Natura e?

Materie:Tesina
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Testo

Tesina multidisciplinare
Esame di Stato, A.S. 2001-2002
A cura di Eliana R.
Liceo Scientifico
Natura e…
“O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?”
[A Silvia, vv. 36-39]
C.D. Friedrich, Il viaggiatore sopra il mare di nebbia, 1818
Madre è di parto e di voler matrigna
[La ginestra, v. 125]
“Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.”
[La sera del dì di festa, vv. 11-16]
La Natura: una delle tematiche maggiormente sviluppate nella letteratura, nell’arte, nella filosofia fin dall’antichità. Essa, infatti, sta davanti agli occhi dell’uomo continuamente; con la sua forza maestosa, con la sua bellezza e la sua brutalità può indurre sentimenti contrastanti, che vanno dall’attrazione alla repulsione.
In questa sede non pretendiamo di analizzare in modo esaustivo lo sviluppo delle diverse visioni della natura, cercheremo di seguire un percorso a partire dall’opera di Giacomo Leopardi.
“…era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi…”
[Dialogo della Natura e di un Islandese]

“O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che si sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.”
[Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv.139-143]
Elenco delle opere e dei brani analizzati
Caspar David Friedrich
Il viaggiatore sopra il mare di nebbia
William Wordsworth
Preface to the Second Edition of the Lyrical Ballads, 1800
Daffodils
Lines Composed a Few Miles Above Tintern Abbey (Lines 1-49)
Ugo Foscolo
Ultime lettere di Jacopo Ortis, 13/5/98, 25/5/98, 19-20/2/99
I sepolcri, vv. 16-22
Giacomo Leopardi
Dialogo della Natura e di un Islandese
Ultimo canto di Saffo
Bruto minore, vv 46-64; 70-75
La sera del dì di festa
A Silvia
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
La quiete dopo la tempesta
La ginestra
Zibaldone, 22/4/1826
Giovanni Pascoli
Novembre
L’assiuolo
Digitale purpurea
Gelsomino notturno
Lucrezio
De rerum natura, I, vv. 149-253
“O Natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
È diletto fra noi.”
[La quiete dopo la tempesta, vv.42-46]
Bibliografia
Schelling
Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, Milano, Mursia 1972, pp. 113-125
AA VV, Corso di filosofia, vol. III, Ed. Scol. Bruno Mondadori, pp. 67-79, 283-290, 299-301
Lucrezio
P. Boyancé, Lucrezio e l’epicureismo”, Brescia, Paideia 1970
Foscolo
M. Puppo, Il Romanticismo”, Ed. Studium, Roma, Settima ristampa, 1994, pp. 42-46
G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, vol. III, Elemond Editori Associati, Milano, Einaudi scuola, 1991, pp. 39-73
A. Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, Firenze-Messina, D’Anna, 1963, pp. 365-370
Leopardi
W. Binni, La protesta del Leopardi, Sansoni Editore, Firenze, 1982
B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 30-51
F. De Sanctis, Leopardi, Torino, Einaudi, 1983, pp. 111-142, 183-194, 367-379
E. Bigi, La genesi del canto notturno, Manfredi Editore, Palermo, 1967, pp. 185-195
Pascoli
G. Contini, Il linguaggio di Pascoli in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 219-245

Natura e…

Leopardi
La natura in Leopardi: una delle tematiche maggiormente sviluppate dall’autore. Sulla concezione della natura si basa tutta la poesia leopardiana, dalle “canzoni” agli “idilli”, dalle “operette morali” a “La Ginestra”, l’ultimo canto. Cosa rappresenta la natura per il nostro poeta recanatese? Innanzitutto bisogna chiarire cosa s’intende per “natura”: con questo termine possiamo intendere semplicemente il “paesaggio” o la “Natura”, la forza “arcana” e misteriosa che ha creato l’universo e l’uomo. Per Leopardi queste due valenze del termine si intersecano tra di loro, anche se possiamo vedere nella “natura-paesaggio” un significato simbolico e poetico e nella “Natura” uno prettamente filosofico.
Secondo Mario Puppo il mito della “Natura” nel Romanticismo si collega al mito del sentimento: nel contatto immediato e totale della natura, in cui palpita una vita divina, si può evadere.
Secondo una concezione idillica, la natura è amica, confidente e confortatrice. Questa natura può essere considerata quella caratteristica del romanticismo. Troviamo gli sviluppi più ricchi fra i romantici tedeschi.
Se il mondo è una creazione dello spirito, questo deve ritrovarvi se stesso. La natura ha un’anima e una storia: parla a chi sa comprenderla. Il mondo è un’immagine simbolica dello spirito, con essa si può vivere in simpatia

Si può, quindi, definire la “natura-paesaggio” leopardiana “romantica”, ricollegandoci al romanticismo europeo. Il celebre idillio La Sera del dì di festa si apre con un notturno lunare (“Dolce e chiara è la notte e senza vento, e quieta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela, serena, ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa”): è un paesaggio tranquillo, che richiama alla memoria la donna amata che dorme. La natura è onnipossente, quieta e serena.
Secondo De Sanctis, dagli idilli Leopardi trae il motivo dell’impressione nuova e immediata prodotta dalla contemplazione della natura su un animo solitario e malinconico, che cerca sollievo e guarda la natura con occhio di amante. Il tema della Sera del dì di festa è la fine della festa e la fine di tutto. La notte è chiara e dolce, la luna e il cielo sono quieti. Gli infelici vedono questa tranquillità come una provocazione, vorrebbero che tutto il mondo fosse triste.
In questo periodo nasce la lotta tra la natura del poeta e il vero, che si risolve nella lotta tra il fato “indegno” e l’individuo: la natura dona la vita e la facoltà di amare, i sogni della giovinezza, la fanciullezza, la virtù; il Fato, invece, schiaccia l’individuo. Le due forze, comunque, si presentano raramente da sole, e nell’entusiasmo della vita penetra sempre la morte.
Secondo Binni, nella Sera del dì di festa c’è un equilibrio tra contemplazione e meditazione sul proprio stato personale di solitudine. L’apertura è calma e serena, mentre il poeta si sente tormentato ed escluso; ascoltando il canto dell’artigiano, egli scopre che la caducità coinvolge tutto e tutti. Leopardi vive fra desideri di vita, compenso di piaceri dell’immaginazione, sentimento dei benefici della natura e propria esclusione.

Nell’Ultimo canto di Saffo la descrizione della natura è prettamente romantica, in quanto rispecchia i sentimenti della protagonista: quando era innamorata e felice, adorava i paesaggi calmi e tranquilli, mentre ora è tormentata e preferisce i dirupi. Il paesaggio ha una valenza duplice: il primo è notturno, placido e tranquillo (“placida notte e verecondo raggio”, v. 1). Dal v. 8 comincia la descrizione di un paesaggio diverso, tenebroso, con una tempesta notturna, rupi, gole profonde, avvolto dalle nuvole, nel quale il gregge fugge spaventato, il fiume in piena produce fragore. Da quando ha conosciuto il fato, è questo il paesaggio che Saffo preferisce.
Anche nella Quiete dopo la tempesta il paesaggio è idillico: vengono descritti alcuni aspetti del piccolo mondo borghigiano recanatese.

Il paesaggio può diventare, inoltre, uno spunto grazie al quale è possibile raggiungere vette e sensazioni mai provate: nell’Infinito il colle e la siepe portano l’osservatore a “naufragare” nel dolce mare del pensiero.

Anche per Wordsworth la natura assume varie valenze simboliche.
Wordsworth decides that the principal object of his poem must be incidents and situations from common life. The language must be the one really used by men. With the help of imagination ordinary things can be presented in an unusual aspect. With humble and rustic life the passion of the heart finds a better ground.

In the lyric Daffodils the poet describes his own experience. He’s walking alone near the lake and he sees a crowd of daffodils beside the lake. The key to the poem is joy. Her synonym are: sprightly dance , sparkling waves in glee, a jocund company , my heart with pleasure files. There’s a lot of personifications because Nature is considered something living.
The role of imagination is very important: we can see daffodils but the poet describes them with personifications: crowd, host. They are golden, waving in a sprightly dance and outdoing the waves in glee. They provide a jocund company. They are set in a natural landscape. All nature is alive and happy.
The flowers give joy to the poet, but he realises it when he is at home and he can see everything through his inward eye: through it, the poet can remember the sensations of joy and freedom that he felt while walking and watching the golden daffodils.
In Lines composed a few miles above Tintern Abbey Wordsworth describes the relationship between man and nature. The poet is going back to a place he has been before. He contemplates the landscape with mountains and hills, and there is a union between the lake and the sky, between earth and heaven. The landscape is partly wild, we just guess there must be someone from the smoke.
Wordsworth describes also the three effects of nature. The first is an aesthetic effect: when the poet was alone, he remembered the landscape he loved very much; he felt peaceful, tranquillity was restored and so the aesthetic effect transformed itself into a moral one. When the poet feels closer to nature, he is lightened from the burthen of the world, and he doesn’t feel his body. In this state of mind, a kind of trance–like state, he can see the true aspect of things: he becomes a living soul.
Friedrich
Il viaggiatore sopra il mare di nebbia, 1818

In questo quadro di Friedrich, uno dei suoi dipinti più famosi, si avverte immediatamente la poetica del pittore: il sublime, il senso della natura possente e smisurata. Su una roccia di origine vulcanica un uomo, di spalle, ammira il panorama che gli si apre davanti. Davanti a lui si stende un mare di nebbia da cui emergono le cime delle montagne. Non vi è vegetazione che crea angoli accoglienti, le rocce sono nere e inospitali.
Il paesaggio ha qualcosa di così arcaico che sembra di ammirare la Terra subito dopo la Creazione. L’uomo che ammira questo spettacolo confronta la piccolezza della dimensione umana e la grandezza della natura. Lo spettatore del quadro deve condividere il suo punto di vista dell’uomo, che viene per questo motivo raffigurato di spalle.
Schelling
Nella Filosofia della natura Schelling dimostra che la natura non è solo il momento negativo dell’attività infinita dell’IO, come sosteneva Fichte, Spirito e Natura derivano da un medesimo principio, e il filosofo suppone la loro unità. Secondo Schelling, quindi, la Natura è prodotta da una intelligenza inconscia che si sviluppa in gradi sempre più alti, dalla materia al livello organico, fino a giungere all’uomo, fine ultimo della natura.
Sfruttando le scoperte della scienza del suo tempo (il magnetismo, l’elettricità, il chimismo), Schelling sostiene che la Natura si realizza attraverso l’incontro e lo scontro tra due forze fondamentali: quella di attrazione e quella di repulsione. Secondo Schelling, inoltre, la Natura è lo Spirito visibile, lo Spirito è la Natura invisibile. La Natura è concepita come un organismo vivente.
Il pensiero di Mario Puppo è affine a quello di Schelling: se il mondo è una creazione dello spirito, questo deve ritrovarvi se stesso. La natura ha un’anima e una storia: parla a chi sa comprenderla. Il mondo è un’immagine simbolica dello spirito, con esso si può vivere in simpatia. È un immenso organismo in cui ogni parte riflette la vita del tutto.
Leopardi
Per quanto riguarda, invece, la “Natura” antiidillica, la concezione del Leopardi si evolve col passare del tempo e con l’accrescersi delle sue esperienze personali.
Il poeta-filosofo ritiene che l’uomo sia destinato all’infelicità e al dolore: egli, infatti, ricerca continuamente il vero piacere, infinito per estensione e per durata, ma non potrà mai raggiungerlo, essendo, perciò, perennemente insoddisfatto e quindi infelice. Inizialmente, Leopardi ritiene che l’infelicità sia dovuta al tempo e alla società in cui egli vive, a causa dei quali è portato ad usare in modo errato la ragione, a non affidarsi alla facoltà immaginativa; solo i bambini, i primitivi e gli antichi sono felici perché usano in modo corretto la fantasia.
In una prima fase, quella del “pessimismo storico” (Biral), per spiegare i mali del suo tempo il poeta si serve di un rigido dualismo: la natura è buona, la ragione è corruttrice; solo gli antichi erano felici. Alla società il poeta contrappone la natura e le attribuisce sentimenti, volizioni, fini. Ella è una madre amorosa che opera secondo un piano armonico e provvidenziale.
In una fase di passaggio, invece, la Natura viene vista come una madre benigna, che vorrebbe portare la felicità agli uomini ma non può farlo, essendo contrastata dal fato maligno. Questa fase è testimoniata dal già citato Ultimo canto di Saffo: è il destino che ha negato alla poetessa la bellezza, l’amore, non la Natura. Tutta la natura, però, assume un atteggiamento sdegnoso: la natura è bella, mentre Saffo è brutta. La Natura è indifferente alle sue pene, nonostante il suo dolore rimane bella e amica.
Secondo Binni, nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo Leopardi torna al passato per verificare i problemi del presente. L’uomo antico è un uomo integrale, opposto all’uomo presente alienato della natura e dalla società naturale, corrotto dall’arida ragione.
Il Bruto minore implica una rottura del rapporto fra uomo e destino: è un’accusa alle illusioni , ai limiti di resistenza della natura e alla generale situazione dell’uomo virtuoso ed eroico. La ragione svela gli incanti benefici della natura. Nei paesaggi insanguinati dei campi di battaglia Bruto si accorge della vana illusione della virtù e gli dei ostili ed invidiosi. Con il suicidio Bruto si libera dal sopruso della natura che vuole imporre una vita infelice. La natura appare “reina e diva” e condivide le gioie e le pene degli uomini.
Anche De Sanctis analizza il Bruto minore. Nella natura morta, l’unico vivo è Bruto. Il suo cuore umano crede che Natura e dei siano fatti a sua somiglianza, li crede partecipi delle proprie gioie e dei propri dolori; non può ammettere che Natura e dei siano indifferenti. Bruto se la prende con loro, ne è sdegnato e si ribella tramite il suicidio, compiuto con coscienza di ribelle e accento di sfida. La disperazione di Bruto nasce dalla pienezza della vita, dall’amore per la virtù, dal desiderio di gloria; quando si accorge che tutte queste cose sono vane, si toglie la vita.
Secondo Binni, invece, nell’Ultimo canto di Saffo la protesta si fa più intima e profonda, vuole svelare la vera essenza della natura, indifferente e ostile. La protesta di Saffo è più matura perché è più graduale, è trattenuta dal riserbo di Saffo, dalla verità delle sue parole che non riguardano solo lei ma tutta l’umanità. Non è possibile l’accordo con la natura, il sistema è ambiguo e terribile. Gli uomini non sono colpevoli, è inutile fondare la felicità umana su una corrispondenza uomo-natura.
Il dualismo natura benigna – fato maligno, però, si frantuma. Se la natura ha permesso che l’uomo si distaccasse dallo stato cui era stato assegnato, non agisce provvidenzialmente. La natura crea l’uomo e l’abbandona. Nella fase del “pessimismo cosmico” il poeta ritiene che la natura genera necessariamente il male perché fornisce solo l’esistenza, non le condizioni adatte alla vera vita degli individui; è matrigna.
Nel Dialogo della Natura e di un Islandese troviamo il punto di approdo al “pessimismo cosmico”: l’Islandese che fugge prima dal piacere, poi dalla società umana e infine dalla Natura, rappresenta l’umanità intera che non potrà mai essere veramente felice, perché la Natura, causa primaria di dolore, è insita nel genere umano stesso, e più la si fugge più la si incontra; ella è completamente indifferente alla sorte delle sue creature, non si accorge quando fa del bene o del male. A nulla servono i rimproveri del povero Islandese: “Tu sei una cattiva ospite: mi inviti nella tua dimora e non mi dai un posto decente per dormire, del cibo, non mi difendi dai tuoi domestici. Non ti ho chiesto io di venire al mondo, sei tu che mi ci hai messo. Perché, allora, non mi garantisci almeno il minimo indispensabile per sopravvivere?”. La Natura, donna gigantesca, non risponde, non vuole farlo, e indirettamente uccide l’Islandese facendolo sbranare da due leoni o seppellendolo con una bufera di sabbia.
Come sottolinea bene Binni, nel Dialogo della Natura e di un Islandese il poeta affronta direttamente il tema dell’indifferenza della natura e della sua legge meccanicistica di mantenimento della materia attraverso la distinzione e le pene dei singoli viventi. Il rapporto del poeta con la natura è di attrazione e repulsione (volto “mezzo tra bello e terribile”).

In A Silvia la Natura viene accusata della caduta delle speranze della gioventù: “O Natura, o Natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?”, e nella Sera del dì di festa è una “Natura onnipossente che mi fece all’affanno”. Vengono tracciati i profili di due giovani colti nell’allegra serenità delle illusioni e dei sogni; la loro giovinezza viene, però, spenta dall’arrivo della morte e dalla scoperta del vero.
L’unico momento di felicità concesso all’uomo è la pausa tra un dolore e un altro (La quiete dopo la tempesta). Il dolore, la noia, il tedio riguardano non solo tutti gli uomini, ma anche qualsiasi creatura che sia nata, perché “è funesto a chi nasce il dì natale” (Canto notturno).
Cosa può fare l’uomo contro gli attacchi della Natura che tormenta le formiche distruggendo i loro “nidi” con un frutto, che può annientare l’umanità con un piccolissimo movimento, che tormenta con le eruzioni vulcaniche? Unirsi in una “social catena” insieme con gli altri uomini per affrontare la “madre di parto e di voler matrigna” e sopportare, cercando anche di consolare chi lo circonda con la propria poesia, secondo l’esempio offerto da Leopardi. È questo il messaggio che il poeta vuole diffondere. Solo così l’uomo potrà essere più forte e sereno.
Analizzando la Ginestra, Binni sottolinea che, secondo Leopardi, la natura è “empia madre”, cui l’uomo non può opporsi se non con la disperata consapevolezza della sua vera condizione e con la volontà eroica di una lotta contro quella malvagia “matrigna” e contro le ideologie che la trasfigurano positivamente.

Lucrezio
La natura, inoltre, viene vista in modo materialistico, e Leopardi presuppone l’esistenza degli atomi, particelle indivisibili e senza parti. Questa visione della natura riprende la visione di Lucrezio.
Nel primo libro del De rerum natura, dopo il preludio, Lucrezio espone il principio che nulla nasce dal nulla (vv.158-214) e che nulla torna nel nulla (vv. 215-264) . La somma delle cose reali rimane quindi costante sotto le apparenti creazioni o distruzioni. Questo fatto esclude per Lucrezio l’attività divina nel mondo. Se non si tiene conto che nulla nasce dal nulla, l’uomo viene preso da una “formido”. Quando avrà capito che nulla nasce dal nulla, capirà l’origine di tutti i fenomeni.
Lucrezio argomenta il suo pensiero in quattro modi:
• “Adynata” Lucrezio oppone a quello che avviene realmente ciò che avverrebbe se fosse vero il contrario del principio: gli uomini spunterebbero dal mare, i pesci dalla terra, gli uccelli dal cielo, animali feroci e domestici vivrebbero disordinatamente , ogni pianta produrrebbe qualsiasi frutto, non ci sarebbero i semi fecondatori che determinano l’origine di ogni specie.
• Ogni specie nascerebbe in qualunque momento dell’anno e non avrebbe bisogno di tempo per accrescersi.
• Gli uomini non avrebbero le caratteristiche che hanno e potrebbero fare qualsiasi cosa che però la loro specie gli nega.
• Il lavoro manuale sarebbe inutile.
C’è poi un ampio sviluppo destinato a prevenire un obiezione : il principio implica l’esistenza di elementi che non sono percepibili dai sensi: ciò contraddice il senso comune e il criterio epicureo della verità. Lucrezio non precisa come si possa giungere ad una verità di quest’ordine, ma ricorre ad una serie di esempi analoghi in cui si scorge l’azione di forze non conosciute dal loro effetto.
Il fondamento dell’analogia è la costituzione atomica della realtà. Gli atomi sono particelle di materia che sopravvivono alla distruzione e alla morte dei corpi che hanno costituito. In natura esistono la materia e il vuoto. La prima è composta di atomi che aggregandosi danno vita ai corpi e disgregandosi ne provocano la distruzione; essi possono nuovamente aggregarsi. Ciò avviene grazie alla presenza del vuoto. Gli atomi non sono ulteriormente divisibili, sono indistruttibili. Se non lo fossero:
• Non ci sarebbe bisogno di alcuna forza per scioglierne i legami
• Se il tempo annientasse la materia, non potrebbe nascere più nulla
• Una stessa forza distruggerebbe tutte le cose.
• Per disgregazione gli elementi ritornano alla materia, come l’acqua, scorrendo disseta la terra e fa nascere frutti.
È necessario ammettere l’esistenza del vuoto per risolvere i problemi sulla “summa rerum” e per raggiungere la certezza sulla materia. Per Epicuro e Lucrezio il vuoto è tutto lo spazio in cui si incontrano gli atomi. Non esiste nient’altro all’infuori dei corpi e del vuoto.
È difficile concepire l’esistenza degli atomi: sono solidi o compatti, eterni, hanno unità o semplicità.
Anche Foscolo vede la natura come un meccanismo cieco che travolge tutto. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis la natura è considerata crudele perché mette gli uomini al mondo solo per farli soffrire. È, inoltre, vista come una serie di processi nei quali la materia viene continuamente modificata senza essere mai distrutta.
Anche nel carme Dei Sepolcri ritorna la stessa visione.
Il carme raccoglie la meditazione filosofica del poeta. Egli parte dalla considerazione che è indifferente il modo di seppellire i defunti, perché la morte travolge tutte le cose belle della vita nel suo ciclo distruttivo; è convinto, però, che l’uomo non debba privarsi dell’illusione di poter vivere eternamente, e quest’illusione può essere garantita solo attraverso una tomba che protegga i resti del defunto, una bella lapide, delle piante sepolcrali e “amorosi sensi” (v. 30), “eredità d’affetti” (v. 41), persone che gli abbiano voluto bene e che lo possano ricordare. Le tombe, oltre ad avere una funzione privata, perpetuando il ricordo del defunto fra i suoi cari, svolgono anche una funzione pubblica: le tombe dei grandi, infatti, spingono i valorosi a compiere grandi azioni per emularli: anche questi sepolcri, quindi, spingono l’uomo ad agire, contrastando lo stato di tedio provocato dal reo tempo. Al v. 130, Foscolo usa l’espressione “pietosa insania” per definire le illusioni. Nell’ultima parte del carme, viene esplicata la funzione della poesia: anche le tombe, come tutto ciò che è stato creato dagli uomini, sono destinate ad essere distrutte dall’azione distruttrice del tempo. Solo la poesia, divina perché ispirata nei poeti dalle Muse, è immortale, e celebra in eterno i valori dell’antica Grecia, gli eroi che hanno lottato per perpetuare questi valori e i poeti come Omero, il quale scrive una poesia che nasce dal dialogo muto con le tombe, e celebra i vincitori ed i vinti, esortando ad azioni gloriose e ai grandi valori civili.
Secondo Antonino Pagliaro, la tomba ha nei Sepolcri un rilievo affettivo, sociale e storico. Coincide con la verità della natura-materia, non ha valore perché non può dare stabilità e durata al caduco, è travolta dal moto incessante e irresistibile che spezza e confonde perennemente le forme di tutto ciò che esiste. Il vero assoluto è per Foscolo la natura, forza cosmica che trascina l’universo in un incessante divenire, in cui le forme della materia appaiono come realtà transeunti e caduche.
La tomba è importante per l’uomo e per il suo destino perché ritarda il suo perdersi, come persona, nella notte. Consente, inoltre, di stabilire un campo di rapporti al di sopra della legge della materia ed eludendo il suo rigore. Di fronte a quella forza cosmica che tutto annienta e trasforma si qualifica come illusione, caratteristica di tutti gli uomini.
Foscolo, perciò, influenzato anche dal meccanicismo e dal materialismo settecentesco, concepisce l’esistenza come l’energia che l’uomo spende in vista del nulla eterno, della morte, della completa dissoluzione dell’essere. Ogni azione è vana, perché tutti gli uomini, immersi nel ciclo eterno di vita e morte, dovranno prima o poi morire, e quando ciò accadrà non rimarrà assolutamente niente. Nonostante ciò, egli non accetta questa situazione e fa di tutto per trovare un senso all’esistenza; Foscolo ritiene, quindi, che l’uomo debba credere nelle illusioni, valori ideali e spirituali quali la libertà, la patria, la gloria, la bellezza, la poesia, la giustizia, che non esistono nella realtà storica, ma che sono ritrovabili nel mondo ideale della Grecia classica, in una dimensione metastorica. L’unico ambito in cui, secondo Foscolo, l’uomo moderno può recuperare le illusioni è quello della poesia, la quale le fa rivivere ogni volta che si leggono i classici, e grazie alla quale è possibile diffonderle anche agli altri uomini. Grazie alle illusioni, quindi, Foscolo riesce a superare il nichilismo, poiché riesce a trovare uno scopo nella vita dell’uomo.
Leopardi, invece, trova una via d’uscita nella solidarietà sociale della Ginestra o nella poetica del vago e dell’indefinito. Tutto ciò che ha le caratteristiche di vago, indefinito, lontano ignoto stimola la facoltà immaginativa a costruirsi una realtà parallela con piaceri infiniti. E’ piacevole per le idee di infinito che suscita la vista impedita da qualche ostacolo perché è suggestiva e stimola la facoltà immaginativa a compensare quello che non vede. Gli aspetti vaghi ed indefiniti sono piacevoli anche perché evocano sensazioni che abbiamo provato da bambini. La rimembranza diventa un elemento essenziale del sentimento poetico. La poesia è il recupero della visione immaginosa che avevamo nella fanciullezza, attraverso la memoria.

Pascoli
Pascoli è contrario alla poetica del vago e dell’indefinito leopardiana. Per il poeta è importante la determinatezza. Egli, infatti, critica il “mazzolino di rose e di viole” di Leopardi, con il quale indicava cose generiche e cadeva nell’errore dell’indeterminatezza.
Secondo Contini Pascoli non vuole essere indeterminato, nella sua poesia vuole essere preciso. In realtà nella sua poesia assistiamo a una forma di evasione espressionistica: la determinatezza di Pascoli è sempre sopra un fondo di indeterminatezza che la giustifica dialetticamente.
La natura in Pascoli è simbolica. In Novembre in paesaggio è simbolo della vanità delle cose, L’assiuolo, invece, rappresenta la morte, la Digitale purpurea simboleggia il peccato.

Nell’Assiuolo Pascoli rompe la barriera fra determinato e indeterminato. Molte parole non vengono scelte per la loro funzione e per il loro significato, ma per il loro suono o per le immagini che evocano.

Il gelsomino notturno, splendido fiore che schiude i suoi petali solo di notte, spande il suo profumo in tutto l’ambiente circostante, mentre le farfalle notturne volano, gli uccelli dormono sereni nei loro nidi, l’erba nasce. Tutto tace e tutto riposa. All’alba i petali del gelsomino si schiudono; al suo interno, nascosta e protetta, si cova una “felicità nuova”.
La prima immagine che compare nella lirica è quella del gelsomino notturno, che non viene mai nominato all’interno del componimento se non nel titolo. Il gelsomino è, infatti, simbolo del concepimento: nella sua “urna molle e segreta” è racchiusa una “felicità nuova”, come nel ventre materno è protetta e nutrita una nuova vita.
L’ape rappresenta forse il poeta, che si sente escluso dal rito di fecondazione e dall’amore e preferisce osservare piuttosto che agire, pensare ai suoi cari, all’infanzia, al nido, dove ci si sente sicuri e difesi come gli occhi sono protetti dalle ciglia. Il legame con la famiglia d’origine non permette all’io lirico di crescere e di maturare, e non gli consente di vivere la sessualità in modo maturo, lo porta a considerare l’atto d’amore come una causa della rovina di una bellezza che prima era pura e incontaminata. Per questo motivo i petali del gelsomino sono “un poco gualciti” e rovinati; l’autore usa, inoltre, il termine “si cova” (v. 22), più animalesco che umano, per sottolineare la sua estraneità e la diffidenza nei confronti di qualcosa di cui non ha potuto fare esperienza.
La lingua di Pascoli è, inoltre, pregrammaticale, arazionale e cislinguistica: molte parole vengono, infatti, scelte più per il loro suono che per il loro significato.
A livello lessicale si nota quanto l’autore voglia ricercare e usare la parola novella, una parola semplice ma significativa che possa riprodurre la visione del mondo tipica del fanciullino. Il registro utilizzato è, infatti, semplice e quotidiano; molti termini appartengono al campo semantico della natura, in particolare all’ambito botanico e floreale.

Esempio