Il Neorealismo: cinema e letteratura

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Testo

Il neorealismo:
Cinema & Letteratura
INDICE DEGLI ARGOMENTI TRATTATI
• Introduzione
• Il neorealismo in letteratura
• Cesare Pavese
• La luna e i falò (scheda del libro)
• La Beat Generation
• Jack Kerouac
• On the road (brano dell’opera)
• Il neorealismo nel cinema italiano
• Breve storia del cinema
• La seconda guerra mondiale
• L’Eugenetica
• Manifesto di bioetica laica
• Eugenetica in bianco e nero
• Bibliografia
• Mappa concettuale
Introduzione
Il dibattito politico–culturale che si svolge in Italia tra le due guerre, ha inizio in una particolare condizione storica del nostro paese, quale era venuta a crearsi soprattutto con l’avvento del fascismo.
Il nuovo regime, infatti, fa sentire la sua soffocante influenza sugli intellettuali con il richiamo all’ordine e con La ronda ripropone il modello di cui i classici propugnando una prosa d’arte il cui fine è quello di raggiungere una forma perfetta, non certo di volgersi ai problemi della realtà sociale e di stabilire un rapporto fra scrittore e vita nazionale. Il selvaggio, forse la rivista di letteratura più vicina al regime, si fa portavoce di un movimento di cultura e di costume noto con il nome Strapaese che contrappone al cosmopolitarismo e all’esterofilia le forme più nobili della tradizione italiana.
Una ben diversa concezione dell’attività letteraria è invece teorizzata da Antonio Gramsci che su Ordine Nuovo e in una serie d’appunti pubblicati, poi nei quaderni del carcere, delinea il nuovo ruolo dell’intellettuale quello cioè di una partecipazione attiva ai problemi della società.
Il teorico marxista pone in luce la costante frattura tra intellettuali e popolo, da ciò la mancanza di opere che rispondono alle esigenze della collettività e che siano solo espressione di una cerchia d’intellettuali.
Così Gramsci arriva al concetto di una letteratura nazional-popolare, dove gli scrittori hanno una funzione educatrice facendo propri i sentimenti popolari.
Qualificante poi per la nuova figura d’intellettuale è la dimensione politica: egli è “organico”, cioè inserito nella vita politica e sociale, in modo da agire sull’ideologia e il costume spingendo all’impegno.
Sulla rivista Solaria si va poi delineando il quadro vario e complesso della nuova letteratura italiana: accanto a scrittori che si rifugiano nella memoria astraendosi dalla realtà, altri si aprono invece ai problemi sociali acquistando gradatamente una più netta consapevolezza del proprio ruolo d’intellettuali.
Secondo alcuni il Neorealismo fu un movimento che si nutrì di un modo nuovo di guardare la realtà, di una nuova morale e di una nuova ideologia, che erano proprie della rivoluzione antifascista.
In quanto in esso vi fu la consapevolezza del fallimento della classe dirigente e del nuovo ruolo che per la prima volta nella storia si erano conquistate le masse popolari.
Si proponeva allora rispetto alle prime avanguardie del `900 di rompere gli schemi culturali di questa classe dominante.
Il neorealismo in letteratura
Il crollo del fascismo, l’esperienza della resistenza, il ritorno alla vita democratica incidono profondamente, a metà degli anni ’40, sull’attività culturale e letteraria. Il dibattito politico-culturale ferve con particolare vivacità sulle riviste –dal Politecnico a Rinascita, dal Ponte a Belfagor- e i letterati cercano di ridefinire il loro ruolo di fronte alla mutata situazione politico-sociale: si riesamina la letteratura del ventennio, se ne condanna la raffinatezza elitaria, l’assenza di rapporti con la realtà, e per reazione si elabora la poetica dell’impegno, cioè si desidera e si tenta una nuova letteratura che abbia concreti legami con la realtà sociale e sia denunzia e strumento per cambiarla.
Le origini del neorealismo in letteratura risalgono agli esperimenti di alcuni scrittori (Moravia, Vittorini, Pavese), che nel decennio precedente il secondo conflitto mondiale superarono la generale sfiducia verso il romanzo, nei limiti consentiti dalla situazione politica italiana, e tentarono una narrativa volta alla rappresentazione della realtà sociale contemporanea nei suoi aspetti proletari e borghesi.
La posizione di questi scrittori determina una ripresa democratica che ha ripercussioni notevoli sul piano culturale, diventando una vera e propria letteratura d’opposizione, di un orientamento realistico; questo nuovo corso si suole indicare con il nome di Neorealismo (termine introdotto nel 1930 dal critico militante Antonio Bocelli ad indicare un’arte volta all’analisi dell’ambiente sociale e all’oggettivismo psicologico).
Il Neorealismo non è né una scuola né un gruppo di scrittori operanti secondo un programma e una poetica comuni, ma una tendenza della nuova narrativa che presenta aspetti e caratteri molto complessi e talvolta contraddittori.
Il denominatore comune va ricercato soprattutto nelle riprese del romanzo, come genere letterario antitetico alla lirica soggettiva e alla prosa d’arte, ritenute entrambe lontane dalla realtà.
E’ ovvio dunque, il recupero dei modelli realistici ottocenteschi soprattutto del Verga, ignorati dalla cultura decadente del primo novecento.
I precedenti della cultura neorealistica sono stati ricercati in quegli scrittori che, dopo il `30 in polemica con il fascismo, parevano aver realizzato gli ideali della nuova generazione e che da ora, dopo il `45 operavano anch’essi nella nuova direzione, anche se oggi pare che in essi prevalessero i moti lirici e la sensibilità caratteristica del decadentismo.
Rientrano nel neorealismo molti scrittori anche occasionali, sulla resistenza, diari di prigionia, testimonianze sulla guerra che si pubblicarono dopo il `45 e s’imposero il gusto per uno stile nudo e scarno estraneo agli artifici letterari, aspirante all’immediatezza e alla semplicità.
E’ innegabile quindi che negli scrittori neorealistici avendo per la maggior parte scritto nel dopoguerra, troviamo una letteratura influenzata dal pensiero Marxista e Gramsciano, ma è pure evidente che il Neorealismo accolse in sé molti temi cari alla letteratura intimistica e all’autobiografismo.
Ed è grazie ad esso che scomparvero i residui di gusto vociano e rondista a lungo presenti nella prosa del Novecento.
Gli anni di fioritura del neorealismo iniziano nel 1929/30, con la pubblicazione di Gli Indifferenti di Alberto Moravia, Fontamara di Ignazio Silone, Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro. Verso la metà degli anni '50 si andarono però evidenziando i limiti entro i quali si era mossa l'intera esperienza neorealista e che riguardavano sia la scarsa coscienza stilistica, sia la generica prospettiva ideologico-politica che non andò mai al di là della vaga proposta di un radicale cambiamento sociale, privo però di precisi connotati scientifici e storici.
Una tappa importante verso l'affermazione del neorealismo fu certamente la pubblicazione in Italia di un'antologia di narratori statunitensi curata da Vittorini, intitolata Americana. Anche grazie alle traduzioni di Pavese e Vittorini, entrarono così con successo in Italia scrittori come Melville, Dos Passos, Steinbeck, Faulkner, Caldwell, che diventarono modelli molto seguiti.
Punti salienti che distinguono il neorealismo dai precedenti movimenti:
• Coincide con la letteratura dell'antifascismo, della guerra, della Resistenza, della sorte postbellica affermatasi nel secondo dopoguerra, in quanto revisione e riscatto dei valori morali e civili che la politica fascista e la sua avventura internazionale avevano adulterato;
• Nasce da una consapevolezza e una responsabilità che imponevano all'arte e in generale alla cultura un impegno preciso, intendendo farle partecipi di una radicale promozione etica dell'individuo e della comunità. Non si trattava tanto di riadottare i vecchi schemi del naturalismo e meno che mai di rispolverare gli abiti ormai smessi del provincialismo, quanto di conseguire, attraverso la rappresentazione di verità locali e dirette, una più attiva cognizione della problematica extranazionale, per sentirsi vivere nuovamente nel circuito della cultura europea e cosmopolita;
• Rappresenta la realtà contemporanea della guerra, della Resistenza e del dopoguerra, per dare una testimonianza artistica di un'epoca che segnò tragicamente la vita di tutto il popolo italiano;
Proprio il bisogno di rappresentare direttamente storie di vita vissuta in prima persona sia dagli scrittori sia dai lettori comportò:
1) Scelta della prosa a scapito della poesia;
2) L'adozione di un linguaggio tendenzialmente chiaro e comunicativo;
3) Il rifiuto della tradizione letteraria della pagina ben scritta di moda negli anni Trenta;
La letteratura concepita dagli autori neorealisti era una letteratura impegnata: non opere di svago ma libri che aiutassero a prendere coscienza della situazione contemporanea meditando sulla recente storia nazionale, facendo tesoro dell'esperienza in vista della ricostruzione di un'Italia nuova, democratica e antifascista. Per rispondere a queste esigenze ci fu una serie d’iniziative non strettamente letterarie ma culturali. La rivista più importante fu Il Politecnico di Elio Vittorini, che aveva un'apertura d’interessi internazionale; mentre diversi scrittori s’impegnarono nel mondo dell'editoria per tradurre in pratica la loro visione della cultura. Vittorini fu insieme a Cesare Pavese tra i più influenti collaboratori della casa editrice Einaudi di Torino e diresse un'importante collana di narrativa, I Gettoni, in cui furono pubblicati molti titoli neorealisti.
I libri neorealisti, proprio per l'ampiezza del movimento e le sue caratteristiche non esclusivamente colte, sono molto numerosi e molto diversi fra loro. Di seguito, alcuni titoli che rendono conto della varietà d’argomenti e di stile che il Neorealismo racchiude:
➢ In Conversazioni in Sicilia (1941), Vittorini racconta il viaggio in treno di un intellettuale diretto da una città del Nord in Sicilia per far visita alla madre. Il viaggio è simbolico: chi racconta incontra personaggi emblematici, portatori di una saggezza antica che ha il compito di riscattare il "mondo offeso" dei poveri.
➢ In Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi la storia autobiografica dell'esilio politico dell'autore in Lucania è raccontata in modo misto: a parti saggistiche si alternano momenti lirici e ritratti espressionisti.
➢ Se questo è un uomo, è il resoconto-testimonianza di Primo Levi della vita di internato nei lager tedeschi.
➢ In Cronache di poveri amanti, Vasco Pratolini traccia un quadro d'assieme della vita di un quartiere di Firenze nel periodo in cui il fascismo si sta consolidando.
➢ In Il compagno Cesare Pavese racconta con uno stile spezzato e di tipo popolare la storia ambientata fra Roma e Torino della maturazione umana e politica di un operaio in epoca fascista.
➢ In Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, la chiave rappresentativa è diversa: con un piglio favolistico e leggero, la Resistenza armata è raccontata dal punto di vista distaccato di Pin, un bambino al seguito dei partigiani sulle colline liguri.
➢ In I ventitré giorni della città di Alba (1952) di Beppe Fenoglio, una raccolta di dodici racconti, si narra in uno stile asciutto ed essenziale, teso e impassibile, la storia del presidio partigiano che tenne libera la città nell'autunno del 1944.
➢ In Il mare non bagna Napoli (1953) di Anna Maria Ortese, sono raccolti due racconti e tre pezzi di cronaca. L'ambientazione è napoletana, e si passa dal crudo ritratto di individui emarginati in preda alla fame e alla disperazione al reportage fra gli intellettuali della città.
Il neorealismo si chiuse con una polemica che riguardava il romanzo di Pratolini Metello (1955), da alcuni difeso come opera esemplare di un nuovo realismo, da altri considerato un romanzo fallito soprattutto per la rappresentazione idealizzata e sentimentale della classe operaia. Il romanzo racconta le lotte sociali in Italia fra 1875 e 1902 attraverso la figura positiva dell'operaio protagonista.
Cesare Pavese (1908-1950)
Lavorò come funzionario e consulente presso la Casa Editrice Einaudi che negli anni Trenta e Quaranta ebbe una parte di primo piano nell’elaborazione di una cultura moderna e progressista; fu per qualche anno confinato in Calabria per antifascismo; giunse alla fama dopo la guerra; mori suicida nel ‘50: ma il suicidio se l’era portato lungamente in sé, come, disse lui stesso, un male occulto.
Cominciò con un volume di versi (Lavorare stanca, 1936), che, per la materia (una Torino di periferia dove la città già diventa campagna), per i personaggi (operai, giovani contadini, prostitute), per il tono apparentemente prosastico e realistico, si staccava dalla lirica ermetica allora dominante. Ma già nel corso del libro, e meglio ancora in liriche successive al ‘36, è evidente il passaggio a una maniera diversa, nella quale l’essenziale è non più raccontare, ma “descrivere una realtà non naturalistica ma simbolica”. Perciò il volume dei versi prefigura già tutta la sua opera successiva, della quale dette lui stesso una sintesi e una definizione assai penetranti: « L’avventura dell’adolescente (scrisse a proposito del libro di versi, ma la definizione calza per tutta la sua opera) che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine, e vi rimedia col sesso e la passione, che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza ».
Così, il tema dell’opera di Pavese è quello decadentistico della solitudine interiore, dalla quale si vuole e non si può uscire. Pavese tentò di uscirvi, nella realtà vissuta attraverso l’amore e la partecipazione alla vita sociale, ma non è senza significato il fatto che il suo libro più debole sia proprio quel romanzo (Il compagno, 1947) che voleva essere la storia di chi ritrova se stesso nel Partito, cioè nel legame politico con altri. Così, fallito il tentativo di rapporti sociali, falliti i vari tentativi di amore, Pavese si uccise, e il suo suicidio fu il suggello a quei fallimenti, la riprova della sua incapacità a vivere.
Anche nell’opera tentò di uscire dalla solitudine attraverso il racconto di uomini (proiezione sempre del suo dramma) che si trovano coinvolti in vicende collettive come l’attività clandestina, il confino, la guerra partigiana, ma che non riescono a stringere con gli altri un rapporto che riempia il vuoto che è in loro, e che è, al di là di ogni contingenza di storia, un vuoto esistenziale, una solitudine che è maledizione eterna per l’uomo.
Dietro lo schema narrativo, come dietro l’apparenza realistica (le colline piemontesi, specie le sue Langhe native; Torino; la guerra; la lotta partigiana), vi è una sostanza diversa, di cui lo scrittore era perfettamente consapevole, e che definì in un suo diario (Il mestiere di vivere, 1952, postumo) e in un suo volume di Dialoghi con Leucò (1947). Sostanza dell’arte, scrisse Pavese, è il «mito», cioè «un fatto avvenuto una volta per tutte, che perciò si riempie di significati, e sempre se ne andrà riempiendo...: è fuori del tempo»; il «mito», che è proprietà della giovinezza dell’uomo e del mondo, ma che poi l’uomo singolo e l’umanità ritrovano più tardi, nella loro maturità, e si sforzano di decifrare. L’arte, quindi, è creazione di miti e, accostarsi all’opera d’arte significa «discendere nella tenebra feconda delle origini dove ci accoglie l’universale umano», «respirare un istante l’atmosfera rarefatta e vitale, e confortarci alla magnifica certezza che nulla la differenzia da quella che stagna nell’anima nostra o del contadino più umile».
Da ciò quell’aura assorta, tra lirica e mitica, che circola nei libri di Pavese, anche dove sembrano più realistici: i contadini di Paesi tuoi (1941, il libro che, in un certo senso, lo rivelò) o della Luna e i falò (1950) possono sembrare realistici, modellati su quella letteratura americana della quale Pavese fu conoscitore, ammiratore, traduttore; come realistica può parere la loro lingua, tramata di dialetto e, dov‘è necessario, di gergo; come realistiche possono sembrare le storie di Casa in collina (1947-’48), Tra donne sole (1949), La bella estate (19.49). Ma ciò che conta veramente sono le atmosfere che trasfigurano liricamente ambienti e cose, la sostanza mitica di cui i racconti trattano, la lingua, che «è tutt’altra cosa da un impressionismo naturalistico». Scrivere, disse, significa «mettere nelle parole tutta la vita che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla»: che non è, certo, la poetica compiaciuta letteraria degli scrittori d’arte, ma non è nemmeno la poetica naturalistica del neorealismo impegnato; è piuttosto la poetica di un alto decadentismo, che dietro le apparenze labili vuole scorgere rotti ancestrali ed eterni, e nelle creature più umili scopre, al di là della storia, un universale umano, da rendere con strumenti di lingua e di stile atti a trasfigurare il reale.
La luna e falò (scheda del libro)
di Cesare Pavese
Prima edizione Aprile 1950 nella collana “I coralli” di Einaudi
Personaggi (in ordine di apparizione)
• Protagonista: Anguilla È un personaggio fantastico impersonato da Pavese, che ritornando al suo paese, ricorda la vita da ragazzo. Nel romanzo ha 40 anni, ed è visto come un uomo molto legato ai ricordi. Viene molto spesso indicato con il termine bastardo, poiché era stato abbandonato sugli scalini del duomo d’Alba ed adottato in seguito da Virgilia e Padrino che venivano pagati apposta per ciò. Fino a tredici anni lavorò al casolare di Gaminella dove viveva con i genitori adottivi, poi andò a lavorare alla cascina della Mora dove ci rimase fino a quando andò a Genova per arruolarsi.
• Personaggi primari:
Nuto, è il miglior amico d’infanzia di Anguilla ed è una persona dalle molteplici capacità che ha svolto tantissimi tipi di lavoro. Nel romanzo non è descritto fisicamente; l’età si può ricavare dalle affermazioni che fa il protagonista (“…lui che ha tre anni più di me…”). Suona.il clarinetto. E’ un uomo che, come viene detto nel romanzo, “che di tutto vuol darsi ragione” e sostiene che “il mondo è mal fatto e bisogna rifarlo”. A questo personaggio l’autore affida il suo moralismo e la sua ansia di liberazione umana. Rispetto ad Anguilla svolge un ruolo di completamento e di opposizione. Non è mai andato in giro per il mondo e la sua realtà è stata sempre quella di del contadino di paese.È sposato con la moglie Comina ed ha un figlio piccolo.
Valino, ha lavorato per 60 anni da mezzadro; è vedovo con figli (i più vecchi gli morirono in guerra), nel romanzo vive alla cascina di Gaminella con un figlio di dieci anni (Cinto), la madre della moglie Mentina e la cognata (Rosina). Lavora alla cascina per conto della madama della Villa. Si suiciderà impiccandosi, dopo aver ucciso le donne e bruciato la cascina, nel xxvi° capitolo.
Cinto, era un ragazzino rachitico (a causa di una malattia ossea) che fa da Cicerone ad Anguilla. Suo padre Valino era una sorte di padre-padrone e molto ingiusto. Anguilla affida il bambino alle cure dell’amico Nuto. L’adulto si identifica nel bambino e cerca di trasmettergli la voglia di fuggire.
sor Matteo, possedeva una cascina alla Mora. Ha tre figlie, due (Silvia e Irene) dalla prima moglie e una (Santina) dalla seconda moglie, Elvira. Non lavora la terra ed ha al suo servizio diverse persone, tra cui il protagonista e Nuto.
Silvia, è la prima delle figlie di sor Matteo, nel romanzo è descritta sia fisicamente sia per quanto riguarda il carattere: bella donna con capelli ed occhi neri, molto “attiva”. Era una ragazza che si offrì a molti ragazzi e tra questi c’era un motociclista (Matteo di Crevalcuore) che la lasciò per mettersi con un'altra, in seguito si mise con un ricco ragioniere di Milano in confidenza con il podestà, ma dopo poco tempo finì anche questa storia. Rimase incinta e dovette abortire e a causa di un'emorragia morì.
Irene, anch’essa è descritta come una bella donna con i capelli biondi; suonava il piano ed era più “calma” di Silvia. La sua vita sentimentale fu abbastanza sfortunata. Infatti, si sposò con Cesarino che morì; dopo la morte di suo padre e sua sorella Silvia fu costretta a sposare Arturo, ma anche questo matrimonio si concluse tragicamente. Prima di sposarsi fu anche colpita dal tifo ma riuscì a guarire. Lei insieme a sua sorella Silvia erano sempre rimaste nella memoria di Anguilla anche se è stato lontano per parecchio tempo.
Santina (Santa), E’ la più bella delle tre figlie di sor Matteo, la fine del 31° capitolo e tutto il 32° capitolo le sono dedicati. Alla fine del romanzo, quando si trova il vero tema del falò, viene uccisa mentre aveva indosso un vestito bianco, che può essere intesa come una veste sacrificale. Si era fidanzata con uno dei militari delle brigate nere; un giorno fu presa dai partigiani, venne fucilata, cosparsa di benzina e con lei venne acceso un falò.
• Altri personaggi:
Cavaliere, figlio del Cavaliere che possedeva le terre del castello. Era un avvocato calvo che non lavorava; aveva perso tutto da giovane, fu abbandonato dalla moglie morta (una contessa di Torino) ed il figlio che si era suicidato giovane. Nel romanzo ha la funzione di rappresentare il presente di Anguilla, cioè quello di un uomo ormai quarantenne che nonostante abbia fatto fortuna ha ancora il ricordo nostalgico della vita passata.
Virgilia, matrigna del protagonista, è ricordata nei primi capitoli; muore durante l’infanzia del protagonista, quando lui aveva nove anni.
Padrino, padrino del protagonista, è ricordato nei primi capitoli con la madrina; morirà alla cascina di Cossano, pochi anni prima del ritorno del protagonista.
Angiolina, figlia maggiore di Padrino e Virgilia; aveva un anno in più del protagonista. Morirà, dopo essersi sposata ed aver fatto sette figli, con un tumore nelle costole.
Giulia, sorellastra minore del protagonista; si sposerà con il fratello del marito della sorella Angiolina. Morirà colpita da un fulmine alla cascina di Cossano.
Emilia, governante di sor Matteo, era la nipote del massaro.
Lanzone (massaro), servitore e “contabile” di sor Matteo.
Cirino, fu colui che introdusse il protagonista alla cascina della Mora. Morirà spezzandosi la schiena cadendo dal fienile.
Elvira, moglie di sor Matteo e madre di Santina. Cercherà di lasciare tutta la Mora in dote alla figlia.
Nicoletto, figlio di una zia di Elvira; veniva per la bella stagione alla Mora. Entrerà in possesso dell’intera cascina.
Arturo, è il figlio del medico della stazione. Faceva il filo a Irene, anche se fu il primo ad andare con Silvia. Giocava a carte ed al tiroassegno.
Il toscano, amico di Arturo, ebbe una storia con Irene.
Teresa, fidanzata del protagonista a Genova.
Nora, fidanzata del protagonista in America.
Bianchetta, fidanzata del protagonista a Canelli.
Piola, amico di Cinto, come Nuto lo era per il protagonista.
Matteo di Crevalcuore, un boscaiolo motociclista che ebbe una storia con Silvia.
Lugli, un cinquantenne con figli grandi; scappò da Silvia lasciando grossi debiti, lei lo inseguì a Genova senza però ritrovarlo.
Cesarino, conte del Nido, un nipote della vecchia del Nido.
Breve riassunto
Il romanzo esordisce con il ritorno di Anguilla al suo paese natale, Santo Stefano Belbo. Siamo nel dopoguerra e il protagonista ritorna dall’America dove vi si era recato durante la guerra. Qui Anguilla si rende conto che i luoghi non sono cambiati ma soltanto le persone che vi ci vivono. Il romanzo si sviluppa ricordando tanti episodi che ripercorre insieme al suo amico Nuto. Con lui ripercorre un passato lontano e pieno di sofferenze e visita le cittadine, le valli, dove trascorse i suoi anni migliori lasciandosi trasportare dai ricordi di giovinezza. Il racconto passa dal presente al passato, con ricordi relativi al viaggio di Anguilla in America, ma anche di quello che è successo nel suo paese.
Egli ritorna a Gaminella, dove aveva passato i primi anni della sua vita; il casotto appartiene ora al Valino, uomo burbero e violento, insieme con lui convivono due donne e un bambino rachitico, anch'egli bastardo che si chiama Cinto. Insieme a questo rivisita i beni abbandonati tanti anni prima. Camminando lungo la ferrovia Anguilla si ricorda di quando era in America e cercava di trasferirsi in Messico. Della vita in America non ha grandi ricordi, se non la certezza di “sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, e che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”. I due morti ritrovati dal Valino provocano molte chiacchiere in paese; la gente e il prete si schierano contro i partigiani e i comunisti, suscitando l'ira di Nuto. Il racconto ora passa alla descrizione della sua giovinezza. Anguilla dovette andare a lavorare, ancora tredicenne, alla cascina della Mora, dove imparò in fretta un gran numero di mestieri.Il padrone, sor Matteo aveva tre figlie bellissime: Silvia, Irene e Santina che erano l'oggetto del desiderio del giovane. Ma egli è solo un servo e il suo amore sarà sempre nascosto. Il protagonista crebbe giocando con gli altri giovani servi della Mora e socializzò soprattutto con uno più grande di lui, Nuto. I suoi unici divertimenti si fondavano nella lettura e nell'ascoltare i racconti popolari di cui Nuto era un grande conoscitore. I ricordi portano il narratore all'epoca in cui anch'egli aveva conosciuto l'amore, quando si trovava a Genova. Amava Teresa, la domestica di casa ed era felice, ma capì che era destino che non continuasse. In America ne aveva trovata un'altra, Rosanne, bastarda come lui, con la quale aveva ritrovato la felicità, ma solo per qualche mese; ella lo aveva abbandonato in cerca di gloria. Di ragazze Anguilla ne aveva conosciute tante altre, ma Silvia e Irene erano rimaste per sempre impresse nella sua memoria. Allora le giovani avevano numerosi pretendenti. La lunga serie di ragazzi con cui le due corteggiavano nei campi comprendeva Arturo, figlio di un medico, e un suo amico toscano, che non furono accettati dal sor Matteo; Cesarino di Canelli, un inetto ricco, motociclista, padrone di terre a Crevalcuore; ed ancora Arturo finché non sembrò che Irene dovesse morire di tifo. Della Mora non rimaneva più nulla. Anche il protagonista stesso si accorge di essere cambiato, trasformato dal viaggio; e mentre rende partecipe delle sue riflessioni anche Nuto, ansimando, Cinto, li raggiunge sconvolto. Il Valino, in preda all'ira ha appiccato il fuoco alla casa, ucciso la cognata frustandola con la cintura e bruciato viva l'altra donna, Cinto si è salvato perché lo ha minacciato con un coltello; infine l'assassino si è tolto la vita impiccandosi. La narrazione riprende da dove si era fermata: il motociclista lasciò la Silvia per mettersi con un'altra e Irene guarì dalla malattia. Nella casa di sor Matteo avvennero tante disgrazie: Irene rimase senza il suo Cesarino, il sor Matteo morì, Silvia, che era incinta, ricorse all'aborto e morì per una forte emorragia; Irene fu costretta allora a sposare Arturo, ma anche questo matrimonio si concluse tragicamente. Anguilla, ricorda poi, una festa di gioventù durante la quale Nuto esibiva le sue qualità di musicante; purtroppo quella sera dovette accompagnare anche le due ragazze, e per sorvegliare il cavallo non poté divertirsi anche lui. Infine giunge il momento della partenza; dopo aver affidato Cinto alle cure di Nuto, fa un'ultima passeggiata col suo amico verso Gaminella; Nuto coglie l'occasione per raccontargli come morì l'ultima delle figlie di sor Matteo, Santa. Ella, la più bella delle tre, si fidanzò con uno dei soldati delle brigate nere, però, nell'estate del '43, cadde il fascismo e cominciò a subire persecuzioni da parte dei partigiani. La giovane sembrava fedele ed era sempre informata sui movimenti dei fascisti; Baracca, il capo delle squadre partigiane della zona, aveva però intuito l'imbroglio e ordinato la cattura di Santa. Dopo averla fucilata, i partigiani cosparsero il suo corpo di benzina e con esso accesero un falò.
Lo stile
Il romanzo, per la maggior parte, è strutturato sotto forma di monologo. Infatti, l’autore descrive i suoi ricordi attraverso un racconto, ma alcune volte vi è presente anche il dialogo tra i vari personaggi. Il lessico di questo libro, usato da Pavese, non è affatto difficile, ma abbastanza semplice da capire. Talvolta ci sono dei termini, che forse fanno parte del dialetto tipico di quei luoghi, incomprensibili, ma con un po’ di intuito ci si riesce ad arrivare. Anche la sintassi è molto semplice, non è ricca di subordinate.
Commento
Questo romanzo è ambientato nell’agosto del 1948 precisamente tre anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. E’ un periodo molto difficile per l’Italia e ci si poteva accorgere delle ingiustizie della società. Il rapporto non era ingiusto soltanto tra padroni e lavoratori ma anche all’interno delle stesse classi sociali. Insomma le sofferenze erano comuni a tutti quanti. E’ ambientato in piccole cittadine non lontano da Genova. Alcuni episodi sono invece ambientati in America, dove viveva Anguilla prima di trasferirsi. I ricordi non sono ordinati in senso cronologico o spaziale, ma vengono raccontati per analogie. La narrazione può essere suddivisa in tre parti: l’arrivo; il racconto della sua giovinezza; l’impossibilità di recuperare il passato. Il racconto è descritto in prima persona, visto con gli occhi dell’autore. Il romanzo può essere anche interpretato come autobiografico.
Il romanzo non ha una precisa trama che lega un fatto con un altro, ma è un racconto eterogeneo della vita di un trovatello di campagna che partito e tornato dall’America per far fortuna, ritorna al suo paese d’origine. Qui ritrova il suo amico d’infanzia Nuto che lo mette al corrente su cosa è successo al paese durante la sua assenza. E’ un insieme di capitoli-ricordo, che raccontano la vita passata del protagonista, e capitoli-realtà che sono la cronaca giornaliera della sua vacanza di ritorno al paese. Di conseguenza anche i personaggi sono divisi tra una storia e l’altra; nelle storie sui ricordi, prevale il ricordo dell’infanzia passata a lavorare nella Cascina della Mora di sor Matteo, infatti ci sono anche due capitoli (31°-32°) dedicati a Santina, un personaggio appunto di quel periodo. Per quanto riguarda i capitoli riferiti al tempo reale, c’è la storia di Cinto che rappresenta in un certo senso l’infanzia del protagonista, l’infanzia cioè di un ragazzo di campagna che vive alla giornata e che a 10 anni sa già come si porta avanti una campagna.
Il romanzo è raccontato in prima persona, Pavese racconta la storia vestendo i panni del protagonista. I personaggi di Nuto, Cavaliere e Cinto hanno un ruolo importante, essi rappresentano momenti diversi della vita del protagonista. Nuto è il futuro, cioè la vita che il protagonista avrebbe condotto se non avesse viaggiato, una vita legata alla campagna con orizzonti limitati alle colline del paese; Cavaliere è il presente, cioè una vita che ha conosciuto il bene e il male dell’esistenza di un uomo, la vita che ora fa il protagonista; Cinto è il passato, cioè la vita che conduceva il protagonista prima di partire con la fortuna di vivere in un ambiente “puro” se pur ignorante della campagna e l’ammirazione per un amico più grande (Piola per Cinto, Nuto per il protagonista) perché “capace di fischiare o parlare con le ragazze”.
Anche la società ha un ruolo rilevante nel romanzo; tra i personaggi c’è una chiara distinzione tra i livelli di classe. La famiglia di sor Matteo rappresenta la bassa borghesia, un episodio del libro, la festa del Nido, riguarda un fatto accaduto alla famiglia che serve a dimostrare che anche i borghesi sono esseri umani. Le donne della famiglia, vedendosi non invitate alla festa del Nido che la vecchia contessa teneva ogni anno, appaiono agli occhi del protagonista come persone che si offendono ed irritano, quindi esseri sensibili. L’alta borghesia è la madama della Villa, che mira ad avere concentrato nelle proprie mani tutto il prestigio possibile, è il caso dell’incidente alla cascina di Gaminella, provocato da un dissidio fra il Valino e la madama. I contadini lavoratori, come Nuto e il protagonista, sono la classe più bassa, quella che deve servire la borghesia.
Probabilmente il fatto che il protagonista, nel romanzo, sia stato via proprio durante il periodo della Resistenza partigiana, è spiegato dal fatto che Pavese non ebbe il coraggio di partecipare alla Resistenza nel periodo che interessò il Piemonte.
The Beat Generation
Is a label which refers to a bohemian group of Arnerican writers popular in the l950s.
In the l950s after World War II, the “American dream” seemed to come true for many Americans for the first time. They were those who happily embraced the symbols and values of middle-class life (aftluence, social success, a house in the suburbs, the superiority of whites over blacks) and strongly opposed anything that was not in conformity with their views such as racial integration, communism and, social nonconformity. In this context the Beat Generation, who questioned conservative suburban values and chose an alternative way of life, carne to be regarded as a threat to established society.
The Beat movement came to maturity in the 1950s in San Francisco, California, where its leading figures were the poet Allen Ginsberg and the novelist Jack Kerouac. They had moved from New York and become associated with an exciting community of young intellectuals who rejected the contemporary commercial world: among them were the poets Gary Snyder, Gregory Corso and Lawrence Ferlinghetti. Other writers who were related to the movement included the novelists Norman Mailer and William Burroughs, and the black poet and playwright LeRoyiones, who later took the name Imamu Amiri Baraka after converting to Islam as part of his commitment to the African American cause.
The original meaning of the word “beat” was down-and-out or drop-out. At first Kerouac described himself and his friends as beat because they could not fit into the materialistic world of the time. But later he connected the word with beatitude and explained that his generation was trying to capture the secret holiness of society drop-outs and lonely misfits who are central fìgures in the Beat world. Finally, the word was extended to include the beat of jazz, a kind of music that was an important source of inspiration for Beat writers
The Beats’ life and writing were tightly intertwined. They lived on the bare essentials, were deeply concerned with non-puritan, non-conformist responses to the family, to love and friendship, and supported a non-violent pacificist commitment to social and political causes. They were influenced by Eastern religions and philosophy (Zen Buddhism, the rhythms of jazz) and used LSD and other drugs to gain access to new states of consciousness.
Their writing was both a literary and a religious experience. Jazz and drugs offered ways for them to achieve a higher spiritual connection with Nature or God as well as to experiment with new forms of expression. Ginsberg and Kerouac, in particular, broke new ground when they rejected traditional literary conventions, which they felt too tight and restrictive, and took jazz as a model, because it allowed spontaneous improvisation and unrestrained expression of emotional intensity. An integral part of their work was performance at public readings which always attracted a great number of people.
The Beats rebelled against the dominant academic culture and criticism which held a monopoly over the American literature of the 50s, and were ridiculed and treated with contempt in return. But they had also been largely influenced by established literaty figures although they eventually came to develop an original style of their own: Ginsberg was heavily indebted to the poets Walt Whitman and Williem Carlos Williams while Kerouac had modelled himself on the autobiographical novels of Jack London and Thomas Wolfe.
Traduzione
Nel 1950 dopo la Seconda Guerra Mondiale, il “sogno americano” sembra realizzarsi per molti americani per la prima volta. Erano quelli che abbracciavano i simboli e i valori di vita borghese (l’abbondanza, successo sociale, una casa nei sobborghi la superiorità dei bianchi sui neri) ed erano contro qualsiasi cosa che non era conforme con i loro principi come l’integrazione razziale, il comunismo e, il non-conformismo sociale. In questo contesto la Beat Generation che mise in dubbio valori suburbani e conservativi e scelse un modo alternativo di vita, divenne una minaccia alla società stabilita.
Il movimento Beat venne a maturità nel 1950 a San Francisco, California dove le sue figure principali erano il poeta Allen Ginsberg e il romanziere Jack Kerouac. Questi si erano mossi da New York associandosi con una comunità eccitante di giovani intellettuali che rigettarono il mondo commerciale e contemporaneo: fra loro i poeti erano Gary Snyder, Gregory Corso e Lorenzo Ferlinghetti. Altri scrittori che furono riferiti al movimento inclusero i romanzieri Mailer Normanno e Guglielmo Burroughs, e il poeta nero e drammaturgo LeRoyiones, che più tardi prese il nome Baraka di Amiri di lmamu dopo essersi convertito all’islam come parte del suo impegno alla causa americana e africana.
Il signiticato originale della parola beat era “al verde” o “goccia-fuori”. Kerouac per primo e i suoi amici si descrissero come beat perché non accettavano la società del tempo. Più tardi Kerouac connesse la parola con beatitudine, e spiegò che la sua generazione stava tentando di catturare la santità segreta della società e dei disadattati solitari che sono figure centrali nel mondo Beat. Finalmente, la parola fu estesa a includere il ‘ beat-jazz, un genere di musica che era un’importante fonte d’inspirazione per scrittori Beat.
La vita e gli scritti della Beats furono ermeticamente attorcigliati. Videro sul nudo essenziale, profondamente legato con non-puritano, risposte del non-conformista alla famiglia, amore e amicizia, e sostenevano la non-violenza. Furono influenzati da religioni Orientali e filosofia (Buddismo di Zen, i ritmi di jazz), fecero uso di LSD e altre droghe per arrivare a nuovi stati di coscienza.
La loro scrittura era in ambito letterario un’esperienza religiosa. Jazz e droghe offrirono modi per realizzare un collegamento spirituale e più alto con la Natura o Dio così come sperimentare con forme nuove d’espressione. Ginsberg e Kerouac, in particolare, presero il jazz come un modello, perché permise l’improvvisazione spontanea e l’espressione non repressa d’intensità emotiva.
La Beat si ribella contro la cultura accademica dominante e critica che tenne un monopolio sulla letteratura americana del ‘50, e fu messa in ridicolo e trattata con disprezzo. Gli scrittori beat furono anche influenzati da figure della letteratura: Ginsberg era molto influenzato dai poeti Walt Whitman e Williams di Carlos di Williem mentre Kerouac aveva modellato romanzi autobiografici di Jack London e Thomas Wolfe.
Jack Kerouac (1922 – 1969)
Jack Kerouac, the king of the Beat, as he defined himself, was born in LowelI, Massachusetts, in 1922, of French-Canadian parents. His childhood was typical of a standard American boy, in a society of hard working people, from which he sought some sort of evasion in day-dream about becoming a football champion, a great writer, and so on. He entered Columbia University, but abandoned the studies after one year and went back to his home; he tried several manual jobs. moved restlessly from town to town, and was in the Navy for a few months. In 1943 he went to New York, and joined some yong people who, like him, rebelled against the middle class way of life. In 1944 he made the acquaintance of Allen Ginsberg who was to influence him and remained one of his true friends in the course of his life. He soon began to live in an apartment with a small group of young people, including Ginsberg. The group separated in 1945. and Kerouac joined his parents; in this period he began to write The Town and the City. a novel reflecting his own life experiences. Meeting Neal Cassady marked a decisive step in Kerouac’s 1ife: Neal’s spontaneity, love for adventure, untamed spirit, made him a sort of hero in Jack’s eyes; he idealized the new friend, and portrayed him in On the Road, his best known novel. In 1947 Kerouac hitch-hiked around the country, which provided him material for his later writings. In the same year he had the disillusionment of seeing his first novel, The Town and the City, rejected by two publishers. In 1948 he began to work at On the Road; his restlessness led him to change his residence continually. First he lived with his family, then with friends in San Francisco, and in New York. Finally, in 1950 The Town and the City was published; Jack was busy,working at On the Road, to which he devoted himself with ardour and exacting discipline, trying to convey the spirit of the adventures which make up the book. Once again the influence of Neal Cassady proved determining: Kerouac found in the friend’s letters the spontaneity and the ‘rhythm’ that he considered appropriate for his book, and went so far as to model the hero on Neal Cassady himself. Kerouac’s role in the book is that of the narrator, and the rest of the characters, like the adventures described, depict the author’s own friends and experiences. As soon as the book was finished, in 1951, Kerouac resumed his restless moving from place to place, joining various friends. He had fìts of depression, owing to his constant financial difficulties (On the Rotal was rejected by various publishers) and became more and more dependent on alcohol; during this gloomy period he found comfort in the study of Buddhism and in meditation. The Dharma Bums (1958) reflects the author’s interest in Oriental philosophy. In 1955 Kerouac obtained a contract with a publisher, and consented to the publication of passages from On the Road in magazines. He spent some time in San Francisco living with Ginsberg, Cassady and the poet Gregory Corso, but his restless temper never allowed him to stay long in the same place. The publication of On the Road in 1957 marked the beginning of success. The book became a best-seller, and publishers were now eager to receive more of his writings. The Subterraneans and The Dharma Bums were published in 1958. and between 1959 and 1960 came out Maggie Cassidy, Vision of Cody, Tristessa, and others. Kerouac was faced with the difficult side of popularity: newspaper reports, radio and TV interviews, administering money, were too much for him. He drank more and more, suffered from hallucinations, and his last trip to San Francisco proved no good for him, and he returned to live with his mother. Big Sur (1962) contains the account of his despair at the breakdown of all his hopes, and Desolation Angels (1965) contains his thoughts, meditations, and search for his own identity. The writer died suddenly in 1969 from abdominal hemorrhaging (consequence of his alcoholism). His last novel, Pic, was finished shortly before his death, and published posthumously in 1971.
Traduzione
Jack Kerouac, definito il re della Beat, è nato in Lowell, Massachusetts, nel 1922, da genitori di origine francese-canadese. La sua infanzia era la tipica di un normale ragazzo americano, in una società dove si lavorava sodo, dalla quale cercò di evadere divenendo un campione del football e un grande scrittore. S’iscrisse all’Università della Columbia, ma abbandonò gli studi dopo uno anno e tornò alla sua casa; provò molti lavori manuali, sì mosse inquietamente da città a città ed entrò nella Marina militare per alcuni mesi. Nel 1943 andò a New York, e conobbe ragazzi che, come lui, si ribellavano alla vita borghese. Nel 1944 fece la conoscenza di Allen Ginsberg che lo influenzò e rimase uno dei suoi veri amici nel corso della sua vita. Cominciò a vivere in un appartamento con un piccolo gruppo di ragazzi, incluso Ginsberg. Il gruppo si separò nel 1945, e Kerouac ritornò dai genitori; in questo periodo cominciò a scrivere The Town and the City, un romanzo che riflette le sue esperienze di vita. L’incontro con Neal Cassady segnò un passo decisivo nella vita di Kerouac: la spontaneità di Neal, l’amore per l’avventura, lo spirito indomito, aprì un nuovo genere negli occhi di Jack; idealizzò l’amico nuovo, e lo ritrasse in On the road, il suo miglior romanzo. NeI 1947 Kerouac andò nel paese che lo ispirò più tardi per le scritture. Nello stesso anno scoprì che il suo primo romanzo, The town and the City, fu scartato da due editori. Nel 1948 cominciò a lavorare a On the Road; la sua inquietudine lo condusse a cambiare continuamente la sua residenza. Prima visse con la sua famiglia, poi con amici a San Francisco e a New York. Finalmente, nel 1950 The Town and the City fu pubblicata; Jack lavorava a On the Road alla quale si dedicò con ardore e disciplina tentando di portare lo spirito delle avventure che costituiscono il libro. Ancora una volta l’influenza di Neal Cassady fu determinante: Kerouac fondò nelle lettere dell’amico la spontaneità e il “il ritmo” che considerò adatto per il suo libro, cercò di modellare l’eroe su Neal Cassady stesso. Il ruolo di Kerouac nel libro è quello del narratore, e il resto dei caratteri, come le avventure descritte dipinge gli amici e le esperienze dell’autore. Appena il libro fu finito, nel 1951, Kerouac ricominciò il suo viaggiare senza riposo da posto a posto, rincontrando i vari amici. Aveva attimi di depressione e difficoltà finanziarie continue (On the Road fu rifiutata da varie case editrici) divenendo un alcolista; durante questo periodo oscuro si confortò nello studio del Buddismo e nella meditazione. Il Dharma Bums (1958) riflette l’interesse dell’autore per la filosofia Orientale. Nel 1955 Kerouac ottenne un contratto con un editore, e acconsentì alla pubblicazione di passaggi da On the road in periodici. Passò del tempo a San Francisco vivendo con Ginsberg, Cassady e il poeta Gregory Corso, ma il suo temperamento senza riposo non gli permise mai di stare lungo nello stesso luogo. La pubblicazione di On the road nel 1957 segna l’inizio del successo. Il libro divenne un bestseller, gli editori ora erano ansiosi di ricevere altre stue scritture. The Subterraneans e The Dharma Bums furono pubblicati nel 1958, e tra il 1959 e il 1960 usci Maggie Cassidy, Visioni di Cody, Tristessa e altri. Kerouac fronteggiò con difficoltà la popolarità: servizi giornalistici, interviste radio e TV e amministrazione dei soldi, era troppo per lui. Bevve sempre più, patì allucinazioni, e il suo ultimo viaggio a San Francisco non fu buono per lui, ritornò a vivere con sua madre. Big Sur (1962) contiene il racconto della sua disperazione e il guasto di tutte le speranze, e Desolation Angels (1965) contiene i suoi pensieri, le meditazioni e la ricerca della sua identità. Lo scrittore morì improvvisamente nel 1969 per emorragia addominale (conseguenza del suo alcolismo). Il suo ultimo romanzo, Pic fu finito brevemente di fronte alla sua morte, e pubblicato postumo nel 1971.
On the road (brano dell’opera)
di Jack Kerouac
I wanted to see my gang in Denver. I crossed a railroad overpass and reached a bunch of shacks where two highways forked off, both for Denver. I took the one nearest the mountains so I could look at them, and pointed myself that way. I got a ride right off from a young fellow from Connecticut who was driving around the country in his jalopy, painting; he was the son of an editor in the East. He talked and talked; I was sick from drinking and from the altitude. At one point I almost had to stick my head out the window. But by the time he let me off at Longmont, Colorado, I was feeling normal again and had even started telling him about the state of my own travels. He wished me luck.
It was beautiful in Longmont. Under a tremendous old tree was a bed of green lawn-grass belonging to a gas station. I asked the attendant if I could sleep there, and he said sure; so I stretched out a wool shirt, laid my face flat on it, with an elbow out, and with one eye cocked at the snowy Rockies in the hot sun for just a moment. I fell asleep for two delicious hours, the only discomfort being an occasional Colorado ant. And here I am in Colorado! I kept thinking gleefully. Damn! damn! damn! I’m making it! And after a refreshing sleep filled with cobwebby dreams of my past life in the East I got up, washed in the station men’s room, and strode off, fit and slick as a fiddle, and got me a rich thick milkshake at the roadhouse to put some freeze in my hot, tormented stomach.
Incidentally, a very beautiful Colorado gal shook me that cream; she was all smiles too; I was grateful, it made up for last night. I said to myself, Wow! What’ll Denver be like! I got on that hot road, and off I went in a brand-new car driven by a Denver businessman of about thirty-five. He went seventy. I tingled all over; I counted minutes and subtracted miles. Just ahead, over the rolling wheatfields all golden beneath the distant snows of Estes, I’d be seeing old Denver at last. I pictured myself in a Denver bar that night, with all the gang, and in their eyes I would be strange and ragged and like the Prophet who has walked across the land to bring the dark Word, and the only Word I had was “Wow!” The man and I had a long, warm conversation about our respective schemes in life, and before I knew it we were going over the wholesale fruitmarkets outside Denver; there were smokestacks, smoke, railyards, red-brick buildings, and the distant downtown gray-stone buildings, and here I was in Denver. He let me off at Larimer Street. I stumbled along with the most wicked grin of joy in the world, among the old bums and beat cowboys of Larimer Street.
Il neorealismo nel cinema italiano
Movimento cinematografico sorto in Italia negli anni Quaranta, volto a recuperare un'aderenza tra immagine, narrazione e realtà. Nonostante le differenze tra gli stili peculiari d’ogni autore, è possibile estrarre alcuni elementi comuni, come:
• l'abbandono della struttura narrativa romanzesca;
• la preferenza accordata alle riprese in esterni;
• la presenza di attori non professionisti presi dalla strada;
• il tentativo di rendere conto in modo obiettivo della realtà politica e sociale del paese in un momento di grandi cambiamenti.
Pare che il termine neorealismo, per il cinema, sia stato impiegato per la prima volta nel 1943 dal montatore Mario Serandrei per riferirsi a Ossessione (1942) di Luchino Visconti. Visconti, che si era ispirato al romanzo Il postino suona sempre due volte di James Cain (portato poi sullo schermo nel 1946 da Tay Garnett e nel 1981 da Bob Rafelson), spostando però l'ambientazione dagli Stati Uniti alle valli del Po, aveva ottenuto grazie anche all'abbandono delle riprese in teatri di posa e all'utilizzo di un bianco e nero espressivamente documentaristico, un'autenticità che si contrapponeva radicalmente alla sofisticata artificialità di un cinema come quello, ad esempio, dei "telefoni bianchi" (Cinema italiano).
Nel 1943 venne girato I bambini ci guardano, di Vittorio De Sica; ma l’école italienne de la Libération, come i francesi definirono il neorealismo, esplose solo due anni più tardi con il film-simbolo della rinascita cinematografica del paese, Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini. Il film era stato girato per le strade di Roma, durante gli ultimi giorni dell'occupazione tedesca, con pellicole spesso recuperate tra i materiali di scarto dei documentari di propaganda cui lo stesso Rossellini aveva dovuto collaborare negli anni precedenti. A Roma città aperta (che accanto ad attori non professionisti schierava due vere e proprie icone del cinema italiano, Anna Magnani e Aldo Fabrizi) fece seguito una fioritura che, nel giro di pochi anni, produsse alcuni tra i più grandi capolavori del cinema italiano del dopoguerra: Paisà (1946) e Germania anno zero (1947) dello stesso Rossellini; La terra trema (1948, tratto dal classico verista I malavoglia di Giovanni Verga) e Bellissima (1951) di Visconti; Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1949) e Miracolo a Milano (1951) di De Sica che si avvalse, per le sceneggiature e i soggetti, della straordinaria collaborazione di Cesare Zavattini; Riso amaro (1948, melodramma ambientato tra le mondine del Nord Italia, che lanciò Silvana Mangano e Vittorio Gassman), e In nome della legge (1949, una sorta di western d'ambientazione siciliana) di Pietro Germi.
Il periodo d'oro del neorealismo terminò con l'inizio degli anni Cinquanta. Rossellini girò ancora alcuni film di pregio, Amore (1947), La voce umana e Il miracolo (con Anna Magnani e un giovanissimo Federico Fellini in veste d'attore), Francesco giullare di Dio (1950), Stromboli terra di Dio (1951), Europa '51 (1952) e Viaggio in Italia (1954), dopo il quale abbandonò il genere narrativo per darsi al documentario e alla didattica ricostruzione di eventi storici con produzioni televisive.
Luchino Visconti diresse Senso (1953), film che segna il suo passaggio dal neorealismo al realismo, e cioè dalla cosiddetta "poetica del pedinamento" (espressione coniata per designare il rispecchiamento della realtà) alla ripresa della grande tradizione romanzesca dell'Ottocento, trasposta nel cinema con la precisa descrizione di ambientazioni e psicologie dei personaggi.
Vittorio De Sica firmò Umberto D. (1952), tornando in seguito, da L'oro di Napoli (1954) in poi, sulle tracce di un cinema più commerciabile e di un realismo dai toni meno drammatici, senza per questo rinunciare alla qualità delle produzioni.
Secondo la convenzione storica, l'esperienza neorealista, aperta da Ossessione, si chiuse con UmbertoD.
Videro la luce nuovi filoni che, in molti casi, dal neorealismo trassero linfa tradendone il senso profondo. Come esempio si può citare tutta la serie di film d'ambientazione popolare in cui i personaggi sovente non sono molto più che macchiette d'ispirazione neorealista. Tra questi Pane, amore e fantasia (1953,regia di Luigi Comencini) e Poveri ma belli (1956 di Dino Risi, film nel quale, ora in campagna ora in città, venivano riproposti gli stereotipi psicologici del cinema "dei telefoni bianchi"). Sul versante comico-popolare, l'eredità neorealista è riscontrabile, ad esempio, nella serie tratta da Giovanni Guareschi e dedicata al personaggio di Don Camillo. I film su Don Camillo, interpretati da Fernandel, insieme all'amico-nemico Gino Cervi, nel ruolo del comunista Peppone, girati da autori come Julien Duvivier, furono campioni d'incasso per tutti gli anni Cinquanta.
Il lascito del neorealismo non fu però limitato al solo filone strapaesano-comico-sentimentale. A riprova del fatto che, al di là degli stili, il movimento fu una vera e propria "scuola" dove s'indagavano le strutture della realtà e il loro modo di venire rappresentate, sta il fatto che sul suo tronco si formarono nuove leve di autori che avrebbero costituito il nucleo centrale del grande cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta. Tra questi, vanno citati Michelangelo Antonioni e Federico Fellini.
Breve storia del cinema
Il cinema è stato il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza del Novecento e della modernità, in grado, grazie alla riproducibilità indefinita dei propri prodotti, di raggiungere un pubblico di eccezionale vastità.
La storia del cinema non si è svolta in modo lineare, ma ha conosciuto fasi di grande sviluppo e altre di crisi e trasformazione profonda, dovute alle nuove scoperte, alle invenzioni tecniche, ai brevetti industriali e all’organizzazione sia della produzione che della distribuzione.
Una miriade di sperimentazioni, ricerche, invenzioni sulla possibilità di riprodurre otticamente il movimento si erano avute nel corso dell’Ottocento e avevano portato, alla fine del secolo, alla messa a punto del cinematografo. Data fatidica (e convenzionale) della nascita del cinema è considerato il 28 dicembre 1893, quando vennero proiettati a Parigi, a pagamento nella sala sotterranea del Grand Café del Boulevard des Capucines, alcuni film dei fratelli Lumière. I Lumière erano proprietari di una fabbrica di materiali fotografici a Lione; Louis ideò il piccolo ma decisivo meccanismo di trasporto della pellicola che ne permette lo scorrimento regolare sia nella macchina da ripresa sia nel proiettore. Il cinematografo Lumière, una cassetta che conteneva tutti gli strumenti necessari per le tre funzioni di ripresa, sviluppo e stampa e proiezione, si diffuse rapidamente e ampiamente: i Lumière sfruttarono con grande sagacia commerciale la loro invenzione, creando una fitta rete di corrispondenti sia in Francia sia all’estero, che riprendevano soprattutto fatti d’attualità. Pochi anni dopo Georges Méliès, direttore del teatro Houdin, girava film fantastici, legati agli spettacoli del varietà e alla lanterna magica. In quegli anni il cinema venne fruito come spettacolo di varietà e di fiera sia in Europa sia negli Stati Uniti d’America, dove si sviluppò contemporaneamente.
Verso il 1900 l’interesse per i film dei Lumière si era esaurito; lo spettacolo, nato come fenomeno eminentemente urbano, e come tale decaduto, era divenuto centro d’interesse nelle fiere paesane. Il nuovo sviluppo e la riorganizzazione dell’industria cinematografica in Francia fu opera di Charles Pathé. Egli nel 1907 iniziò un processo di accentramento dei tre momenti in cui è tradizionalmente divisa l’industria cinematografica: produzione, esercizio e distribuzione. Sorgevano le case di produzione Gaumont ed Eclair.
Contemporaneamente negli Stati Uniti d’America i film cominciarono ad acquisire carattere di narrazione realistica, principalmente per opera di D. W. Griffith (1875-1948), che inventò la tecnica di ripresa per successive inquadrature e quella del montaggio che accostava e alternava le inquadrature, in una serie di film girati tra il 1908 e il 1913. La produzione si era intanto spostata dalla costa atlantica a quella del Pacifico, in parte per sfuggire alla «guerra dei trust», in parte per le migliori condizioni climatiche, e si era stabilita vicino al confine messicano, con centro a Hollywood. I film erano lunghi normalmente una bobina, cioè all’incirca trecento metri.
La cinematografia italiana, che aveva avuto un normale sviluppo con la produzione anche da noi di film secondo i vari filoni di genere, s’impose all’attenzione internazionale con la produzione di grandi film storici, come Quo vadis (1912) di E. Guazzoni e Cabina (1914) di Piero Fosco (pseudonimo di Carmine Pastrone), con didascalie di D’Annunzio: colossal che superarono largamente la misura di una o due bobine e suggerirono, soprattutto negli Stati Uniti, la costruzione di sale enormi per la proiezione, con migliaia di posti. Nel 1915 uscì il colossal di Griffith, La nascita di una nazione, epopea della guerra civile americana, e l’anno dopo Intolerance; qui il principio del montaggio veniva portato al parossismo: quattro storie, sullo sfondo di quattro civiltà diverse, dalla babilonese alla contemporanea, si intrecciavano in modo per la verità confuso. Al fallimento commerciale di questo film si fa risalire la diffidenza delle grandi case di produzione americane nei confronti dei registi, cui vennero affiancati dei producers, responsabili, per conto della casa di produzione, sia degli aspetti artistici sia di quelli finanziari.
Gli anni posteriori alla prima guerra mondiale videro la grande fioritura del cinema tedesco, che saldamente organizzato in una forte struttura industriale, accentrò anche cinematografie non altrettanto forti industrialmente, dell’Europa centrale e nordica, come quella danese e svedese. Il cinema espressionista fu caratterizzato dallo stesso intervento di violenta deformazione degli elementi linguistici che si riscontravano nel contemporaneo movimento pittorico e letterario. Un altro filone della produzione tedesca fu quello del Kammerspiel, che raccontava simbolicamente la disperazione della vita tramite personaggi e ambienti scelti tra i più umili. Verso la fine del decennio ci fu una produzione di film di denuncia sociale, in certi casi legati al movimento politico delle sinistre. Nell’Unione Sovietica la cinematografia venne statalizzata nel 1919. Due grandi registi e teorici proposero e misero in atto modi di fare cinema assolutamente originali, collegati con i contemporanei, fervidi tentativi di fondazione di una nuova cultura socialista, con le sperimentazioni linguistiche delle avanguardie e con le poetiche dei «formalisti» e di altri movimenti. L’avvento del sonoro coincise con l’imposizione della poetica ufficiale del realismo socialista, ponendo fine a questo modo di fare film.
Un’altra cinematografia che conobbe un fervore creativo e originale, anche se lontano dalla precedente potenza e diffusione legata all’industria, fu quella francese degli anni Venti e Trenta. In Francia nacque la prima riflessione critica sul cinema, che coinvolse larghe cerchie intellettuali; importanti furono anche, negli anni Venti, le sperimentazioni di film narrativi con montaggio rapido o onirico. Da ricordare due elementi fondamentali che caratterizzarono il cinema francese di questo periodo. Ci fu un rapporto stretto tra le teorie surrealiste sulla scrittura automatica e sul sogno e la sperimentazione dell’avanguardia cinematografica. Si formò una «scuola francese», capace di esplorare gli aspetti della realtà quotidiana, anche la più grigia, cogliendone gli elementi vitali, pittoreschi, poetici.
Alla fine della prima guerra mondiale il cinema americano era organizzato secondo un sistema rigido, che durò, con poche varianti, fino agli anni Cinquanta. In esso non aveva più una funzione centrale il regista, come ai tempi di Griffith, ma il producer, che agiva a nome delle grandi case di produzione. Caratteristica di spicco ne era lo star-system, cioè il rapporto privilegiato fra attori-divi e produzione, rispetto a quello con il regista, che bene o male costituì sempre, nel cinema europeo, un punto di riferimento. Fra i pochi autori che riuscirono a sfuggire al ferreo dispotismo delle case di produzione, furono E. von Stroheim e C. Chaplin, che fin da prima degli anni Venti mantenne il controllo completo sui suoi film. Nel 1930 venne stipulato fra le maggiori case americane, un accordo di autoregolamentazione (o autocensura preventiva), che stabiliva minuziosamente gli argomenti che non si dovevano trattare nei film. A Hollywood emigrarono, dopo il 1925, per motivi di lavoro, alcuni dei migliori registi, attori e operatori europei e altri se ne aggiunsero, per motivi politici, all’avvento del nazismo in Germania.
La diffusione del sonoro innovazione tecnica che segnò un’altra delle tappe di trasformazione profonda del cinema, contribuì a fare del racconto hollywoodiano un meccanismo narrativo perfetto, dotato di regole precise, tutte ispirate a fare del film un universo chiuso, inaccessibile a qualunque intervento critico dello spettatore, straordinaria macchina d’intrattenimento. Questo racconto si strutturò in un sistema articolato di generi; tra i più importanti: il western, la commedia musicale, la commedia brillante, il burlesque, il film poliziesco.
Alla fine della seconda guerra mondiale, il generale sconvolgimento permise la produzione di film in netta antitesi con il sistema hollywoodiano. Il neorealismo italiano fu la prima e più drastica rottura. Preannunciato da Visconti, esso non fu tutto sommato un movimento unitario e molto diversi fra loro furono gli autori più famosi: R. Rossellini (Roma città aperta, 1945; Paisà, 1946), la coppia De Sica (regia) - Zavattini (sceneggiatura) (Sciuscià, 1946; Ladri di biciclette, 1948), G. De Santis (Caccia tragica, 1948) e R. Castellani (Sotto il sole di Roma, 1948).
Nella stessa linea di rottura con la tradizione narrativa, sentita come inadeguata, sia per l’irripetibilità dei modelli dei generi classici hollywoodiani sia per l’insofferenza verso i film di buona fattura girati in casa, si pongono una serie di fenomeni nazionali.
Negli anni successivi all’intensa parentesi del neorealismo, mentre s’intrecciavano sempre più strettamente i rapporti, anche di coproduzione, fra le varie cinematografie nazionali, si affermarono nel cinema italiano, ottenendo una notevole fama internazionale, grandi personalità di registi, nettamente diverse fra loro: M. Antonioni (Il grido, 1937; L’eclisse, 1962; Deserto rosso, 1964); L. Visconti (Senso, 1954; Rocco e i suoi fratelli, 1960); F. Fellini (I vitelloni, 1933; La strada, 1954; La dolce vita, 1960; Otto e mezzo, 1963). Lo stesso Rossellini seguì una sua personale linea di ricerca, che lo portò, dopo alcune esperienze giudicate negativamente dalla critica contemporanea, all’individuazione della televisione come mezzo conoscitivo-comunicativo privilegiato.
La seconda guerra mondiale 1939-1945
A soli vent’anni dal primo immane conflitto mondiale, la guerra torna a sconvolgere lo scenario della politica internazionale.
E’ il conflitto più distruttivo che l’umanità abbia mai conosciuto. Esso penetra nelle città e nelle campagne attraverso i bombardamenti aerei e gli assalti delle truppe corazzate, trasformando ogni angolo della terra in una zona di operazioni militari e facendo di ogni individuo, donne, vecchi, bambini, una potenziale vittima. Tutta la situazione internazionale, a partire dalla crisi economica scoppiata negli Stati Uniti nel 1929, era gravida di tensioni e di contraddizioni tali da sfociare in un’altra guerra mondiale. In tale contesto dilagò la volontà espansionistica del nazismo e del fascismo. Ma il disegno egemonico di Hitler e Mussolini non si realizzerà: la coraggiosa resistenza dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica, l’intervento degli Stati Uniti e le lotte di liberazione dei popoli soggetti al dominio nazifascista condurranno alla sconfitta della Germania, che dovrà accettare la resa incondizionata. Il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, costringerà anche il Giappone alla resa il 14 agosto 1945.
A circa mezzo secolo di distanza dallo scoppio del secondo conflitto mondiale molti sono ancora gli aspetti su cui l’indagine degli storici deve fare piena luce; nella complessità delle cause, tuttavia, appare indiscusso il peso avuto dalla volontà di guerra del nazismo in primo luogo e, in misura minore, del fascismo. Fu la fredda e brutale determinazione di Hitler, cui si affiancò più tardi Mussolini, a trascinare l’Europa e il mondo intero in una nuova catastrofe.
D’altro canto tutta la politica hitleriana fin dalla conquista del potere si era chiaramente mossa secondo le linee di un piano espansionistico e aggressivo, di cui tuttavia le potenze occidentali non seppero o non vollero cogliere fino in fondo la reale portata.
Certamente la strategia hitleriana ebbe successo perché operò in un quadro di relazioni internazionali particolarmente sfilacciato e carico delle tensioni e delle contraddizioni lasciate aperte dalle conferenze di pace dopo la prima guerra mondiale. Nei primi giorni del settembre 1939 Hitler proclamò l’annessione del “corridoio” di Danzica al Reich, per riunire in tal modo la Prussia orientale alla Germania.
Prima di questa azione Hitler si era coperto le spalle firmando un patto di non aggressione con quello che la propaganda nazista denunciava come il nemico storico della Germania, l’URSS di Stalin. Il 23 agosto del 1939 i ministri degli esteri russo e tedesco, Molotov e von Ribbentrop avevano firmato un trattato che oltre alla non aggressione aveva stabilito anche le reciproche zone di influenza delle due potenze nell’Europa baltica. Di fronte all’invasione delle truppe naziste del territorio polacco l’Inghilterra prima e la Francia subito dopo reagirono con la dichiarazione di guerra alla Germania.
L’Italia, legata alla Germania dalla stipulazione del patto d’acciaio, assunse la posizione di “non belligeranza”, data l’impreparazione militare e l’avversione al conflitto da parte dell’opinione pubblica, condivisa peraltro dallo stesso sovrano e dai più stretti collaboratori del Duce.
L’andamento delle operazioni belliche in Polonia corrisponde alla strategia hitleriana di una guerra lampo (blitzkrieg), cioè di un conflitto che avrebbe dovuto svilupparsi con campagne di breve durata, per evitare che la Germania, nel caso di una guerra in tempi lunghi, fosse stretta nella morsa di un blocco economico militare come era accaduto nella prima guerra mondiale.
Prima ancora che l’esercito polacco potesse rispondere all’offensiva, i tedeschi si erano già impadroniti dei centri nevralgici del paese (aeroporti, importanti arterie stradali, reti ferroviarie, fabbriche), forti dell’enorme superiorità dei loro mezzi bellici (carri armati, divisioni corazzate, aerei). Alla fine di settembre la Polonia fu spartita fra la Germania e l’Unione Sovietica, intervenuta a sua volta a occupare i territori orientali, come prevedevano gli accordi tedesco-sovietici. Mentre sul fronte occidentale gli anglo-francesi e i tedeschi si fronteggiavano attestati sulle due linee difensive Maginot e Siegfried, già usate nella prima guerra mondiale, nell’inverno 1939-40 le uniche operazioni belliche si svolsero nel Baltico; soprattutto nella Finlandia invasa dalle truppe sovietiche che proseguivano così nella loro espansione verso occidente con l’obiettivo di estendere i propri confini oltre le repubbliche baltiche della Lituania, dell’Estonia e della Lettonia, già assorbite nell’URSS nei primi mesi del 1940.
Solo nella primavera del 1940 perse slancio l’offensiva tedesca verso il fronte occidentale, allontanando così l’impressione di una guerra, come si diceva, quasi “per burla”, suscitata dalle stasi delle operazioni belliche che fino a quel momento avevano toccato Gran Bretagna e Francia solo marginalmente. Ai primi di aprile le truppe tedesche sbarcarono in Danimarca e in Norvegia. Tuttavia nel giugno il sovrano dovette prendere la via dell’esilio e al governo della Norvegia s’insediò il nazista norvegese Quisling. Hitler, oltre a potersi avvalere di ricchi giacimenti di ferro, si era dunque impadronito d’importanti posizioni strategiche (basi navali ed aeree).
Coronate da uguale successo furono le operazioni tedesche contro la Francia, iniziate dal 10 maggio con la violazione della neutralità del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo: impegnate in tal modo al nord le forze franco-inglesi, le divisioni tedesche sfondarono la linea difensiva fra Namur e Sedan costringendo alla fuga grossi contingenti di truppe inglesi imbarcatesi a Dunkerque (29 maggio - 4 giugno). La Francia fu rapidamente invasa e il 14 giugno i tedeschi entrarono a Parigi. Tra la volontà di resistere e la tendenza ad accertare il regime d’occupazione, prevalse quest’ultima, sancita dall’armistizio firmato dal maresciallo Pétain il 22 giugno.
Mentre in Francia, dove gran parte del territorio era in mano tedesca, si costituì un governo dittatoriale d’estrema destra sotto la guida di Pétain e Laval, con sede a Vichy. Fra le prime voci che incitarono il popolo francese al proseguimento della lotta si levò quella di Charles de Gaulle, che dall’Inghilterra, in opposizione al regime di Vichy, pose le basi della “Francia libera” primo nucleo politico della resistenza all’occupazione nazista e alla svolta filofascista del governo ufficiale della repubblica di Vichy.
In base alle clausole del patto d’acciaio l’Italia avrebbe dovuto entrare in guerra a fianco dell’alleato tedesco fin dal 1939, ma in quelle convulse giornate prevalse, e fu accettata anche da parte tedesca, la linea di “non belligeranza”. D‘altronde erano contrari al conflitto gli ambienti di Corte, tra cui il sovrano in prima persona, non pochi esponenti delle gerarchie tedesche (Ciano e Grandi), e lo stesso capo di stato maggiore maresciallo Badoglio, ben conscio delle gravissime carenze delle forze armate italiane.
Dopo la conquista della Francia da parte dei tedeschi il conflitto sembrava avviarsi a rapida conclusione e Mussolini riuscì a convincere i gruppi contrari alla guerra che era necessario entrare nel conflitto ormai quasi finito, per potersi sedere al tavolo delle trattative e spartirsi con Hitler il ricco bottino di guerra. Il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò alla nazione con un esaltato discorso che l’Italia era dunque entrata in guerra. Tale avvenimento, che comportò l’apertura di un nuovo fronte, ebbe come primo effetto di far precipitare la già compromessa situazione della Francia attaccata a sud dalle truppe italiane, benché su questo fronte i francesi riuscissero ad arrestare l’invasione.
Dopo la disfatta della Francia, l’Inghilterra si trovò sola a fronteggiare l’attacco tedesco: Hitler aveva infatti progettato uno sbarco sull’isola, da effettuarsi dopo la distruzione della Raf (Royal air force, l’aviazione inglese) e l’annientamento della resistenza della popolazione civile. Da agosto a settembre del 1940, durante la cosiddetta battaglia d’Inghilterra, l’aviazione tedesca rovesciò sul territorio inglese tonnellate di esplosivo, con l’obiettivo di distruggere centri industriali e di terrorizzare la popolazione. Tuttavia la resistenza inglese non fu fiaccata: ai massicci e ininterrotti bombardamenti gli inglesi seppero contrapporre una capacità di difesa sorprendente e una coesione nazionale, impersonata dalla caparbia tenacia del primo ministro Churchill, che sostenne l’azione militare anche nei frangenti più disperati. Parallelamente nella guerra aerea che costituiva un ganglio essenziale della guerra anglotedesca, la Raf infliggeva alla Luftwaffe (aviazione tedesca) gravi perdite, valendosi tra l’altro dell’impiego del radar, una invenzione recente, che i tedeschi ancora non conoscevano. Hitler fu così costretto a rinunciare al suo piano d’invasione, mentre, nel tentativo di isolare l’Inghilterra, l’Italia sferrava alcuni attacchi contro le basi inglesi nel Mediterraneo. Alcuni successi italiani, tuttavia, non furono sufficienti a scalzare definitivamente le posizioni britanniche, salde soprattutto in Egitto e a Malta.
Negli ultimi mesi del 1940 la guerra dimostrò dunque di essere ben lontana da una rapida conclusione e di aver assunto ormai una dimensione mondiale: infatti nel settembre il Giappone si unì alla Germania e all’Italia nel cosiddetto “Patto tripartito”, cui aderirono in seguito anche la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania.
Nell’ottobre dello stesso anno l’Italia aggredì la Grecia, nella convinzione di poter conseguire un‘immediata vittoria, ma i calcoli di Mussolini si rivelarono errati e le forze italiane furono costrette a ripiegare, subendo gravi perdite, incalzate da una vigorosa controffensiva greca che si spinse fino all’interno dell’Albania. Questo insuccesso, oltre a compromettere il prestigio del Duce e dei comandi militari, sottolineò l’impossibilità da parte dell’Italia di condurre azioni belliche in modo autonomo dall’alleato tedesco. La Germania, inviato in Africa settentrionale un corpo di spedizione comandato da Rommel, fece indietreggiare gli inglesi e, nella prima metà del 1941 dopo aver occupato la Bulgaria, invase insieme alle truppe italiane la Jugoslavia e la Grecia, che capitolò nel mese di aprile. Alla fine del 1941 quasi tutta l’Europa occidentale era sotto il giogo nazifascista e nulla lasciava prevedere che l’Inghilterra, rimasta ormai unica avversaria in armi della Germania e dell’Italia, sarebbe stata in grado d’invertire la tendenza e avviare in forze un contrattacco.
Alla metà del 1941 due avvenimenti segnarono una svolta decisiva nell’andamento del conflitto: l’attacco tedesco all’Unione Sovietica e l’intervento degli Stati Uniti d’America. Con l’invasione dell’Unione Sovietica, messo da parte il patto di non aggressione reciproca siglato nel 1939 da Molotov e Ribbentrop, il nazismo ridava pieno slancio a due delle sue più profonde aspirazioni: l’espansionismo verso oriente e la lotta contro il comunismo. Hitler inoltre intendeva salvaguardarsi da un eventuale attacco da est e mettere le mani sulle ricchezze agricole e industriali sovietiche.
Il “piano Barbarossa”, progettato fin dal settembre dell’anno precedente, scattò alla fine del giugno 1941: in un colossale spiegamento di forze e di mezzi (furono impiegati diecimila carri armati e alcune migliaia di aerei) le armate tedesche, affiancate da truppe italiane, rumene, ungheresi, finlandesi e da volontari spagnoli e francesi, si riversarono nei paesi baltici, nell’Ucraina e nel nord della Crimea. Nonostante questa travolgente avanzata che giunse fino alle porte di Mosca e di Leningrado l’esercito russo non capitolò e seppe successivamente riorganizzarsi dando vita a un’accanita resistenza.
Anche su questo fronte, come era avvenuto nell’attacco all’Inghilterra, sfumò per la Germania la possibilità di concludere la campagna con una rapida vittoria: già nell’inverno 1941-42 era cominciata con qualche successo una controffensiva sovietica.
A controbilanciare la supremazia che i tedeschi avevano conquistato nei primi due anni di guerra, si profilò l’appoggio degli Stati Uniti all’Inghilterra mediante l’invio di armi e di prestiti. Questa solidarietà sfociò nell’agosto del 1941 nella Carta atlantica, sottoscritta da Winston Churchill e dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt, in un incontro nell’isola di terranova. All’intervento diretto nel conflitto da parte degli Usa si giunse tuttavia con l’attacco di Pearl Harbor, nelle Hawaii, il 7 dicembre 1941.
I giapponesi in quell’occasione, per prevenire la possibile reazione americana ai loro piani d’espansione nel Pacifico, attaccarono e distrussero con una grossa squadra di bombardieri la flotta americana che era alla fonda nel porto. Forte del successo conseguito in questo colpo di mano, il Giappone subito dopo si lanciò alla conquista dell’Asia e del Pacifico seguendo le linee di un espansionismo aggressivo, molto simile a quello hitleriano in Europa. Così in meno di un anno si impadronì delle isole e delle penisole del sud-est asiatico, minacciando l’India e l’Australia.
Mentre l’alleato giapponese si faceva sempre più minaccioso a oriente, la Germania nell’inverno 1941-42 sottoponeva l’Europa a una gravosa pressione economica risparmiando soltanto la Spagna, la Svizzera e la Svezia rimaste neutrali. I tedeschi infatti esigevano dai paesi sottomessi grossi aiuti economici, sia attraverso la corresponsione di ingenti somme, sia mediante la requisizione di prodotti agricoli (cereali, carne, prodotti caseari) e industriali. Così alle distruzioni dei bombardamenti si accompagnava una diffusa penuria di viveri e manufatti: le popolazioni furono sottoposte al razionamento dei generi alimentari e di altri prodotti di prima necessità, che si potevano ritirare solo periodicamente e in quantità limitate dietro presentazione di una tessera.
Nei campi di lavoro in Germania furono convogliati prigionieri e lavoratori di altri paesi per rimpiazzare operai e contadini tedeschi mobilitati. Ma fu soprattutto nei confronti degli ebrei che il “nuovo ordine” hitleriano si manifestò con tutta la sua brutale violenza, avviando quella che fu chiamata la “soluzione finale” del problema ebraico. Centinaia di migliaia di deportati nei campi di concentramento furono obbligati a lavorare in condizioni disumane, sottoposti a ogni genere di vessazioni e successivamente annientati nelle camere a gas e nei forni crematori. Nei campi di sterminio di Dachau, Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen trovarono la morte milioni di ebrei insieme a civili e a prigionieri russi e polacchi.
Nella seconda metà del 1942 si profilò un mutamento nell’andamento delle operazioni belliche: l’iniziativa passò infatti alle forze alleate contro il nazifascismo. Nella primavera del 1942 gli americani cominciarono a contrastare efficacemente nel Pacifico i giapponesi, riconquistando le isole di cui si erano impossessati questi ultimi.
Sul fronte orientale i sovietici organizzarono una controffensiva poderosa a Stalingrado in una battaglia durata dal novembre 1942 al gennaio 1943 e che alla fine vide la prima grande sconfitta tedesca con la resa dell’armata guidata dal generale Von Pauluss. Infine nell’Africa settentrionale le forze inglesi sotto la guida del maresciallo MontGomery fermarono a El Alamein le truppe dell’Asse, costringendole a ripiegare.
Contemporaneamente gli americani sbarcavano in Marocco e in Algeria, riguadagnando in tal modo ampia libertà d’azione nelle acque mediterranee; alcuni mesi dopo, nel luglio 1943, gli anglo-americani approdavano in Sicilia.
Lo sbarco degli alleati venne a coincidere con una situazione italiana di gravissimo disagio, diffuso ormai non solo tra la popolazione, messa a durissima prova dalla mancanza di viveri e dai massicci bombardamenti, ma anche tra le alte gerarchie del regime. Alcuni esponenti, come Ciano, Boftai e Grandi, tentarono con l’appoggio della Corte e di alcuni quadri dell’esercito di sottrarre l’Italia dalla totale subordinazione alla Germania e di porre fine alla guerra.
Il prestigio del fascismo e del suo duce erano comunque ormai ampiamente compromessi. Nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 un ordine del giorno, approvato con 19 voti contro 7, dichiarò la sfiducia a Mussolini, destituito e successivamente fatto arrestare da Vittorio Emanuele III. Il governo venne allora affidato al maresciallo Pietro Badoglio, ma l’entusiasmo popolare suscitato in tutta la penisola alla caduta del fascismo fu ben presto smorzato dalla dichiarazione della continuazione della guerra. Tuttavia furono subito avviate trattative segrete con gli anglo-americani per stipulare un armistizio, che fu infatti firmato a Cassible in Sicilia il 3 settembre e reso noto soltanto l’8 settembre 1943.
Una volta stipulato l’armistizio, Badoglio si accodò al re che, assieme ad alcuni funzionari e militari, aveva lasciato Roma per Pescara, per rifugiarsi nella zona entrata nel frattempo sotto il controllo degli alleati. L’Italia era nel caos: l’esercito, praticamente senza ordini, si sbandò e la macchina dello Stato si avviò allo sfascio definitivo.
Al nord Mussolini, liberato da paracadutisti nazisti dalla sua prigione sul Gran Sasso, pochi giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, il 12 settembre, fu rimesso dai tedeschi a capo di un governo fantoccio fascista, la Repubblica sociale italiana con sede a Salò, sul lago di Garda; al sud invece, occupato dagli alleati, rimaneva in carica il governo Badoglio. Il paese era spaccato in due. Dal sud risalivano le armate alleate, mentre nell’Italia centro-settentrionale i tedeschi si attestavano come un vero e proprio esercito occupante.
Si manifestò allora, assumendo poi l’aspetto di un fenomeno popolare di massa, l’attività di resistenza contro i tedeschi. Già nel marzo 1943 erano stati indetti e avevano avuto successo scioperi operai a carattere economico nelle città del nord. Per aver costretto a scendere a patti il regime, e per l’intenso lavoro di propaganda sostenuto soprattutto da membri del Partito comunista, questi scioperi avevano assunto un marcato significato politico e avevano indicato la strada da percorrere per opporsi al regime e alle truppe d’occupazione naziste.
Una successiva più grande prova delle capacità di lotta del popolo italiano si ebbe nelle eroiche quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) in cui i civili insorsero vittoriosamente contro i tedeschi, battendosi strada per strada.
Il movimento di resistenza antitedesca non fu però un fatto circoscritto all’Italia, ma l’occupazione nazista suscitò in tutta Europa una vasta reazione: forze volontarie (i partigiani) si organizzarono sui monti, in pianura, nelle città per contrastare il nemico con sabotaggi, azioni punitive, agguati e operazioni militari.
Nello sforzo di lotta contro l’avversario seppero coesistere in un’unità d’intenti e d’azione idee e programmi di provenienze diverse. In Francia, all‘indomani dell‘invasione tedesca, un primo appello alla resistenza contro l’occupante era giunto da De Gaulle. Anche in Polonia, in Urss e in Jugoslavia, fu attivo il movimento di resistenza contro l’invasione tedesca: in Jugoslavia, in particolare, la lotta condotta dai partigiani comunisti, guidati dal maresciallo Tito, fu lunga e aspra. Essa mirò non solo alla liberazione dall’occupante, ma a definire un programma politico generale che consentisse di affrontare gli enormi problemi che sarebbero sorti a guerra conclusa.
In Italia, per coordinare le operazioni contro i nazifascisti e per disporsi ad affrontare le questioni politiche del dopoguerra cariche d’incognite, si formarono i Comitati di liberazione nazionale (Cm), composti dai rappresentanti dei partiti politici formatisi all’indomani del 1943.
Dopo il crollo del fascismo infatti incominciarono a ricostituirsi le principali formazioni politiche. Nell’agosto del 1943 si riformò il Psiup (Partito socialista di unità proletaria) nel quale convergevano sia l’ala riformista del movimento socialista, sia quella massimalista. Il nuovo partito nacque con un programma fortemente classista e favorevole all’unità d’azione con il Partito comunista.
Quest’ultimo, che non aveva cessato di svolgere attività clandestina durante il fascismo e i primi anni di guerra, riprese la propria attività pubblica nel 1944, sotto la guida di Palmiro Togliatti, rientrato in Italia dopo un lungo esilio in Urss. Togliatti al suo rientro corresse alcune posizioni intransigenti presenti nel partito e lanciò un programma di collaborazione con le altre forze antifasciste per costruire uno “Stato democratico”, come premessa necessaria a un’ulteriore evoluzione in senso socialista del sistema politico italiano.
Anche il vecchio Partito popolare venne ricostruito, con il nuovo nome di Democrazia cristiana, sotto la guida di Alcide De Gasperi. Vi confluirono, insieme con i vecchi quadri del movimento cattolico pre-fascista, le nuove leve cresciute negli organismi di massa cattolici, che il regime non era riuscito a sciogliere in virtù del Concordato. Sul piano programmatico la connotazione moderata della nuova formazione politica fu temperata dall’attenzione ai problemi sociali ereditata dal vecchio cooperativismo e sindacalismo “bianchi” e dalla tradizione del pensiero sociale cattolico. Le forze della borghesia industriale e finanziaria alimentarono la ricostruzione del partito liberale sotto la guida spirituale di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi, che ne tratteggiarono il programma e la collocazione nello schieramento antifascista.
L’unica formazione politica nuova rispetto agli anni 20 fu il Partito d’azione, nel quale confluirono le componenti laiche e progressiste insieme con forze di tradizione liberal-socialista che si riconoscevano nella cosiddetta “rivoluzione democratica”, cioè in un programma di radicali riforme istituzionali, prima fra tutte l’instaurazione di un regime repubblicano, che avrebbero costituito il contesto nel quale sviluppare ampie riforme sociali. Per impulso di queste forze politiche si formò il Corpo dei volontari della libertà (Cvi), con a capo Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Luigi Longo, che agì da comando strategico e da stato maggiore della resistenza armata.
Nell’Italia settentrionale fu Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia) a guidare le azioni di guerriglia contro i fascisti e i tedeschi: le bande partigiane avevano ingrossato le loro file, passando da 20-30 mila unità agli inizi del 1944 alle 70 mila del giugno. Nel Mezzogiorno operò invece dalla primavera del 1944 il primo governo Badoglio cui parteciparono rappresentanti di tutti i partiti associati con le vecchie élites legate alla corona.
I nazisti ormai in difficoltà risposero ai partigiani con azioni spietate di rappresaglia contro la popolazione civile: tragicamente noti, per le dimensioni dell’eccidio, la strage operata a Marzabotto, in Emilia, dalle Ss, la milizia armata del Partito nazista, e il massacro di più di 300 civili alle Fosse Ardeatine, a Roma, in risposta a un attentato partigiano contro una colonna tedesca in Via Rasella.
Le forze anglo-americane risalivano nel frattempo la penisola, fino ad arrestarsi nel settembre 1944 in Toscana lungo la cosiddetta “linea gotica”, ma il programma del comandante inglese Alexander lanciato il 10 novembre, che invitava i partigiani a sospendere la lotta, creò gravi difficoltà al movimento di resistenza, già duramente provato dalle reazioni dei nazifascisti. Nonostante questi ultimi tentassero di ricacciare le bande sulle montagne, e nonostante l’isolamento in cui li aveva lasciati il comando alleato, nell’inverno 1944-45 i partigiani riuscirono a ricostruire in pianura nuove basi operative, predisponendosi allo scontro definitivo.
Il 6 giugno 1944 gli anglo-americani sbarcarono con mezzi imponenti in Normandia sotto il comando del generale Eisenhower. Nel giro di poche settimane, anche grazie alla valida opera delle forze di liberazione francesi, essi travolsero le linee difensive dei tedeschi, costretti ad evacuare alla metà di settembre la maggior parte dei territori occupati del Belgio e della Francia, dove dall’agosto si era insediato un governo capeggiato dal generale De Gaulle. Nel settore orientale, in concomitanza, riprendeva slancio l’azione dell’Armata rossa, mentre Grecia e Jugoslavia erano liberate dai partigiani.
Questi successi erano anche il frutto dell’alleanza antinazista costituitasi durante il 1943 tra Stati Uniti e Inghilterra da un lato e Urss dall’altro.
Questa alleanza prevedeva non solo la definizione di un’unica strategia per sconfiggere militarmente il comune nemico, ma anche un accordo sui futuri assetti del mondo, una volta uscito dall’immane catastrofe della guerra.
Complesse strategie politiche, spesso divergenti fra loro si combinarono alle concrete azioni militari e nella condotta militare degli alleati già emersero i contrasti e l’antagonismo tra l’Urss e gli Usa, ormai chiaramente destinati a diventare le grandi potenze politico-militari del pianeta.
Questa sorta di guerra nella guerra riesce a spiegare l’altrimenti incomprensibile esclusione dell’Unione Sovietica dall’armistizio con l’Italia, nonostante esistessero precisi accordi in senso opposto, e la conseguente rapidità con la quale il Cremlino, per primo, riconobbe il governo Badoglio nel marzo 1944. Nel frattempo Varsavia fu fatta insorgere contro i tedeschi in ritirata dal movimento partigiano legato al governo conservatore che si era formato in esilio a Londra. L’insurrezione aveva per scopo di creare una nuova situazione politica prima dell’arrivo dell’Armata rossa. Per contro l’Armata rossa si arrestò alle porte di Varsavia fintanto che i tedeschi in ritirata ebbero sterminato il movimento partigiano polacco. I sovietici invece appoggiarono prontamente il governo filocomunista costituitosi a Lublino, che osteggiava i partigiani nazionalisti, espressione delle forze borghesi polacche. Intanto, per piegare l’agonizzante regime hitleriano e recuperare il ritardo e procedere il più celermente possibile all’incontro con le armate sovietiche, gli angloamericani non esitarono a bombardare a tappeto le città tedesche senza distinguere tra obiettivi militari e obiettivi civili.
Le ingerenze negli affari interni dei singoli stati, implicito corollario nella logica della spartizione del pianeta in sfere d’influenza, si manifestarono presto anche in Occidente. Come l’Urss appoggiò il fronte filocomunista polacco contro quello conservatore, così gli inglesi si fecero artefici dell’ascesa al potere in Grecia, nel 1944, di un blocco politico reazionario, escludendo dal governo proprio quelle forze popolari e progressiste cui si doveva la liberazione ellenica.
Fu a Yalta, nel febbraio del 1945, che la spartizione del mondo, da primitivo abbozzo che era, si tradusse in un disegno compiuto: Grecia e Austria restavano sotto la tutela anglo-americana e Romania e Bulgaria sotto quella sovietica; una comune influenza sarebbe stata esercitata su Ungheria, Polonia e Jugoslavia, mentre per la Germania venne prevista la spartizione in quattro zone. Sempre a Yalta fu abbozzato il progetto di un’organizzazione delle nazioni unite e delineata la modalità d’intervento sovietico contro il Giappone.
In quell’occasione vennero inoltre presi accordi per l’attacco decisivo alla Germania, ormai agonizzante.
Tra marzo e aprile l’avanzata congiunta dei sovietici da oriente e degli alleai da occidente accerchiò la Germania in una morsa senza scampo. In Italia con la primavera del 1945 riprese l’avanzata degli alleati verso nord, mentre i partigiani liberavano le principali città dando il segnale dell’insurrezione nazionale. Dopo un’ondata di scioperi che nel marzo compromisero gravemente la produzione per il nemico, il 25 aprile 1945 il Clnai assunse i pieni poteri civili e militari.
Quattro giorni dopo le truppe tedesche capitolarono. Mussolini, che tentava di fuggire in Svizzera, fu catturato e fucilato a Dongo sul lago di Como, per ordine del Comitato di liberazione. A Berlino, mentre le armate sovietiche dilagavano, Hitler si tolse la vita assieme ad altri esponenti del regime; il 7 maggio l’ammiraglio Doenitz, designato da Hitler a succedergli, firmò per la Germania la resa incondizionata.
La guerra in Europa era finita: rimaneva in campo il solo Giappone, che poteva disporre ancora di un forte esercito, di vasti territori e di considerevoli risorse. Inoltre i “kamikaze” che, sacrificando la propria vita, si lanciavano con gli aerei che pilotavano sugli obiettivi da colpire e la resistenza a oltranza delle forze giapponesi, che preferivano farsi sterminare piuttosto che arrendersi, facevano apparire ancora lontana la sconfitta giapponese. In queste circostanze il presidente americano Harry Truman, succeduto a Roosevelt scomparso nell’aprile, decise di fare ricorso alla nuova micidiale arma atomica, dopo aver lanciato al Giappone un ultimatum che fu respinto.
Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica fu sganciata sulla città di Hiroshima, il cui centro in pochi secondi fu incenerito provocando la morte di circa 200.000 persone. Qualche giorno dopo, il 9 agosto, una seconda bomba colpì la città di Nagasaki. Intanto dall’8 agosto l‘Unione Sovietica aveva dichiarato guerra al Giappone, sulla base di accordi stretti durante l’incontro di Yalta, e invaso la Manciuria e la Corea. Più che questa minaccia, fu comunque l’orrore del disastro atomico ad indurre l’imperatore giapponese ad accettare la resa senza condizioni il 14 agosto 1945. Finiva così la seconda guerra mondiale, che era costata sessanta milioni di morti.
Il luttuoso bilancio della guerra si chiudeva con decine di milioni di vittime, militari e civili, con immense devastazioni, con la rovina o il profondo dissesto dei sistemi economici e degli assetti istituzionali. Gli apparati industriali erano gravemente colpiti e le risorse alimentari scarseggiavano, raggiungendo in talune regioni i caratteri di una vera e propria carestia.
Oltre alle questioni di riorganizzazione territoriale e di stabilizzazione dei rapporti internazionali, era necessario intraprendere un’immediata opera di ricostruzione e porre le basi di nuovi ordinamenti politici. Le istanze di libertà e di democrazia proclamate dai governi alleati nella lotta contro il nazifascismo e che ispiravano anche i vari movimenti di liberazione sollecitavano profonde trasformazioni politiche e sociali. Già prima della fine del conflitto i rappresentanti delle maggiori potenze alleate si erano incontrati a Teheran (1943) a Yalta (1945) e a Potsdam (1945) per delineare i futuri sviluppi politici.
Nella definizione di questi ultimi, tuttavia, giocarono un ruolo decisivo le presenze militari delle potenze in campo che nelle ultime fasi della guerra avevano diviso il mondo in zone d’influenza.
Nella conferenza svoltasi a Parigi dal luglio all’ottobre 1946 si approntarono i trattati di pace con Italia, Romania, Finlandia, Ungheria e Bulgaria, ex alleate della Germania, firmati nel febbraio 1947. Il criterio di ristabilire le situazioni precedenti il conflitto subì numerose eccezioni: l’Italia fu privata delle isole del Dodecaneso restituite alla Grecia, di una parte della Venezia Giulia, passata alla Jugoslavia, mentre Trieste fu riconosciuta territorio libero; dovette rinunciare alla sovranità sull’Albania e alle colonie africane, mantenendo in Somalia un mandato di amministrazione fiduciaria.
L’Eugenetica
L’eugenetica è una branca della medicina che, fondandosi sulle leggi della genetica, si propone di migliorare la salute della popolazione attraverso misure che evitino il diffondersi dei caratteri ereditari indesiderabili. Tali misure possono essere negative (eugenetica negativa), e consistono nello sconsigliare la riproduzione agli individui “svantaggiati” e, nel promuovere provvidenze socio-sanitarie atte a migliorare le deficienze costituzionali o acquisite.
Il movimento eugenetico nacque e si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti e successivamente in Francia ed in Germania tra la fine dell’Ottocento e gli anni ’30 del Novecento. Negli Stati Uniti venne decisa la sterilizzazione obbligatoria per gli individui "deboli di mente" o in altro modo minorati in caratteristiche ritenute geneticamente ereditabili e vennero emanate leggi di restrizione dell'immigrazione per mantenere puro il ceppo americano, contaminabile da individui di innata stupidità.
Il primo ad usare tale termine fu Francis Galton (1822-1911), psicologo inglese che accolse nella sua materia di studio le teorie evoluzioniste di Darwin, applicando test mentali e progettando strumenti per la misurazione dell'intelligenza, divenne un convinto assertore della regolamentazione dei matrimoni e delle nascite in base alle caratteristiche ereditabili dai genitori.
La diffusione di questo termine non è dei giorni nostri come si possa credere: negli anni trenta fu strumentalizzato dai nazisti per giustificare lo sterminio degli ebrei e di altri gruppi etnici. E' infatti una disciplina assai discussa in quanto si presta a ovvie distorsioni: la più immediata è il razzismo.
Hitler si rifarà appunto a queste tesi nel teorizzare la necessità di salvaguardare la razza germanica sia nei confronti di razze considerate inferiori (gli ebrei in primo luogo) sia dall’indebolimento causato dalla procreazione da parte d’individui in qualche modo minorati (handicappati, malati ecc).
L'ideologia della superiorità e della purezza razziale, presente anche nelle nazioni a socialismo reale, non è assente dalle nostre società ma solo latente. Il razzismo, afferma la sociologia, è sostanzialmente una questione di percentuali. Il decantato pluralismo razziale delle società anglosassoni è ben lontano dall'essere un fatto compiuto, a dispetto di "macchine ideologiche" come quella di Hollywood. L'eugenetica, incluso il suo estremo opposto - l'eutanasia - è forse l'aspetto in cui si rivela la maggiore vicinanza ideologica di fondo al nazismo. Eugenetica come ricerca dell'uomo perfetto; eugenetica intesa come soppressione radicale del malato, del fisicamente diverso; eugenetica ed eutanasia come soppressione radicale del sofferente, di colui che è estraneo al processo produttivo; eugenetica ed eutanasia come negazione estrema della solidarietà con il più debole.
Vista la strumentalizzazione che può essere fatta di tale scienza ci si pongono inevitabilmente alcune domande: Chi sceglierà quali sono i caratteri sfavorevoli o favorevoli, ed in base a quale criterio? Differentemente dal darwinismo sociale dove non si interviene direttamente sulla natura poiché si pensa che facendo percorrere alla natura il suo corso, alla fine gli elementi sfavorevoli si auto-eliminino,nel progetto genoma, si interviene direttamente sulla natura e i criteri sono a coscienza solo del corpo medico specializzato.
Qui si presentano alcuni interrogativi: si può ricorrere alla legge naturale per fissare un limite all'intervento della scienza medica? In questo modo il termine "naturale" viene identificato come ideale di perfezione preparato a tavolino e privato di ogni storicità. Il legittimo diritto individuale a generare un figlio sano può degenerare nel diritto a scegliere un figlio prodotto tramite fecondazione artificiale, secondo criteri dettati dall'egoismo.
Manifesto di Bioetica Laica
I principi fondamentali che tutti, credenti e non credenti, dovrebbero sottoscrivere
(Pubblicato su " IL SOLE 24 ORE " - Domenica 9 giugno 1996)
Primo, rispetta i valori altrui
La storia della bioetica, una disciplina nata meno di trent'anni fa e che affronta i dilemmi creati dai progressi della medicina, è la storia di un'etica laica. Dove per laica s’intende non dogmatica, e non necessariamente antireligiosa. Il Manifesto che qui proponiamo al giudizio e alla riflessione dei nostri lettori e degli uomini di cultura, da cui ci aspettiamo numerose adesioni, è stato pensato a partire da questa semplice constatazione. La laicità della bioetica è nei fatti. La bioetica è laica, e non può non esserlo, per sua stessa costituzione: per la natura stessa dei problemi, spinosissimi, di cui si occupa. Aborto, fecondazione in vitro, 'maternità per procura', ingegneria genetica, eutanasia sono tutti temi sui quali nessuno, in una discussione pubblica e democratica, può pretendere di avere l'ultima parola. Nè la legislazione può darla agli uni piuttosto che agli altri. Per ogni posizione a favore di una certa soluzione, per quanto ben argomentata, ne esiste una contraria altrettanto efficace. E il disaccordo riguarda scelte di valore magari opposte ma ugualmente legittime. La bioetica è laica per questo: perché presuppone l'idea di un pluralismo di valori, ugualmente ultimativi e ugualmente legittimi, a cui si accompagna il pluralismo dei gruppi e degli individui che ne sono portatori, siano o non siano essi credenti. Sulla soluzione di quei problemi, in Italia, i cattolici sono divisi tra loro come lo sono i laici. La bioetica è laica proprio perché la sua storia è fatta di un continuo confrontarsi di diversi approcci religiosi e di diversi approcci laici. E' a partire da queste premesse che gli estensori di questo documento sono andati "alla ricerca dei principi", nello spirito con cui il compianto Uberto Scarpelli - nel 1987, in un numero monografico di Biblioteca della libertà - aveva posto la questione in Italia. Alla sua memoria è dedicato affettuosamente questo documento. Nella speranza che saranno in molti a sottoscriverlo, o almeno a criticarlo costruttivamente, e che esso contribuirà ad avvicinare due mondi - quello laico e quello cattolico - che, in Italia, rischiano continuamente di fraintendersi. Due mondi che, invece, sui principi qui proposti potrebbero almeno trovare un terreno comune per condurre costruttivamente una discussione pubblica che si farà ogni giorno più pressante. L' evoluzione delle conoscenze teoriche e delle possibilità tecnologiche nel campo biologico e medico ha sollevato opportunità e problemi che non hanno precedenti nella storia dell'umanità. Se infatti la rivoluzione scientifica e tecnologica dell'era moderna ha permesso all'uomo di modificare radicalmente la natura che lo circonda, la rivoluzione biologica e medica dischiude la possibilità che egli intervenga sulla propria natura. Non ci si deve quindi meravigliare che la "seconda rivoluzione scientifica" porti con sè attese e timori altrettanto grandi di quelli che accompagnarono la nascita della scienza e del mondo moderno. Ed è verosimile che attese e timori si faranno man mano maggiori quanto più tra l'opinione pubblica avanzerà la percezione di quanto le nuove conoscenze scientifiche possono influire sulle vite dei singoli e sulla società nel suo insieme.
Principi e fatti
Noi reputiamo essenziale che questa nuova rivoluzione scientifica non debba essere accompagnata dallo stesso atteggiamento ideologico che ostacolò la formazione della visione scientifica nel mondo dell'età moderna. Proprio perchè la nuova rivoluzione scientifica tocca la natura dell'uomo ben più profondamente di quanto non abbia fatto la prima, se essa dovesse venire a essere oggetto di disputa e opposizioni derivanti da pregiudizi ideologici le conseguenze sarebbero nefaste. Da parte di coloro che aderiscono a una visione religiosa della natura e dell'uomo, viene spesso rimproverato ai laici di non avere principi morali che non siano una acritica adesione alla scienza e ai suoi progressi. Viene rimproverato loro di aderire a un positivismo morale che identifica sempre e comunque il "dover essere" della morale con il mero "essere" della scienza e della tecnica. Viene rimproverato loro di non avere altri principi al di fuori dei fatti. Noi reputiamo che tutto ciò non corrisponda a verità. La visione laica del progresso delle conoscenze biologiche e delle pratiche mediche è fondata sui principi etici saldi e chiaramente riconoscibili. Nel proporsi all'opinione pubblica, in alternativa alle visioni religiose, essa non oppone fatti a principi, ma principi a principi.
Principi e conoscenza
I primi principi della visione laica riguardano la natura della conoscenza e del suo progresso. In primo luogo, diversamente da quanto fanno la gran parte delle etiche fondate su principi religiosi, la visione laica considera che il progresso della conoscenza sia esso stesso un valore etico fondamentale. L'amore della verità è uno dei tratti più profondamente umani, e non tollera che esistano autorità superiori che fissino dall'esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere.
In secondo luogo la visione laica vede l'uomo come parte della natura, non come opposto alla natura. Essendo parte della natura, egli può interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli equilibri e dei legami che lo uniscono alle altre specie viventi.
In terzo luogo, la visione laica vede nel progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell'umanità, perchè è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana. Ogni limitazione della ricerca scientifica imposta nel nome dei pregiudizi che questa potrebbe comportare per l'uomo equivale in realtà a perpetuare sofferenze che potrebbero essere evitate.
Questi tre principi sono particolarmente rilevanti per quanto riguarda il progresso nelle conoscenze nella genetica umana e nelle terapie genetiche. Voler conoscere quel che costituisce la propria natura biologica, fino ai componenti ultimi, non è ybris, ma è espressione dello stesso amore di conoscenza che spinge l'uomo a conoscere tutta la natura. Voler intervenire su questa natura biologica al fine di diminuire la sofferenza non è espressione di nichilismo ma di amore dei propri simili.
Principi e applicazioni
Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola un qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine tra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell'idea di natura. Nel momento in cui le tecnologie biomediche allargano l'orizzonte di quel che è fattualmente possibile, i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che naturale non sarebbe. Essi possono soltanto derivare da principi espliciti, razionalmente giustificati in base a come essi riescono a guidare l'azione umana a beneficio di tutti gli uomini. Se è vero che gli uomini hanno sentimenti morali radicati in secoli di tradizione, e se è vero che questi vanno rispettati perchè svolgono un ruolo fondamentale per la vita sociale, non è però meno vero che le intuizioni e le regole morali sono in perenne evoluzione. Se gli uomini si renderanno conto che modificare quel che era considerato immodificabile può condurre a uno stato di cose migliore, alla diffusione di nuovi diritti, principi o valori, derivati dall'affinamento stesso delle conoscenze e della consapevolezza morale, allora ci si può attendere che essi cambieranno la propria percezione di quel che è lecito fare. Il cambiamento delle visioni del bene e dei principi morali è un fenomeno che ha sempre caratterizzato le culture. Neppure le società più tradizionaliste ne sono prive. Noi laici pensiamo che i cambiamenti possano essere considerati dei veri e propri progressi. Non pensiamo, naturalmente, che il progresso in quanto tale sia automatico, nè che sia garantito o inarrestabile. Ma proprio per questa ragione insistiamo sulla capacità degli uomini di giudicare, volta per volta, in che senso certi cambiamenti possano essere interpretati come effettivi miglioramenti e altri invece no, in un processo in cui l'analisi concettuale e la ragion critica svolgono un ruolo determinante.
Il primo dei principi che ispira noi laici è quello dell'autonomia. Ogni individuo ha pari dignità, e non devono esservi autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui in tutte quelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita. Questo significa che la sfera delle decisioni individuali in questioni come l'eutanasia, la somministrazione di nuovi farmaci, la sperimentazione di nuove terapie, deve venire allargata al di là di quanto oggi non accada. Una conseguenza di questo principio è che coloro che più direttamente sono toccati dai progressi delle tecnologie biomediche hanno un diritto prioritario di informazione e di scelta reale. Ciò è particolarmente vero per le donne, che sono i soggetti primari dei progressi nelle tecnologie riproduttive.
Il secondo principio è quello di garantire il rispetto delle convinzioni religiose dei singoli individui. Noi laici non osteggiamo la dimensione religiosa. La apprezziamo per quanto può contribuire alla formazione di una coscienza etica diffusa. Quando sono in gioco scelte difficili, come quelle della bioetica, il problema per il laico non è quello di imporre una visione "superiore", ma di garantire che gli individui possano decidere per proprio conto ponderando i valori - talvolta tra loro confliggenti - che quelle scelte coinvolgono, evitando di mettere a repentaglio le loro credenze e i loro valori. Questo rispetto per le convinzioni religiose non ci fa tuttavia dimenticare che dalla fede religiosa non derivano di per sè prescrizioni e soluzioni precise alle questioni della bioetica. Vi può essere una discussione e una giustificazione razionale dei principi morali anche senza la fede. Vi può essere una discussione e una giustificazione razionale che parte da presupposti di fede. Ma non vi può essere alcuna derivazione automatica di una giustificazione razionalmente accettabile a partire dalla sola fede.
Il terzo principio è quello di garantire agli individui una qualità della vita quanto più alta possibile, di contro al principio che fa della mera durata della vita il criterio dominante della terapia medica. Se vi è un senso nella espressione "rispetto della vita" questo non può risiedere nel separare un concetto astratto di "vita" dagli individui concreti, che hanno il diritto a vivere e morire con il minimo di sofferenza possibile.
Il quarto principio è quello di garantire a ogni individuo un accesso a cure mediche che siano dello standard più alto possibile, relativamente alla società nella quale egli vive e alle risorse disponibili. Si tratta di una conseguenza di quell'idea di equità che ispira i rapporti sociali nelle democrazie moderne, e che rispetta sia i sentimenti di libertà sia i sentimenti di eguaglianza profondamente diffusi tra i cittadini. Noi siamo consapevoli che se all'equità non verrà dato un contenuto reale i progressi delle tecnologie biomediche rischiano di non diventare accessibili ai membri più deboli della società.
Morale e diritto
I principi sopra enunciati si fondano a loro volta su di un assunto implicito: la separazione della sfera morale da quella della fede religiosa. In modo analogo, è proprio della visione laica tenere distinti i piani della morale e del diritto. Per i laici, i principi morali si fondano sull'adesione volontaria da parte degli individui. La loro diffusione deriva dall'accordo consapevole che essi ricevono. Come tali, essi sono diversi dalle norme giuridiche, le quali inevitabilmente vincolano l'individuo in base a sanzioni imposte dall'esterno. Se è infatti vero che le norme giuridiche non devono violare i principi morali è altrettanto vero che laddove non vi è consenso morale è pur necessario che esistano norme giuridiche che evitino quanto possibile il conflitto tra i diversi valori. Questa distinzione è particolarmente rilevante per l'ambito biomedico. Come ogni altra sfera dell'attività umana, anche questa ha bisogno sia di principi morali che di norme giuridiche. Ma il peso relativo delle une e delle altre è peculiare, e comunque diverso rispetto ad altre sfere, a esempio quella delle attività economiche. La differenza essenziale tra principi morali e norme giuridiche è che i primi danno maggiore spazio alla libertà che non le seconde. Quando ci si trova di fronte ai problemi biomedici, con conoscenze in continua evoluzione e spesso in contraddizione, dove il confine tra conoscenza positiva e valori è tenue, salvaguardare una ampia sfera di libertà di ricercatori e medici è una esigenza indispensabile. Nessuna applicazione meccanica di norme rigide può produrre risultati positivi in una realtà mobile, in un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale e dei valori. Per queste ragioni noi riteniamo che la legislazione in campo biomedico debba essere guidata dall'idea di lasciare a ogni ricercatore e a ogni medico la più ampia sfera di decisioni autonome compatibile con l'interesse generale della collettività. La legislazione dovrebbe favorire l'emergere di codici di comportamento come risultato del confronto dentro la comunità scientifica, e tra la comunità scientifica e l'opinione pubblica. Dovrebbe ricorrere alla sanzione formale soltanto in quei casi dove sia dimostrabile che il comportamento del ricercatore o del medico ha recato un danno accertabile ad altri individui. La libertà di ricerca deve così coniugarsi con un sempre più forte sentimento di responsabilità dei ricercatori e dei medici nei confronti della società. Soltanto un diffuso sentimento di responsabilità può garantire che la libertà di ricerca non subirà interferenze ingiustificate.
Conclusione
La società nella quale viviamo è una società complessa. E' una società nella quale convivono visioni diverse dell'uomo, visioni diverse della società, visioni diverse della morale. Per questo è impossibile pensare che in un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell'uomo, possa esistere un canone morale a vocazione universale. La visione laica della bioetica non rappresenta una versione secolarizzata delle etiche religiose. Non vuole costituire una nuova ortodossia. Anche tra i laici non vi è accordo unanime su molte questioni specifiche. La visione laica si differenzia dalla parte preponderante delle visioni religiose in quanto non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse. Là dove il contrasto è inevitabile, essa cerca di non trasformarlo in conflitto, cerca l'accordo "locale", evitando le generalizzazioni. Ma l'accettazione del pluralismo non si identifica con il relativismo, come troppo spesso sostengono i critici. La libertà della ricerca, l'autonomia delle persone, l'equità, sono per i laici dei valori irrinunciabili. E sono valori sufficientemente forti da costituire la base di regole di comportamento che sono insieme giuste ed efficaci.
Carlo Flamigni - Professore di Ginecologia all'Università' di Bologna
Armando Massarenti - Giornalista del Sole-24 Ore
Maurizio Mori - Direttore della rivista "Bioetica"
Angelo Petroni - Professore di Filosofia della Scienza all'Università' della Calabria e direttore della rivista " Biblioteca della libertà "
Eugenetica in bianco e nero
Un approfondimento razionale sull’eugenica richiede di valutare realtà e prospettive come anche illusioni e rischi. Esistono due diversi tipi di eugenetica: una eugenetica "negativa" (non come valore morale ma semplicemente come segno) e una eugenetica "positiva". Quest'ultima mira a produrre uomini sempre migliori o ritenuti tali; quella "negativa" mira ad eliminare gli individui considerati, per un qualche motivo, "tarati". La differenza, come si vede, non è di poco conto. Quando si parla di eugenetica positiva, il primo aspetto da prendere in considerazione è se essa sia concretamente realizzabile. In realtà, fare dell’eugenetica positiva è assai difficile anche solo in teoria perché la maggior parte dei caratteri che ci stanno a cuore - altezza, bellezza, intelligenza, bontà, altruismo, civismo, eccetera -, sono tutti caratteri multifattoriali, sono cioè caratteri controllati non da un solo gene ma da dieci, cento e forse più geni. Inoltre, non è affatto detto che un individuo, ad esempio, che abbia i geni giusti per l'intelligenza li abbia giusti anche per altri aspetti quali la bontà, la bellezza o la salute. Di fatto, la grande lezione che c’impartisce la biologia è che chi guadagna da una parte, perde dall'altra. Si tratta forse della lezione più significativa che si ricava dallo studio della biologia non solo degli individui, ma anche degli ecosistemi o dello stesso pianeta. Non si può dunque intervenire con l'eugenica positiva senza decidere prima quale carattere prediligere, ben sapendo comunque che l'intervento prescelto avrà delle conseguenze indirette e negative anche su altri caratteri. Il sogno dell'eugenica positiva non sta in piedi. É la natura stessa che forse ci ha pensato. Se, infatti, l'intelligenza dipendesse solo da uno o due geni, automaticamente la natura avrebbe selezionato tutte persone intelligenti, magari separandole da un altro gruppo di persone poco intelligenti fino ad ottenere due specie diverse. I caratteri su cui soffermiamo sempre la nostra attenzione sono viceversa intrinsecamente multifattoriali (e non solo poligenici): sono regolati da più geni e, proprio per questo, sono più o meno influenzati dall'ambiente, cioè dal contesto e dalle esperienze di vita. L'esperienza e la ricerca ci insegnano che la natura non seleziona mai una singola dote primaria ma sceglie sempre un giusto equilibrio tra una serie di caratteristiche biologiche. L'eugenica positiva è quella che sembra incutere i timori maggiori, in realtà è quella che per il momento, e comunque per almeno altri 50-70 anni, non è concretamente praticabile. Diversa è la questione nel caso dell'eugenica negativa. Essa si propone, entro certi limiti, di eliminare o correggere caratteristiche che sono chiaramente un difetto. Non c'è infatti dubbio che possedere nel proprio patrimonio genetico determinati geni sia un male, e questo sia per lo stesso soggetto che per le persone che gli sono intorno. Esempi al riguardo sono la talassemia, l'anemia falciforme, la distrofia di Duchenne. Il problema più significativo in questo ambito è il confine entro il quale agire, anche perché occorre tenere conto del fatto che il concetto di "normalità" applicato agli individui è solo un'astrazione statistica.Tra un individuo geneticamente "normale" e un individuo che presenta una patologia genetica c'è infatti un continuum. Una volta deciso attraverso la riflessione bioetica quale debba essere il confine da non valicare, un aspetto determinante è la precocità della diagnosi. Fare una diagnosi vuol dire capire che cosa si è inceppato in una macchina biologica, vuol dire prevenzione e poter effettuare una terapia mirata, vuol dire sapere esattamente da cosa ci dobbiamo difendere. L'obiettivo finale della ricerca genetica è la possibilità di intervenire direttamente sui geni. Da una parte con l'eugenetica positiva, ammesso di considerarla lecita e utile, che è tutto fuorché facile; dall'altra con l'eugenetica negativa che, entro certi limiti, è un dovere sociale. Un dovere nel senso di offrire la possibilità alle persone di scegliere e non certamente di obbligarle a metterla in atto per il motivo che certe malattie hanno dei costi sociali elevati: le malattie ereditarie sono piuttosto rare e il costo sarebbe marginale.
di Edoardo Boncinelli
BIBLIOGRAFIA
- Fast Lane, De Luca, De Grillo, Pace, Ranzoli, Loescher
- La filosofia attraversoi testi (tomo 3.2), Tornatore, Polizzi, Ruffaldi, Loescher
- Italia letteraria, Petronio, Palombo
- Il materiale e l’immaginario, Cesarini, De Federicis Loescher
- Storia 3 novecento, De Bernardi, Guarracino Mondadori
- Ausilio di Internet, per la parte relativa a: Eugenetica, Bioetica, Neorealismo letterario.
MAPPA CONCETTUALE
LETTERATURA ITALIANA NEL SECONDO DOPOGUERRA
NEOREALISMO
CESARE PAVESE: La luna e i falò
AMERICA
LETTERATURA SECONDA GUERRA
MONDIALE
BEAT GENERATION NAZISMO

EUGENETICA RESISTENZA
JACK KEROUAC:
On the road

BIOETICA CINEMA
ITALIANO
di Alessandra Zuccalà
5 A liceo scientifico tecnologico
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