La relatività della conoscenza

Materie:Tesina
Categoria:Multidisciplinare

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Testo

LA RELATIVITÀ DELLA CONOSCENZA
Percorso multidisciplinare per Liceo Scientifico
di Perottino D.
Anno scolastico 2001/2002

«Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà se non gliela diamo noi; e dunque, poiché gliel’abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non possa essere diverso. Bisognerebbe diffidare di noi stessi, della realtà del mondo»
Luigi Pirandello
In copertina: René Manritte, Il doppio segreto, 1928, olio su tela, m 1,14 X 1,62. Liegi (Belgio), collezione privata. Il busto femminile è aperto, strappato, di fronte ad una vasta distesa marina, come se fossero due busti. Sembrano di materiale levigato e sottile, come se fosse una bambola. Al suo interno vi sono sonagli, motivo frequente nell’opera di Magritte. Il contrasto fra realtà e l’impossibilità di spiegare la situazione genera sorpresa, dubbio: quale mistero si cela in questa donna-bambola, nel suo aspetto interno e in quello esterno? Quale è la sua realtà?
La relatività della conoscenza, insieme al tema della maschera compare in quest’opera in modo enigmatico.
La citazione in basso di Pirandello è tratta da un suo discorso nella commemorazione verghiana del 1931 all’Accademia d’Italia. Essa esprime il senso della relatività del pensiero pirandelliano.
LA RELATIVITÀ DELLA CONOSCENZA
MATERIE COINVOLTE:
1. ITALIANO.
1.1. Luigi Pirandello
- Il relativismo pirandelliano ne Così è (se vi pare)
Uno, nessuno, centomila
EnricoIV
- Il tema della maschera
- L’inconoscibilità dell’uomo e della realtà in Così è (se vi pare)
- L’incomunicabilità fra i personaggi delle opere teatrali e dei romanzi
- Il fu Mattia Pascal
- Il teatro grottesco

1.2. Italo Svevo
- La crisi del soggetto e delle certezze
- Il tema della ”malattia”
- La conoscenza si attua solo nella malattia
- Il monologo interiore
- La vicinanza stilistica a Joyce: stream of consciousness
2. FILOSOFIA
2.1. Friedrich Nietzsche
- La décadence (cfr. Verlaine)
- Nietzsche “maestro del sospetto” (espressione di Paul Ricoeur)
- La messa in discussione della civiltà occidentale, e del modello gnoseologico in essa dominante
- La reazione alla crisi dei valori: le peregrinazioni nel proibito
- L’irrazionalità nel teatro greco: il dionisiaco contro l’apollineo
- Le colpe di Socrate e la nascita del razionalismo
- La fedeltà alla terra
- Negazione della fiducia in una verità assoluta
- Lo “smascheramento”del metodo genealogico
- La morte di Dio
- Il mondo vero diventa una favola: la critica del concetto di verità, il mondo è privo di fondamento
- Il nichilismo
- La reazione alla crisi: il suo superamento tramite l’oltreuomo
2.2. Husserl
- Il metodo fenomenologico
- Le influenze di Brentano: l’intenzionalità della conoscenza
- La radicale polemica contro il positivismo e la nuova attenzione per la problematica della coscienze e della soggettività
- Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913)
- L’epoché
- Il dubbio fenomenologico mette in crisi l’atteggiamento naturale
- Il residuo fenomenologico: l’io
- Le Meditazioni cartesiane (1929): la fenomenologia come scienza egologica sistematica
- Il superamento del concetto di coscienza chiusa: la coscienza situata
- L’impossibilità di avere una visione globale della realtà
- La conoscenza per adombramenti
- Il ruolo del tempo nella conoscenza e i legami con Agostino nel libro XI delle Confessioni
- Cogito come temporalità
3. Letteratura inglese
3.1. James Joyce
- Il senso della crisi in Dubliners
- Il tema dell’incomunicabilità fra gli uomini
- Il concetto di “epiphany”
- Il flusso di coscienza, il prodotto delle nuove teorie fisiche, delle ricerche sulla psiche umana: strumento di analisi del pensiero, che al tempo stesso evidenzia la sostanziale inconoscibilità della natura umana
3.2. Gorge Orwell
- Il romanzo 1984
- La non conoscenza del passato
- La polverizzazione della conoscenza degli altri individui
- La relatività dello scibile nel regime totalitario del Grande Fratello
- 2+2=5
- la cancellazione del pensiero indipendente
- lo slogan del partito: «L’ignoranza è forza»

4. Letteratura latina
- Agostino: vita ed opere
- L’adesione al manicheismo
- Il “momento accademico”
- Lo scetticismo
- Il neoplatonismo
- La svolta e l’accettazione della fede in Cristo
- La contestazione dello scetticismo: Contra Academicos (386)
- Il De ordine come tentativo di spiegare la razionalità dell’universo
- Il De libero arbitrio in funzione antimanichea
- Le Confessiones: il percorso di Agostino nella ricerca della verità e la finale adesione al cristianesimo
- “Confessione ”: gettare la maschera e svelare la propria spiritualità
- Attacchi ai manichei, i donatisti e pelagiani: l’uomo non può fare a meno della verità divina
- La natura è strumento per conoscere Dio
- Il concetto di tempo, l’impossibilità di definirlo e la ripresa, da parte di Husserl, della riflessione agostiniana
5. Fisica
- La relatività di Einstein
- L’esperimento di Michelson e Morley e l’interpretazione di Einstein
- Assiomi della teoria della relatività
- La contrazione delle lunghezze nella direzione del moto relativo: la crisi della fisica newtoniana
- Le trasformazioni di Lorentz
- La dilatazione dei tempi
- Il concetto di tempo nella fisica di inizio Novecento e le sue influenze sulla cultura del tempo: il flusso di coscienza in James
6. Scienze
- La relatività applicata alla cosmologia: l’esperienza di Michelson e Morley, Lorenz, ed Einstein
- Il concetto di spazio e di tempo della cosmologia newtoniana
- Lo spazio nella relatività generale
- La cosmologia relativistica
- Hubble e Humason: l’universo in espansione e la sua “età”: l’evoluzione delle stelle, la loro classificazione, le galassie e la loro evoluzione
PREMESSA:

La seguente trattazione non vuol essere una ricerca approfondita sul tema della “relatività della conoscenza”, seguendo tutti i punti del percorso. Come si vedrà nella lettura alcuni punti (come quelli relativi alla parte di fisica e di scienze) non sono trattati, mentre altri sono sviluppati in modo più esaustivo, non seguendo necessariamente l’ordine imposto dal percorso stesso. Il mio intento è di offrire gli spunti relativi a questo argomento, mettendo in mostra le cause culturali e sociali che hanno avviato la “crisi dei valori”, che influenza ancora oggi il pensiero in ogni campo della conoscenza.

Come ha osservato Michel Foucault, l'età moderna si è aperta con la domanda di Kant: «che cosa è l'uomo, che cosa conosce?»1. Questa domanda non ha smesso di incalzare la cultura: la filosofia, la letteratura, l'arte, la scienza, sino ai confini estremi della psicoanalisi. Nell'era dei computers, della genetica e delle grandi imprese spaziali la domanda sull'essenza dell'uomo e sui suoi rapporti conoscitivi con la natura è ancora al centro di ogni ricerca. È questa, si potrebbe dire, la costante della filosofia della cultura occidentale, cioè quella caratteristica che la differenzia da ogni altra cultura.
Nel 1764 Voltaire prendeva in considerazione, quasi in un risposta preventiva alla domanda di Kant, nel suo Dizionario filosofico, l’incapacità dell’uomo di indagare e comprendere globalmente la “realtà” che lo circonda:

Limiti dello spirito umano2.

«Essi sono dappertutto, povero dottore. Vuoi sapere come mai il tuo braccio e il tuo piede obbediscono alla tua volontà, e il tuo fegato no? Cerchi in qual modo si formi il pensiero nel tuo debole intelletto, o il bambino nell'utero della donna? Ti lascio tempo per rispondermi. E che cos'è la materia? I tuoi pari hanno scritto diecimila volumi sull'argomento, e hanno trovato certe qualità di questa sostanza: i bambini le conoscono come te. Ma questa sostanza, che cosa è in fondo? E che cos'è ciò che tu hai chiamato spirito, dalla parola latina che vuoI dire respiro, non potendo far di meglio perché non ne hai alcuna idea?
Guarda questo chicco di grano che getto in terra, e dimmi come mai germina per produrre uno stelo con su una spiga. Spiegami come mai il medesimo terreno produce un pomo sulla cima di quella pianta, e una castagna sulla pianta vicina. Potrei farti un volume in-folio di problemi, ai quali tu dovresti rispondere solo con queste quattro parole: non ne so nulla.
E tuttavia tu hai preso la tua laurea, porti la toga con la pelliccia, e bordato di pelo è anche il tuo berretto, e ti chiamano maestro. E quell'altro impertinente, che ha comprato una carica, crede di aver acquistato il diritto di giudicare e condannare ciò che non capisce!
Il motto di Montaigne era: “Che cosa so?” e il tuo invece: “Che cosa non so?”»

Nelle parole dell’autore francese si possono notare temi e spunti che si ripresentano alla fine dell’Ottocento e che permeano il tessuto culturale del Novecento, il secolo appena conclusosi che ha segnato profondamente, con le sue tragedie e i nuovi schemi socio-politici, la vita della società attuale, e proprio per questo, a mio giudizio, è necessario studiare tale periodo di crisi delle certezze e dei valori.
In questa breve trattazione sul tema dell’impossibilità della conoscenza mi sono impegnato a mettere in evidenza quelle che è, secondo me, l’”anima” di inizio Novecento. Ritengo che questo periodo sia fondamentale per analizzare la visione che si ha oggi della realtà e il modo di interpretarla. Gli ultimi anni dell’Ottocento ed i primi decenni del secolo successivo, sono un vero e proprio laboratorio di nuove teorie, non soltanto nel campo della scienza, ma anche negli altri aspetti della vita culturale e politica. Sono anni di grande concitazione per l’utilizzo sempre più massiccio della tecnica, che sostituisce l’uomo in molti lavori, e che permette una serie di servizi, tesi a migliorare le condizioni della vita.
Le nuove teorie scientifiche scagliano un decisivo scossone alle leggi della fisica newtoniana, al determinismo che era stato punto di forza del Positivismo. Inoltre in questo periodo compare in modo massiccio e – a volte – violento la società di massa: un gruppo nutrito di persone che si rende conto delle proprie potenzialità, soprattutto in ambito politico e sindacale, come mezzo di pressione sull’élite che detiene il potere. Molti critici hanno analizzato la problematicità insita in tale modello sociale; Le Bon3 e Ortega y Gasset4 hanno evidenziato l’irrazionalità di fondo che governa la società di massa, molto debole e suscettibile, che può quindi diventare strumento favorevole a coloro che puntano su una progressiva soppressione della democrazia, vista come obsoleta, non più capace di rispondere alle aspettative del popolo e di garantire la sicurezza degli Stati.
Quell'insieme di atteggiamenti, sensibilità, modalità stilistiche che viene definito “novecentesco” trova sufficiente elaborazione già negli ultimi due decenni dell'Ottocento. Nasce da una crisi di fondo che investe i capisaldi di quel Positivismo che aveva fornito le basi ideologiche sia alle attività di una borghesia industriale fiduciosa nelle leggi del progresso, sia alla produzione artistica concepita come scientifica e oggettiva rappresentazione della realtà sociale. Una serie di fattori di vario genere contribuisce a modificare profondamente, negli ultimi decenni del secolo, il panorama letterario e la concezione stessa della letteratura; tra questi devo sottolineare: la crisi delle certezze e delle leggi scientifiche che via via vengono messe in discussione e “relativizzate” dagli stessi scienziati; la valorizzazione, contro alla razionalità scientifica, di atteggiamenti irrazionalistici; l'accentuarsi dello scontro di classe dovuto all'avanzata sempre più preoccupante - per la borghesia egemone - della classe operaia, avanzata che provoca nella classe dirigente un arroccamento nella gelosa difesa del proprio potere e dei propri privilegi, e nella gran parte dei letterati una diffusa presa di distanza da una realtà così conflittuale. Questa evasione dalla realtà porta all'elaborazione di poetiche e a concrete realizzazioni artistiche caratterizzate non più da un’esigenza veristica o naturalistica, ma da una vocazione a trasfigurare il reale, ad andare oltre il fenomenico, prendendo coscienza della impossibilità per l’uomo di raggiungere una conoscenza esaustiva, come invece aveva preteso la cultura fino alla fine dell’Ottocento.
La cultura del periodo preso in esame risente di questi elementi. Il sentimento dominante è quello di impotenza di fronte alla realtà, alla possibilità di conoscere e di creare gli schemi concettuali sotto cui, come aveva fatto gran parte della cultura precedente, etichettare e catalogare lo scibile umano.
Il percorso che ho steso tende quindi ad evidenziare la continua ricerca della conoscenza in ogni campo della cultura, ma al tempo stesso la “relatività”della stessa, l’impossibilità per l’uomo di prendere possesso delle leggi che governano l’universo, l’uomo, la sua mente. Sintomi di questa svolta culturale sono i nuovi orizzonti intrapresi dalla filosofia, dalla scienza, da nuovi temi nelle opere letterarie quali l’incomunicabilità, la soggettività della verità, l’attenzione per la psiche.

Nella letteratura, come nella filosofia, si assiste ad un progressivo allontanamento dall’ottimismo positivista, per raggiungere posizioni di aperta critica, o più radicalmente di negazione, della cultura precedente.
Un insieme di nuove esigenze e di nuove modalità espressive5 caratterizza quella fase della letteratura europea che viene complessivamente definita “decadentismo”, ma che si sviluppa in una gamma assai variegata di soluzioni in rapporto alle singole aree nazionali e ai singoli autori. Sono certamente comuni a tanti artisti decadenti un cupo senso di stanchezza, un’insuperabile sfiducia nell'agire umano, quasi un'ebbrezza di rovina, la voce di un' età che vive il suo tramonto. Verlaine per esprimere il senso di crisi disse: «Sono l’impero alla fine della decadenza»6: il poeta non è più capace di affrontare le vicende dell’esistenza, percepita come un insieme di conoscenze ormai prive di valore, che tendono a ripetersi nel tempo.
Questa predilezione per le epoche in disfacimento costituiscono un terreno comune a tanti artisti del decadentismo, dal quale deriva tutta una serie di temi ricorrenti. Nato da una frattura fra l'artista e la società, che col progressivo affermarsi della civiltà di massa era destinata ad accentuarsi, il decadentismo si esprimeva anzitutto nell'angoscia della solitudine7 o dell'inconoscibilità del reale8, nel privilegiare la “malattia” rispetto alla “salute”9. Agli occhi del lettore contemporaneo appaiono come intellettuali inariditi cui l'eccesso di consapevolezza critica impedisce adesione alla realtà, passioni, scelte ed in questo sono una testimonianza della crisi intellettuale del primo Novecento10.

Anche per questo l’irrazionalismo è indubbiamente un tratto costante della filosofia del Novecento che può complessivamente definirsi come filosofia della crisi (crisi dei valori delle istituzioni e infine degli individui nella loro esperienza storica e quotidiana). Una prima manifestazione di tale tendenza irrazionalistica concerne la critica della certezza scientifica. La pretesa dei positivisti di spiegare ogni realtà compreso l'uomo e la sua anima, in senso deterministico, cioè in base a una rigida successione di cause e di effetti, si rivela di fatto inattuabile anche da un punto di vista rigorosamente scientifico. Non è possibile, per es., “ridurre” il fenomeno della vita organica a cause unicamente fisiche. Ancor meno è possibile ridurre il fenomeno storico-sociale umano a cause puramente biologiche, soggette a leggi immutabili. C'è nell'individuo qualcosa che sfugge alla logica della ragione scientifica, un fondo imponderabile per la coscienza forse solo l'arte, la poesia, la metafisica possono avvicinare e intuire.
Dall'insieme di queste critiche si fa strada l'idea (condivisa anche da molti scienziati) che i concetti, le categorie, le leggi scientifiche, più che rivelare l’essenza ultima e vera delle cose (come credevano ingenuamente i positivisti), siano utili astrazioni concettuali, convenzioni operative che aiutano a prevedere il comportamento generale di alcuni fenomeni dell'esperienza concreta, ma non servono a spiegarli. Emblematico è in proposito il concetto di tempo. Nelle formule della fisica il tempo appare come una quantità vettoriale matematicamente misurabile. Ma questo tempo oggettivo è una vuota astrazione, se paragonato con il tempo concretamente vissuto ed esperito. Quest’ultimo non è costituito da istanti quantitativamente omogenei che scorrono in una sola direzione ma è piuttosto come diceva Bergson una “durata” qualitativa, intrecciata di memoria e di aspettativa, e perciò non misurabile matematicamente. Solo l’intuizione interiore del poeta, dello scrittore (si pensi a Marcel Proust), può avvicinare la reale esperienza del tempo.
Anche dal punto di vista strettamente scientifico la troppo rigida visione della scienza che sostenevano i positivisti si modifica profondamente. Si verifica anche nella scienza una crisi dei fondamenti classici. Di essa gli episodi più rilevanti sono la creazione di geometrie non euclidee, la discussione sui fondamenti della matematica e della logica e infine la rivoluzione relativistica della fisica inaugurata da Albert Einstein.
Queste indagini sono alla base anche della teoria della relatività einsteiniana, con la quale vengono meno i secolari capisaldi della fisica newtoniana. Se quest'ultima resta valida e verificabile entro i fenomeni del sistema solare, essa non è più tale a livello cosmologico generale, cioè per le grandi distanze e per velocità che si avvicinano alla velocità della luce. In questo caso tempo e spazio si uniscono a formare una quarta dimensione, sicché la localizzazione dei fenomeni naturali non è più riferibile a uno spazio e a un tempo newtoniani assoluti, ma è relativa al punto di vista dell'osservatore e cioè al sistema di misura e di riferimento impiegato. Qualcosa di analogo alla cosmologia o macrofisica accade nella microfisica, cioè nello studio dei fenomeni subatomici. Anche qui la localizzazione delle particelle subatomiche via via scoperte non può essere assoluta; vi è in essa un’”indeterminismo” che dipende dall'influenza dell'osservatore sul fenomeno osservato.
Non esistono nemmeno nella scienza verità assolute. L'impresa scientifica è inevitabilmente condizionata dalla mentalità del tempo, dalle filosofie, dalle ideologie sociali, religiose e politiche. Il divenire della scienza procede attraverso conflitti e concettuali11, sicché diviene problematico confrontare i grandi sistemi e le grandi verità scientifiche tra loro. Ogni grande sistema scientifico muove da ipotesi e principi differenti e anche il ricorso ultimo all'esperienza non può considerarsi decisivo, poiché il modo di interrogare e valutare l'esperienza e di predisporre gli esperimenti dipende in larga misura dalla teoria, ovvero da ciò che nell'esperienza vogliamo cercare o ci aspettiamo di trovare (Karl Popper).

Se il neopositivismo tentò di fronteggiare l' irrazionalismo novecentesco con lo sforzo disperato, e alla fine perdente, di salvare un nucleo di verità, assicurate da un procedimento metodico rigoroso, fu invece l'esistenzialismo a farsi carico in modo diretto delle istanze irrazionalistiche, incarnando quella filosofia della crisi che caratterizza il nostro tempo.
All'inizio del secolo fu l'opera di Friedrich Nietzsche (1844-1900) a diffondere una denuncia aspra e profetica dell'avvento della crisi. Denuncia espressa in opere singolari, altamente poetiche come Così parlò Zarathustra, un poema in prosa. Nietzsche influì non solo sulla filosofia, ma anche sulla letteratura novecentesca. Al centro dell'opera di Nietzsche sta l'annuncio della “morte di Dio”, ovvero della fine di quel sistema di valori che caratterizza la civiltà europea e in particolare la tradizione cristiana. L'esito ultimo verso il quale precipitava la civiltà europea fu denominato da Nietzsche “nichilismo”. L'età del nichilismo, nella quale secondo il filosofo tutti viviamo, si caratterizza per il venir meno di ogni valore capace di orientare la vita e per la totale incapacità da parte dell’uomo di conoscere quella “terra” da cui siamo fuggiti, per rifugiarci nel “conforto” della metafisica, dei mondi al di là della realtà. Gli individui sono sempre più dominati dall’utilitarismo, nell'illusione che il progresso scientifico, industriale e tecnico possa da solo corrispondere a tutti i bisogni e a tutte le aspirazioni umane. Nel contempo, proprio quel progresso materiale diffonde su tutta la terra un universale conformismo di gusti e di costumi che determina la nascita dell’”uomo decadente” e dell’”uomo massa”: la conoscenza e l’esistenza degli individui perdono ogni senso e ogni scopo autenticamente vitale. Come disse Musil:

«Gli uomini si sentono come un insetto che si è smarrito in un campo di cui non conosce i colori di richiamo»12.

Proprio questa crisi radicale dell'esistenza è il tema centrale che ispirò l'esistenzialismo e, prima ancora, quella che fu la sua matrice culturale più diretta, vale a dire la fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938). Come già Nietzsche, anche Husserl denuncia la crisi dell'Europa. Egli ne vede la causa nell’”intellettualismo”: proprio le scienze, con i loro enormi progressi, hanno determinato un sapere sempre più specialistico, che però è incapace di trovare una forma compiuta di analisi della realtà. Con il metodo fenomenologico si arriva alla definizione di conoscenza per adombramenti, che non ci permette mai di avere una visione completa del fenomeno, in quanto la nostra coscienza è situata; Ponty espresse questa teoria di Husserl nella frase: «il mio corpo è il mio mondo, vediamo ciò che il corpo ci permette di vedere». Viene meno il senso filosofico complessivo del sapere e con esso ogni risposta ai perché e ai fini ultimi dell'esistenza. Si determina così una generale crisi di civiltà: affidati a loro stessi gli individui oscillano tra molteplici ideologie infondate; si diffonde allora un senso di stanchezza e di scetticismo, oppure di frenetico quanto vacuo attaccamento al contingente. Contro questa degenerazione della cultura europea Husserl auspica un ritorno alla concretezza dell'esperienza soggettiva. Mettiamo tra parentesi ogni teoria e ogni ideologia, diceva Husserl, e torniamo a considerare quel centro di vivente significatività che è la vita interiore della coscienza, cioè 1'esperienza diretta delle cose e del mondo che il soggetto incontra prima di ogni spiegazione o teoria; basiamo sull'evidenza di tali esperienze la ricostruzione del nostro sapere.

Allo stesso modo in ambito letterario la “crisi” si riscontra nella nuova concezione del testo narrativo, come metodo di indagine del pensiero umano13, non tramite una lettura realista dell’uomo, ma con nuovi schemi e tecniche, che riproducono il senso di isolamento, inettitudine ed incapacità di comprendere ciò che ci circonda.
L'eroe o l’antieroe decadente è spesso un personaggio ripiegato su se stesso, in attenta osservazione del proprio io inquieto e tormentato, deluso dal mondo, avverso alla dominante società borghese e ai suoi valori, o anche incapace di vivere normalmente, inetto, malato sensibilissimo, capace di svelare i propri e gli altrui compromessi morali, le proprie e le altrui meschinità. Il mistero della conoscenza che si percepisce nell'interiorità, nella natura, nel mondo è sovente una tensione ad un assoluto idealizzato e sfuggente, ricerca di una totalità perduta, coscienza dell'impossibilità di apprenderla e ricostituirla.
Ritengo che Luigi Pirandello sia l’esponente più importante ed emblematico per quanto riguarda il tema della relatività della conoscenza e dell’incomunicabilità fra gli uomini che da essa scaturisce. Mettendo in luce la molteplicità del reale e andando oltre l'apparenza fenomenica la poetica di Pirandello si risolve (1) nel superamento, nella liquidazione di un principio essenziale del verismo (di estrazione positivistica): l'esistenza di una realtà oggettiva concepita come un autonomo dato di fatto da rappresentare; (2) nella negazione, tipica della cultura del decadentismo, del valore conoscitivo della ragione (o della scienza); Pirandello quindi introduce, sia nella narrativa che nel teatro, da L'esclusa a Così è (se vi pare), una visione non più statica ma dialettica del reale, rappresenta una realtà oppostamente interpretabile e per questo priva di una sua oggettiva consistenza, dà inizio al superamento della “la barriera” del naturalismo (le spiegazioni scientifiche del reale e dei comportamenti umani e le relative modalità di rappresentazione che la tradizione narrativa ottocentesca aveva elaborato).
È significativo che già nel suo primo romanzo, L'esclusa (1901) sia presente questo tema di fondo della sua produzione. Anche se in quest’opera rimangono aspetti del clima veristico come l’impianto narrativo, lo scrupolo nella definizione degli interni e dei personaggi, poggia su una concezione non più univoca della realtà: ne derivano il contrasto tra apparenza e realtà, lo sfaccettarsi della verità (tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla), l'assurdità della condizione dell'uomo, costretto - pur nella molteplicità del suo sentire e del suo agire - nel letto di Procuste della catalogazione (adultero, innocente, disonesto, ecc.) e legato a una forma che soffoca la vita.
Su questa problematicità della conoscenza, su questo relativismo gnoseologico, Pirandello anche a livello teorico è molto chiaro:

«Tutti i fenomeni, o sono illusioni, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunque presumiamo di attribuirle. È una costruzione illusoria continua»14.

Questo relativismo scaraventa, “deietta”, utilizzando un’espressione mutuata da Heidegger, l'essere umano in un mare di tenebre e dà luogo a quell'esperienza che è stata definita della depersonalizzazione, per cui l'uomo esce fuori da se stesso e sta a osservarsi cogliendo si in un punto, tra fisico e metafisico, di assurdità, di completa inconoscibilità.
È l'esperienza che varie volte capita di vivere a Mattia Pascal; è l'esperienza del protagonista della novella La carriola, che di fronte alla targa sulla porta di casa, con il suo nome e cognome e tanto di titoli (professore, avvocato), ha questa illuminazione, vive questa sensazione di alienazione: noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme dell'umana ragione.
Il relativismo gnoseologico ha quindi fra le altre conseguenze quella di mettere a nudo la convenzionalità dei valori accettati, dei ruoli assunti e subiti, delle istituzioni che reggono la vita associata: da questo punto di vista l'opera di Pirandello è una continua e inesorabile demistificazione. Ma resta da vedere il tono con cui egli procede in questa operazione. È stato lui stesso a definirlo quando, dopo aver teorizzato il «sentimento del contrario», ha dichiarato che l'atteggiamento che ne deriva è la perplessità, e ha indugiato a definire questo modo di essere:

«Nella sua anormalità non può essere che amaramente comica la condizione d'un uomo che si trova ad essere quasi sempre fuori di chiave ad essere a un tempo violino e contrabbasso; d'un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch'egli abbia a dir sì, subito un'altra e due e tre non ne sorgano che lo costringono a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d'un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce».

In Così è (se vi pare) il tema del relativismo scatta fin dalle prime battute:

«LAUDISI (Cini) – come mi vede, perché tutt’e quattro altrimenti le diranno lei s’inganna, mentre lei non s’inganna affatto! Perché io sono realmente come me vede lei. – Ma ciò non toglie, cara signora mia, che io non sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua – che anche loro non s’ingannano affatto.
SIGNORA SIRELLI E come, dunque, lei cambia dall’uno all’altro?
LAUDISI Ma sicuro che cambio, signora mia! E lei no, forse? Non cambia?
SIGNORA SIRELLI Ah no no no no. Le assicuro che per me io non cambio affatto
LAUDISI E dico che voi tutti v’ingannate
[...]
SIGNORA SIRELLI Ma secondo lei allora non si potrà mai sapere la verità?
LAUDISI Ma sì, ci creda, signora! Però le dico: rispetti ciò che vedono e toccano gli altri, anche se sia il contrario di ciò che vede e tocca lei»15.
In seguito, Laudisi nega varie volte la pretesa di ottenere una verità dalla realtà che ci appare; ogni volta che gli altri personaggi tentano di giungere ad un punto di stabilità in qualche credenza, egli distrugge il loro misero edificio di certezze con una sonora risata, e suggerendo di creare ognuno la propria verità, senza che gli altri interferiscano in essa.
In Sei personaggi in cerca d’autore, il Padre, portavoce dell’autore, riversa sul direttore di scena tali parole:

«Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!»

Oppure ne La signora Ponza e il signor Ponza, suo genero l’impossibilità di comprendere si sintetizza nella frase: «a chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov’è la realtà? Dove il fantasma?». Ancora, ne Novelle per un anno, si trova: «Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscere è morire»16, frase che condensa l’impossibilità conoscitiva dell’uomo pirandelliano, disperso in un universo ostile e vuoto, come ad esempio si può anche osservare nella novella Di sera, un geranio, che suggerisce l’inconsistenza della vita umana17.

Il relativismo della conoscenza aggrava la situazione esistente fra gli uomini, che sono incapaci di comprendersi per l’assoluta differenza nell’intendere la realtà fra individuo ed individuo. Inoltre l’impossibilità comunicativa è data anche dalla “maschera”che ognuno indossa, e che gli è stata consegnata dalla società18.
Un esempio è offerto dal romanzo Uno, nessuno, centomila (1926), in cui Vitangelo Moscarda si rende conto che l’idea che ha di se stesso non corrisponde affatto a quella che gli altri si sono fatti su i lui. Questo provoca una serie di reazioni a catena in cui il protagonista perde tutte le certezze su di sé, sui rapporti con gli altri, sul mondo. Alla fine si ritroverà ricoverato in ospedale come malato di mente. In un suo pensiero Moscarda, riferendosi alla moglie, afferma:

«Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengé [è il soprannome datogli dalla moglie] più che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei! E non era mica un fantoccio! Se mai, il fantoccio ero io...»; ed aggiunge: «Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di fusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data. [...] tanti Moscarda e tutti più reali di me che non avevo per me, ripeto, nessuna realtà».

Il protagonista simboleggia quindi l’impossibilità di comunicare agli altri ciò che siamo realmente, riconoscendoci nell’immagine “relativa”che gli altri si fanno di noi.
Penso che le parole più significative per esprimere questo atteggiamento di impenetrabilità dello spirito umano siano quelle pronunciate dal protagonista dell’Enrico IV:

«[...]questa cosa orribile fa veramente impazzire: che siete accanto ad un altro, e gli guardate gli occhi [...] potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate, ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca...»19.

Si osserva che gli altri hanno di noi un’immagine filtrata, attraverso schemi che non sono i nostri, aggravando quel vuoto interno che si allarga costantemente dentro di noi.

Un simile atteggiamento nei confronti della realtà appare nelle pagine scritte da Italo Svevo, autore de La coscienza di Zeno e Senilità, opere che hanno influenzato fortemente la narrativa italiana, anche se all’inizio non furono apprezzate né dalla critica, né dal pubblico. In questo autore, però, la conoscenza sembra in parte possibile, soprattutto nei “malati”, che obbligati a restare costantemente a contatto con il male, sono capaci di indagare se stessi; le conclusioni dei loro ragionamenti sono però sempre negative e fallimentari, tese a mettere in mostra la caducità delle certezze umane e della speranza di una realizzazione di se stessi, in contrasto con il tema dell’inettitudine, massicciamente presente nell’autore triestino. L’accettazione della nostra impotenza nell’agire è totale, ma al tempo stesso rassegnata. L’incomunicabilità fra i personaggi sveviani è accentuata, a mio giudizio, dal fatto che Svevo prediliga il monologo interiore, troncando quelle esili possibilità di dialogo, che invece sono ancora presenti in Pirandello. Il monologo rappresenta la fine dei rapporti umani, la chiusura in se stessi per rifugiarsi in un microcosmo interiore, che alimentiamo, ma che non può recarci reale conforto.

Allo stesso modo un’incomunicabilità di fondo è presente anche nell’opera Dubliners di Joyce. Questo autore ha molte affinità con Svevo, ma anche con Pirandello: i suoi personaggi sono pervasi da un torpore non soltanto fisico, ma soprattutto mentale, che impedisce loro di recepire appieno il mondo che li circonda. Non si capiscono: i giovani hanno continui contrasti con gli adulti; uomini e donne rimangono sempre distanti fra di loro: i rapporti sono cristallizzati in una forma che impedisce una vera comunione di idee. Ad esempio ne Una piccola nuvola, il protagonista, Little Chandler, nell’incontro con l’amico Gallaher, è scaraventato in una posizione di inferiorità nei confronti del conoscente che ha una brillante carriera a Londra. Questa sua inettitudine nell’affrontare la vita ed il lavoro, gli impediscono al tempo stesso di comprendere la visione che Gallaher ha della vita: un insieme di situazioni che devono essere sempre sfruttate appieno, anche a costo di sacrificare le proprie radici, i valori che la terra di origine ci ha trasmesso. Anche nel breve racconto Il Morto i personaggi che dominano la scena, una giovane coppia, sono presentati come separati da un velo impenetrabile, costituito dal passato della donna; questa ricorda un giovane da lei amato, morto giovanissimo, che sembra sottrarla per un istante dal suo amante attuale. L’atmosfera che domina la scena è oscura, soffocante, gravida della consapevolezza di non poter conoscere appieno chi ci è di fronte.

L’impossibilità di conoscere e la conseguente incomunicabilità fra gli uomini è ripreso anche quaranta anni dopo le esperienze letterarie di Joyce e degli autori italiani, da Gorge Orwell. In 1948 l’autore inglese analizza non tanto la relatività della conoscenza, quanto l’impossibilità di apprendere che è imposta da un regime totalitario che cancellando il passato, annienta la democrazia e la libertà dei cittadini. Lo slogan del partito dominante è : «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza». Il terzo punto è significativo, forse più degli altri: tramite l’ignoranza, la soppressione della consapevolezza del nostro passato, siamo completamente in balia del potere, in un presente senza inizio e senza fine. Il partito non permette di comunicare nemmeno con i posteri: è proibita ogni forma di scrittura; la “maschera pirandelliana” è qui presente, ma in veste diversa: mentre nell’autore italiano ognuno porta un diverso tipo di maschera (l’incapace, l’avvocato, il padre di famiglia, il pazzo...), qui tutti sono identici: l’espressione del viso non deve comunicare alcun sentimento, ogni emozione deve essere soppressa. Ogni gesto è scrutato dalla psicopolizia che non permette alla gente di pensare con la propria mente, ma solo attraverso le direttive del partito.
Sapere e non sapere qui non sono complementari, ma coincidono: «l’ortodossia è non pensare». La relatività della conoscenza è data dal fatto che il partito offriva sempre nuove notizie in contraddizione fra di loro; due più due non dà necessariamente quattro, ma può dare cinque, se questo è ciò che vuole il potere centrale.
I rapporti umani sono polverizzati, il protagonista, Wiston, deve incontrarsi segretamente con la donna che ama per non essere arrestato. I cittadini dell’Oceania (il “super-stato” di Wiston) non possono avere contatti con quelli degli altri stati, in quanto altrimenti sarebbero cancellate le convinzioni che il partito ha indotto in essi nei confronti dei nemici.
Alla fine del romanzo, Wiston, l’ultimo uomo che era capace di pensare nella sua società, è incarcerato, torturato e la sua mente è cancellata, così come la sua capacità di interpretare le informazioni che gli vengono fornite. Le sue convinzioni cadono a pezzi sotto le armi della psicopolizia ed infine anche lui ama il Grande Fratello, il simbolo del potere, ma anche quello dell’ignoranza, della mistificazione e della distruzione dei rapporti umani.

Nel quarto punto del percorso ho posto il pensiero di Agostino, un autore latino che ancora oggi affascina per la sua chiarezza espositiva e per la capacità introspettiva di analizzare le situazioni spirituali che accompagnano gli eventi della vita quotidiana. Il riferimento a tale autore può contrastare in parte l’”anima” del percorso stesso: Agostino riesce a trovare la verità immutabile ed eterna che risiede in Dio, maestro interiore di ogni uomo; ma la mia attenzione si è concentrata non tanto su questo aspetto, quanto sulla ricerca precedente al raggiungimento di tale verità. Il vescovo di Ippona dovette attraversare, nel suo passato, situazioni spirituali molto differenti fra di loro, come il manicheismo o lo scetticismo della Nuova Accademia.
Nella contrapposizione manichea di Bene e Male, Agostino sperava di trovare una spiegazione razionale della realtà e del rapporto che lo spirito ha con essa. Esauriti gli entusiasmi per le teorie di Mani, cadde nella crisi del dubbio, sperimentando l’ansia dolorosa di chi ha perso la verità e non sembra più in grado di raggiungerla: un atteggiamento molto simile a quello dei pensatori di inizio Novecento, durante la “crisi dei valori”. In seguito, grazie anche ai colloqui con Simpliciano, padre spirituale di Ambrogio, giunse all’accettazione di Cristo. Nel suo cammino vide che lo scetticismo era un punto importante di partenza, ma non di arrivo. Alla fine di questo travagliato percorso in cui, egli afferma «Queste riflessioni mi opprimevano e [...] mi soffocavano»20, incontra la fede cristiana.
Anche per questo nelle sue riflessioni sul ruolo della letteratura21 sostenne che gli scrittori devono affermare la verità, le lettere sono strumento di lotta, votata a mettere in mostra le potenzialità della parola di Dio: questa è capace di dare una risposta a tutti i quesiti dell’uomo, come una sorgente di verità.
Agostino mi ha permesso di evidenziare che il cammino della conoscenza umana è pressoché circolare: da una prima ricerca della verità, come quella descritta nelle Confessioni, si giunge a posizioni di certezza, come il legame alle idee manichee, per poi giungere al distruzione, al crollo di tali convincimenti, che vengono sostituiti dallo scetticismo nei confronti di tutta la realtà. Punto finale, nella ricerca di Agostino, è il raggiungimento di una spiegazione soddisfacente soltanto nella figura di Dio; tutto è sintetizzato nella frase delle Confessioni: «inquietum est cor nostrum donec requiescat in te», parole che posso ritornare attuali, nei nostri giorni, che privi di punti di riferimento, vedono nell’aldilà l’unica certezza per l’uomo.

Questo percorso indaga quindi quelle che sono le origini e gli sviluppi della relativizzazione della conoscenza, partendo dalla crisi dei valori di inizio Novecento, con i suoi risvolti nelle scienza e nella letteratura. Questo processo prosegue ancora nella nostra epoca. In un tempo fatto di tecnologia, processori sempre più veloci, organismi transgenici, incerto di ogni traguardo raggiunto, non si può che evidenziare la profonda crisi che ci circonda: le nostre conoscenze sono sempre più accurate, matematizzate, ma si dimostrano costantemente soggette a critiche e correzioni, che possono stravolgerle in ogni momento, specialmente nelle scienze.
Ci sono voluti duemilaquattrocento anni, studi in tutti i campi, ricerche, esperimenti, stesure di leggi, magie, ragionamenti che scuotono anche i cervelli migliori per giungere a quale conclusione? Che l’unica cosa che possiamo sapere è quella di non sapere, come disse Socrate22, dall’alto della sua umiltà.

Bibliografia
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T. Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1982
1 Cfr. I. Kant, De mundi sensibilis atque intelleggibilis forma et principiis del 1770.
2 Cfr. Voltaire, Dizionario filosofico, Einaudi, Torino 1995, p. 68. La voce citata comparve nella prima edizione del 1764.
3 Nel suo libro La psicologia delle folle.
4 Nell’opera La ribellione delle masse.
5 È necessario dire che la poetica del futurismo, al di là degli sbocchi pratici e politici della loro predicazione in favore della violenza (quasi tutti i futuristi saranno prima interventisti, per amore dell'avventura e per il fascino della guerra considerata «sola igiene del mondo», e dopo fascisti), nell'ambito letterario ha esercitato, forse per prima, una notevole funzione di rottura e ha portato agli estremi esiti il processo di destrutturazione delle forme poetiche già avviato dal Romanticismo. Ma a questo scardinamento delle forme della tradizione contribuiscono in questi anni anche i poeti crepuscolari con l'adozione di un linguaggio antiletterario (o con un'abile contaminazione di letterario e di parlato) e con l'ironico trattamento a cui sottopongono strutture metriche e rime. Per le scelte tematiche essi si contrappongono ai futuristi: cantando i luoghi e i riti della vita di provincia, la tristezza domenicale, gli arredi del salotto buono borghese, i crepuscolari fondono la nostalgia per il tempo antico con la consapevolezza che esso non è più proponibile e ripetibile. adottano l'ironia e l'autoironia.
6 Cfr. Paul Verlaine, Oeuvres poétiques complètes, Bibliotheque de la Pléiade, Gallimard, Parigi 1968, traduzione dal francese di G. Armellini.
7 La narrativa di inizio secolo accoglie un “classico” del Novecento, Il fu Mattia Pascal di Pirandello, nel quale i temi di fondo del Decadentismo, quali la problematicità della condizione dell’uomo nella vita associata, l’impossibilità di realizzarsi, la solitudine, si accompagnano al superamento dei metodi della narrativa ottocentesca.
8 Pascoli, Pirandello.
9 Svevo.
10 Nella seconda metà del secolo si riproposero temi quali l'inautenticità della società capitalistica, la standardizzazione della parola e quindi l'impossibilità della comunicazione, la mercificazione dell'arte dovuta all'industria culturale. Esponenti di questa contestazione sono i componenti delle avanguardie storiche: il Gruppo 63 con Pizzuto, Manganelli ed i poeti Sanguineti, Porta, Pagliarani, per i quali ad un mondo privo di senso non può che corrispondere una rappresentazione priva di senso, negata alla comunicazione.
11 Cfr. T. Khun, La struttura delle rivoluzione scientifiche, Einaudi, Torino 1982.
12 Cfr. Musil, L’uomo senza qualità, Mondatori, Milano 1995, p. 105.
13 Grazie agli studi di inizio secolo il tema della psicologia è entrato anche in ambito letterario; si è visto che l'autocoscienza è solo una porzione esigua della psiche. Questa tesi è al centro della psicoanalisi o psicologia del profondo di Sigmund Freud (1856-1939). Freud ridisegnò la struttura dello spirito umano, rovesciando una tradizione millenaria che aveva dato scarso peso ai fenomeni del subconscio. Studiando il sogno e i fenomeni patologici dell'isteria, egli scoprì uno strato del soggetto che non perviene dalla coscienza (“inconscio”), ma che interferisce in vario modo con la vita cosciente. Così la vita cosciente è sovente una “razionalizzazione” e un “mascheramento” di motivi profondi. Questi motivi Freud ricondusse alle primitive pulsioni della vita infantile, ai suoi bisogni primari sostanzialmente egoistici, che continuano sempre ad intervenire nella vita dell’adulto.
14 Cfr. Luigi Pirandello, L’umorismo.
15 Cfr. Luigi Pirandello, Così è (se vi pare), Mondatori, Milano 2001, p. 73.
16 Cfr. Idem, Novelle per un anno, “La carriola”, Newton, Roma 2001, p. 998.
17 Tema ripreso anche ne Il fu Mattia Pascal, romanzo nel quale il protagonista vede svanire ogni possibilità di conoscenza di se stesso e di affermarsi nella società, escluso da tutti; in un punto della narrazione, Mattia, residente a Roma, vedendo sulla strada la proiezione della sua ombra, non riesce a comprendere quale sia il significato profondo della sua esistenza, e si rende conto che il suo corpo, il suo spirito e la sua personalità, non sono altro che un’altra ombra, fino a giungere al punto di affermare: «L’ombra di un morto, ecco la mia vita».
18 Questi temi sono ripresi nel “teatro grottesco”. Di questo tipo di opere vengono ritenuti testi esemplari La maschera e il volto (1916) di Luigi Chiarelli (1884-1947), L'uomo che incontrò se stesso (1918) di Luigi Anonelli, Marionette che passione (1918) di Rosso di San Secondo (1887-1956). Al di là delle differenze fra queste tre opere e di sfumature e particolarità presenti in altre opere di questi tre autori o di altri minori che vengono inclusi in questa corrente, il teatro grottesco si configura come una rappresentazione strana, stridente, disarmonica della società contemporanea. Ne La maschera e il volto, un marito che in una conversazione da salotto ha proclamato il dovere di uccidere una moglie infedele, quando poi si scopre tradito non ha la forza di mettere in pratica i suoi millantati principi, ma per tener fede alla “maschera”, alla “forma”, si mette d'accordo con la moglie per fingere di averla uccisa. In Marionette che passione (i cui protagonisti sono indicati come "il signore in grigio", la "signora dalla volpe azzurra" ecc) tre esseri umani travolti dalla delusione e dal dolore si incontrano per caso in un ufficio postale e in nome dell'angoscia che li accomuna cercano di stabilire tra loro un legame che però si conclude tragicamente, ribadendo il tema dell’incomunicabilità.
19 Cfr. Luigi Pirandello, Maschere nude, “Enrico IV”, atto II, Mondadori, Milano 1993.
20 Cfr. Confessioni, VII, 3, 5.
21 In particolare nel IV libro del De doctrina christiana.
22 Cfr. Platone, Gorgia, D 5.
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