Fuhrer falliscono. Alcuni congiurati sono presi, torturati. Il 5 aprile 1943, la Gestapo arresta, nella casa dei genitori, Dietrich e suo cognato. Arrestato come sospetto congiurato della resistenza a Hitler, nel clima ormai incipiente di disfatta militare della Germania nazista.
Dietrich resterà diciotto mesi nella prigione militare di Tegel. Nella prigione sotterranea, severissima di Prinz-Albrecht Strasse, in un regime di totale isolamento è rinchiuso in una cella di due metri per tre; il puzzo delle coperte; il pane gettato per terra come a un cane; le vessazioni dei carcerieri; gli interrogatori sotto tortura; le urla dei prigionieri durante i bombardamenti.
Come reagisce a tutto ciò questo figlio della grande borghesia? Lo sappiamo attraverso le lettere che riesce a far giungere alla sua famiglia e a qualche amico. Con una calma che sbalordisce sia le guardie che i suoi amici. Queste lettere verranno pubblicate dopo la sua morte con il titolo di Resistenza e resa.
Ben presto, gli uni e gli altri vengono a cercare conforto presso di lui. Egli scrive a sua madre: “Mi hai scritto, cara mamma, che sei fiera di vedere che i tuoi figli si comportano in maniera decente in una situazione così abominevole. In realtà, l'abbiamo imparato da voi due”.
Scrive molte altre lettere una particolarmente struggente di auguri natalizi, per i genitori, i figli e per la fidanzata Maria von Wedemayer (18 anni, conosciuta nel giugno 1942; un anno dopo, in piena guerra mondiale si fidanzeranno), con questi versi così particolarmente forti: “il vecchio vuole ancora tormentare i nostri cuori / ancora ci opprime il grave peso di brutti giorni / oh, Signore, dona alle nostre anime impaurite / la salvezza per la quale ci hai creati”.
Tra le diverse lettere di corrispondenza con la fidanzata (pubblicate nel 1992 in tedesco e nel 1994 in italiano, con il titolo di Lettere alla fidanzata. Cella 92 Dietrich Bonhoeffer. Maria von Wedemayer 1943/45) un brano esemplare – scrive il 26 aprile 1944 Maria a Drietrich – “Ho tracciato con il gesso una linea intorno al mio letto, larga all’incirca come la tua cella. Ci sono un tavolo e una sedia, come io mi immagino. E quando sono seduta lì, credo quasi di essere insieme a te”. E il 19 dicembre 1944 Dietrich scrive a Maria la vecchia canzone d’infanzia sugli angeli, che dice: “Due che mi addormentano, due che mi svegliano”; ma questo essere protetti mattino e sera da invisibili potenze benigne è qualcosa di cui noi adulti abbiamo bisogno non meno dei bambini. Dunque non devi pensare che io sia infelice. E poi che significa essere felice o infelice?
Dipende così poco dalle circostanze, ma soltanto da quello che avviene nell’uomo. Io sono contento di avere te, voi, e ciò mi rende felice”.
Ma anche lui, qualche volta, crolla. Al suo amico, il pastore Bethge, dice: “... malgrado tutto ciò che ho potuto scrivere, qui è una cosa orribile; ho degli incubi atroci che mi perseguitano durante la notte... la giornata comincia con un sospiro piuttosto che con la lode a Dio... Ho l'impressione di essere invecchiato di molti anni sotto l'effetto di ciò che vedo e sento”. Ma poi si riprende: “L'essenziale è di regolare i propri passi su quelli di Dio, di non volergli essere superiore, né di restare troppo indietro”.
La sua forza
Una fede forte radicata profondamente nella realtà, che non cerca Dio soltanto nella prova, ma anche nella gioia e nella realizzazione di sé. Il contrario di una pietà dolorista. Il 7 febbraio del 1945 nell'imminenza dell'arrivo dei sovietici vicino a Berlino, la situazione precipita. Vengono casualmente scoperti dalla Gestapo documenti strettamente compromettenti da cui risulta che Bonhoeffer fa parte di un gruppo di resistenza frontale al regime hitleriano, egli è mandato prima nel famigerato campo di Buchenwald, e poi a Flossenbúrg. Il cinque aprile la Gestapo trova casualmente altri documenti inoppugnabili, secondo i quali Bonhoeffer aveva partecipato a una congiura tesa a eliminare lo stesso Hitler. E fu Hitler in persona a dare l’ordine di uccidere immediatamente, dopo un processo sommario, i congiurati facendo esplicitamente il nome di Bonhoeffer. Dietrich viene rintracciato dall’ancora funzionante apparato delle SS, processato rapidamente l’8 aprile davanti alla corte marziale, e il 9 Aprile impiccato nel lager di Flossenburg. Da una testimonianza precisa, sappiamo che le sue ultime lucide parole furono: “È la fine. Per me l’inizio di una nuova vita”. Nello stesso tempo, assieme con lui, vengono impiccati l'ammiraglio Canaris e il generale Oster, dopo il tentativo mancato di assassinare Hitler che si suiciderà il 30 aprile.
Qualche settimana prima della sua deportazione, egli scriveva a Bethge: “Ho fatto l'esperienza, e ancora la sto facendo, che è soltanto nella piena realtà di questa vita che si impara a credere... Se ci si getta interamente nelle braccia di Dio, allora si prendono seriamente non tanto le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo. Allora si veglia con Cristo nel Getsemani”.
Il medico del lager di Flossenburg, all'alba di quel lunedì in cui si compì l'esecuzione, vide Bonhoeffer senza sapere allora con chi aveva a che fare. Dieci anni più tardi egli scrisse: “Il mattino del giorno stabilito, fra le 5 e le 6, i prigionieri furono portati via dalle celle. Vennero lette le sentenze del tribunale militare. Attraverso la porta semiaperta di una stanza delle baracche vidi che il pastore Bonhoeffer, prima di svestire gli abiti da prigioniero, si inginocchiò in profonda preghiera con il suo Signore.
“La preghiera così devota e fiduciosa di quell'uomo straordinariamente simpatico mi ha scosso profondamente. Anche al luogo del supplizio egli fece una breve preghiera, quindi salì coraggioso e rassegnato la scala del patibolo. La morte giunse dopo pochi secondi. Nella mia attività medica di quasi cinquant'anni non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio”.
Bisognerà nel sessantesimo anniversario della sua morte, perché la nuova Europa è fondata non solo sulle vittorie belliche degli alleati, ma anche sulla limpida coscienza di chi ha preparato il futuro con la disponibilità ad offrire liberamente la vita, perché nella realtà complessa del mondo potesse apparire la vera immagine di Dio nell'impegno risoluto per il bene e la giustizia.
Maria verrà a conoscenza con certezza la morte tragica del fidanzato solo nel giugno 1945. Sabrina, una nipote di Bonhoeffer, ci ha lasciato questa testimonianza su Maria: “Non avevo mai visto una ragazza così splendida. Emanava tanta vitalità e luce. Potevo ben capire lo zio Dietrich”. Maria von Wedemayer morirà di cancro negli Usa nel 1977.
RESISTENZA E RESA
Le sue lettere dal carcere sono state raccolte in un volume da un amico che ha voluto, non a caso, far risaltare il messaggio centrale, titolando con un espressione dell'autore: "Resistenza e resa". È diventato uno dei libri più considerati del secolo XX. Sono pagine ancora scomode che suscitano fastidio e stupore… Non vogliono fornire ricette, ma spunti di riflessione e soprattutto un metodo per tramandare la fede cristiana senza formule banali o troppo semplificate frettolosamente al punto da apparire scontate e marginali. Inoltre sono pagine che mostrano chiaramente la caratteristica fondamentale di chi scrive, ossia la capacità di aprirsi e di imparare da ogni nuova esperienza, e di ragionarvi su teologicamente, non solo in modo libresco notevole e astratto, bensì attraverso una teologia tutta impegnata nel reale, cioè nella concretezza dell'esperienza viva. Non va dimenticato che queste lettere dal carcere sono scritte completamente in condizioni difficili, disturbate, in fretta contengono sprazzi e intuizioni che sollecitano la riflessione, ma non sono elementi di una visione teologica compiutamente elaborata, che egli voleva senza dubbio, ma non è riuscito a rielaborare, completare…
È stato Bonhoeffer, dal carcere, a coniare l'immagine del "Dio tappabuchi" dal quale occorre fuggire lontano anziché rifugiarsi come ultima risorsa delle nostre indolenze, sperando con animo debole e pauroso, come se dovesse aspettare a Lui la responsabilità di toglierci da certe difficoltà contraddittorie, irrisolte o senza spiegazione.
Il Dio tappabuchi pregato e cercato alla grande, non è certo educativo, perché fondato sull'immaturità delle persone, spesso protratta fino alla morte. È quello stesso Dio dipinto dagli uomini sulle ogive delle bombe invocato a ogni vigilia di guerra. Spesso motivo per giustificare le nostre violenze e passioni. Non solo, ma pure per la scienza, con le sue scoperte travolgenti, di ogni epoca, applicate alla guerra e all'ambito bioetico, cresce la forte tentazione di sostituire tutto con un Dio tappabuchi, che acconsente ai nostri egoismi, che ci giustifica sempre, anche quando siamo noi causa del manifestarsi di conseguenze tremendamente irreparabili che segnano l'uomo o il creato… Quando non sappiamo più come fare o dopo aver spiegato tanti perché ne troviamo un altro ben più grande e complicato che ci umilia ricordandoci la nostra limitatezza e impotenza, allora nominiamo Dio come sinonimo di incognita su qualcosa ancora da risolvere; ma appena progredisce la conoscenza o si intuisce una soluzione, una nuova possibilità, un'altra opportunità siamo assai già allontanati e abbiamo ben messo da parte e cominciato a vivere senza quel Dio Amore unico e vero che si è rivelato in Gesù.
Considerando alcuni scritti del nostro autore, vediamo come non siano lettere ingiallite dal tempo trascorso, anzi rimangono ancora valide, potrebbero aprire diversi e vari orizzonti nuovi a centinaia di migliaia di giovani e adulti che cercano ancora un senso per la propria vita e stanno per scegliere di dare al mondo un contributo di pace vera che va ben oltre le guerre, gli odi e le ingiustizie. Essi, come allora Bonhoeffer, si pongono la domanda forte sui limiti della resistenza e della resa a un mondo, a una umanità, a un destino che sembra stravolgere la vita di milioni di uomini e donne; ad esempio pensiamo all'attuale modello di globalizzazione o mondializzazione, (che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri, che prolunga la vita dei ricchi e abbrevia quella dei poveri), di imperialismo, di guerra preventiva per vincere il terrorismo ecc.; si deve scegliere la resistenza al pericolo devastante di tali modelli per farla, oppure è già scattata l'ora della resa incondizionata a una logica che già regola e governa tutti?
LE PRIME OPERE
Riporto in sintesi il contributo proposto da Carlo Scilironi, tratto dalla rivista di teologia "Credere oggi", per così comprendere meglio la struttura e il messaggio di alcune opere di Dietrich Bonhoeffer, notevoli e fondamentali nei contenuti, e per completare il quadro teologico e lo spessore umano, intellettuale, culturale e spirituale del nostro autore. Fornendo in questo modo un riferimento e un invito ad approfondire qualche altra sua riflessione teologico-spirituale... Queste sono opere che completano Scritti che risalgono al periodo accademico, ai suoi primi lavori.
- Atto ed essere, il più “accademico” dei libri di Bonhoeffer , il problema della realtà di colui che la fede confessa, viene affrontato non più in chiave sociologico-fenomenologica, ma in chiave filosofico-teologica, come problema fede-rivelazione o coscienza-essere. “In gioco - scrive - sono "l'oggettività" del concetto di Dio e un adeguato concetto di conoscenza”, ossia “il rapporto che intercorre tra "l'essere di Dio" e l'atto spirituale capace di comprendere tale essere”. Detto con altre parole. “Si tratta di dare un'interpretazione teologica di ciò che significa "essere di Dio nella rivelazione" e del modo di cui questo si dà conoscenza”; si tratta di interpretare il “rapporto che intercorre tra la fede in quanto atto e la rivelazione in quanto essere”. Aiuta a capire la profondità della questione qui affrontata la risposta di Bonhoeffer. Egli asserisce che né l'impostazione trascendentale (di derivazione kantíana) né quella ontologica pura (Martin Heidegger [1889-1976]) sono adeguate, perché entrambe suppongono un'autocomprensione autonoma dell'io, di cui invece, proprio per la rivelazione di Dio in Cristo, non si dà possibilità di sorta. Ma se non si danno “categorie ontologiche originarie, conformi alla creazione, e se perciò resta esclusa qualsiasi autocomprensione autonoma dell'io, “il concetto di rivelazione deve [esso] offrire una sua specifica dottrina della conoscenza”. Il che, ricorda Bonhoeffer, si ha nel pensiero ecclesiale, nella chiesa, dove la dialettica di atto ed essere diviene “dialettica di fede e di comunità di Cristo”, che è l'esatto contrario di un'assicurazione autonoma del pensiero teologico e men che meno della fede. Non si può passare sotto silenzio che la chiusa di questo testo secco e teoretico è affidata a una suggestiva immagine, quella del bambino, che diventa vero “problema teologico” per Bonhoeffer dal momento che lui solo sa “lasciarsi determinare dal futuro”, sa essere cioè la “creazione dell'uomo nuovo del futuro”.
- Creazione e caduta, il corso del semestre invernale 1932-1933 dato alle stampe dallo stesso Bonhoeffer, le riflessioni precedenti vengono ulteriormente approfondite attraverso l'interpretazione di Gn 1-3. È facile intendere come proprio il contenuto specifico di quei capitoli riproponga, pur da una diversa angolatura, le questioni ultime e fondanti dell'esistenza. Qui basti rammentare che è in tale contesto che Bonhoeffer mostra come la domanda sul principio sia destinata a restare domanda, e proprio per questo sia l'autentica domanda, il fondamento di ogni domandare. Scrive:
Lì dove il principio ha luogo, lì il nostro pensare viene meno, è alla fine. Tuttavia il desiderio di interrogarsi sul principio è la più intima passione del nostro pensiero, ciò che in ultima analisi fa essere ogni autentica domanda. Sappiamo di esser costretti a riproporci sempre la questione del principio, senza mai d'altra parte essere in grado di porre tale Questione. Perché no? Perché [il principio è l'infinito, e noi siamo capaci di pensare l'infinito solo come ciò che non ha fine], dunque proprio come ciò che non ha principio.
Accanto a questa imprescindibile considerazione relativa allo scacco insito nella domanda sul principio, per completare il quadro della prima riflessione di Bonhoeffer, è opportuno aggiungere ancora un paio di tesi, invero già implicite in Atto ed essere, ma esplicitamente formulate solo nel corso di cristologia del semestre estivo del 1933. La prima è la tesi del “finitum "capax" infiniti, non per se sed per infinitum”, con la quale Bonhoeffer supera il contrasto tra il finitum capax infiniti luterano e l'incapax calvinistico; la seconda concerne il tema cristologico vero e proprio. Per quest'ultima è da osservare che Bonhoeffer si pone la domanda risolutiva sul “chi” è Cristo: “Resta il problema del "chi" dell'essere, dell'essenza e natura del Cristo”, e a questa domanda risponde con l'indicazione ontologica del Cristo come “esser-pro-me” ed “essere-al-centro”, al centro dell'esistenza umana. della storia e della natura.
ALTRE OPERE
- Sequela è, tra gli scritti editi, quello a cui Bonhoeffer si è dedicato più a lungo: il testo esce nel 1937, dopo esser stato “provato e riprovato” nel corsi di Finkenwalde, ma se ne ha notizia sin da una lettera del 28 aprile del 1934 all'amico Erwin Sutz. Il libro muove da un interrogativo semplice e piano: “Che cosa ha voluto dirci Gesù? Che cosa vuole oggi da noi?”. È chiaramente il tentativo di far venire alla luce il volere di Gesù - il comandamento di Dio -, per corrispondervi. Non si tratta, dunque, di una questione di dottrina o di una riflessione interpretativa su assunti etici; in gioco è la questione essenziale dei “che fare?” della propria vita, nel segno paradossale della chiamata e dell'obbedienza. Bonhoeffer è perentorio: al comandamento di Dio, alla sua chiamata, non si risponde col sottile interrogare, ma con l'azione. Di fronte al comandamento di Dio, alla chiarezza immediata di esso, ogni domandare è un modo per non corrispondervi, “significa voltare le spalle alla realtà di Dio, per volgersi a ciò che è possibile all'uomo”. Interamente giocato sul rifiuto del possibile per il reale - unica categoria legittima in teologia è per Bonhoeffer quella della realtà -, Sequela, nell'analisi del discorso della montagna, mostra che il perissón, lo straordinario, l'eccezionale, il fatto singolare e irriducibile dei seguaci di Gesù è la loro azione, cioè, propriamente, “l'adempimento della legge”. La sequela è fare il comandamento di Dio; non è grazia “a buon mercato”, ma “a caro prezzo”.
Negli altri due scritti di questo periodo, Vita comune e Il libro di preghiera della Bibbia, trovano svolgimento da un lato le forme concrete dell'obbedienza al comandamento e, dall'altro, considerazioni circa l'alimento indispensabile a una esistenza condotta in tale obbedienza. Soprattutto questo secondo aspetto è particolarmente significativo, perché al di là del valore testimoniale che il libro sui salmi ha assunto al momento della sua pubblicazione, cui ha fatto seguito il divieto imposto a Bonhoeffer di pubblicare altro per il futuro, il libro, nel riprendere la domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1), prima prende decisamente posizione contro ogni concezione di preghiera intesa come naturale disposizione dell'animo dell'uomo, poi indica il modo in cui Gesù insegna all'uomo a pregare:
Il bambino impara a parlare in quanto il padre gli parla. Impara la lingua dal padre. Allo stesso modo impariamo a parlare a Dio, in quanto Dio ci ha parlato e ci parla. Sulla base del linguaggio del Padre celeste i figli imparano a parlare con lui. Nel ripetere le parole stesse di Dio, noi iniziamo a pregarlo.
Nella recitazione dei salmi - ripetizione delle parole insegnateci da Dio -, fondamento oggettivo della preghiera e pedagogia del pregare s'incontrano. Il tratto che accomuna in maniera fortemente percepibile tutti gli scritti bonhoefferiani di questo periodo è la prossimità assoluta alla Scrittura, in una forma di immediatezza assente nel periodo precedente. Una conferma in questo senso viene dalle lettere.
IL SENSO DELLA VITA
Dai suoi ultimi scritti in Resistenza e resa possiamo intendere come e quanto sia risultata quell'ora, allo stesso Bonhoeffer, assai imprevista, sconvolgente e spaventosamente drammatica… Quell'ora, anche per noi oggi, è così inconcepibile, contraddittoria, disarmante e distruggente, eppure risulta essere realmente lo snodo, il motivo che provoca l'autore a decidersi, a compromettersi, a concentrare tutte le sue forze mentali e intellettuali, umane e spirituali, culturali ed etiche nel voler cercare e cogliere il senso totale della vita che gli si presenta dinanzi, attraverso quella situazione che egli definisce: "assolutamente nuova".
Dal punto di vista educativo ci fornisce da subito una prima indicazione basilare:
- rimanere nella situazione difficile e incerta, non fuggire "l'ora del disincanto", per far così emergere quel valore fondamentale sul senso totale della vita, che va oltre l'immediatezza dei fatti, che ci fa conoscere quel qualcosa che sta e va oltre noi stessi. Come a dire che solo in quell'ora, è possibile interrogarsi sul senso globale, ultimo della vita, nella sua essenza stessa. In altre parole ogni situazione, passaggio o stagione difficile della vita va e deve essere affrontata e interpretata con questa ottica ben precisa, chiara e concreta. Anche l'uomo d'oggi, di questa epoca, dovrebbe servirsi di quest'ora così intesa per poter acquistare la capacità di comprensione degli eventi e la sensibilità di cogliere l'essenziale verità presente nella propria dignità umana, la quale supera e non è mai completamente racchiusa o manifestata dai singoli eventi.
Dietrich Bonhoeffer, anche quando la situazione è drammatica, riesce a trovare un senso profondo, nonostante i problemi interiori che le circostanze gli procurano e le condizioni esteriori, egli è guidato da una unità di fondo, da una armonia con il proprio vissuto, con la storia personale, con l'ambiente famigliare che gli ha permesso di consolidare in lui un atteggiamento tutto robusto e determinato nell'orientarsi e nell'adeguarsi alle nuove condizioni nel vivere l'arresto, la detenzione e la condizione di prigioniero… (vedi pag. 16ss. del presente elaborato scritto).
Per rimanere in quest'ora egli ha dovuto darsi un metodo di principio:
- raccogliere il senso dato che questa nuova situazione poteva offrirgli, così come la manifestava la realtà attorno a lui.
- Porre, un senso proprio alla situazione che egli intuisce occasione di arricchimento totale della vita, facendola sua interiormente per la propria esistenza.
Come è avvenuto questo? In che modo poteva raggiungere tale obiettivo?
Scriveva: "l'ordine esteriore e puramente fisico.. fornisce già un certo sostegno all'ordine interiore". Si lasciò guidare proprio da una disciplina interiore ben ordinata.
Concretamente consisteva nella suddivisione del tempo. Affrontando tutto con normalità e lasciandosi sfidare dalla "situazione assolutamente nuova" non per evadere o negare la realtà presente del carcere, ma per trovare una linearità e una continuità di significato. Non si lascia semplicemente trasportare dalla situazione, ma da questa, che lui chiama senso dato o situazione nuova, compie, reagisce chiedendosi quale sia il senso posto da lui in quella circostanza. Questo sarà l'esercizio pratico del "pensare affettuoso" che lo guiderà fino a quel 9 Aprile 1945. All'inizio questa logica non riusciva proprio per nulla, non era così immediato far parlare l'evento nella sua interezza…, a causa delle circostanze così ostacolate, di non continuità che disturbavano il contatto e l'affetto con i più cari, il lavoro teologico, la vita della sua Chiesa e dal resto del mondo che egli sentiva proprio. È assalito da tremende inquietudini di soluzione e di forte impotenza di fronte all'incapacità ad autodeterminarsi, perché condizionato, obbligato dalle situazioni esterne. Fino a pensare al suicidio proprio come all'atto finale, alla soluzione di tanto soffrire interiore, di tale processo di svuotamento, di annullamento che sente consumarsi dentro di sé… È incapace di guardare alla situazione e di lasciare che essa parli completamente al suo cuore, alla sua umanità.
Come dice lui stesso lentamente comincia a guardare in faccia l'evento, di starci dentro per riconoscere che "anche queste esperienze sono senz'altro buone e necessarie, perché si impara a conoscere meglio la natura umana".
- Ecco la domanda sul senso globale della vita, il momento del disincanto, cioè comincia a confrontare, a lasciare dialogare come dice lui il mondo-là-fuori e quello del mondo-qui-dentro. Questo dialogo svilupperà un pensiero affettuoso che sa cogliere e tradurre un senso più ampio dell'esperienza di prigionia che viveva e che renderà piena la sua vita. Ecco tre tappe principali di questo pensiero che suddivide il pensiero di detenzione:
- il rapporto con il passato che si intreccia con quello del legame con gli altri (nel periodo degli interrogatori e dell'attesa del processo: aprile 1943-aprile 1944),
- la ricchezza della vita e la fede come atto totale dell'uomo (nel tempo in cui resistere fino al tentativo di rovesciamento del regime: aprile-luglio 1944),
- infine, la resa come abbandono nelle braccia di Dio (dopo il fallimento dell'attentato a Hitler: luglio 1944-febbraio 1945).
Proprio nel momento meno favorevole e assai drammatico prende vita in Bonhoeffer un itinerario interiore così intenso, profondo e ricco quasi a dimostrare che l'interiorità dell'uomo può non solo vincere e superare qualsiasi cosa, ma è più grande e può agire molto di più delle forze, e possibilità umane che un uomo mette in atto nella sua vita. Nel periodo degli interrogatori e dell'attesa del processo (aprile 1943-aprile 1944) Bonhoeffer nutre l'aspettativa di non essere condannato, "ma posto in libertà".
Fino alla morte vivrà periodi di attesa di processi che slittano in avanti, di speranza di non essere condannato e di delusioni, continuando ugualmente a concentrarsi sul senso del passato e quello relativo al significato del legame con gli altri.
La concezione di tempo
Nel carcere l'idea di tempo è concepita con un senso di tempo perduto, vuoto, di nullità "…svuotatezza del tempo nonostante ogni riempitivo". Egli soffre di questo clima e lo stare separato dal mondo e dalle relazioni famigliari provocano in lui l'impressione di aver perduto il proprio passato. Ecco il desiderio di mantenerlo vivo e di recuperarlo… Avvia uno studio sul "sentimento del tempo" che purtroppo è andato perduto (dall'aprile al giugno 1943); progetto confidato nella lettera all'amico Bethge il 18 novembre 1943: "Dal bisogno principalmente di rendere presente a me stesso il mio passato, in una situazione in cui il tempo poteva sembrare tanto facilmente vuoto e perduto, è nato un saggio sul sentimento del tempo. Gratitudine e pentimento: è questo che ci mantiene sempre presente il tempo passato". Solo la gratitudine e il pentimento possono recuperare il valore del tempo passato. La gratitudine nasce dall'apertura verso gli altri, a quel tu che interpella…, come il pentimento che si rapporta con qualcuno o qualcosa che ci fa riconoscere i vuoti da colmare nella vita.
Bonhoeffer sa vivere la gratitudine quando finalmente mette in relazione il passato, il mondo-là-fuori e il presente, il mondo-qui-dentro.
Questa continuità riconosciuta da Bonhoeffer tra il passato e il presente rimanda all'orizzonte della fede, che coinvolge tutta la vita; una fedeltà che mette in atto la decisione di vivere fino in fondo, l'esperienza del carcere:
" la situazione assolutamente nuova della prigionia: Attraverso ogni evento, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio".
Anche la delusione della mancata scarcerazione, la percepisce con un sentimento di nostalgia che fa attendere e soffrire per la separazione da ciò che ama, diventa legame di comunione carico di speranza, per il fatto che "nulla di ciò che è passato va perduto perché Dio assieme a noi torna a cercare anche il passato che ci appartiene. Cosicché, quando la nostalgia si presenta nel nostro cuore, dobbiamo essere consapevoli che è solo uno dei tanti momenti che Dio tiene ancora in serbo per noi".
Qui vediamo la distinzione dal dolore che fa ripiegare su se stessi e che fa guardare indietro, a "dolore che attende una restituzione" e che fa guardare in avanti, a Dio che tutto riporta: "Nulla va perduto, ma in Cristo tutto è conservato, custodito, ovviamente in forma mutata, trasparente, chiara liberata dal tormento dei desideri egoistici".
Rapporti con gli altri
Bonhoeffer identifica tutti gli affetti più cari a quel mondo-là-fuori che indica il suo passato da recuperare; quello vissuto con gli altri…Rapporti che avvengono su tre modalità:
- la prima consiste nel "legame indiretto" con la propria famiglia che gli procura libri, oggetti personali, a volte cibo, procurandogli non poco sollievo.
- La seconda modalità sono i pochi colloqui autorizzati, che gli suscitano sentimenti di commozione, gioia, entusiasmo: "È stato davvero bello!"
- Infine sono tutte quelle lettere inviate a famigliari, all'amico Bethge, alla fidanzata Maria von Wedemayer dalle quali traspare una intensa capacità di mettersi in relazione con l'altro e con la situazione del suo interlocutore; quelle poi ricevute sono prima di tutto motivo di una gioia grande e unica: "Qui in cella non c'è nessuna gioia più grande delle lettere"; e poi gli trasmettono un senso di libertà: "È come se la porta della prigione si aprisse per un momento e uno tornasse a vivere insieme per un po' la vita di fuori". Questa situazione di solitudine procura nuovi significati del legame con l'altro; scrive il 5 settembre durante i bombardamenti su Berlino: "il pensiero va esclusivamente alle persone senza le quali non potrei vivere" al punto da dimenticare le proprie preoccupazioni…; si accorge di "come la nostra vita sia intrecciata con quella di altre persone, anzi, di come il suo centro stia al di fuori di noi stessi, e del fatto che non siamo affatto dei singoli". In lui è proprio l'evento che attiva il cuore e i sentimenti facendogli scoprire significati ulteriori da attribuire all'esperienza del legame con gli altri.
Non vive solo la classica esperienza d'impotenza nel dipendere dagli altri come carcerato, ma scopre: quello in cui la propria condizione di vita viene scoperta come debitrice nei confronti degli altri di una profonda e continua gratitudine, che lo rende più sensibile e attento alla vita altrui.
La gratitudine
Dal dialogo tra mondo-là-fuori e mondo-qui-dentro Bonhoeffer scopre il valore della gratitudine. Tra l'attuale situazione e le reazioni affettive che egli affronta e ripercorre viene a recuperare ricostruendo tutto il passato attraverso il presente, che gli permette un respiro di senso più ampio, che irrobustisce il legame con gli altri, di purificarlo attraverso veri e duraturi affetti autentici e profondi. Il suo è un senso di gratitudine che accoglie e che accetta tutta la molteplicità di significati che la vita offre a noi stessi. Ricchezza che poggia sul legame con l'altro, (vedi lettera 23 gennaio 1944). L'essere separato dagli amici più cari a causa d'avvenimenti imprevedibili, può scoprire che il legame con l'altro si fa ancora più solido quando c'è un rimettersi reciproco nelle mani di Dio: "Affidarci reciprocamente a queste mani è senz'altro il grande impegno delle settimane e forse dei mesi a venire, per voi, per noi".
La scoperta complementare è che, per quanto "ci possono essere molti fallimenti, molti errori, molte colpe umane, nei fatti stessi c'è Dio". Questa consapevolezza è per Bonhoeffer la fonte che fa accettare e attraversare le situazioni della vita che si presentano a noi, nel loro intreccio di gioia e di dolore: "Rinunciare a gioie autentiche e a una vita piena per evitare la sofferenza non è sicuramente cosa cristiana e nemmeno umana". Questa ricerca e fedeltà a ciò che rende piena e significativa la vita non esonera però dalla concomitante sofferenza.:
Credo che onoriamo meglio Dio se conosciamo, sfruttiamo e amiamo la vita che egli ci ha dato in tutti i suoi valori e perciò se avvertiamo anche acutamente e con franchezza il dolore per quei valori della vita che sono stati compromessi o perduti…, piuttosto che restando insensibili ai valori della vita, in modo tale da poter essere insensibili anche nei confronti del dolore.
Con questa affermazione, Bonhoeffer intende mostrare che, accogliendo l'esperienza di disincanto del carcere in tutte le sue dimensioni, la sensibilità si affina e rende più attenti e ricettivi nei confronti dei valori della vita e del dolore stesso. Nasce un nuovo approccio alla vita e al modo di pensarla; si apre lo spazio per una risposta più globale alla vita stessa che parla nella "situazione assolutamente nuova" della prigionia, e che Bonhoeffer metterà maggiormente a fuoco nelle riflessioni successive.
CONSIDERAZIONI FINALI
Tutta l'esperienza nel carcere di Dietrich Bonhoeffer, già dai primi mesi, non voleva e non poteva certo fornire nessuna risposta e alcuna soluzione per il periodo di quegli anni. Lo stesso vale per questo nostro tempo. Semmai le sue lettere, anche dopo cinquant'anni, valgono, meritano considerazione e approfondimento soprattutto per gli incoraggiamenti, gli insegnamenti concreti, gli interrogativi presentati con un senso forte della realtà, così chiaro e determinato da lasciarci da un lato stupiti e dall'altro coinvolti da tale pensiero.
È impossibile non cogliere la profondità, la chiarezza e la sua competenza teologica messa in gioco, così bene nella situazione che egli vive, da farci partecipi non solo di quei fatti, ma anche dei propri valori, sentimenti, principi di riferimento e concetti fondamentali nei riguardi di molti campi, argomenti più o meno problematici o altrettanto arricchenti e illuminanti per la nostra esistenza umana e fede cristiana, come per quanto riguarda: la Chiesa e i sacramenti, la fede, la speranza, la carità, la sequela e il discernimento, l'eticità, la passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, di Europa, di vita comunitaria, di ecumenismo, di sofferenza, di abbandono in Dio, di ricerca della verità, di creazione, di lavoro, di legge, di passato, presente e futuro… l'elenco potrebbe continuare notevolmente.
- Nel considerare la sua esperienza, nel primo periodo di carcere, riferendomi proprio al suo pensare affettuoso, a quell'ora del disincanto, così intesa come particolare chiamata singolare ed essenziale, la quale può farci un invito anche a noi oggi, insegnandoci a non fuggire, a rimanere dentro le difficoltà, le situazioni impreviste, i dubbi e a tutte quelle innumerevoli forme di domande irrisolte, di sofferenze inconcepibili, di croci drammaticamente insuperabili, di limiti e situazioni pastorali invalicabili… accettando di incontrarci o perfino di scontrarci con noi stessi, con i propri sentimenti e interrogativi tanto semplici quanto tragicamente sconvolgenti per la nostra umanità, per le nostre abitudini, logiche razionali, mentali e per quelle sicurezze che andiamo costruendo giorno per giorno, con tanto lavoro ed energia. Bonhoeffer ci incoraggia a lasciarci provocare, a mettere in crisi, in difficoltà dagli eventi della vita che ci colgono improvvisi, completamente nuovi e immaginabili. Nel leggere questi scritti, veniamo invitati a porci nel tempo presente, nelle situazioni in cui ci troviamo, per formulare in modo corretto le giuste domande, ma questo in che modo? Attraverso il metodo che egli stesso ha sperimentato, corretto, messo in atto e seguito con perseveranza fedele fino a quel 9 aprile 1945.
- Nelle ultime pagine ho voluto evidenziare proprio questo suo atteggiamento nell'affrontare dignitosamente la reale situazione completamente nuova, superando e convivendo con tutti quei forti rischi, quelle travolgenti difficoltà umane e spirituali, quello scorrere del tempo così autodistruggente, limitante e umiliante per un essere umano che lo avvolge in tutti i modi… Rimanendo e vivendo ugualmente in tale situazione come significativa opportunità per cogliere, sentire, percepire, scoprire e vivere quel senso e significato profondo ed esclusivo che solo l'evento stesso, mettendoci interamente alla prova, vuole e può manifestarci. Ci lasciamo mettere alla prova dall'evento non per eroismo, capacità o forza personale, ma perché vogliamo assolutamente raggiungere un fine preciso, cioè dare volto a quel vero senso, quel valore che sta sempre e solo oltre a noi, oltre ogni situazione, che solo l'evento è in grado di comunicarci e farci cogliere. Questo avviene non per successi o chissà quali conquiste, ma attraverso piccoli passi, per mezzo di cadute, tentativi inutili, scoraggiamenti e errori dai quali egli ricomincia sempre imparando continuamente da qualsiasi cosa, dalla propria pelle a rispondere alla fondamentale chiamata di dover stare, rimanere, abitare gli eventi per cogliere l'abbondante fecondità che questi generano in noi e per gli altri. Non solo, così facendo, ci accorgiamo d'appartenere, vivere ed essere sempre di più nel mondo e in Dio stesso.
- In altre parole siamo chiamati per trovare la vera felicità e autorealizzazione, ad allenarci per raggiungere la capacità d'ascoltare se stessi e la storia che ci si presenta d'innanzi così come questa è. Il senso globale di questo atteggiamento di perseveranza nell'evento è dato dalla fede in Gesù Cristo, che ha risposto a quest'ora dell'appello (ora del disincanto) consapevole della propria esistenza (progetto di Dio) per l'altro, per la salvezza dell'uomo.
Noi cristiani possiamo rimanere negli eventi personali e storici, dobbiamo abitare nel "mondo senza Dio" come? Ci è insegnato dai Vangeli. Allo stesso modo della persona di Gesù Cristo incarnata nella situazione dove egli si trovava; tra uomini increduli, che non praticavano la religione, oppure che l'osservavano per vile interesse o solo esteriormente per apparire perfetti… Il senso di identificarci in Gesù sta nel mistero dell'Incarnazione… Come Bonhoeffer ogni cristiano per essere tale deve riconoscere che il Figlio di Dio è venuto per salvare il mondo, e la Chiesa non è altro che la comunità storica dei credenti, che deve fare come lui: vivere come Cristo. La Chiesa è il Cristo nella storia degli uomini.
- Egli è un maestro di vita spirituale a tutti gli effetti, lo comprendiamo dal libro "Vita comune":
Che ne sappiamo noi uomini moderni, che non conosciamo più timore e rispetto per la notte, della grande gioia che i nostri padri e i primi cristiani provavano ad ogni ritorno della luce del mattino? Siamo pronti ad imparare almeno un poco a cantare, la mattina, le lodi dovute al Dio uno e trino... Potremo anche intuire quale gioia è per i fratelli, che vivono insieme e concordi, passata la notte, incontrarsi la mattina per lodare insieme il loro Dio, ascoltare insieme la Parola e pregare insieme. Il mattino non appartiene ai singoli, appartiene alla comunità del Dio uno e trino, appartiene alla comunità cristiana, alla fraternità.
- L'incredulità, l'indifferenza religiosa, la superficialità del possedere, della fama, del successo, le idee della mondializzazione e del laicismo non devono farci timore, ma va intensificato l'impegno personale e comunitario contro i troppi flagelli del mondo, attraverso un'autentica solidarietà con chi è militare volontario in guerra, con i disoccupati, i malati d'ogni genere, i divorziati o conviventi… affiancandoci e rimanendo con loro, lì dove si trovano, in situazioni di guerra, di miserie causate dalla gestione e potere politico oppure provocate dall'alcool, dalla droga, dall'ignoranza culturale ecc. In questo modo molti comprenderanno che è Gesù Cristo a raccogliere e a salvare ciascuno di noi non magicamente, ma servendosi anche di noi piccola comunità, che rimane incarnata negli eventi, che li ascolta, li rispetta con grande attenzione, con attesa e speranza, che solo l'Evangelo, Parola di Gesù Cristo, è via, criterio e mezzo di salvezza, di azione e di pastorale ecclesiale che sfugge l'astrattezza i discorsi logici, ma si compie e realizza solo nel vivere, nel mostrare e nel provare l'azione, l'impegno e la determinazione a rimanere, come Gesù Cristo, nel mondo degli uomini, con ogni persona attraverso la Sua reale Presenza e il Suo Spirito.
- Senza dubbio sono potenti e drammatiche la storia e le intuizioni teologiche del pastore luterano Bonhoeffer, coinvolto nella Resistenza contro Hitler, soprattutto per il fatto che riesce a dare il meglio di sé nei peggiori momenti e nelle situazioni meno opportune, come a ricordarci che ad ogni uomo, qualsiasi evento viva, è data la possibilità e ha il compito di esprimere tutte le singolari potenzialità personali, per trasformare dall'interno i fatti, gli avvenimenti.
Conseguentemente potremmo dire che a nessuno è concessa la pretesa di sentirsi giustificato o rassegnato ad accettare passivamente lo scoraggiamento, la morte, l'apatia, il fallimento, la disperazione dello scorrere degli eventi sconcertanti, ma semmai in tutto questo, cercare di cogliere sempre cosa succede dentro e fuori di noi, ben sapendo che domani qualcosa accadrà, che l'evento trasformerà in noi e negli altri qualcosa di nuovo, grande e duraturo, tanto da essere ricordato nel tempo, come abbiamo fatto noi e gli amici di Dietrich Bonhoeffer nel far memoria e nel documentare con i suoi scritti questa esperienza maestra di vita.
- Passando attraverso l'evento della prigionia abbiamo potuto conoscere non solo un filosofo, un teologo, un fedele esegeta, uno studioso ricercatore a tutti gli effetti, ma soprattutto grazie a questo evento si è formato un pensiero su Dio coinvolgente, dinamico, impregnato di una ricerca di senso del vivere, di Dio, purificato e disinteressato, orientato esclusivamente al dono di sé, della propria mente (pensiero, intelligenza…), cuore (desideri, sentimenti, aspirazioni, intuizioni…) e forza (azioni, scelte di fede…), per il mondo, per gli altri e per Cristo. Forse senza questo inspiegabile imprevisto e incidente storico non potremmo avere e non esisterebbe Resistenza e Resa… Avremmo avuto tante altre opere di Dietrich Bonhoeffer, ma non ci avrebbe trasmesso quello che l'Evento del carcere, dall'11 aprile 1943 al 9 aprile 1945, ci ha rivelato.
FELICITA’ ED INFELICITA’
Poesia
Felicità ed infelicità
che rapide ci colgono e ci dominano
esse sono, all’inizio,
come il caldo e il freddo al primo contatto
così vicine da non distinguersi quasi.
Come meteore
scagliate da distanze ultramondane
percorrono luminose e minacciose il loro corso
sopra il nostro capo.
Chi ne è colpito sta, sbigottito,
davanti alle macerie
della sua quotidiana, grigia esistenza.
Grandi e sublimi,
distruttrici, vittoriose,
felicità e infelicità
invocate o no,
fanno il loro solenne ingresso
tra gli uomini sconvolti,
ornano e rivestono
coloro che colpiscono
di gravità e sacralità.
La felicità è ricca di spavento
l’infelicità di dolcezza.
Indivise sembrano venire
l’una e l’altra dall’eterno.
Grandi e terribili ambedue.
Da lontano, da vicino,
accorre gente intorno, guarda
a bocca aperta,
parte con invidia, parte con orrore,
il portento
nel quale l’ultraterreno,
portando insieme benedizione e annientamento,
si offre come sconcertante, inestricabile
spettacolo terreno.
Che cos’è la felicità, che cos’è l’infelicità?
Solo il tempo le separa.
Quando l’evento improvviso
che avviene incomprensibilmente
si muta in durata spossante, tormentosa,
quando le ore del giorno che scorrono lentamente
ci svelano la vera immagine dell’infelicità,
allora i più si allontanano,
delusi e annoiati,
stanchi per la monotonia
dell’infelicità ormai di lunga data.
Questa è l’ora della fedeltà
l’ora della madre e dell’amata
l’ora dell’amico e del fratello.
La fedeltà rischiara ogni infelicità
e la ricopre delicatamente
di dolce
ultraterreno splendore.
CHI SONO?
Poesia
Chi sono? Spesso mi dicono
che esco dalla mia cella
disteso, lieto e risoluto
come un signore dal suo castello.
Chi sono? Spesso mi dicono
che parlo alle guardie
con libertà, affabilità e chiarezza
come spettasse a me di comandare.
Chi sono? Anche mi dicono
che sopporto i giorni del dolore
imperturbabile, sorridente e fiero
come chi è avvezzo alla vittoria.
Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?
O sono soltanto quale io mi conosco?
Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia,
bramoso di aria come mi strangolassero alla gola,
affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli,
assetato di parole buone, di compagnia
tremante di collera davanti all’arbitrio e all’offesa più meschina,
agitato per l’attesa di grandi cose,
preoccupato e impotente per gli amici infinitamente lontani,
stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare,
spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?
Chi sono? Sono questo o sono quello?
Oggi sono uno, domani un altro?
Sono tutt’e due insieme? Davanti agli uomini un simulatore
e davanti a me uno spregevole, querulo vigliacco?
O ciò che è ancora in me somiglia all’esercito sconfitto
che si ritrae in disordine davanti alla vittoria già conquistata?
Chi sono? Questo porre domande da soli è derisione
Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo son io, o Dio!
GIONA
Poesia
Urlavano davanti alla morte e i loro corpi si avvinghiavano
Alle umide corde, frustate dalla tempesta;
i loro sguardi pieni d’orrore erano fissi
al mare in rivolta per l’improvviso scatenarsi delle sue potenze.
“Voi eterni, benigni, adirati dei
aiutateci, o dateci un segno, che ci indichi
colui che vi ha offeso con un segreto peccato,
l’assassino o lo spergiuro o lo schernitore,
che a nostro danno nasconde il suo misfatto
per il misero tornaconto del suo orgoglio”.
Così piangevano. E Giona disse:”Quello son io.
Io ho peccato davanti a Dio. La mia vita è perduta.
Allontanatemi da voi. Mia è la colpa. Dio è in collera con me.
Il pio non deve perire con il peccatore!”
Essi furono ripieni di timore. Ma poi con mani forti
Scacciarono il colpevole. Si quietò allora il mare.
DELLE POTENZE BENIGNE
Poesia
Circondato fedelmente e tacitamente da benigne potenze,
meravigliosamente protetto e consolato,
voglio questi giorni vivere con voi,
e con voi entrare nel nuovo anno.
Del vecchio, il nostro cuore ancora vuole lamentarsi,
ancora ci opprime il grave peso di brutti giorni,
oh, Signore, dona alle nostre anime impaurite
la salvezza alla quale ci hai preparato.
E tu ci porgi il duro calice, l’amaro calice
della sofferenza, ripieno fino all’orlo,
e così lo prendiamo, senza tremare,
dalla tua buona, amata mano.
E tuttavia ancora ci vuoi donare gioia,
per questo mondo e per lo splendore del suo sole,
e noi vogliamo allora ricordare ciò che è passato
e così appartiene a te la nostra intera vita.
Fa’ ardere oggi le calde e silenziose candele,
che hai portato nella nostra oscurità;
riconducici, se è possibile, ancora insieme.
Noi lo sappiamo, la tua luce arde nella notte.
Quando il silenzio profondo scende intorno a noi,
facci udire quel suono pieno
del mondo, che invisibile s’estende intorno a noi,
l’alto canto di lode di tutti i tuoi figli.
Da potenze benigne meravigliosamente soccorsi,
attendiamo consolati ogni futuro evento.
Dio è con noi alla sera e al mattino,
e senza fallo, in ogni nuovo giorno.
L’AMICO
Poesia
Non dal greve suolo
dove sangue, stirpe e giuramento
sono potenti e sacri
dove la terra stessa
contro follia ed empietà
i benedetti antichissimi ordinamenti
protegge, difende e vendica
ma dal libero piacere
e dalla libera esigenza dello spirito
che non ha bisogno del giuramento né della legge,
l’amico viene donato all’amico.
A fianco del campo di grano che dà nutrimento,
che gli uomini rispettosamente coltivano e lavorano
cui il sudore del loro lavoro
e, se bisogna,
il sangue dei loro campi sacrificano,
a fianco del campo del pane quotidiano
lasciano però gli uomini
fiorire il bel fiordaliso.
Nessuno lo ha piantato, nessuno lo ha innaffiato,
indifeso cresce in libertà
e con serena fiducia
che la vita
sotto il vasto cielo
gli si lasci.
A fianco di ciò che è necessario,
formato dalla greve materia terrena,
a fianco del matrimonio, del lavoro, della spada,
anche ciò che è libero
vuol vivere
e crescere in faccia al sole.
Non solo i frutti maturi
anche i fiori son belli.
Se i fiori ai frutti
o i frutti servano ai fiori
chi lo sa?
E però sono dati ambedue.
Il più prezioso, il più raro fiore
- nato in un’ora felice
dalla libertà dello spirito che gioca,
che osa, che confida -
è all’amico l’amico.
Anzitutto compagno di giochi
nei lunghi viaggi dello spirito
in meravigliosi
lontani regni,
che nel velo del sole mattutino
splendono come oro
cui nel caldo meriggio
le nuvole leggere del cielo azzurro
si fanno incontro,
che nella eccitante notte,
alla luce della lampada
come nascosti, segreti tesori
attirano il cercatore.
Quando poi lo spirito sfiora
il cuore e la fronte dell’uomo
con grandi, sereni, acuti pensieri,
sicché con chiari occhi e liberi gesti
egli guarda al mondo in faccia,
quando poi dallo spirito nasce l’azione –
davanti alla quale da soli noi stiamo o cadiamo –
quando dall’azione
forte e sana
nasce l’opera
che alla vita dell’uomo
dà contenuto e senso,
allora gli uomini che agiscono, che fanno, che son soli
hanno desiderio di uno spirito amico capace di capire.
Come acque chiare e fresche,
lì lo spirito si purifica della polvere del giorno,
lì si rinfresca del caldo ardente
e si tempra nell’ora della fatica –
come una fortezza, in cui dopo il pericolo e il turbamento
lo spirito torna,
dove trova rifugio, incoraggiamento, conforto,
è l’amico all’amico.
E lo spirito vuole fidarsi,
fidarsi senza limiti.
Disgustato dal vermicaio
che all’ombra del bene
si nutre di invidia, di sospetto e di curiosità,
dal sibilo di lingue
avvelenate di serpente,
che il segreto del pensiero libero,
del cuore retto
temono, odiano e disprezzano,
lo spirito desidera
gettare via da sé ogni simulazione
e rivelarsi pienamente
a uno spirito fidato,
legarsi ad esso, libero e fedele.
Senza invidia vuole assentire,
vuole riconoscere,
vuole ringraziare,
vuole gioire e trarre forza
dall’altro spirito.
Ma si piega docilmente
anche al duro giudizio
e al duro rimprovero.
Non ordini, non coercitive, estranee leggi e dottrine,
ma il consiglio buono, serio,
che rende liberi
cerca l’uomo maturo
dalla fedeltà dell’amico.
Lontano o vicino
nella felicità o nell’infelicità,
l’uno riconosce nell’altro
colui che fedelmente aiuta
alla libertà e ad essere uomo.
Quando le sirene suonano a mezzanotte,
in silenzio e a lungo ho pensato a te,
a come tu stia, a come era un tempo,
e all’augurio che tu possa tornare a casa nel nuovo anno.
Dopo lungo silenzio, all’una e mezza sento
il segnale che il pericolo è lontano.
In ciò ho un segno benevolo
che ogni pericolo, lieve, ti passerà oltre.
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