Vittorio Alfieri

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Testo

VITTORIO ALFIERI
In Alfieri il discorso è rivolto sempre a pochi individui tutti appartenenti alla classe agiata.
In lui prevale l’aristocratico distacco del nobile che guarda con severo disprezzo le folle scatenate ed ha orrore per la loro pretesa di sovvertire l’o4rdine sociale .
In Alfieri molti sono gli elementi antilluministici e che potrebbero far pensare ad un anticipatore della successiva corrente del romanticismo.
L’amore di patria connesso all’idea di nazione, l’esaltazione del “forte sentire” del poeta, animato dalla passione, la sfiducia nelle capacità della scienza e dell’economia di risolvere i problemi della società.
L’alfieri recupera nella letteratura elementi di irrazionalità (sentimenti, passione) e la stessa religiosità. La tragedia Alfieriana manca di intreccio e di colpi di scena ed in definitiva risultano monotone e cariche di desolazione.
L’autore si attiene alle unità di luogo, di tempo e di azione, ma esclude il coro perché avrebbe rotto l’atmosfera di disperata solitudine del protagonista.

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Vittorio Alfieri nacque il 16 gennaio 1749 ad Asti e morì a Firenze l'8 ottobre 1803.
Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento italiano, ebbe una vita piuttosto avventurosa, diretta conseguenza del suo carattere tormentato che lo rese, in qualche modo, precursore delle inquietudini romantiche.
Egli ripercorse il suo cammino formativo in un'autobiografia intitolata Vita che cominciò a scrivere intorno al 1790 (l'autobiografia era un genere di moda nel diciassettesimo secolo, valgano gli esempi delle Mémoires di Goldoni o delle Memorie del Casanova).
La Vita va però considerata come un racconto retrospettivo, una "riscrittura" a posteriori della propria esperienza esistenziale, dove quindi la realtà viene a volte forzata per conformarsi al pensiero dell'Alfieri ormai poeta maturo. Non mancano infatti le componenti agiografiche, visto che il proposito latente dello scrittore è quello di rapportare la propria vita alle vicende tragiche dei protagonisti delle sue opere: fornire di sé un ritratto eroico, quello di un uomo che ha lottato contro il destino e contro la società per poter affermare il proprio talento.
Tutti questi elementi debbono indurre a valutare criticamente la narrazione della Vita, e a rianalizzare le esperienze di Vittorio Alfieri in base ai dati biografici certi, in modo da non far sovrapporre le vicende reali dell'uomo alle "gesta" dell'eroe tragico.
Nato ad Asti, dunque, da famiglia nobile, dal 1758 al 1766 frequenta l'Accademia militare di Torino, considerata uno dei migliori collegi d'Europa, con risultati mediocri (nell'autobiografia di questi anni l'Alfieri parlerà come di anni di "ingabbiamento" e di "ineducazione"). A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell'esercito regio ed è assegnato al reggimento provinciale di Asti. Da questo momento comincia una lunga serie di viaggi: Alfieri passa da un paese all'altro (e da un amore all'altro) senza requie, visita prima l'Italia e poi l'Inghilterra, la Francia, la Prussia, l'Olanda, la Scandinavia.
Questo continuo vagabondare termina nel 1775, l'anno della "conversione" alla letteratura: rinnegando i dieci anni precedenti di "viaggi e di dissolutezze" l'Alfieri torna a Torino, completa una prima tragedia, Cleopatra, e si dedica furiosamente allo studio. Il successo della rappresentazione di Cleopatra lo sprona a dedicarsi alla carriera di scrittore tragico; negli anni successivi scriverà le sue maggiori tragedie: Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra, tra le altre.
La tragedia è la forma artistica da lui prescelta perché la più adatta a rappresentare la sua concezione della vita basata sullo scontro tra oppressi ed oppressori, tra uomini eroici e tiranni, i quali non vanno intesi come simboli del potere assolutistico o di qualsiasi altro regime realmente esistente, ma rappresentano invece tutti quei limiti che impediscono la piena realizzazione dell'individualità umana. La libertà, che è il motivo trainante delle tragedie dell'Alfieri, non è una libertà politica, ma una libertà esistenziale. Risulta perciò chiaro come mai l'Alfieri scelga sempre personaggi già famosi, mitici, (Antigone, Saul, Bruto) per le sue opere e appare anche evidente la sua lontananza da quel "dramma borghese" che grazie a Diderot e Lessing trionfava in tutta Europa.
Nel 1777 avviene un incontro fondamentale per la vita dell'Alfieri, conosce infatti Luisa Stolberg, contessa d'Albany, praticamente separata dal marito Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra. Nasce un rapporto che Alfieri manterrà sino alla morte e che mette fine alle sue irrequietezze amorose. L'anno successivo fa dono alla sorella di tutti i suoi beni, mantenendo per sé solo una rendita annua e dopo vari soggiorni si trasferisce a Firenze e poi a Siena, per apprendere l'uso del toscano che, per lui piemontese e perciò familiare all'uso del suo dialetto e del francese, era stata una lingua morta imparata sui libri.
Gli anni che vanno dal 1775 al 1790 sono i più operosi della sua vita: oltre alle tragedie compone trattati (Della tirannide e Del principe e delle lettere) e la gran parte delle Rime. Nel 1786 si stabilisce con la fedele contessa a Parigi, dove assiste alla rivoluzione e la celebra in un'ode alla caduta della Bastiglia, Parigi sbastigliato. Gli sviluppi della rivoluzione però, probabilmente orientati verso forme troppo democratiche per l'Alfieri, lo deludono, come lo spaventano le manifestazioni della plebe, che non corrisponde certo al popolo da lui sognato nelle tragedie e nei trattati. Così fugge da Parigi nel 1792 e comincia, dopo la venuta dei francesi in Italia nel 1796, un'opera dai toni decisamente antifrancesi, il Misogallo.
Tornato a Firenze, dedica gli ultimi anni della sua vita alla composizione delle Satire, di sei commedie, della seconda parte della Vita e di traduzioni dal latino e dal greco. Nel 1803, a soli cinquantaquattro anni, muore assistito dalla Stolberg. La salma si trova nella chiesa di Santa Croce a Firenze.
Quando si parla di qualche personaggio dall'esistenza singolare si dicono frasi come: "La sua vita fu un romanzo" oppure "Il suo capolavoro fu la sua vita". Queste frasi sembrano fatte apposta per Vittorio Alfieri, il cui capolavoro, la sua "Vita", è l'autobiografia forse più celebre e più bella dell'intera letteratura italiana; questa vita è un vero e proprio romanzo pieno di scene "forti", di passioni travolgenti, di tentati suicidi, di ideali, di enfasi, di un indomabile furore e sdegno nei confronti di ogni tipo di meschinità.
Non manca neanche il riscatto morale del protagonista, che, dopo una giovinezza dissipata, si riabilita in età matura con un'incredibile e ferrea applicazione agli studi: il suo vagabondare irrequieto e il suo errare tra ideali imprecisati si trasformano così in un impegno morale e civile alla conquista della libertà. E dopo questo itinerario di riabilitazione compare il successo finale che corona le fatiche dell'autore. Ecco la storia dell'Alfieri, come egli stesso ce l'ha raccontata. Nato ad Asti nel 1749 da un conte molto tradizionalista e da una contessa molto devota e dai nobili sentimenti, nonostante ciò o forse proprio per questa ragione egli fu un ribelle. Fino ai diciassette anni frequentò l'Accademia di Torino, ma senza profitto: la sua vera passione erano i cavalli, amore che l'accompagnò per tutta la vita. Poi cominciò a vagare per l'Europa, dopo aver visitato l'Italia, che lui riteneva piena di "ipocriti fantocci". Anche all'estero trovò lo stesso ambiente fatto di cavalieri col codino incipriato e di damine leziosamente ignoranti, nonché di artisti di grande fama che s'avvilivano a fare la "genuflessioncella d'uso" agli insulsi e potenti sovrani delle varie corti. Un giorno, mentre vagabondava in preda alla sua rabbiosa furia di trovare qualche ideale per cui vivere e morire e mentre passava da un amore a un duello, da una crisi di disperazione all'esaltazione per la propria originalità e per il proprio ingegno, sorse in lui la precisa volontà di "farsi di ferro in un secolo in cui gli altri erano di polenta". Fu in un momento di noia e tranquillità che egli intuì la sua strada: era al capezzale di un ammalato, quando, per ammazzare il tempo, pensò di scrivere una tragedia su Cleopatra, la cui immagine sembrava guardarlo da un arazzo appeso al muro. Subito la scrisse, la limò, fece correggere tutte le sgrammaticature dovute alla sua scarsa istruzione e la fece rappresentare. Fu un successo enorme, con tre repliche applauditissime al Teatro Carignano di Torino: era la prima tragedia scritta decorosamente da un italiano dopo tanto, tanto tempo di silenzio. L'Alfieri capì subito che se voleva intraprendere la strada dell'arte e del teatro con dignità doveva al più presto formarsi una solida cultura.
Di qui la sua celebre frase "Volli, volli, fortissimamente volli" che lo portò a farsi tagliare la chioma fluente, senza la quale un conte dabbene non avrebbe mai varcato la soglia di casa, e a farsi legare alla sedia con corde strettamente annodate per poter "digerire" in un tempo relativamente breve una vera e propria montagna di libri.Aveva ventisette anni: dopo dieci anni spesi male, uno studio furibondo lo portò a formarsi una solida cultura classica. Per farci un'idea del suo teatro, potremmo fare ricorso a sei brevissimi suoi versi: "Mi trovan duro?/Anch'io lo so:/pensar li fo./ Taccia ho d'oscuro?/Mi schiarirà/poi libertà." Il teatro di Alfieri è appunto duro, talvolta oscuro, ma tutta questa durezza ed oscurità servono a far riflettere, a far pensare alla libertà, a quel grande ideale che pervade tutta l'opera del grande astigiano. Oggi questo teatro non si gusta più sulle scene se non in sporadiche occasioni, perché considerato "invecchiato", e attualmente invece si preferisce lo spettacolo. L'Alfieri invece detesta lo spettacolo, le vicende e i personaggi secondari e tutta la paccottiglia sentimentale-decorativa che caratterizzava le scene dei suoi tempi. Non potremmo capire bene la portata delle sue innovazioni teatrali se non ricordassimo cosa era diventato il teatro ai suoi tempi: uno spettacolo fine a se stesso, senza nerbo, senza niente di serio da dire. Le tragedie alfieriane, invece, sono caratterizzate dall'essenzialità e dalla stringatezza, che paiono così dure da sopportare. Il tema fondamentale trattato da Alfieri è la libertà, sentimento antico e sempre nuovo: soprattutto la libertà civile e politica. Pur senza trascurare le altre grandi passioni che travagliano l'animo umano, come l'amore o l'ambizione, egli esalta sempre la figura del ribelle, dell'eroe della libertà che si scaglia contro l'ordine costituito, contro la tirannia, contro l'obbedienza cieca a leggi e persone ingiuste. I suoi drammi vogliono insegnare il gusto di quell'eroica libertà: egli vuole così risvegliare le coscienze addormentate del suo tempo, additando come esempio i grandi modelli tratti dall'antichità classica. Così egli ce ne parla: "Io credo fermamente che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d'ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi. Tale era il teatro d'Atene, e tale non può essere mai un teatro cresciuto all'ombra di un principe qualsivoglia…". Da questi nobili intenti educativi traggono vigore i suoi personaggi: Bruto, Oreste, Antigone, Saul, Don Garzia; sono personaggi tutti d'un pezzo, personaggi che decalmano con enfasi eroica e non si dimostrano mai vili, ma sempre dei veri titani. Nel teatro di Alfieri non esistono personaggi scialbi o trascurabili: mancano le comparse, sono abolite quelle scene che non sono essenziali per il racconto; insomma, Alfieri va dritto al sodo. Tutti i personaggi delle sue tragedie, sia gli eroi che i tiranni, sono protagonisti e si fronteggiano apertamente, esprimendo il proprio preciso carattere fino all'esasperazione. La sua concezione, da questo punto di vista, è la stessa di quella della tragedia classica greca: dallo scontro diretto degli eroi contro la tirannia più bieca il pubblico può trarre lo spunto per educarsi. I fatti che accadono in ciascuno dei drammi alfieriani sono scarsi, perché tutto si incentra nel dialogo. Anzi, l'autore sopprime volutamente anche l'azione che logicamente dovrebbe concludere il dramma, il tirannicidio, la vittoria della libertà sull'oppressione: preferisce infatti lasciare nell'animo dello spettatore l'attesa di quella vendetta sacra, il desiderio della ribellione contro l'oppressore. Oppure, con molta più sottigliezza, preferisce mostrare la tirannia che uccide se stessa, il tiranno che va incontro da solo all'inevitabile punizione: è questo il tormento che agita il protagonista del suo capolavoro, il re Saul. La concisione dell'Alfieri, necessaria all'essenzialità dei suoi drammi, è diventata proverbiale. La prima scena del quarto atto dell'"Antigone" contiene ben cinque battute di dialogo in un solo verso: "Scegliesti? - Ho scelto. - Emon? - Morte. - L'avrai." L'ultima scena del secondo atto del "Filippo" è costituita di soli tre versi: "Udisti? - Udii. - Vedesti? - Io vidi. - Oh, rabbia! / Dunque il sospetto? - E' ormai certezza. - E inulto. / Filippo è ancor? - Pensa. - Pensai. Mi segui." E' un parlare cifrato, che rischia di far girare la testa allo spettatore o al lettore, ma serve a martellare un'atmosfera asciutta e drammatica, di sicuro effetto. A noi può dare fastidio questo linguaggio a cui non siamo abituati; e del resto anche allora esso veniva parodiato in molti modi. Basti pensare che tre begli spiriti del tempo composero una pseudo-tragedia alfieriana e la fecero anche rappresentare, spacciandola per autentica. C'erano solo tre personaggi: Socrate, sua moglie Santippe e il discepolo Platone. All'interno essa era costituita di veri e propri scioglilingua e discorsi stringati di questo tipo: " - Dillo. - Nullo. - Non sailo? - Sollo. - Sallo". La cosa più stupefacente è che il pubblico, scambiando la tragedia per un'opera autentica dell'Alfieri, si spellò letteralmente le mani per applaudire il nuovo "capolavoro". Basta questo episodio per far comprendere come i rinnovamenti operati da Alfieri nel teatro italiano fossero ormai entrati nel gusto del pubblico. Le tragedie di Alfieri ondeggiano tra Classicismo e Pre-Romanticismo: classica ne è la forma e la struttura, la scelta del linguaggio scarno ed essenziale; preromantici sono i fermenti nuovi di libertà e di passionalità, preromantico ne è il contenuto. Così le sue opere apparvero subito vivaci, nuove, moderne, eppure piene di distaccata misura nell'espressione che era segno della continuità con la tradizione. Le tragedie di Alfieri ebbero un successo strepitoso, grazie anche ai bravissimi interpreti che le portarono sulle scene, fino a tutto l'Ottocento romantico, che ben si riconosceva nel suo spirito ribelle precursore dei tempi nuovi. Ma non sta qui la grandezza dell'Alfieri: essa sta piuttosto nell'impegno severo, nella sua volontà di rendersi utile con la sua arte all'educazione civile e morale del pubblico. Questa certezza della propria missione lo animò fino alla fine, quando continuò a lavorare freneticamente nonostante la malattia che lo portò alla tomba, l'8 ottobre 1803.
OPERE DI VITTORIO ALFIERI
Tragedie (1775-1795): Cleopatra, Antigone, Polinice, Virginia, Agamennone, Oreste, La congiura de' Pazzi, Don Garzia, Maria Stuarda, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Agide, Sofonisba, Bruto I, Bruto II, Alceste seconda, Saul, Mirra;
Trattato "Della Tirannide" in due libri (1777);
Trattato "Del Principe e delle Lettere" (1777);
Satire (dal 1786 al 1797);
Rime (dal 1789 al 1803);
Misogallo (dal 1790 al 1798),
Tetralogia politica (commedie): L'uno, I pochi, I troppi, L'Antidoto (1801-1802)
La Vita di Vittorio Alfieri da Asdti scritta da esso (pubblicata postuma nel 1804)
Della tirannide
Libro Primo
INDICE
ALLA LIBERTÀ
Capitolo .1. COSA SIA IL TIRANNO
Capitolo .2 COSA SIA LA TIRANNIDE
Capitolo .3 DELLA PAURA
Capitolo .4. DELLA VILTÀ
Capitolo .5 DELL'AMBIZIONE
Capitolo .6 DEL PRIMO MINISTRO
Capitolo .7 DELLA MILIZIA
Capitolo .8 DELLA RELIGIONE
Capitolo .9 DELLE TIRANNIDI ANTICHE, PARAGONATE COLLE MODERNE
Capitolo .10 DEL FALSO ONORE
Capitolo .11 DELLA NOBILTÀ
Capitolo .12 DELLE TIRANNIDI ASIATICHE, PARAGONATE COLL'EUROPEE
Capitolo .13 DEL LUSSO
Capitolo .14 DELLA MOGLIE E PROLE DELLA TIRANNIDE
Capitolo .15 DELL'AMOR DI SE STESSO NELLA TIRANNIDE
Capitolo .16 SE SI POSSA AMARE IL TIRANNO, E DA CHI
Capitolo .17 SE IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E COME
Capitolo .18 DELLE TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE RISTRETTE
ALLA LIBERTÀ
Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o DIVINA LIBERTÀ, spente affatto in tutti i moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne'loro scritti vanno or qua or là tasteggiando alcuni dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle carte, ai di cui autori altro non manca che il pienamente e fortemente volere, portano spesso in fronte il nome o di un principe, o di alcun suo satellite; e ad ogni modo pur sempre, di un qualche tuo fierissimo naturale nemico. Quindi non è meraviglia, se tu disdegni finora di volgere benigno il tuo sguardo ai moderni popoli, e di favorire in quelle contaminate carte alcune poche verità avviluppate dal timore fra sensi oscuri ed ambigui, ed inorpellate dall'adulazione. Io, che in tal guisa scrivere non disdegno; io, che per nessun'altra cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità, abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a te sola dedicar questi fogli. Non farò in essi pompa di eloquenza, che in vano forse il vorrei; non di dottrina, che acquistata non ho; ma con metodo, precisione, semplicità, e chiarezza, anderò io tentando di spiegare i pensieri, che mi agitano; di sviluppare quelle verità, che il semplice lume di ragione mi svela ed addita; di sprigionare in somma quegli ardentissimi desiderj, che fin dai miei anni più teneri ho sempre nel bollente mio petto racchiusi. Io, pertanto, questo libercoletto, qual ch'egli sia, concepito da me il primo d'ogni altra mia opera, e disteso nella mia gioventù, non dubito punto nella matura età (rettificandolo alquanto) di pubblicar come l'ultimo. Che se io non ritroverei forse più in me stesso a quest'ora il coraggio, o, per dir meglio, il furore necessario per concepirlo, mi rimane pure ancora il libero senno per approvarlo, e per dar fine con esso per sempre ad ogni mia qualunque letteraria produzione.
Capitolo primo
COSA SIA IL TIRANNO
Il definire le cose dai nomi, sarebbe un credere, o pretendere che elle fossero inalterabilmente durabili quanto essi; il che manifestamente si vede non essere mai stato. Chi dunque ama il vero, dee i nomi definire dalle cose che rappresentano; e queste variando in ogni tempo e contrada, niuna definizione può essere più permanente di esse; ma giusta sarà, ogni qualvolta rappresenterà per l'appunto quella cosa, qual ella si era sotto quel dato nome in quei dati tempi e luoghi. Ammesso questo preamboletto, io mi era già posta insieme una definizione bastantemente esatta e accurata del tiranno, e collocata l'avea in testa di questo capitolo: ma, in un altro mio libercolo, scritto dopo e stampato prima di questo, essendomi occorso dappoi di dover definire il principe, mi son venuto (senza accorgermene) a rubare a me stesso la mia definizione del tiranno. Onde, per non ripetermi, la ommetterò qui in parte; né altro vi aggiungerò, che quelle particolarità principalmente spettanti al presente mio tema, diverso affatto da quell'altro DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE; ancorché tendente pur questo allo stesso utilissimo scopo, di cercare il vero, e di scriverlo. TIRANNO, era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi, otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli antichi. Divenne un tal nome, coll'andar del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi dovea. Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide esercitano, gravemente pure si offendono di essere nominati tiranni. Questa sì fatta confusione dei nomi e delle idee, ha posto una tale differenza tra noi e gli antichi, che presso loro un Tito, un Trajano, o qual altro più raro principe vi sia stato mai, potea benissimo esser chiamato tiranno; e così presso noi, un Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro moderno siasi agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere appellato legittimo principe, o re. E tanta è la cecità del moderno ignorantissimo volgo, con tanta facilità si lascia egli ingannare dai semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli che a sopportare gli aveano. Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto ciò ch'ei non pigliano. Ma la natura stessa delle cose suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior distinzione. Il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dee dare se non a coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l'abbiano, una facoltà illimitata di nuocere: e ancorché costoro non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborevoli abbastanza. Il nome di re, all'incontro, essendo finora di qualche grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che frenati dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data società che i primi e legittimi e soli esecutori imparziali delle già stabilite leggi. Questa semplice e necessaria distinzione universalmente ammessa in Europa, verrebbe ad essere la prima aurora di una rinascente libertà. È il vero, che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e perpetua; e che (come già il dissero tanti savj) la libertà pendendo tuttora in licenza, degenera finalmente in servaggio; come il regnar d'un solo pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà. Ma siccome per quanto io stenda in Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi di schiavi; siccome non può oramai la universale oppressione più ascendere, ancorché la non mai fissabile ruota delle umane cose appaja ora immobile starsi in favor dei tiranni, ogni uomo buono dee credere, e sperare, che non sia oramai molto lontana quella necessaria vicenda, per cui sottentrare al fin debba all'universale servaggio una quasi universal libertà.
Capitolo secondo
COSA SIA LA TIRANNIDE TIRANNIDE
indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. E, viceversa, tirannide parimente si dee riputar quel governo, in cui chi è preposto al creare le leggi, le può egli stesso eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi, cioè gli scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il semplice prodotto della volontà dei più; la quale si viene a raccogliere per via di legittimi eletti del popolo. Se dunque gli eletti al ridurre in leggi la volontà dei più le possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano costoro tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle, disfarle, cangiarle, e il male o niente eseguirle. Che la differenza fra la tirannide e il giusto governo, non è posta (come alcuni stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono) nell'esservi o il non esservi delle leggi stabilite; ma nell'esservi una stabilita impossibilità del non eseguirle. Non solamente dunque è tirannide ogni governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa; o chi le fa, le eseguisce: ma è tirannide piena altresì ogni qualunque governo, in cui chi è preposto all'eseguire le leggi non dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha create. Ma, tante specie di tirannidi essendovi, che sotto diversi nomi conseguono tutte uno stesso fine, non imprendo io qui a distinguerle fra loro, né, molto meno, a distinguerle dai tanti altri moderati e giusti governi: distinzioni, che a tutti son note. Se più sopportabili siano i molti tiranni, o l'un solo, ella è questione problematica assai. La lascierò anche in disparte per ora, perché essendo io nato e cresciuto nella tirannide d'un solo, ed essendo questa la più comune in Europa, di essa più volentieri e con minore imperizia mi avverrà forse di ragionare; e con utile maggiore fors'anco pe' miei cotanti conservi. Osserverò soltanto di passo, che la tirannide di molti, benché per sua natura maggiormente durevole (come ce lo dimostra Venezia) nondimeno a chi la sopporta ella sembra assai men dura e terribile, che quella di un solo. Di ciò ne attribuisco la cagione alla natura stessa dell'uomo, in cui l'odio ch'egli divide contro ai molti, si scema; come altresì il timore che si ha dei molti, non agguaglia mai quello che si ha riunitamente di un solo; ed in fine, i molti possono bensì essere continuamente ingiusti oppressori dell'universale, ma non mai, per loro privato capriccio, dei diversi individui. In codesti governi di più, che la corruzione dei tempi, lo avere scambiato ogni nome, e guasta ogni idea, hanno fatto chiamar repubbliche; il popolo in codesti governi, non meno schiavo che nella mono-tirannide, gode nondimeno di una certa apparenza di libertà, ed ardisce profferirne il nome senza delitto: e, pur troppo il popolo, allor quando corrotto è, ignorante, e non libero, egli si appaga della sola apparenza. Ma, tornando io alla tirannide di un solo, dico; che di questa ve n'ha di più sorti. Ereditaria può essere, ed anche elettiva. Di questa seconda specie sono, fra i moderni, lo stato pontificio, e molti degli altri stati ecclesiastici. Il popolo, in tali governi, pervenuto all'ultimo grado di politica stupidità, vede a ogni tratto, per la morte del celibe tiranno, ricadere in sua mano la propria libertà, che egli non conosce, né cura; quindi se la vede tosto ritogliere dai pochi elettori che gli ricompongono un altro tiranno, il quale ha per lo più tutti i vizj degli ereditarj tiranni, e non ne ha la forza effettiva per costringere i sudditi a sopportarlo. E questa tirannide pure tralascerò, come toccata in sorte a pochissimi uomini; e, per la loro smisurata viltà, indegni interamente di un tal nome. Intendo io dunque di ragionare oramai di quella ereditaria tirannide, che da lunghi secoli in varie parti del globo più o meno radicata, non mai, o rarissimamente o passeggeramente, ricevea danni dalla risorta libertà; e non veniva alterata o distrutta, se non se da un'altra tirannide. In questa classe annovero io tutti i presenti regni dell'Europa, eccettuandone soltanto finora quel d'Inghilterra e la Pollonia ne eccettuerei, se alcuna parte di essa salvandosi dallo smembramento, e persistendo pure nel volere aver servi e chiamarsi repubblica, servi ne divenissero i nobili, e libero il popolo. MONARCHIA, è il dolce nome che la ignoranza, l'adulazione, e il timore, davano e danno a questi sì fatti governi. A dimostrarne la insussistenza, credo che basti la semplice interpretazione del nome. O monarchia vuol dire, la esclusiva e preponderante autorità d'un solo; e monarchia allora è sinonimo di tirannide: o ella vuol dire, l'autorità di un solo, raffrenato da leggi; le quali, per poter raffrenare l'autorità e la forza, debbono necessariamente anch'esse avere una forza ed autorità effettiva, eguale per lo meno a quella del monarca; e in quel punto stesso in cui si trovano in un governo due forze e autorità in bilancia fra loro, egli manifestamente cessa tosto di essere monarchia. Questa greca parola non significa altro in somma, fuorché Governo ed autorità d'uno solo; e con leggi; s'intende; perché niuna società esiste senza alcuna legge tal quale: ma, ci s'intende pur anco Autorità di un solo sopra alle leggi; perché niuno è monarca, là dove esiste un'autorità maggiore, o eguale, alla sua. Ora, io domando in qual cosa differisca il governo e autorità di un solo nella tirannide, dal governo e autorità d'un solo nella monarchia. Mi si risponde: "Nell'abuso". Io replico: "E chi vi può impedire quest'abuso?" Mi si soggiunge: "Le leggi". Ripiglio: "Queste leggi hanno elle forza ed autorità per se stesse, indipendente affatto da quella del principe?" Nessuno più a questa obiezione mi replica. Dunque, all'autorità d'un solo, potente ed armato, andando annessa l'autorità di queste pretese leggi (e fossero elle pur anche divine) ogniqualvolta le leggi e costui non concordano, che faranno le misere, per se stesse impotenti, contro alla potestà assoluta e la forza? Soggiaceranno le leggi: e tutto giorno, in fatti, soggiacciono. Ma, se una qualunque legittima forza effettiva verrà intromessa nello stato per creare, difendere, e mantenere le leggi, chiarissima cosa è che un tale governo non sarà più monarchia; poiché al fare o disfare le leggi l'autorità d'un solo non vi basterà. Onde, questo titolo di monarchia, perfettissimo sinonimo di tirannide, ma non così abborrito finora, non viene adattato ai nostri governi per altro, che per accertare i principi della loro assoluta signoria; e per ingannare i sudditi, lasciandoli o facendoli dubitare della loro assoluta servitù. Di quanto asserisco, se ne osservi continuamente la prova nella opinione stessa dei moderni re. Si gloriano costoro del nome di monarchi, e mostrano di abborrire quel di tiranni; ma nel tempo stesso reputano assai minori di loro quegli altri pochi principi o re, che ritrovando limiti infrangibili al loro potere, dividono l'autorità colle leggi. Questi assoluti re sanno dunque benissimo, che fra monarchia e tirannide non passa differenza nessuna. Così lo sapessero i popoli, che pure tuttora colla loro trista esperienza lo provano! Ma i principi europei, di tiranni tengono caro il potere, e di monarchi il nome soltanto: i popoli all'incontro, spogliati, avviliti, ed oppressi dalla monarchia, la sola tirannide stupidamente abborriscono. Ma i pochi uomini, che re non sono né schiavi, ove per avventura non tengano a vile del paro i principi tutti; i monarchi, come tiranni; ed i principi limitati, come perpetuamente inclinati a divenirlo; i pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia più onorevole, più importante, e più gloriosa dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo d'uomini, che il malmenare a capriccio un vile branco di pecore. Tralascio ogni ulteriore prova (che necessaria non è) per dimostrare che una monarchia limitata non vi può essere, senza che immediatamente cessi la monarchia; e che ogni monarchia non limitata è tirannide, ancorché il monarca in qualche istante, non abusando egli in nessun modo del suo poter nuocere, tiranno non sia. E tali prove tralascio, per amor di brevità, e perché intendo di parlare a lettori, a cui non è necessario il dir tutto. Passerò quindi ad analizzare la natura della mono-tirannide, e quai siano i mezzi per cui, così ben radicatasi nell'Europa, inespugnabile ella vi si tiene oramai.
Capitolo terzo
DELLA PAURA
I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell'uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti, e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo culto antico, benché per tutt'altro fine instituite. Il tempio è la reggia; il tiranno n'è l'idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtù, l'onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dì vi s'immolano. Disse il dotto Montesquieu, che base e molla della monarchia ella era l'onore. Non conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare; Che base e molla della tirannide ella è la sola paura. E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì nella cagione che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore. Teme l'oppresso, perché oltre quello ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che l'assoluta volontà e l'arbitrario capriccio dell'oppressore. Da un così incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l'uom ragionasse) una disperata risoluzione di non voler più soffrire: e questa, appena verrebbe a procrearsi concordemente in tutti o nei più, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal continuo ed eccessivo temere nasce vie più sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la sommissione al tiranno; e crescono a segno, che non si possono aver maggiori mai per un Dio. Ma, teme altresì l'oppressore. E nasce in lui giustamente il timore della coscienza della propria debolezza effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale. Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti. La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o, per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto, né egli, né i popoli, non emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero; i popoli, col non voler più soggiacere all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso. Ma, nella guisa stessa che i sudditi non diventano disperati e feroci, ancorché altro non resti loro da perdere se non una misera vita; così, neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non gli rimanga da acquistare, se non la fama, e l'amore dei sudditi. Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente l'intelletto del tiranno anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad offendere, e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito. Egli perciò crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo dei sudditi contro a quella sua propria autorità ch'egli stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allor quando eseguito sia, o intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che un tal tentativo possa solamente essere stato concepito. La esistenza reale di queste due paure non è difficile a dimostrarsi. Di quella dei sudditi, argomentando ciascuno di noi dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno: della paura dei tiranni, assai ne fan fede i tanti e così diversi sgherri, che giorno e notte li servono e custodiscono. Ammessa questa reciproca innegabile paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi uomini che sempre tremano: e parliamo da prima dei sudditi, cioè di noi stessi, che ben ci dobbiamo conoscere; parleremo dei tiranni, per congettura, dappoi. E scegliamo nella tirannide quei pochi uomini, a cui e la robustezza delle fibre, e una miglior educazione, e una certa elevazion d'animo (quanta ne comportino i tempi) e in fine una minor dipendenza, dovrebbero far conoscere più il vero, e lasciarli tremare assai meno che gli altri: investigati quali siano, e quali possano, e debbano essere questi, dal loro valore argomenteremo per induzione quali siano ed esser debbano poi gli altri tutti. Questi pochissimi, degni per certo di miglior sorte, veggono pure ogni giorno nella tirannide il coltivatore, oppresso dalle arbitrarie gravezze, menare una vita stentata e infelice. Una gran parte di essi ne veggono estrarre per forza dai loro tugurj per portar l'armi; e non già per la patria, ma pel loro e suo maggior nemico, e contro a se stessi: veggono costoro il popolo delle città, l'una metà mendico, ricchissimo l'altra, e tutto egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta, la virtù dispregiata, i delatori onorati, la povertà ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita l'onore di tutti nella mano di un solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il diritto di arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci, e più tristi: tutto ciò veggono palpabilmente ogni giorno quei pochi enti pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e in ciò vedere, sommessamente sospirando, si tacciono. Ma, perché si tacciono? per sola paura. Nella tirannide, è delitto il dire, non meno che il fare. Da questa feroce massima dovrebbe almeno risultarne, che in vece di parlare, si operasse; ma (pur troppo!) né l'uno né l'altro si ardisce. Se dunque a tal segno avviliti sono i migliori, quali saranno in un tal governo poi gli altri? qual nome inventar si dovrà per distinguerli da coloro, che nei ragguardevoli antichi governi cotanto illustravano il nome di uomo? Si affaticano tutto dì gli scrittori per dimostrarci, che il caso e le circostanze ci vogliono sì fattamente diversi da quelli; ma nessuno ci insegna in qual modo si possano dominare il caso e le circostanze, né fino a qual punto questa diversità intendere e tollerare si debba. Si affaticano per altra parte i tiranni, e i loro tanti fautori più vili di essi, nel persuaderci che noi non siamo più di quella generosa specie antica. E, certo, finché sopportiamo il loro giogo tacendo, ella è quasi minore infamia per noi il credere piuttosto in ciò ai tiranni, che non ai moderni scrittori. Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e codardi; tutti, qual più qual meno, tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la vera universale efficacissima molla di un tal governo; e questo è il solo legame, che tiene i sudditi col tiranno. Si esamini ora, se il timor del tiranno sia parimente la molla del suo governare, e il legame che lo tiene coi sudditi. Costui, vede per lo più gli infiniti abusi dello informe suo reggere; ne conosce i vizj, i principj distruttivi, le ingiustizie, le rapine, le oppressioni; e tutti in somma i tanti gravissimi mali della tirannide, meno se stesso. Vede costui, che le troppe gravezze di giorno in giorno spopolano le desolate provincie; ma tuttavia non le toglie; perché da quelle enormi gravezze egli ne va ritraendo i mezzi per mantenere l'enorme numero de' suoi soldati, spie, e cortigiani; rimedj tutti (e degnissimi) alla sua enorme paura. E vede anch'egli benissimo, che la giustizia si tradisce o si vende; che gli uffizj e gli onori più importanti cadono sempre ai peggiori; e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur mai il tiranno. E perché non le ammenda? perché, se i magistrati fossero giusti, incorrotti, ed onesti, verrebbe tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto il nome di giustizia. Ne avviene da ciò, e da altre simili cose, che dovendo egli mal grado suo, e senza avvedersene quasi, reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce all'intelletto suo un fosco barlume di verità che gl'insegna, che se alcuna idea di vera giustizia si venisse a introdurre nel suo popolo, la prima giustizia si farebbe di lui: appunto perché nessun altr'uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai in una qualunque società nuocere sì gravemente ed a tanti, come può nuocere impunemente ogni giorno quest'uno nella propria tirannide. Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera giustizia, trema: ogni vero lume di sana ragione gli accresce il sospetto; ogni verità luminosa lo adira; lo spaventano i buoni; e non crede mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni più importante carica a gente ben sua; cioè venduta e simile a lui, e ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una gente più assai ingiusta, più tremante, e quindi più crudele, e più mille volte opprimente, ch'egli nol sia. "Ma, un tal principe si può dare" (dirammi taluno) "il quale ami gli uomini, aborrisca il vizio, e non lasci trionfare né rimuneri altro, che la sola virtù". Al che rispondo io, col domandare: "Può egli esistere un uomo buono ed amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si creda pure, o finga di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar conto delle opere sue e di sé, fuorché a Dio?" Io mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono, allor quando avrò visto un solo esempio, per cui, avendo costui voluto veramente il maggior bene di quegli altri enti suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrà prese le più efficaci misure per impedire che in quella sua società dove egli solo era il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche altro eletto da Dio al paro di lui, non potesse d'allora in poi commettere illimitatamente e impunemente quel male stesso che egli sapea certamente essersi commesso in quello stesso suo stato prima che ei vi regnasse; e che egli certamente sapea, attesa la natura dell'uomo, dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo il suo regno. Ma, come potrà egli chiamarsi buono quell'uomo, che dovendo e potendo fare un così gran bene a un sì fatto numero d'uomini, pure nol fa? E per qual altra ragione nol fa egli, se non perché un tal bene potrebbe diminuire ai suoi venturi figli o successori del suo illimitato orribil potere, del nuocere con impunità? E si noti di più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso, in vece di quell'infame illimitato potere di nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e non mai finora tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella mente dell'uomo; di avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicità di un popolo intero. Ora, ch'è egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno intronando gli orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non si reputa un uomo; (ed infatti non lo è; ma in tutt'altro senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè che non siano né nudi, né mendici; ma, che volendoli ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un solo, necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi, e vili, e viziosi, e assai men uomini in somma che bruti. Un tale buon principe (che buono altramente non può esser mai chiunque possiede una usurpata, illegittima, illimitata autorità) potrà egli giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come dall'altro ridondano? e, come tale, si dovrà egli meno abborrire da chi conosce e sente il servaggio? Il conservare, il difendere ad ogni costo, il reputare come la più nobile sua prerogativa lo sterminato potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto agli occhi di tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E si può egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura, poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può egli costui, più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich'essi all'ombra di leggi in nulla sottoposte a soldati, non possono securamente mai ridersi di niuno de' suoi assoluti capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo sacro di legge? Io crederei all'incontro, che per lo più quei tiranni che hanno da natura una miglior indole, riescano, quanto all'effetto, i peggiori pel popolo. Ed eccone una prova. Gli uomini buoni suppongono sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo più niente affatto conoscono gli uomini, presi universalmente; ma niente affatto poi certamente conoscono quelli che non vedono mai, e pochissimo quelli che vedono. Ora, non v'ha dubbio, che gli uomini che si accostano a loro son sempre i cattivi, perché un uomo veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro, la presenza d'ogni altro uomo, la cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche per l'influenza dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono. Ne avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l'un l'altro pessimi; ma i ribaldi accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e lo ingannano. E questo accade ogni dì; talché la tirannide per lo più non risiede nella persona del tiranno, ma nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla necessaria tristizia de'cortigiani. Ma, dovunque risieda la tirannide, pe' miseri sudditi la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi, più dura riesce per l'universale sotto il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele riesca per gl'individui. Il tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché la coscienza non lo rimorde di nessuna usata violenza; o, per dir meglio, egli trema assai meno del reo: che infin ch'egli tiene un'autorità illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto ignorante egli sia) non essere legittima mai, non si può interamente esimere dalla paura. Ed in prova, per quanto sia pacifico e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di dentro. Ma, anche supponendo che il mite tiranno non tremi egli stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei pochi pessimi che, usurpata sotto l'ombre del nome suo l'autorità principesca, la esercitano. Quindi la paura vien sempre ad essere la base, la cagione, ed il mezzo di ogni tirannide, anche sotto l'ottimo tiranno. E non mi si alleghino Tito, Trajano, Marc'Aurelio, Antonino; e altri simili, ma sempre pochissimi, virtuosi tiranni. Una prova invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla paura, si è, che nessuno di essi dava alle leggi autorità sovra la sua propria persona; e non la dava egli, perché espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo: nessuno di essi annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad un'altra autorità che alla propria; perché convinto era che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz'essi. Ciascuno dunque di costoro era pienamente certo in se stesso, che l'autorità sua era illimitata, poiché sottoporla non voleva alle leggi; e che illegittima ell'era, poiché sussistere non potea senza il terror degli eserciti. Domando, se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini reputare e chiamare un uomo buono? colui, che trovandosi in mano un potere ch'egli conosce vizioso, illegittimo, e dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non imprende almeno (potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che verran dopo lui: gente, a cui, per non esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll'impedir loro quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da quei tiranni che figli non lasciano. Né sotto Tito, Trajano, Marc'Aurelio, e Antonino, cessava la paura nei sudditi. La prova ne sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro, che si facessero (quali esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica restituissero. Ma facil cosa è ad intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente governo sarebbe il principato. Eccone la ragione. Allorché una paura è stata estrema e terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata dei due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si chiama e si reputa un nulla. Qual ente è egli dunque costui, che dalla sola sua spontanea e libera benignità possa e debba dipendere assolutamente la felicità o infelicità di tanti e tanti milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato interamente? egli sarebbe stupido affatto. Può egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato mai? può egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur mai nessunissimo? può egli, in somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò anteporre il bene di tutti al ben di se stesso? Non credo che alcun uomo al mondo vi sia, che volesse dare al suo più vero e sperimentato amico un arbitrio intero sopra il suo proprio avere, su la propria vita, ed onore; né, se un tal uom pur ci fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un così strano pericoloso e odioso incarico. Ora, ciò che un sol uomo non concederebbe mai per sé solo al suo più intimo amico, tutti lo concederebbero per se stessi, e pe' lor discendenti, e lo lascierebbero tener colla viva forza, da un solo, che amico loro non è né può essere? da un solo, che essi per lo più non conoscono; a cui pochissimi si avvicinano; ed a cui non possono neppure i molti dolersi delle ingiustizie ricevute in suo nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d'uomini: o, se pure una tale stupida moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad un solo una sì stravagante autorità, non potea essa costringer giammai le future generazioni a raffermarla e soffrirla. Ogni illimitata autorità è dunque sempre, o nella origine sua, o nel progresso, una manifesta e atrocissima usurpazione sul dritto naturale di tutti. Quindi io lascio giudice ogni uomo, se quell'uno che la esercita può mai tranquillamente e senza paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di poter nuocere illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque onesto privato si riputerebbe infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo amico, per dritto spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra costoro verrebbe a cessare, all'incominciare della possibilità di esercitar un tal dritto. La natura dell'uomo è di temere e perciò di abborrire chiunque gli può nuocere, ancorché giustamente gli nuoca. Ed in prova, fra que' popoli dove l'autorità paterna e maritale sono eccessive, si ritrovano i più spessi e terribili esempj della ingratitudine, disamore, disobbedienza, odio, e delitti delle mogli e dei figli. Quindi è, che il nuocere giustamente a chi male opera, essendo nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche si viene a temer molto le leggi, senza punto odiarle, perché non sono persona; si viene a rispettarne semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché troppi son essi, e tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente a non odiar né temere individuo nessuno. Ma all'incontro la immagine dell'ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli sotto l'aspetto di un uomo, che avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente lor nega che l'abbiano essi posseduta giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire che ritolta gli sia. Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono i popoli non si curare di ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai della lor non curanza, non si lascia perciò mai ritrovar senza spada. Non è dunque coraggio contra coraggio, ma paura contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene. Ma, mentre io della PAURA sì lungamente favello, già già mi sento gridar d'ogni intorno: " E quando fra due ereditarj tiranni si combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano per essi la morte, sono eglino guidati dalla paura, ovver dall'onore?" Rispondo; che di questa specie d'onore parlerò a suo luogo; che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer nostro non conoscono onore, e che riputiamo di sì gran lunga inferiori a noi, gli orientali anch'essi animosissimamente combattono pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita. Ne attribuisco in parte la cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che nei pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo vuol parere minore di un altro; ai pregiudizj succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, più che ad ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA. Questa terribilissima passione, sotto tanti e così diversi aspetti si trasfigura nel cuor dell'uomo, ch'ella vi si può per anco travestire in coraggio. Ed i moderni eserciti nostri, nei quali vengono puniti di morte quelli che fuggono dalla battaglia, ne possono fare ampia fede. Questi nostri eroi tiranneschi, che per pochi bajocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà, appresentati dai loro condottieri a fronte del nemico, si trovano avere alle spalle i loro proprj sergenti con le spade sguainate; e spesso anche delle artiglierie vi si trovano, affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino coraggio da fronte. Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.
Capitolo quarto
DELLA VILTÀ
Dalla paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più. Ma i vili in supremo grado necessariamente son quelli, che si avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di ogni attiva e passiva paura. Grandissima perciò, a parer mio, passa la differenza fra la viltà e la paura. Può l'uomo onesto, per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi costretto a temere; e temerà costui con una certa dignità; vale a dire, egli temerà tacendo, sfuggendo sempre perfino l'aspetto di quell'uno che tutti atterrisce, e fra se stesso piangendo, o con pochi a lui simili, la necessità di temere, e la impossibilità d'annullare, o di rimediare a un così indegno timore. All'incontro, l'uomo già vile per propria natura, facendo pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di un finto amore ascondendolo, cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per quanto egli potrà, col tiranno: e spererà quest'iniquo di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e di centuplicarlo in altrui. Onde, ella mi pare ben dimostrata cosa, che nella tirannide, ancorché avviliti sian tutti, non perciò tutti son vili.
Capitolo quinto
DELL'AMBIZIONE
Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno di farsi maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le più gloriose e le più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non perde punto della sua attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal governo intorpidite rimangono e nulle. Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore, altrettanto più vile riesce e viziosa. Il più alto scopo dell'ambizione in chi è nato non libero, si è di ottenere una qualunque parte della sovrana autorità: ma in ciò quasi del tutto si assomigliano e le tirannidi e le più libere e virtuose repubbliche. Tuttavia, quanto diversa sia quell'autorità parimente desiata, quanto diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se stesso lo vede. Si perviene ad un'assoluta autorità nella tirannide, piacendo, secondando, e assomigliandosi al tiranno: un popolo libero non concede la limitata e passeggera autorità, se non se a una certa virtù, ai servigj importanti resi alla patria, all'amore del ben pubblico in somma, attestato coi fatti. Né i tutti possono volere altro utile mai, che quello dei tutti; né altri premiare, se non quelli che arrecano loro quest'utile. È vero nondimeno, che possono i tutti alle volte ingannarsi, ma per breve tempo; e l'ammenda del loro errore sta in essi pur sempre. Ma il tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un interesse non solamente diverso, ma per lo più direttamente opposto a quello di tutti: egli dee dunque rimunerare chi è utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire debb'egli chiunque veramente tentasse di farsi utile a tutti. Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell'uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene di tutti, il tiranno nel rimunerarne l'autore pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza, egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E così colui, che avrà per caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai servi, non liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù) colui pur sempre dirà, ch'egli ha servito il tiranno; svelando con queste parole o il vile suo animo, o il suo cieco intelletto. Ed il tiranno stesso, ove la paura sua, e la dissimulazione che n'è figlia, non gli vadano rammentando che si dee pur nominare, almeno per la forma, lo stato; il tiranno anch'egli dirà, per innavvertenza, di aver premiato i servigj prestati a lui stesso. Così Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano, e futuro tiranno, si lasciava sfuggir dalla penna le seguenti parole: Scutoque ad eum (ad Caesarem) relato Scaevae Centurionis, inventa sunt in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus et de republica, donatum millibus ducentis, etc. Si vede in questo passo dalle parole, DE SE meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non parlar di se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente alla prima, che la parola de republica non veniva che dopo la parola DE SE, quasi per formoletta di correzione. In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo di tutti i tiranni, allor quando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir nella impresa: ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta. Ora, che penserà e dirà egli su tal punto un volgare tiranno? colui, che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se ne vive fino alla sazietà nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque sua voglia? Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur sempre più vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel solo che lo accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui, mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico. E parimente risulta dal fin qui detto; che l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli, attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna capacità e virtù; poiché, per piacere a molti ed ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa, che, o da vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e virtù. In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa. E quanto asserisco, mi sarà facile il provar con esempj. Erano già molto corrotti i Romani, e già già vacillava la lor libertà, allorché Mario, guadagnati a sé i suffragj del popolo, si facea console a dispetto di Silla e dei nobili. Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario; quali e quante virtù egli avesse già manifestate e nel foro e nel campo; e tosto si vedrà che il popolo giustamente lo favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtù sue soverchiavano di molto i suoi vizj. Erano i Francesi, non liberi, (che stati fino ai dì nostri non lo sono pur mai) ma in una crisi favorevole a far nascere libertà, ed a fissare per sempre i giusti limiti di un ragionevole principato, allorché saliva sul trono Arrigo quarto, quell'idolo dei Francesi un secolo dopo morte. Sully, integerrimo ministro di quell'ottimo principe, ne godeva in quel tempo, e ne meritava, il favore. Ma, se si vuole per l'appunto appurare qual fosse la politica virtù di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero. Sully, ebbe egli mai la virtù e l'ardire di prevalersi di un tal favore, e di sforzare con evidenza di ragioni inespugnabili quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi sopra di sé e dei suoi successori? e se egli ne avesse avuto l'ardire, si può egli presumere, che avrebbe conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno anche ottimo, non si può assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica virtù; né si può (molto meno) per via di vera politica virtù conservare. Esaminiamo ora da prima i fonti dell'autorità. I mezzi per ottenerla nelle repubbliche, sono il difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro sempre la verità, per quanto spiacevole ed oltraggiosa ella paja. I mezzi per ottenere autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai sudditi che non dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne l'illimitato potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le altre, questa importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa. Ed una tal verità è impossibile a dirsi da chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e ottenuto. Ma, questa manifesta e divina verità, riesce non meno impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile finalmente riesce a soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere, prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se stesso. Le corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima gente; e, se pure il caso vi ha intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di lui insopportabil virtù. Quindi è, che dove un solo è signore di tutto e di tutti, non può allignare altra compagnia, se non se scellerata. Di questa verità tutti i secoli, e tutte le tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e meno sentita. Il tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile. Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né può né vuole compatirne un sì grande. Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno, all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non curanza. Risponda ciascuno a questa obiezione, col domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella finalmente mai conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?" Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di molte virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui che la esercita. Né si può in verun modo dubitare, che nella repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni. Già prima di acquistare l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla; che non potrà abusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i competitori suoi. Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il più reo. Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi corrono entrambi del pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia? Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità. Quindi, nell'uno e nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori. E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo merita affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore contra gli esterni nemici. Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li riceve. L'ambizione d'arricchire, chiamata più propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch'elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede. L'ambizione d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia danaro del pubblico. Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono i vizj del tiranno, e di chi lo governa. Lo scopo, che si propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e nell'altro governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in queste, per godersele nei vizj e nel lusso. Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai più escusabile l'avidità di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l'acquistato è sicuro, e dove in somma lo scopo (ancorché più reo) può essere almeno più grande. In vece che nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille iniquità e viltà, e dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento ritolte da altre simili brighe, iniquità e viltà, o dal capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale. Parmi d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella tirannide. Conchiudo; che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil peste si fa dei non liberi.
Capitolo sesto
DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus: neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur. E fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si dee, come atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo, il discorrere a lungo. Questa fatal dignità altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è maggiore la incapacità del tiranno, che la comparte. Ma siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e capace; ne risulta per lo più, che costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli rassomiglia interamente nella impossibilità del ben fare, e di gran lunga lo supera nella capacità desiderio e necessità del far male. I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con maggiore estensione e in più supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti. E questo abborrimento sta nella natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo eguale, rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore: autorità, che per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza. Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire altrui sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila chiunque l'ha offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha, o glie ne viene imputato, il pensiero; e chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio. Il primo ministro perciò facilmente persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima egli, che tutte le violenze e crudeltà ch'egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno. Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o per timore, il tiranno ritoglie ad un tratto il favore e l'autorità al ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per singolare benignità, le predate ricchezze e la vita. Ma questa mutazione non è altro, che un aggravio novello al misero soggiogato popolo. Il che facilmente dimostrasi. Il ministro anteriore, benché convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia quasi mai dalla sua dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli ha saputo far perdere il favor del tiranno. Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel giorno, in cui al ministro è ritolta l'autorità e il favore. Allora bisogna, che lo stato si prepari a sopportare il ministro successore, il quale dee pur sempre essere di alcun poco più reo del predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa stabilita dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile. Eppure costui vuole, e dee volere (come il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere, ed atterrire. Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno, che di ministro, altro non è ad un popolo infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi. Ma, che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore, colla stessa facilità si dimostra. Per soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur d'uopo vincerlo in cattività e accortezza. Un ministro di tiranno per lo più non precipita, senza che alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a lui non sottentri. Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore. Domando: "Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in chi la possiede e felicemente la esercita". La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della non-ferocia dei moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze, ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità e rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo, che quello di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che maggiormente sotto essi tremavano. Alcuni di questi vicetiranni smessi, hanno la sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna; e ardiscono stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati. E costoro fanno ridere davvero gli uomini savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, né può essere mai stato, un vicetiranno. Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà da un così alto tema richiesta, se dimostrar io volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può né essere stato mai, né divenire, un filosofo. Proverò bensì, (come cosa assai più importante) che un primo ministro del tiranno non è mai, né può essere, un uomo buono ed onesto: intendendo io da prima per politica onestà e vera essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa. E, nell'avere io definita la politica onestà, parmi di aver largamente provato il mio assunto. Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria potenza, è egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che precariamente lo rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne lo precipitano? Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà la costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e con ragioni invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere, tutto dì ce lo provano assai meglio che nessuno scrittore provarlo potrebbe con le parole. Si osservi soltanto, che non esiste ministro nessuno che voglia perder la carica; che niuna carica è più invidiata della sua; che niun uomo ha più nemici di lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere: ora, se la virtù per se stessa possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro, e all'invidia, ne lascio giudice ognuno. Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la prepotenza; cioè l'abuso di un potere abusivo già per se stesso. Crescono la potenza e l'abuso ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito, perché questo tiranno elettivo e casuale si trova costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso. Una persona di più da difendersi, richiede necessariamente più mezzi di difesa; e un'autorità più illegittima, richiede mezzi più illegittimi. Perciò la creazione, o l'intrusione di questo personaggio nella tirannide, si dee senza dubbio riputare come la più sublime perfezione di ogni arbitraria potestà. Ed eccone in uno scorcio la prova. Il tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale, odia per innato timore l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli mai ricevuto ingiurie private, gl'individui non odia. La spada sta dunque, fin ch'egli stesso la tiene, in mano di un uomo, che per non essere stato offeso, non sa cui ferire. Ma, tosto ch'egli cede questo prezioso e terribile simbolo dell'autorità ad un suddito, che si è veduto degli eguali, e dei superiori; ad uno, che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dee sommamente essere odiato dai molti e dai più; chi ardirà mai credere allora, o asserire, o sperare che costui non ferisca?
Capitolo settimo
DELLA MILIZIA
Ma, o regni il tiranno stesso, o regni il ministro, a ogni modo sempre i difensori delle loro inique persone, gli esecutori ciechi e crudeli delle loro assolute volontà, sono i mercenarj soldati. Di questi ve ne ha nei moderni tempi di più specie; ma tutte però ad un medesimo fine destinate. In alcuni paesi d'Europa si arruolano gli uomini per forza; in altri, con minor violenza, e maggior obbrobrio per quei popoli, si offrono essi spontaneamente di perdere la lor libertà, o (per meglio dire) ciò che essi stoltamente chiamano di tal nome. Costoro s'inducono a questo traffico di se stessi, spinti per lo più dalla lor dappocaggine e vizj, e lusingati dalla speranza di soverchiare ed opprimere i loro eguali. Molti tiranni usano anche d'avere al lor soldo alcune milizie straniere, nelle quali maggiormente si affidano. E, per una strana contraddizione, che molto disonora gli uomini, gli Svizzeri, che sono il popolo quasi il più libero dell'Europa, si lasciano prescegliere e comprare, per servir di custodi alla persona di quasi tutti i tiranni di essa. Ma, o straniere siano o nazionali, o volontarie o sforzate, le milizie a ogni modo son sempre il braccio, la molla, la base, la ragione sola, e migliore, delle tirannidi e dei tiranni. Un tiranno di nuova invenzione cominciò in questo secolo a stabilire e mantenere un esercito intero e perpetuo in armi. Costui, nel volere un esercito, allorché non avea nemici al di fuori, ampiamente provò quella già nota asserzione; che il tiranno ha sempre in casa i nemici. Non era però cosa nuova, che i tiranni avessero per nemici i loro sudditi tutti; e non era nuovo neppure, che senza aver essi quei tanto formidabili eserciti, sforzassero nondimeno i lor sudditi ad obbedire e tremare. Ma, tra l'idea che si ha delle cose, e le cose stesse, di mezzo vi entrano i sensi; ed i sensi, nell'uomo, son tutto. Quel tiranno che nei secoli addietro se ne stava disarmato, se gli sopravveniva allora il capriccio o il bisogno di aggravare oltre l'usato i suoi sudditi, soleva per lo più astenersene; perché mormorandone essi o resistendogli, pensava che gli sarebbe necessario di armarsi per fargli obbedire e tacere. Ma ai tempi nostri, quell'autorità e forza, che il padre o l'avo del presente tiranno sapeano bensì d'avere, ma non se la vedeano sempre sotto gli occhi; quell'autorità e forza viene ora ampiamente dimostrata al regnante da quelle tante sue schiere, che non solo lo assicurano dalle offese dei sudditi, ma che ad offenderli nuovamente lo invitano. Onde, fra l'idea del potere nei passati tiranni, e la effettiva realità del potere nei presenti, corre per l'appunto la stessa differenza, che passa tra la possibilità ideale d'una cosa, e la palpabile esecuzione di essa. La moderna milizia, colla sua perpetuità, annulla nelle moderne tirannidi l'apparenza stessa del viver civile; di libertà seppellisce il nome perfino; e l'uomo invilisce a tal segno, che cose politicamente virtuose, giuste, giovevoli, ed alte, non può egli né fare, né dire, né ascoltar, né pensare. Da questa infame moltitudine di oziosi soldati, vili nell'obbedire, insolenti e feroci nell'eseguire, e sempre più intrepidi contro alla patria che contro ai nemici, nasce il mortale abuso dell'esservi uno stato di più nello stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha opinioni ed interessi diversi e in tutto contrarj a quelli del pubblico; e un corpo, che per la sua illegittima e viziosa istituzione, porta in se stesso la impossibilità dimostrata di ogni civile ben vivere. L'interesse di tutti o dei più, fra i popoli di ogni qualunque governo, si è di non essere oppressi, o il meno che il possono: nella tirannide i soldati, che non debbono aver mai interesse diverso da quello del tiranno che li pasce e che la loro superba pigrizia vezzeggia; i soldati, hanno necessariamente interesse di opprimere i popoli quanto più il possono; poiché quanto più opprimono, tanto più considerati sono essi, e necessarj, e temuti. Non accade nella tirannide, come nelle vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano ad esservi una parte di vita; e che, saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi accrescano libertà. Ogni diversità di interesse nella tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la universal servitù: e quindi bisogna che il debole per così dire si annichili, e che il forte si insuperbisca oltre ogni misura. Nella tirannide perciò le soldatesche son tutto, ed i popoli nulla. Questi prepotenti, o siano volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto ai costumi, la più vile feccia della feccia della plebe: e sì gli uni che gli altri, appena hanno investita la livrea della loro duplicata servitù, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi che i loro consimili; spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni, sprezzano i loro eguali, e li reputano assai da meno di loro. E in fatti, i veri contadini coltivatori nella tirannide si dichiarano assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi questa genia militante, che ardisce disprezzargli, insultargli, spogliargli, ed opprimerli. E a questa sì fatta genia potrebbero lievemente resistere i popoli, se volessero pure conoscere un solo istante la loro forza, poiché si troverebbero tuttavia mille contr'uno. E se tanta pur fosse la viltà degli oppressi, che colla forza aperta non ardissero affrontare questi loro oppressori, potrebbero anche facilmente con arte e doni corrompergli e comprarli; che quel loro valore sta per chi meglio lo paga. Ma da un sì fatto mezzo ne ridonderebbero in appresso più mali; tra cui non è il menomo, il ritrovarsi poscia fra il popolo una sì gran moltitudine d'enti, che soldati non potrebbero esser più, e che cittadini (ove anco il volessero) divenir non saprebbero. Vero è, che il popolo li teme e quindi gli odia; ma non gli odia pur mai quanto egli abborrisce il tiranno, e non quanto costoro sel meritano. Questa non è una delle più leggiere prove, che il popolo nella tirannide non ragiona, e non pensa: che se egli osservasse, che senza codesti soldati non potrebbe oramai più sussistere tiranno nessuno, gli abborrirebbe assai più; e da quest'odio estremo perverrebbe il popolo assai più presto allo spegnere affatto cotali soldati. E non paja contraddizione il dire; che senza soldati non sussisterebbe il tiranno, dopo aver detto di sopra, che non sempre i tiranni hanno avuto eserciti perpetui. Coll'accrescere i mezzi di usare la forza, hanno i tiranni accresciuta la violenza in tal modo, che se ora quei mezzi scemassero, verrebbe di tanto a scemare nei popoli il timore, che si distruggerebbe forse la tirannide affatto. Perciò quegli eserciti, che non erano necessarj prima che si oltrepassassero certi limiti, e prima che il popolo fosse intimorito e rattenuto da una forza effettiva e palpabile, vengono ad essere necessarissimi dopo: perché natura dell'uomo è, che chiunque per molti anni ha avuto davanti agli occhi e ceduto ad una forza effettiva, non si lasci più intimorire da una forza ideale. Quindi, nel presente stato delle tirannidi europee, al cessare dei perpetui eserciti, immantinente cesseran le tirannidi. Il popolo non può dunque mai con verisimiglianza sperare di vedersi diminuito o tolto questo continuo aggravio ed obbrobrio, dello stipendiare egli stesso i suoi proprj carnefici, tratti dalle sue proprie viscere, e così tosto immemori affatto dei loro più sacri e naturali legami. Ma il popolo ha pur sempre, non la speranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi egli stesso questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo non chiederà ad altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi. Ogni tiranno europeo assolda quanti più può di questi satelliti, e più assai che non può; egli se ne compiace, se ne trastulla, e ne va oltre modo superbo. Sono costoro il vero e primo giojello delle loro corone: e, mantenuti a stento dai sudori e digiuni del popolo, preparati son sempre a beverne il sangue, ad ogni minimo cenno del tiranno. Si accorda, in ragione del numero dei loro soldati, un diverso grado di considerazione ai diversi tiranni. E siccome non possono essi diminuire i satelliti loro senza che scemi l'opinione che si ha della loro potenza; e siccome una persona abborrita, ove ella mai cessi di essere temuta, apertamente si dileggia da prima, e tosto poscia si spegne; egli è da credersi, che i tiranni non aspetteranno mai questo manifesto disprezzo precursore infallibile della loro intera rovina, e che sempre dissangueranno il popolo per mantenere coi molti soldati se stessi. I tiranni, padroni pur anche per alcun tempo dell'opinione, hanno tentato di persuadere in Europa, ed hanno effettivamente persuaso ai più stupidi fra i loro sudditi, così plebei come nobili, che ella sia onorevole cosa la loro milizia. E col portarne essi stessi la livrea, coll'impostura di passare essi stessi per tutti i gradi di quella, coll'accordarle molte prerogative insultanti ed ingiuste sopra tutte le altre classi dello stato, e massime sopra i magistrati tutti, hanno con ciò offuscato gl'intelletti, ed invogliato gli stoltissimi sudditi di questo mestiere esecrabile. Ma una sola osservazione basta a distruggere questa loro scurrile impostura. O tu reputi i soldati come gli esecutori della tirannica volontà al di dentro; e allora può ella mai parerti onorevol cosa lo esercitare contra il padre, i fratelli, i congiunti, e gli amici, una forza illimitata ed ingiusta? O tu li reputi come i difensori della patria; cioè di quel luogo dove per tua sventura sei nato; dove per forza rimani; dove non hai né libertà, né sicurezza, né proprietà nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può ella parere il difendere codesto tuo sì fatto paese, e il tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto e assai più, che nol farebbe il nemico? e l'impedire in somma un altro tiranno di liberarti dal tuo? Che ti può egli togliere oramai quel secondo, che non ti sia stato già tolto dal primo? Anzi, potrà il nuovo tiranno, per necessaria accortezza, trattarti da principio molto più umanamente che il vecchio. Conchiudo adunque; Che, non si potendo dir patria là dove non ci è libertà e sicurezza, il portar l'armi dove non ci è patria riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri: poiché altro non è, se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il proprio interesse, e la vita, e l'onore, per una causa obbrobriosa ed ingiusta.
Capitolo ottavo
DELLA RELIGIONE
Quella qualunque opinione che l'uomo si è fatta o lasciata fare da altri, circa alle cose che egli non intende, come sarebbero l'anima e la divinità; quell'opinione suol essere anch'essa per lo più uno dei saldissimi sostegni della tirannide. L'idea che dal volgo si ha del tiranno viene talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che se ne potrebbe indurre, il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole) il più forte, ma bensì il più astuto conoscitore del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una idea, qual ch'ella si fosse, della divinità. Perciò, fra moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa veniva creata la tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e quasi sempre si sono l'una l'altra ajutate. La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del cielo una quasi repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegj della corte celeste; dovea essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero. La giudaica, e quindi la cristiana e maomettana, coll'ammettere un solo Dio, assoluto e terribile signor d'ogni cosa, doveano essere, e sono state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla tirannide. Queste cose tutte, già dette da altri, tralascio come non mie; e proseguendo il mio tema, che della moderna tirannide in Europa principalissimamente tratta, non esaminerò tra le diverse religioni se non se la nostra, ed in quanto ella influisce su le nostre tirannidi. La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero. A voler provare la prima di queste proposizioni, basterà, credo, il dimostrare che essa in nessun modo non induce, né persuade, né esorta gli uomini al viver liberi. Ed il primo, e principale incitamento ad un effetto così importante, dovrebbero pur gli uomini riceverlo dalla lor religione; poiché non vi è cosa che più li signoreggi; che maggiormente imprima in essi questa o quella opinione; e che maggiormente gli infiammi all'eseguire alte imprese. Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l'amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in un popolo non libero, non guerriero, non illuminato, e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli), interamente assimila a Dio. Se si esamina in qual modo ella si propagasse, si vedrà che sempre si procacciò più facilmente l'ingresso nelle tirannidi, che nelle repubbliche. Al cadere dell'imperio romano, (in cui ella non poté trovar seggio, se non quando la militare tirannide v'ebbe intieramente annullato ogni vivere civile) quelle tante nazioni barbare che l'occuparono, stabilite poi nella Italia, nelle Gallie, nelle Spagne, e nell'Africa, sotto i loro diversi condottieri abbracciarono indi a non molto la religion cristiana. E la ragione mi par ne sia questa. Quei loro condottieri volendo rimanere tiranni; e quei lor popoli, avvezzi ad esser liberi quando non erano in guerra, non volendo obbedire se non come soldati a capitano, e non mai come schiavi a tiranno; in questa disparità di umori frapponendosi il cristianesimo, egli vi appariva introduttore di una certa via di mezzo, per cui si andava persuadendo ai popoli l'obbedire, e ai capitani fatti tiranni si veniva assicurando l'imperio; ove questi una parte della loro autorità divider volessero coi sacerdoti. In prova di che, si osservi quell'altra parte di quelle stesse nazioni boreali rimastasi povera, semplice, e libera nelle natie sue selve, essere poi stata l'ultimo popolo d'Europa che ricevesse, più assai per violenza che per via di persuasione, la religion cristiana. Le poche nazioni che fuori d'Europa la ricevettero, vi furono per lo più indotte dal timore e dalla forza, come le diverse piagge di America e d'Affrica; ma dallo stesso ferocissimo fanatismo con cui veniva abbracciata nella Cina, e più nel Giappone, si può manifestamente dedurre quanto ella volentieri si alligni, e prosperi, nelle tirannidi. I troppi abusi di essa sforzarono col tempo alcuni popoli assai più savj che imaginosi, a raffrenarla, spogliandola di molte dannose superstizioni. E costoro, distinti poi col nome di eretici, si riaprirono con tal mezzo una strada alla libertà, la quale fra essi rinacque dopo essere stata lungamente sbandita d'Europa, e bastantemente vi prosperò; come gli Svizzeri, la Olanda, molte città di Germania, la Inghilterra, e la nuova America, ce lo provano. Ma i popoli, che, non la frenando, vollero conservarla intera, (non però mai quale era stata predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed anche con la violenza l'aveano i suoi successori trasfigurata) si chiusero essi sempre più ogni strada al riprocrear libertà. Addurrò ora, non tutte, ma le principali ragioni, per cui mi pare quasi impossibile che uno stato cattolico possa o farsi libero veramente, o rimaner tale, rimanendo cattolico. Il culto delle immagini, la presenza effettiva nella eucaristia, ed altri punti dogmatici, non saranno per certo mai quelli, che, creduti o no, verranno ad influire sopra il viver libero politico. Ma, IL PAPA, ma, LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL MATRIMONIO FATTOSI INDISSOLUBILE SACRAMENTO e IL CELIBATO DEI RELIGIOSI; sono queste le sei anella della sacra catena, che veramente a tal segno rassodano la profana, che ella di tanto ne diventa più grave ed infrangibile. E, dalla prima di queste sei cose incominciando, dico: Che un popolo, che crede potervi esser un uomo, che rappresenti immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è certamente un popolo stupido. Ma se, non lo credendo, egli viene per ciò tormentato, sforzato, e perseguitato da una forza superiore effettiva, ne accaderà che quella prima generazione d'uomini crederà nel papa, per timore; i figli, per abitudine; i nepoti, per stupidità. Ecco in qual guisa un popolo che rimane cattolico, dee necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo, e stupidissimo. Ma, mi dirà taluno: "Gli eretici credono pure nella trinità; e questa al senso umano pare una cosa certamente ancora più assurda che le sopraccennate: non sono dunque gli eretici meno stupidi dei cattolici". Rispondo; che anche i Romani credevano nel volo e nel beccar degli augelli, cosa assai più puerile ed assurda; eppure erano liberi e grandi; e non divennero stupidi e vili, se non quando, spogliati della lor libertà, credettero nella infame divinità di Cesare, di Augusto, e degli altri lor simili e peggiori tiranni. Quindi, la trinità nostra, per non essere cosa soggetta ai sensi, si creda ella o no, non può influire mai sopra il viver politico: ma, l'autorità più o meno di un uomo; l'autorità illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro ammanto della religione, importa e molte, e notabili conseguenze; tali in somma, che ogni popolo che crede od ammette una tale autorità, si rende schiavo per sempre. Lo ammetterla senza crederla, che è il caso nostro presente in quasi tutta l'Europa cattolica, mi pare una di quelle umane contraddizioni sì stranamente ripugnanti alla sana ragione, ch'elle non possono essere gran fatto durevoli; e quindi non occorre maggiormente parlarne. Ma i popoli che l'autorità del papa ammettono perché la credono, come erano i nostri avi, ed alcune presenti nazioni, necessariamente la credono o per timore, o per ignoranza e stupidità. Se per queste ultime ragioni la credono, chiaro è che una nazione stupida ed ignorante affatto, non può, nel presente stato delle cose, esser libera: ma, se per timore la credono i popoli, da chi vien egli in loro inspirato codesto timore? non dalle papali scomuniche certamente, poiché in esse non hanno fede costoro; dalle armi dunque e dalla forza spaventati saranno, ed indotti a finger di credere. E da quali armi mai? da qual vera forza? dalle armi e forza del tiranno, che politicamente e religiosamente gli opprime. Dunque, dovendo i popoli temere l'armi di chi li governa, in una cosa che dovrebbe essere ad arbitrio di ciascuno il crederla o no, ne risulta che chi governa tai popoli, di necessità è tiranno; e che essi, attesa questa loro sforzata credenza, non sono, né possono farsi mai liberi. Ed in fatti, né Atene, né Sparta, né Roma, né altre vere ed illuminate repubbliche, non isforzarono mai i lor popoli a credere nella infallibilità degli oracoli; né, molto meno, a rendersi tributarj e ciecamente obbedienti a niuno lontano sacerdozio. LA INQUISIZIONE, quel tribunale sì iniquo di cui basta il nome per far raccapricciare d'orrore, sussiste pur tuttavia più o meno potente in quasi tutti i paesi cattolici. Il tiranno se ne prevale a piacer suo; ed allarga, o ristringe la inquisitoria autorità, secondo che meglio a lui giova. Ma, questa autorità dei preti e dei frati (vale a dire, della classe la più crudele, la più sciolta da ogni legame sociale, ma la più codarda ad un tempo) quale influenza avrebbe ella per se stessa, qual terrore potrebbe ella infondere nei popoli, se il tiranno non la assistesse e munisse colla propria sua forza effettiva? Ora, una forza che sostiene un tribunale ingiusto e tirannico, non è certamente né giusta né legittima: dove alligna l'Inquisizione, alligna indubitabilmente la tirannia; dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante l'Inquisizione: non si può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente, e un popolo libero. Ma, che dirò io poi della CONFESSIONE? Tralascio il dirne ciò che a tutti è ben noto; che la certezza del perdono di ogni qualunque iniquità col solo confessarla, riesce assai più di sprone che di freno ai delitti; e tante altre cose tralascio, che dall'uso, o abuso di un tal sacramento manifestamente ogni giorno derivano. Io mi ristringo a dire soltanto; che un popolo che confessa le sue opere, parole, e pensieri ad un uomo, credendo di rivelarli per un tal mezzo a Dio; un popolo, che fra gli altri peccati suoi è costretto a confessare come uno dei maggiori, ogni menomo desiderio di scuotere l'ingiusto giogo della tirannide, e di porsi nella naturale ma discreta libertà; un tal popolo non può esser libero, né merita d'esserlo. La dottrina del PURGATORIO, cagione ad un tempo ed effetto della confessione, contribuisce non poco altresì ad invilire, impoverire, e quindi a rendere schiavi i cattolici popoli. Per redimere da codesta pena i loro padri ed avi, colla speranza di esserne poi redenti dai loro figli e nipoti, danno costoro ai preti non solamente il loro superfluo, ma anche talvolta il lor necessario. Quindi la sterminata ricchezza dei preti; e dalla loro ricchezza, la lor connivenza col tiranno; e da questa doppia congiura, la doppia universal servitù. Onde, di povero che suol essere in ogni qualunque governo il popolo, fatto poverissimo per questo mezzo di più nella tirannide cattolica, egli vi dee rimanere in tal modo avvilito, che non penserà né ardirà mai tentare di farsi libero. I sacerdoti all'incontro, di poveri (benché non mendici) che esser dovrebbero, fatti per mezzo di codesto lor purgatorio ricchissimi, e quindi moltiplicati e superbi, sono sempre in ogni governo inclinati, anzi sforzati da queste loro illegittime sterminate ricchezze, a collegarsi con gli oppressori del popolo, e a divenire essi stessi oppressori per conservarle. Dalla indissolubilità del MATRIMONIO FATTOSI SACRAMENTO, ne risultano palpabilmente quei tanti politici mali, che ogni giorno vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi mariti, peggiori mogli, non buoni padri, e pessimi figli: e ciò tutto, perché quella sforzata indissolubilità non ristringe i legami domestici; ma bensì, col perpetuarli senza addolcirli, interamente li corrompe e dissolve. E finalmente poi, siccome dall'essere i popoli cattolici sforzatamente perpetui conjugi, non sogliono esser essi fra loro né mariti veri, né mogli, né padri; così, dall'essere i preti cattolici sforzatamente PERPETUI CELIBI, non sogliono mostrarsi né fratelli, né figli, né cittadini; che per conoscere e praticare virtuosamente questi tre stati, troppo importa il conoscere per esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e marito. Da queste fin qui addotte ragioni, mi pare che ne risulti chiaramente (oltre la maggior ragione di tutte, che sono i fatti) che un popolo cattolico già soggiogato dalla tirannide, difficilissimamente può farsi libero, e rimanersi veramente cattolico. E per addurne un solo esempio, che troppi addurne potrei, nella ribellione delle Fiandre, quelle provincie povere, che non avendo impinguati i lor preti si erano potute far eretiche, rimasero libere; le grasse e ridondanti di frati, di abati, e di vescovi, rimasero cattoliche e serve. Vediamo ora, se un popolo che già si ritrovi libero e cattolico, si possa lungamente mantener l'uno e l'altro. Che un popolo soggiogato da tanti e sì fatti politici errori, quanti ne importa il viver cattolico, possa essere politicamente libero, ella è cosa certamente molto difficile: ma, dove pure ei lo fosse, io credo che il conservarsi tale, sia cosa impossibile. Un popolo, che crede nella infallibile e illimitata autorità del papa, è già interamente disposto a credere in un tiranno, che con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa istesso, lo persuaderà, o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo papa nelle religiose. Un popolo, che trema della Inquisizione, quanto più non dovrà egli tremare di quell'armi stesse che la Inquisizione avvalorano? Un popolo, che si confessa di cuore, può egli non essere sempre schiavo di chi può assolverlo o no? Dico di più; che dal ceto stesso dei sacerdoti, (ove un laico tiranno non vi fosse) ne insorgerebbe uno religioso ben tosto; o se da altra parte insorgesse un tiranno, lo approverebbero e seconderebbero i sacerdoti, sperandone il contraccambio da lui. Ed è cosa anche provata dai fatti; si veda perfino nelle semi-repubbliche italiane, i sacerdoti esservi saliti assai meno in ricchezza e in potenza, che nelle tirannidi espresse di un solo. Un popolo finalmente, che si spropria dell'aver suo, togliendolo a se stesso, a' suoi congiunti, e ai proprj suoi figli, per darlo ai sacerdoti celibi, diventerà coll'andar del tempo indubitabilmente così bisognoso e mendico, che egli sarà preda di chiunque lo vorrà conquistare, o far servo. Non so se al sacerdozio si debba la prima invenzione del trattare come cosa sacrosanta il politico impero, o se l'impero abbia ciò inventato in favore del sacerdozio. Questa reciproca e simulata idolatria, è certamente molto vetusta; e vediamo nell'antico testamento a vicenda sempre i re chiamar sacri i sacerdoti, e i sacerdoti i re; ma da nessuno mai dei due udiamo chiamare, o reputare mai sacri, gl'incontestabili naturali diritti di tutte le umane società. Il vero si è, che quasi tutti i popoli della terra sono stati, e sono (e saranno sempre, pur troppo!) tolti in mezzo da queste due classi di uomini, che sempre fra loro si sono andate vicendevolmente conoscendo inique, e che con tutto ciò si sono reciprocamente chiamate sacre: due classi, che dai popoli sono state spesso abborrite, alcuna volta svelate, e sempre pure adorate. È il vero altresì, che in questo nostro secolo i presenti cattolici poco credono nel papa; che pochissimo potere ha la inquisizion religiosa; che si confessano soltanto gl'idioti; che non si comprano oramai le indulgenze, se non dai ladri religiosi e volgari: ma, al papa, alla Inquisizione, alla confessione, e all'elemosine purgatoriali, in questo secolo, fra i presenti cattolici, ampiamente supplisce la sola MILIZIA; e mi spiego. Il tiranno ottiene ora dal terrore che a tutti inspirano i suoi tanti e perpetui soldati, quello stesso effetto che egli per l'addietro otteneva dalla superstizione, e dalla totale ignoranza dei popoli. Poco gl'importa oramai che in Dio non si creda; basta al tiranno, che in lui solo si creda; e di questa nostra credenza, molto più vile e assai meno consolatoria per noi, glie n'entrano mallevadori continui gli eserciti suoi. Vi sono nondimeno in Europa alcuni tiranni, che volendo con ipocrisia mascherare tutte l'opere loro, pigliano a sostenere le parti della religione, per farsi pii reputare, e per piacere al maggior numero che pur tuttora la rispetta, e la crede. Ogni savio tiranno, ed accorto, così dee pure operare; sia per non privarsi con una inutile incredulità di un così prezioso ramo dell'autorità assoluta, quale è l'ira dei preti amministrata da lui, e viceversa, la sua, amministrata da essi; sia perché usando altrimenti, potrebbe egli avvenirsi in un qualche fanatico di religione, il quale facesse le veci di un fanatico di libertà: e quelli sono e men rari e più assai incalzanti, che questi. E perché mai sono quelli men rari? attribuir ciò si dee all'essere il nome di religione in bocca di tutti; e in bocca di pochissimi, e in cuore quasi a nessuno, il nome di libertà. Il più sublime dunque ed il più utile fanatismo, da cui veramente ne ridonderebbero degli uomini maggiori di quanti ve ne siano stati giammai, sarebbe pur quello, che creasse e propagasse una religione ed un Dio, che sotto gravissime pene presenti e future comandassero agli uomini di esser liberi. Ma, coloro che inspiravano il fanatismo negli altri, non erano per lo più mai fanatici essi stessi; e pur troppo a loro giovava d'inspirarlo per una religione ed un Dio, che agli uomini severamente comandassero di essere servi.
Capitolo nono
DELLE TIRANNIDI ANTICHE, PARAGONATE COLLE MODERNE
Le cagioni stesse hanno certamente in ogni tempo e luogo, con piccolissime differenze, prodotto gli stessi effetti. Tutti i popoli corrottissimi hanno soggiaciuto ai tiranni, fra' quali ve ne sono stati dei pessimi, dei cattivi, dei mezzani, e perfino anco dei buoni. Nei moderni tempi i Caligoli, i Neroni, i Dionigi, i Falaridi, ecc., rarissimi sono: e se anche vi nascono, assumono costoro fra noi una tutt'altra maschera. Ma meno feroce d'assai è anche il popolo moderno: quindi la ferocia del tiranno sta sempre in proporzione di quella dei sudditi. Le nostre tirannidi, in oltre, differiscono dalle antiche moltissimo; ancorché di queste e di quelle la milizia sia il nervo, la ragione, e la base. Né so, che questa differenza ch'io sto per notare, sia stata da altri osservata. Quasi tutte le antiche tirannidi, e principalmente la romana imperiale, nacquero e si corroborarono per via della forza militare stabilita senza nessunissimo rispetto su la rovina totale d'ogni preventiva forza civile e legale. All'incontro le tirannidi moderne in Europa sono cresciute e si sono corroborate per via d'un potere, militare sì e violento, ma pure fatto, per così dir, scaturire da quell'apparente o reale potere civile e legale, che si trovava già stabilito presso a quei popoli. Servirono a ciò di plausibil pretesto le ragioni di difesa d'uno stato contro all'altro; la conseguenza ne riuscì più sordamente tirannica che fra gli antichi; ma ella ne è pur troppo più funesta e durevole, perché in tutto è velata dall'ammanto ideale di una legittima civile possanza. I Romani erano educati fra il sangue; i loro crudeli spettacoli, che a tempo di repubblica virtuosamente feroci li rendevano, al cessar d'esser liberi non li faceano cessare per ciò di essere sanguinarj. Nerone, Caligola, ecc., ecc., trucidavano la madre, la moglie, i fratelli, e chiunque a lor dispiacesse: ma Nerone, Caligola, e i simili a loro, morivano pur sempre di ferro. I nostri tiranni non uccidono mai apertamente i loro congiunti; rarissimamente versano senza necessità il sangue dei sudditi, e ciò non fanno se non sotto il manto della giustizia: ma anche i tiranni nostri se ne muojono in letto. Non negherò, che a raddolcire gli universali costumi non poco contribuisse la religione cristiana; benché da Costantino fino a Carlo VI tanti tratti di stupida ignorante e non grandiosa ferocia si possono pur leggere nelle storie di tutti quei popoli intermediarj, che storia a dir vero non meritavano. Nondimeno attribuire si debbe in qualche parte il raddolcimento universale dei costumi, e una certa urbanità nella tirannide diversamente modificata, alla influenza della cristiana religione. Il tiranno, anch'egli ignorante per lo più e superstizioso, e sempre codardo, il tiranno anch'egli si confessa; e benché sempre vada assolto dalle oppressioni e dalle angarie fatte ai suoi sudditi, non lo sarebbe forse poi in questi nostri tempi dell'aver trucidato apertamente la madre e i fratelli, o dell'aver messo a fuoco e a sangue una propria città e provincia, se non se ricomprando con enorme prezzo, e con una total sommissione ai sacerdoti, la disusata enormità di un tanto misfatto. Se sia un bene od un male, che dall'essere raddolciti tanto gli universali costumi ne risultino queste nostre tirannidi assai meno feroci, ma assai più durevoli e sicure che le antiche, ne può esser giudice chiunque vorrà paragonare gli effetti e le influenze di queste e di quelle. Quanto a me, dovendone brevissimamente parlare, direi; che difficilmente può nascere ai tempi nostri un Nerone ed esercitar l'arte sua; ma che assai più difficilmente ancora può nascere un Bruto, e in pubblico vantaggio la mano adoprare ed il senno.
Capitolo decimo
DEL FALSO ONORE
Ma, se le antiche tirannidi e le moderne si rassomigliano nell'aver esse la paura per base, la milizia e la religione per mezzi, differiscono alquanto le moderne dalle antiche per aver esse nel falso onore, e nella classe della nobiltà ereditaria permanente, ritrovato un sostegno, che può assicurarne la durata in eterno. Ragionerò in questo capitolo del falso onore; e alla nobiltà, che ben se lo merita, riserberò un capitolo a parte. L'onore, nome da tanti già definito, da tutti i popoli, e in tutti i tempi diversamente inteso, e a parer mio indefinibile; l'onore verrà ora da me semplicemente interpretato così: La brama, e il diritto, di essere onorato dai più. Ed il falso distinguerò dal vero, falsa chiamando quella brama d'onore, che non ha per ragione e per base la virtù dell'onorato, e l'utile vero degli onoranti; e vera all'incontro chiamerò quella brama di onore, che altra ragione e base non ammette se non la utile e praticata virtù. Ciò posto, esaminiamo qual sia questo onore nelle tirannidi, chi lo professi, a chi giovi, da qual virtù nasca, e qual virtù ed utile egli promuova. L'onore nelle tirannidi si va spacciando egli stesso come il solo legittimo impulso, che spinge tutti coloro che pretendono di non operar per paura. Il tiranno, contento oltre ogni credere, che la paura mascherata sotto altro titolo venga nondimeno a produrre un medesimo, anzi un maggior effetto in suo pro, straordinariamente seconda questa volgare illusione. Col semplice nome di onore, che sempre gli sta tra le labbra, egli riesce pure a spingere i suoi sudditi a coraggiose e magnanime imprese, le quali veramente onorevoli sarebbero, se fatte non fossero in suo privato vantaggio, ed in pubblico danno. Ma, se onore vuol dire; Il giusto diritto di essere veramente onorato dai buoni ed onesti, come utile ai più; e se la virtù sola può essere base a un tal dritto; come può egli il tiranno profferire mai un tal nome? Lo ripetono anche i sudditi a gara; ma se la loro brama e diritto d'essere onorati si fondasse su la pratica della vera virtù, potrebbero eglino servire, obbedire, e giovare a un tiranno che nuoce a tutti? E noi stessi schiavi moderni, ove ricordare pure vogliamo la memoria d'un uomo giustamente onorato per molte età da molti e diversi popoli, e che quindi moltissimo onore abbia avuto nel cuore, facciamo noi menzione di un Milziade, di un Temistocle, di un Regolo, ovvero d'uno Spitridate, di un Sejano, o di altro prepotente schiavo di tiranno? Noi stessi dunque (e senza avvedercene) sommamente onorando quegli uomini liberi, grandi, e giustamente onorevoli ed onorati, veniamo manifestamente a mostrare, che il vero onore era il loro; e che il nostro, il quale in tutto è l'opposto di quello, è il falso; poiché niente onoriamo la memoria di quei pretesi grandi in tirannide. Ma, se l'onore nelle tirannidi è falso, e se, immedesimatosi colla paura, egli è pure la principalissima molla di un tal governo, da un falso principio falsissime conseguenze risultar ne dovranno; e ne risultano in fatti. L'onore nella tirannide impone, che mai non si manchi di fede al tiranno. Impone l'onore nella repubblica, che chiunque volesse farsi tiranno, sia spento. Per giudicare qual sia tra questi due onori il verace, esaminiamo alla sfuggita questa fede, che il servo non dee rompere al tiranno. Il rompere la data fede, è certamente cosa, che dee disonorar l'uomo in ogni qualunque governo: ma la fede dev'essere liberamente giurata, non estorquita dalla violenza, non mantenuta dal terrore, non illimitata, non cieca, non ereditaria; e, sovra ogni cosa, reciproca dev'esser la fede. Ogni moderno tiranno, al riappiccarsi in fronte la corona del padre, anch'egli ha giurato una fede qualunque ai suoi sudditi, che già rotta e annullata dal di lui padre, lo sarà parimente e doppiamente da esso. Il tiranno è dunque di necessità sempre il primo ad essere spergiuro, e fedifrago: egli è dunque il primo a calpestarsi fra' piedi il proprio onore, insieme con le altrui cose tutte. Ed i suoi sudditi perderebbero l'onor loro, nel romper essi quella fede che altri ha manifestamente già rotta? La pretesa virtù, in questo caso frequente pur tanto nelle tirannidi, sta dunque direttamente in opposizione coll'onor vero; poiché, se un privato ti manca di fede, anche l'onore stesso delle tirannidi t'impone di fargliela a forza osservare, per vendicare in tal modo il disprezzo ch'egli ha mostrato espressamente di te nell'infrangerla. Manifestamente dunque falso è quell'onore che comanda di serbar rispetto, ed amore, e fede a chi non serba, o può impunemente non serbare, alcuna di queste tre cose a nessuno. Da questo falso onore nasce poi la falsissima conseguenza, che si venga a credere legittima infrangibile e sacra quell'autorità, che l'onore stesso costringe a mantenere e difendere. A questo modo, nella tirannide, guasti essendo e confusi i nomi di tutte le cose, i capricci del tiranno messi in carta, col sacro nome di leggi s'intitolano; e si rispettano, ed eseguiscono, come tali. Così, a quella terra dove si nasce, si dà nella tirannide risibilmente il nome di patria; perché non si pensa che patria è quella sola, dove l'uomo liberamente esercita, e sotto la securtà d'invariabili leggi, quei più preziosi diritti che natura gli ha dati. Così, si ardisce nella tirannide appellare senato (col nome cioè dei liberi scelti patrizj di Roma) una informe raccolta di giudici trascelti dal principe, togati di porpora, e specialmente dotti in servire. Così finalmente, si viene a chiamare nella tirannide col titolo sacro d'onore la dimostrata impossibilità di essere giustamente onorato dai buoni, come di essere utile ai molti. Ma, per maggiormente accertarci, che l'onor nostro sia il falso, paragoniamolo alquanto più lungamente a quello delle repubbliche antiche, nelle sue cagioni, mezzi, ed effetti; e certo arrossiremo noi tosto di profferire un tal nome; che se dicessimo non essere egli a noi noto affatto, con una tale ignoranza escuseremmo almeno la infamia nostra in gran parte. Comandava l'onore antico a quei popoli liberi, di dar la vita per la libertà; vale a dire pel maggior vantaggio di tutti: ci comanda il moderno onore di dar la vita pel tiranno; vale a dire per colui che sommamente nuoce a noi tutti. Voleva l'antico onore, che le ingiurie private cedessero sempre alle pubbliche: vuole il moderno che si abbiano le pubbliche per nulla, e che atrocemente si vendichino le private. Voleva l'antico, che i suoi seguaci serbassero amore e fede inviolabile alla patria sola: il nostro la vuole e comanda pel solo tiranno. E non finirei, se i precetti di questo e di quello, in tutto contrarj fra loro, annoverare volessi. Ma i mezzi per essere onorato, non meno dai popoli servi che dai liberi, sono pur sempre il coraggio e una certa virtù: colla somma differenza nondimeno, che l'onore nelle repubbliche, scevro da ogni privato interesse, riesce di pura ricompensa a se stesso; ma nelle tirannidi questo onore impiegatosi in pro del tiranno, vien sempre contaminato da mercedi e favori, che più o meno distribuiti dal principe, accrescono, minorano, o anche, negati, spengono affatto l'onore nel cuore de' suoi servi. Le conseguenze poi di questi due diversi onori, facilissime sono a dedursi. Libertà, grandezza d'animo, virtù domestiche e pubbliche, il nome e il felice stato di cittadino; ecco quali erano i dolci frutti dell'antico onore: tirannia, ferocia inutile, vil cupidigia, servaggio, e timore; ecco innegabilmente quali sono i frutti del moderno. I Greci e' Romani erano in somma il prodotto del vero onor ben diretto; i popoli tutti presenti d'Europa, (meno gl'Inglesi) sono il prodotto del falso onore moderno. Paragonando fra loro questi popoli, la diversa felicità e potenza da essi acquistata, le diverse cose operate da loro, la fama che ottengono, e quella che meritano, si viene ad avere un'ampia e perfetta misura di ciò che possa nel cuor dell'uomo questa divina brama di essere giustamente onorato, allorché dai saggi governi ella è bene indrizzata e accresciuta, o allorché dai tirannici ella viene diminuita, o traviata dal vero. Mi si dirà che, o buono sia o cattivo il principio, a ogni modo il sagrificar la propria vita, il mantenere la data fede a costo di essa, l'esporla per vendicare le ingiurie private, tutto ciò suppone pur sempre una somma virtù. Né io imprendo stoltamente a negare, che nelle tirannidi vi sia moltissima gente capace di virtù, e nata per esercitarla: piango solamente in me stesso di vederla falsamente adoprarsi nel sostenere, e difendere il vizio, e quindi nello snaturare, e distruggere se stessa. E niuno politico scrittore ardirà certamente chiamare virtù uno sforzo, ancorché massimamente sublime, da cui, in vece del pubblico bene, ne debba poi ridondare un male per tutti, e la prolungazione del pubblico danno. Ora, perché dunque quella stessa vita, che tanti e sì fatti uomini ripieni di falso onore vanno così prodigamente spendendo pel tiranno, perché quella vita stessa non vien ella da loro sagrificata, con più ragione e con ugual virtù, per togliere a colui la tirannide? E quel valore inutile (poiché non ne ridonda alcun bene) quell'efferato valore, con cui nelle tirannidi si vendicano le private offese, perché non si adopera tutto contro al tiranno, che tutti, e in più supremo grado, non cessa pur mai un momento di offendere? E quella fede che così ostinatamente cieca si osserva verso il nemico di tutti, perché, con egual pertinacia e con più illuminata virtù, non si giura ella ed osserva inverso i sacri ed infranti diritti dell'uomo? Nelle tirannidi dunque, a tal segno ridotti son gl'individui, che, qualunque impulso dalla natura abbiano ricevuto all'operar cose grandi, essi edificano pur sempre sul falso, ogniqualvolta non sanno o non osano calpestare il moderno onore, e riassumere l'antico.
Capitolo undecimo
DELLA NOBILTÀ
Havvi una classe di gente, che fa prova e vanto di essere da molte generazioni illustre, ancorché oziosa si rimanga ed inutile. Intitolasi nobiltà; e si dee, non meno che la classe dei sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei più feroci e permanenti sostegni della tirannide. E benché alcune repubbliche liberissime, e Roma tra le altre, avessero anch'elle in sé questo ceto, è da osservarsi, che già lo avevano quando dalla tirannide sorgeano a libertà; che questo ceto era pur sempre il maggior fautore dei cacciati Tarquinj; che i Romani non accordarono d'allora in poi nobiltà, se non alla sola virtù; che la costanza tutta, e tutte le politiche virtù di quel popolo erano necessarie per impedire per tanti anni ai patrizj di assumere la tirannide; e che finalmente poi dopo una lunga e vana resistenza, era forza che il popolo credendo di abbattergli, ad essi pur soggiacesse. I Cesari in somma erano patrizj, che mascheratisi da Marii, fingendo di vendicare il popolo contra i nobili, amendue li soggiogarono. Dico dunque; che i nobili nelle repubbliche, ove essi vi siano prima ch'elle nascano, o tosto o tardi le distruggeranno, e faran serve; ancorché non vi siano da prima più potenti che il popolo. Ma, in una repubblica, in cui nobili non vi siano, il popolo libero non dee mai creare nel proprio seno un sì fatale stromento di servitù, né mai staccare dalla causa comune nessuno individuo, né (molto meno) staccarne a perpetuità, nessuna intera classe di cittadini. Pure, per altra parte moltissimo giovando alla emulazione, e non poco alla miglior discussione dei pubblici affari, l'aver nella repubblica un ceto minore in numero, e maggiore in virtù al ceto di tutti, potrebbe un popolo libero a ciò provvedere col crearsi questo ceto egli stesso, e crearlo a vita od a tempo, ma non ereditario giammai; affinché possano costoro operare nella repubblica quel tal bene che vi oprerebbe forse la nobiltà, senza poterne operare mai niuno dei mali, che ella tutto giorno pur vi opera. Natura dell'uomo si è, che quanto egli più ha, tanto desidera più, e tanto maggiormente in grado si trova di assumersi più. Al ceto dei nobili ereditarj, avendo essi la primazìa e le ricchezze, altro non manca se non la maggiore autorità, e quindi ad altro non pensano che ad usurparla. Per via della forza nol possono, perché in numero si trovano pur sempre di tanto minori del popolo. Per arte dunque, per corruzione, e per fraude, tentano di usurparla. Ma, o fra loro tutti si accordano, e, per invidia l'uno dell'altro, rimanendo la usurpata autorità nelle mani di loro tutti, ecco allora creata la tirannide aristocratica: ovvero tra quei nobili se ne trova uno più accorto, più valente, e più reo degli altri, che parte ne inganna, parte ne perseguita o distrugge, e fingendo di assumere le parti e la difesa del popolo, si fa assoluto signore di tutti; ed ecco, come sorge la tirannide d'un solo. Ed ecco, come ogni tirannide ha sempre per origine la primazìa ereditaria di pochi: poiché la tirannide importando necessariamente sempre lesione e danno dei più, ella non si può mai originare né lungamente esercitare da tutti, che al certo non possono mai volere la lesione ed il danno di se stessi. Conchiudo adunque, quanto alla ereditaria nobiltà, che quelle repubbliche, in cui ella è già stabilita, non possono durar libere di vera politica libertà; e che nelle tirannidi questa vera libertà non vi si può mai stabilire, o stabilita durarvi, finché vi rimangono de' nobili ereditarj: e le tirannidi nelle loro rivoluzioni non muteranno altro mai che il tiranno, ogniqualvolta non abbatteranno con esso ad un tempo la nobiltà. Così Roma, benché cacciasse i tiranni Tarquinj, rimanendovi pure, dopo svanito il comune pericolo, assai più potenti i patrizj che il popolo, Roma non fu veramente libera e grande, che alla creazione dei tribuni. Questo popolar magistrato, contrastando di pari colla potenza patrizia, ed essendo abbastanza potente per tenerla a freno, e non abbastanza per distruggerla affatto, per molto tempo sforzava i nobili a gareggiare col popolo in virtù; e ne nacque perciò per gran tempo il bene di tutti. Ma il mal seme pur rimaneva, e all'accrescersi della universale potenza e ricchezza, rigermogliò più che mai rigogliosa ogni superbia e corruzione nei nobili; e questi poi, così guasti, in breve la repubblica spensero. Fu dottamente e con sagace verità osservato, prima dal nostro gran Machiavelli, e con qualche maggior ordine poi da Montesquieu, che quelle gare stesse fra la nobiltà ed il popolo erano state per più secoli il nerbo, la grandezza, e la vita, di Roma: ma la sacra verità comandava pur anco, che si osservasse da codesti due grandi, che quelle dissensioni stesse ne erano state poi la intera rovina; e il come, e il perché, ampiamente da essi indagar si dovea. Ed io mi fo a credere, che se tali due sommi avessero voluto, od osato spingere alquanto più oltre il loro riflessivo ragionamento, avrebbero essi indubitabilmente assegnato per principalissima cagione di una tale intera rovina la ereditaria nobiltà. Che se le dissensioni, o per dir meglio le disparità di opinioni, sono necessarie in una repubblica per mantenervi la vita e la libertà, bisogna pur confessare che le disparità d'interessi dannosissime vi riescono, e di necessità mortifere ogniqualvolta l'uno dei due diversi interessi interamente la vince. Ora, mi pare innegabile, che ogni primazìa ereditaria di pochi genera per forza in quei pochi un interesse di conservazione e di accrescimento, diverso ed opposto all'interesse di tutti. Ed ecco il vizio radicale, per cui ogniqualvolta in uno stato esisterà una classe di nobili e di sacerdoti, a parte dal popolo, saranno questi lo scandalo, la corruzione, e la rovina di tutti: e i nobili, per essere ereditarj, riusciranno quasi più dannosi che i sacerdoti, i quali sono elettivi soltanto: ma, per dire il vero, abbondantemente suppliscono a ciò i sacerdoti, colle loro ereditarie impolitiche massime, che da ogni loro individuo in un colla tonaca e col piviale si assumono; oltre che, per maggiormente perfezionare questo comune danno, le più cospicue sacerdotali dignità sogliono anche cadere esclusivamente nelle mani dei nobili: dal che ne risulta, che i sacerdoti doppiamente dannosi riescono al pubblico bene. E benché in Inghilterra vi siano per ora, e nobili e libertà, non mi rimuovo io perciò in nulla da questo mio su mentovato parere. Si osservi da prima, che in Inghilterra i veri nobili antichi, nelle spesse e sanguinose rivoluzioni erano presso che tutti spenti; che i nuovi nobili, usciti di fresco dal popolo per favor del re, non possono in un paese libero assumere né in una né in due generazioni quella superbia e quello sprezzo del popolo stesso, fra cui serbano essi ancora i loro parenti ed amici; quella superbia, dico, che vien bevuta col latte dai nobili antichi, interamente staccati nelle nostre tirannidi da tempo immemorabile dal popolo, di cui sono lungamente stati gli oppressori e tiranni. Si osservi in oltre, che i nobili in Inghilterra, presi in se stessi, sono meno potenti del popolo; e che, uniti col popolo, sono più che il re; ma che, uniti col re, non sono però mai più che il popolo. Si osservi in oltre, che se in alcuna cosa la repubblica inglese pare più saldamente costituita che la romana, si è nell'essere in Inghilterra la dissensione permanente e vivificante, non accesa fra i nobili e il popolo come in Roma, ma accesa bensì fra il popolo e il popolo; cioè, fra il ministero e chi vi si oppone. Quindi, non essendo questa dissensione generata da disparità di ereditario interesse, ma da disparità di passeggera opinione, ella vien forse a giovare assai più che a nuocere; poiché nessuno talmente aderisce a una parte, ch'egli non possa spessissimo passare dalla contraria; nessuna delle due parti avendovi interessi permanentemente opposti, e incompatibili col vero bene di tutti. Una nobiltà dunque così felicemente rattemperata, come la inglese lo pare, per certo riesce assai meno nociva che ogni altra; e al potersi veramente far utile al pubblico, altro forse non le mancherebbe che di non essere ereditaria. Una classe di uomini principali, e non amovibili membri del governo, ov'ella fosse creata dalla vera virtù e dai liberi suffragj di tutti, vi riuscirebbe veramente onorevole, e giustamente onorata; e grandissima emulazione di virtù si verrebbe ad accendere fra i concorrenti ad essa. Ma, se disgraziatamente ereditaria una tal classe si ammette, ancorch'ella si creasse da liberi e virtuosi suffragj, tuttavia ad ogni individuo inglese che verrà creato nobile ereditario, si perderà per tal mezzo una intera stirpe, che così viene staccata dall'interesse comune, deviata dal vantaggio di tutti, e privata di ogni emulazione al ben fare. Quindi è, che i nobili in Inghilterra, ancorché alquanto meno dannosi che nelle tirannidi, potendovi pure essere moltiplicati dal re ad arbitrio suo, e senza alcun limite; credendosi essi maggiori del popolo; essendovi e più ricchi, e più sazj, e più oziosi, e più guasti assai che non è il popolo; i nobili in Inghilterra saranno in ogni tempo maggiormente propensi all'autorità del re, il quale creati gli ha e spegnerli non potrebbe, che non all'autorità del popolo, il quale non può creargli e li potrebbe pure distruggere. In Inghilterra perciò (come sempre sono stati altrove) i nobili saranno, o già sono, i corrompitori della libertà; ove, prima di ciò, abbattuti maggiormente non siano dal popolo. Ma, non essendo la repubblica il mio tema, abbastanza, e troppo lungamente forse, ho io parlato fin qui dei nobili nelle repubbliche. Mi convien dunque ora lungamente ragionare dei nobili nelle moderne nostre tirannidi. Distrutto il romano imperio, ne furono, come ognun sa, divise le provincie fra diversi popoli; ed infiniti stati da quell'immenso stato nascevano. Ma, in tutti insorgeva una nuova specie di governo fino allora ignota, in cui molti piccioli tiranni rendendo omaggio ad un solo e maggiore, teneano, sotto il titolo di feudatarj, nella oppressione e servitù i varj lor popoli. Alcuni di questi tiranni feudatarj divennero così potenti, che ribellatisi al loro sovrano, si crearono stato a parte; e non pochi dei presenti tiranni d'Europa son della stirpe di quei signorotti. E, per contraria vicenda, molti dei tiranni sovrani si fecero altresì col tempo abbastanza potenti, per distruggere o spodestare affatto quei secondi tiranni, e rimanere essi soli sovrani. Comunque ciò fosse, il soggiacere al tiranno maggiore, o ai tirannelli, non sollevò mai il popolo dal peso delle sue catene: anzi, è verisimile che, assicurato ed ingrandito il loro stato, i tiranni maggiori, avendo meno rispetti, più illimitata potenza, e minori nemici, ne divennero con molta più impunità e sicurezza oppressori del loro misero gregge. Ma, quanto erano stati da temersi pel tiranno quei nobili feudatarj, finché aveano avuto autorità e forza; quanto erano stati ostacolo, e in un certo modo freno, alla compiuta tirannide di quel solo, altrettanto poi ne divennero essi la base e il sostegno, tosto che rimasero spogliati dell'autorità e della forza. I tiranni si prevalsero da prima del popolo stesso per abbassare i signorotti; ed il popolo che avea da vendicar tante ingiurie, volonteroso seguitò l'animosità di quel solo e maggior tiranno contro ai tanti e minori. Allora, qual dei signorotti si dette per accordo al tiranno, e quale contr'esso rivolse le armi. Ma, o patteggiati, o vinti ch'ei fossero, tutti, od i più, coll'andar del tempo soggiacquero. Non si estinse tuttavia interamente mai quel male che ridondava da questa secondaria tirannide feudale; non si scemò punto la servitù per il popolo; notabilmente si accrebbe bensì l'autorità e la forza del tiranno. Conobbero i tiranni la necessità di mantenere una classe fra essi ed il popolo, che paresse alquanto più potente che il popolo, e fosse assai meno potente di loro: e benissimo conobbero che distribuendo fra costoro gli onori tutti e le cariche, diverrebbero questi col tempo i più feroci e saldi satelliti della loro tirannide. Né s'ingannarono in tal fatto i tiranni. I nobili, spogliati affatto della loro autorità e forza, ma non interamente delle loro ricchezze e superbia, manifestamente conobbero che non potevano essi nella tirannide continuare ad essere tenuti maggiori del popolo, se non se risplendendo della luce del tiranno. L'impossibilità di riacquistare l'antica potenza li costrinse ad adattare la loro ambizione alla necessità ed ai tempi. Dal popolo, che non s'era certamente scordato delle loro antiche oppressioni; dal popolo, che gli abborriva perché li credeva ancora troppo più potenti di lui; dal popolo in somma, troppo avvilito per soccorrergli ancor che il volesse, videro chiaramente i nobili che non v'era luogo a sperarne mutazione alcuna favorevole a loro. Si gittarono dunque interamente in braccia al tiranno; ed egli non li temendo oramai, e vedendo quanto potevano riuscire utili alla propagazione della tirannide, li prelesse ad essere i depositarj e il sostegno. E questa è la nobiltà, che nelle tirannidi d'Europa tutto giorno poi vedesi così insolente col popolo, e così vil coi tiranni. Questa classe, in ogni tirannide, è sempre la più corrotta; ella è perciò l'ornamento principalissimo delle corti, il maggior obbrobrio della servitù, e il giusto ludibrio dei pochi che pensano. Degeneri dai loro avi nella fierezza, i nobili sono gl'inventori primieri d'ogni adulazione, d'ogni più vile prostituzione al tiranno: ma non tralignano già essi nella superbia e crudeltà contro al popolo. Anzi, vie più inferociti per la loro perduta potenza effettiva, lo tiranneggiano quanto più sanno e possono con i flagelli stessi del tiranno, se egli lo permette; e se egli lo vieta, (il che di rado accadeva fino allo stabilimento della perpetua milizia) non lasciano pure di opprimere il popolo di furto con quanta prepotenza più possono. Ma, dallo stabilimento in poi dei perpetui eserciti in Europa, i tiranni vedendosi armati e effettivamente potenti, hanno incominciato a tenere in assai minor conto la nobiltà, e a sottoporla anch'essa alla giustizia non meno che il popolo, allor quando ad essi così giova, o piace, di fare. La vista politica del tiranno nel volersi mostrare imparziale pe' nobili, è stata di riguadagnarsi il popolo, e di riaddossare ai nobili l'odiosità degli antecedenti governi. Ed io mi fo a credere, che se il tiranno potesse amare una qualche classe dei sudditi suoi, ove fossero egualmente vili e obbedienti i nobili ed il popolo, egli pure inclinerebbe più per il popolo; ancorché pur sempre sentisse, che a tenere il popolo a freno egli è, in un certo modo, necessarissimo il naturale argine della nobiltà, cioè, dei più ricchi ed illustri. E di questo semiamore, o sia minore odio del tiranno pel popolo, ne assegnerei la seguente ragione. La nobiltà, per quanto sia ignorante e mal educata, pure, come alquanto meno oppressa e più agiata, ella ha il tempo ed i mezzi di riflettere alquanto più che il popolo; ella si avvicina molto più al tiranno; ella ne studia e ne conosce più l'indole, i vizj, e la nullità. Si aggiunga a questa ragione, il bisogno che il tiranno ancora pur crede di aver talvolta dei nobili; e da questo tutto si verrà facilmente ad intendere quell'innato odio contr'essi, che sta nel cuor del tiranno; il quale non può né dee voler che si pensi; né può, molto meno, aggradire chiunque lo spia e conosce. Nasce da questo intrinseco odio quella pompa di popolarità, che molti dei moderni tiranni europei van facendo; come anche le tante mortificazioni, che vanno compartendo ai lor nobili. Il popolo, soddisfatto di vedere abbassati i suoi signorotti, ne sopporta più volentieri il comune oppressore, e la divisa oppressione. I nobili rodono la catena; ma troppo corrotti, effemminati e deboli sono, per romperla. Il tiranno se ne sta fra' due, distribuendo ad entrambi a vicenda, frammiste a molte battiture, alcune fallaci dolcezze; e così vie più sempre corrobora egli e perpetua la tirannide. Non distrugge egli i nobili, se non se a minuto i più antichi, per riprocrearne dei nuovi, non meno orgogliosi col popolo, ma più soggetti e arrendevoli a lui: e non li distrugge il tiranno, perché li crede (ed il sono) essenzialissima parte della tirannide. Non gli teme, perch'egli è armato: non gli stima, perché li conosce: non gli ama, perché lo conoscono. Il popolo non mormora dei gravosi eserciti, perch'egli non ragiona, e ne trema: ma con molta gioja bensì per via degli eserciti vede i nobili starsi non meno soggetti e tremanti di lui. I nobili ereditarj son dunque una parte integrante della tirannide, perché non può allignar lungamente libertà vera, dove esiste una classe primeggiante, che tale non sia per virtù ed elezione. Ma la milizia perpetua, fattasi oramai parte della tirannide più integrante ancora di quel che lo sia la nobiltà, ha tolto ai nobili la possibilità di far fronte al tiranno, e diminuita in loro quella di opprimere il popolo.
Capitolo duodecimo
DELLE TIRANNIDI ASIATICHE, PARAGONATE COLL'EUROPEE
Pare, che molte tirannidi d'oriente smentiscano quanto ho detto finora circa alla necessità dei nobili inerente all'essenza della tirannide; non vi essendo in esse alcuna nobiltà ereditaria; né ammettendo esse a prima vista altra distinzione di ordini, che un signor solo e tutti gli altri servi egualmente. E, a dir vero, l'Asia in ogni tempo non solo non conobbe libertà, ma soggiacque quasi sempre tutta a tirannidi inaudite, esercitate in regioni vastissime; in cui non si scorge nessun viver civile, nessuna stabilità, e nessune leggi, che non soggiacciano al capriccio del tiranno, eccettuatene tuttavia le religiose. Ma io, con tutto ciò, non dispero di poter dimostrare che la tirannide in ogni tempo e luogo è tirannide; e che usando ella gli stessi mezzi per mantenersi, produce, ancorché sotto diverso aspetto, gli stessissimi effetti. Non esaminerò perché siano tali i popoli dell'oriente; le ragioni, che riuscirebbero assai più congetturali che dimostrative, o ne sono state assegnate, o lo verranno da altri più dotti e profondi che non son io. Ma, partendo dal dato, io dico; che la paura, la milizia, e la religione, innegabilmente sono esse pure le tre basi e molle delle tirannidi asiatiche, come delle europee; e che sono esse il più saldo appoggio di quelli e di questi tiranni. Il falso onore, di cui ampiamente ho parlato, non pare da prima occupare alcun luogo nella mente e nel cuore degli orientali; ma pure, se bene si esamina, si vedrà che lo conoscono anch'essi e lo praticano. Per quei popoli il tiranno è un articolo vero di fede; essi tengono la religione assai più in pregio di noi: quindi in tutto ciò che spetta all'uno o all'altra dimostrano d'avere moltissimo onore. Non ci è esempio di maomettani che si facciano cristiani come tutto dì v'è esempio di cristiani che rinnegano. In tal modo, a tutto ciò che la nobiltà ereditaria, e la milizia perpetua (quali le abbiamo in Europa) potrebbero operare di più in favore delle orientali tirannidi, vi suppliscono dunque ampiamente le asiatiche religioni; e massime la maomettana, ch'è più creduta, più osservata, e assai più potente ancora, che non lo sia oramai in nessun luogo la nostra. Ma, ancorché la nobiltà ereditaria non sussista in gran parte d'oriente (toltine però la Cina, il Giappone, e molti stati dell'Indie, il che certamente non è picciola parte dell'Asia) nondimeno nei paesi maomettani gli strumenti principali della tirannide sono, come nella cristianità, i sacerdoti, i capi della milizia, i governatori delle provincie, e i barbassori di corte: e costoro tutti, benché non vi siano nati nobili, si debbono pure riputare come una classe, che essendo più che il popolo e meno che il tiranno, e accattando dal tiranno il lustro e l'autorità, viene per l'appunto ad occupare lo stessissimo luogo nelle tirannidi asiatiche, che occupa la nobiltà ereditaria nelle europee. Vero è, che fra quei nobili d'Asia, morendo essi di morte naturale o violenta, cessa nei loro figli la nobiltà: ma tosto pure alle loro cariche ne sottentran degli altri, e quanti mai ne verranno, tutti, ancorché d'origine plebea, assumeranno tosto il pensare dei nobili; il quale non è altro che di opprimere i popoli, e tenersi col tiranno. Ed anzi, questi nobili recenti, di tanto più feroci saranno, quanto l'uomo che è nato più vile, che è stato più oppresso, e che ha conosciuto più eguali, diviene assai più superbo e feroce ogniqualvolta egli, per altra via che quella della virtù, perviene ad innalzarsi sovr'essi. Ma certamente la virtù non potrà essere mai la scala agli onori e all'autorità, in nessuna tirannide. L'effetto vien dunque ad essere lo stesso in oriente come in occidente; poiché fra il popolo e il tiranno entrano pur sempre di mezzo i nobili (o ereditarj siano o fattizj) e la permanente milizia: due classi, senza di cui non v'è né vi può esser tirannide; e colle quali non v'è, né vi può essere lungamente mai libertà. Ma mi si dirà forse, che in ogni democrazia, od in qualsivoglia mista repubblica, i sacerdoti, i magistrati, ed i capi della milizia, sono parimente sempre maggiori del popolo. A ciò è da rispondersi, distinguendo: Costoro nella repubblica sono ciascuno maggiori d'ogni privato individuo; ma minori dell'universale, essendo eletti da tutti, o dal più gran numero; essendo eletti per lo più a tempo, e non a vita; sottoposti alle leggi, e costretti a dare, quando che sia, un rigido conto di se stessi. Ma costoro, nella tirannide, sono maggiori, e d'ogni individuo, e dell'universale; perché sono eletti da un solo che può più di tutti; perché non danno conto del loro operare, se non a lui; e perché in somma niun'altra cosa vien loro apposta a delitto dal tiranno, fuorché l'aver dispiaciuto, o arrecato danno a lui solo: il che chiaramente vuol dire per lo più, l'aver giovato, o tentato di giovare, a tutti od ai più. Ma, se io abbastanza ho dimostrato (come a me pare) che nelle tirannidi dell'oriente i tiranni adoperano gli stessi mezzi che in queste, esaminiamo ora quali siano le apparenti differenze tra gli effetti; perché vi siano; e se elle siano in favore o in disfavore degli europei. Mostransi di rado al pubblico gli orientali tiranni, e inaccessibili sono in privato; i nostri veggiamo ogni giorno: ma il vederli non scema però in noi la paura, né in essi la potenza; e benché lo avvezzarci a quell'oggetto diminuisca alquanto la stupida venerazione per esso, l'odio nondimeno dee pur sempre rimanere il medesimo, e di gran lunga maggiore il fastidio e la noja. Difficilissimo è l'accostarsi ai tiranni d'oriente; ai nostri, a qual con lettere o suppliche, a quale in persona, possiamo assai facilmente ogni giorno accostarci: ma, e che ne ridonda? son forse fra noi meno oppressi gl'innocenti ed i buoni? son forse più conosciuti i rei, allontanati, o puniti? Gl'impieghi, gli onori, le dignità si conferiscono in oriente agli schiavi più graditi al padrone. Il solo capriccio li dona, e il solo capriccio li ritoglie; ma un ministro o qualunque altro, che spogliato venga di alcuno importante impiego, viene altresì privato per lo più della vita. E lo stesso capriccio conferisce nel nostro occidente gli stessi onori e dignità a quegli schiavi più dotti nell'arte di piacere e compiacere al tiranno: e tanto più vili schiavi costoro, e degni in ciò veramente di esserlo, quanto, non essendo gli europei, come gli orientali, nati nella servitù effettiva dei serragli, di buon animo spontaneamente vanno porgendo le mani ed il collo al più obbrobrioso di tutti i gioghi. Ma, se i nostri tiranni, nel toglier loro la carica non li privano a un tempo della vita, ciò forse non accade per altra ragione, se non perché questi scelti servi europei, a sì manifeste prove si sono dimostrati per vili, che i tiranni nostri in nessun modo non possono, né debbono, in nulla temerli. Nelle tirannidi dell'oriente, pochissime leggi, oltre alle religiose, vi sussistono: moltissime se ne ha nelle nostre; ma ogni giorno si mutano, s'infrangono, si annullano, e per fin si deridono. Qual è men vergognosa ed infame a soffrirsi delle due seguenti usurpazioni? o d'uno che ti oltraggia e ti opprime, perché tu, non credendo che altrimenti una società esistere potesse, glie ne hai conceduto illimitatamente la signoria, né hai provveduto in nessuna maniera a moderargliela; o d'uno che ti fa lo stesso e anche peggio, benché tu abbi provveduto con impotenti leggi, e con gl'inutili suoi giuramenti, che egli opprimere ed oltraggiare non ti potesse? Negli orientali governi nulla vi ha di sicuro, se non la sola servitù: ma, che v'ha egli di sicuro nei nostri? I tiranni europei sono di gran lunga più umani? cioè, hanno i tiranni europei molto minore il bisogno di essere crudeli. Nell'oriente, le scienze e le lettere proscritte, i regni spopolati, la stupidità e miseria del popolo, nessuna industria, nessun commercio; non son tutte queste, e tante altre, le innegabili prove del vizio distruttivo, che sta in quei governi? Rispondo, distinguendo di nuovo. La religion maomettana, come più inerte e meno curante della nostra, riesce altresì molto più distruttiva di essa. Ma in quelle parti d'oriente, dove non ci è maomettismo, come specialmente alla Cina e al Giappone, tutti questi soprammentovati lagrimevoli effetti, che stoltamente noi assegniamo alla sola orientale tirannide, in un'altra orientale e niente minore tirannide, vi si vedono cessare; o almeno non v'esistere maggiori che nelle tirannidi europee. Parmi adunque, che sia da conchiudere; che la tirannide nell'Asia, e principalmente nel maomettismo, suol riuscire più oppressiva che nell'Europa: ma bisogna ad un tempo stesso confessare; che il tiranno e quelli che fan le sue parti, assai meno sicuri vivono in Asia che non in Europa. Quindi dall'essere le nostre tirannidi alquanto più miti, se a noi ne ridonda pure qualche vantaggio, amaramente ci vien compensato dalla maggiore infamia che sta nel servire, sapendolo; e dalla quasi impossibilità, in cui il nostro effemminato vivere ci pone, di distruggere, di mutare o di crollare almeno d'alquanto le nostre tirannidi. Noi coltiviamo le scienze, le lettere, il commercio, le arti tutte, ed ogni civile costume; negar non si può: ma noi colti, noi dotti, noi in somma che siamo il fiore degli abitanti di questo globo, noi soffriam pure tacitamente quello stesso tiranno, che soffrono (è vero) ma che pur anche talvolta robustamente distruggono quegli asiatici popoli, rozzi, ignoranti, e, a parer nostro, di tanto più vili di noi. Chi non sa che vi è stata, e che vi può essere libertà, non conosce e non sente la servitù; e chi questa non sente, scusabilissimo è se la soffre. Ma che direm noi di que' popoli, che sanno, e sentono, e fremono di essere servi; e la servitù pure si godono, e tacciono? La differenza dunque, che passa fra l'Asia e l'Europa, si è; che i tiranni orientali tutto possono, e tutto fanno; ma sono anche spesso privati del trono ed uccisi: gli occidentali tiranni possono tutto, fanno soltanto ciò che a loro occorre di fare, e stanno quasi sempre inespugnabili, securi, e impuniti. I popoli d'Asia di niuna loro cosa sicuri possessori sen vivono; ma credono in parte che così debba essere; e dove in certo modo contro all'universale si ecceda, si vendicano almeno del tiranno, benché mai non ispengano, né minorino, la tirannide. I popoli d'Europa niuna cosa possedono con maggior sicurezza che quelli dell'Asia, benché vengano spogliati del loro in una diversa e più cortese maniera; ma questi sanno quali siano i dritti dell'uomo; ed ignorar non li possono, poiché li vedono felicemente esercitati da alcune pochissime nazioni, che vivono libere in mezzo alla universal servitù: e benché ogni giorno si veda nelle tirannidi europee (massime in quanto spetta alle pecuniarie gravezze) eccedere dal tiranno ogni modo, nondimeno per codardia e viltà dei nostri popoli non si ardisce mai tentare nessuna lodevol vendetta, non che si ardiscano tentare di riassumere i naturali diritti, così inutilmente da lor conosciuti.
Capitolo decimoterzo
DEL LUSSO
Non credo, che mi sarà difficile il provare, che il moderno lusso in Europa sia una delle principalissime cagioni, per cui la servitù, gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai nostri popoli, i quali perciò non pensano né si attentano di scuoterla veramente. Né intendo io di trattare la questione, oramai da tanti egregj scrittori esaurita, se sia il lusso da proscriversi o no. Ogni privato lusso eccedente, suppone una mostruosa diseguaglianza di ricchezze fra' cittadini, di cui la parte ricca già necessariamente è superba, necessitosa e avvilita la povera, e corrottissime tutte del pari. Onde, posta questa disuguaglianza, sarà inutilissimo e forse anche dannoso il voler proscrivere il lusso: né altro rimedio rimane contr'esso, che il tentare d'indirizzarlo per vie meno ree ad un qualche scopo men reo. M'ingegnerò io bensì di provare in questo capitolo; che il lusso, conseguenza naturalissima della ereditaria nobiltà, nelle tirannidi riesce anch'egli una delle principalissime basi di esse; e che dove ci è molto lusso non vi può sorgere durevole libertà; e che dove ci è libertà, introducendovisi moltissimo lusso, questo in brevissimo tempo corromperla dovrà, e quindi annullarla. Il primo e il più mortifero effetto del privato lusso, si è; che quella pubblica stima che nella semplicità del modesto vivere si suole accordare al più eccellente in virtù, nello splendido vivere vien trasferita al più ricco. Né d'altronde si ricerchi la cagione della servitù, in tutti quei popoli, fra cui le ricchezze danno ogni cosa. Ma pure, la uguaglianza dei beni di fortuna essendo presso ai presenti europei una cosa chimerica affatto, si dovrà egli conchiudere che non vi può essere libertà in Europa, perché le ricchezze vi sono tanto disuguali? e possono elle non esserlo, atteso il commercio, e il lucro delle pubbliche cariche? Rispondo; che difficilmente vi può essere o durare una vera politica libertà, là dove la disparità delle ricchezze sia eccessiva; ma che pure, due mezzi vi sono per andarla strascinando (dove ella già fosse allignata) in mezzo a una tale disparità, ancorché il lusso sterminatore tutto dì la libertà vi combatta. Il primo di questi mezzi sarà, che le buone leggi abbiano provveduto, o provvedano, che la eccessiva disuguaglianza delle ricchezze provenga anzi dalla industria, dal commercio, e dall'arti, che non dall'inerte accumulamento di moltissimi beni di terra in pochissime persone, alle quali non possono questi beni pervenire in tal copia, senza che infiniti altri cittadini non siano spogliati della parte loro. Con un tale compenso le ricchezze dei pochi non occasionando allora la povertà totale dei più, verrà pure ad esservi un certo stato di mezzo, per cui quel tal popolo sarà diviso in pochi ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in pochi pezzenti. Tuttavia, questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno sussistere, se non in una repubblica; in vece che la divisione in alcuni ricchissimi, e in moltissimi pezzenti, dee nascere, e tutto dì si vede sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale disproporzione si corroborano. Il secondo mezzo di rettificare il lusso, e diminuirne la maligna influenza sul dritto vivere civile, sarà di non permetterlo nelle cose private, e d'incoraggirlo e onorarlo nelle pubbliche. Di questi due mezzi le poche repubbliche d'Europa si vanno pur prevalendo, ma debolmente ed invano; come quelle che sono corrottissime anch'esse dal fastoso e pestifero vivere delle vicine tirannidi. E questi altresì sono i due mezzi, che i nostri tiranni non adoprano, e non debbono adoprar mai contro al lusso; come quelli che in esso ritrovano uno dei più fidi satelliti della tirannide. Un popolo misero e molle, che si sostenta col tessere drappi d'oro e di seta, onde si cuoprano poi i pochi ricchi orgogliosi; di necessità un tal popolo viene a stimar maggiormente coloro, che più consumandone, gli dan più guadagno. Così, viceversa, il popolo romano che solea ritrarre il suo vitto dalle terre conquistate coll'armi, e fra lui distribuite poi dal senato, sommamente stimava quel console o quel tribuno, per le di cui vittorie più larghi campi gli venivano compartiti. Essendo dunque dal privato lusso sovvertite in tal modo le opinioni tutte del vero e del retto; un popolo, che onora e stima maggiormente coloro, che con maggiore ostentazione di lusso lo insultano, e che effettivamente lo spogliano, benché in apparenza lo pascano; un tal popolo, potrà egli avere idea, desiderio, diritto, e mezzi, di riassumere libertà? E que' grandi, (cioè chiamati tali) che i loro averi a gara profondono, e spesso gli altrui, per vana pompa assai più, che per vero godimento; quei grandi, o sia ricchi, a cui tante superfluità si son fatte insipide, ma necessarie; que' ricchi in somma, che a mensa, a veglia, a' festini, ed a letto, traggono fra gli orrori della sazietà la loro effemminata, tediosa, ed inutile vita; que' ricchi, potrann' eglino, più che la vilissima feccia del popolo, innalzarsi a conoscere, a pregiare, desiderare, e volere la libertà? Costoro primi ne piangerebbero; e assumere non saprebbero esistenza nessuna, se non avessero un intero ed unico tiranno, che perpetuando il dolce loro ozio, alla lor dappocaggine comandasse. Inevitabile dunque, e necessario è il lusso nelle tirannidi. E crescono in esse tutti i vizj in proporzione del lusso, che è il principe loro; del lusso, che tutti li nobilita, coll'addobbarli; che a tal segno confonde i nomi delle cose, che la disonestà dei costumi chiamasi fra' ricchi, galanteria; l'adulare, un saper vivere; l'esser vile, prudenza; l'essere infame, necessità. E di questi vizj tutti, e dei molti più altri ch'io taccio, i quali hanno tutti per base, e per immediata cagione il lusso, chi maggiormente ne gode, chi ne ricava più manifesto e immenso il vantaggio? I tiranni, che da essi ricevono, e per via di essi in eterno si assicurano, il pacifico ed assoluto comando. Il lusso dunque (che io definirei; L'immoderato amore ed uso degli agj superflui e pomposi) corrompe in una nazione ugualmente tutti i ceti diversi. Il popolo, che ne ritrae anch'egli qualche apparente vantaggio, e che non sa e non riflette, che per lo più la pompa dei ricchi non è altro che il frutto delle estorsioni fatte a lui, passate nelle casse del tiranno, e da esso quindi profuse fra questi secondi oppressori; il popolo, è anch'egli necessariamente corrotto dal tristo esempio dei ricchi, e dalle vili oziose occupazioni con che si guadagna egli a stento il suo vitto. Perciò quel fasto dei grandi che dovrebbe sì ferocemente irritarlo, al popolo piace non poco, e stupidamente lo ammira. Che gli altri ceti debbano essere corrottissimi dal lusso che praticano, inutile mi pare il dimostrarlo. Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è manifestamente impossibile che ella diventi o duri mai libera, se da prima il lusso che è il più feroce corruttore di essa, non si sbandisce. Principalissima cura perciò del tiranno debb'essere, ed è, (benché alle volte la stolta ostentazione del contrario ei vada facendo) l'incoraggire, propagare, ed accarezzare il lusso, da cui egli ritrae più assai giovamento che da un esercito intero. E il detto fin qui, basti per provare che non v'ha cosa nelle nostre tirannidi, che ci faccia più lietamente sopportare e anche assaporare la servitù, che l'uso continuo e smoderato del lusso: come pure, a provare ad un tempo, che dove radicata si è questa peste, non vi può sorgere od allignar libertà. Si esamini ora, se là, dove già è stabilita una qualunque libertà, possa allignare il lusso; e qual dei due debba cedere il campo. S'io bado alle storie, in ogni secolo, in ogni contrada, vedo sempre sparire la libertà da tutti quei governi che han lasciato introdurre il lusso dei privati; e mai non la vedo robustamente risorgere fra quei popoli, che son già corrotti dal lusso. Ma, siccome la storia di tutto ciò che è stato non è forse assolutamente la prova innegabile di tutto ciò che può essere; a me pare, che alla disuguaglianza delle ricchezze nei cittadini non ancora interamente corrotti, in quel brevissimo intervallo in cui possono essi mantenersi tali, i governi liberi non abbiano altro rimedio da opporre più efficace che la semplice opinione. Quindi volendo essi concedere a queste mal ripartite ricchezze uno sfogo che ad un tempo circolare le faccia, e non distrugga del tutto la libertà, persuaderanno ai ricchi d'impiegarle in opere pubbliche; onoreranno questo solo loro fasto, annettendo un'idea di disprezzo a qualunque altro uso che ne facessero i ricchi nella loro privata vita, oltre quella decenza e quegli agj ragionevoli, richiesti dal loro stato, e compatibili colla pubblica decenza. I liberi governi persuaderanno ad un tempo agli uomini poveri, (non intendo con ciò dire, ai pezzenti) che non è delitto né infamia l'esser tali; e lo persuaderan facilmente, coll'accordare a questi non meno che agli altri l'adito a tutti gli onori ed uffizj. E non per insultare alla miseria escludo io principalmente i necessitosi; ma perché costoro, come troppo corrottibili, e per lo più vilmente educati, non sono meno lontani dalla possibilità del dritto pensare e operare, di quel che lo siano, per le ragioni appunto contrarie, i ricchissimi. Ma queste saggie cautele riusciranno pur anche inutili a lungo andare. La natura dell'uomo non si cangia; dove ci sono ricchezze grandi e disugualmente ripartite, o tosto o tardi dee sorgere un gran lusso fra i privati, e quindi una gran servitù per tutti. Questa servitù difficilmente da prima si può allontanare da un popolo dove alcuni ricchissimi siano, e poverissimi i più; ma quando poi ella si è cominciata a introdurre, provato che hanno i ricchissimi quanto la universal servitù riesca favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si adoprano affinch'ella non si possa più scuoter mai. Sarebbe dunque mestieri, a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma pur troppo anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.
Capitolo decimoquarto
DELLA MOGLIE E PROLE DELLA TIRANNIDE
Come in un mostruoso governo, dove niun uomo vive sicuro né del suo, né di se stesso, ve ne siano pure alcuni che ardiscano scegliere una compagna della propria infelicità, e perpetuare ardiscano la propria e l'altrui servitù col procrearvi dei figli, difficil cosa è ad intendersi, ragionando; ed impossibile parrebbe a credersi, se tutto dì nol vedessimo. Dovendone addur le ragioni, direi; che la natura, in ciò più possente ancora che non è la tirannide, spinge gl'individui ad abbracciar questo conjugale stato con una forza più efficace di quella con cui la tirannide da esso gli stoglie. E non volendo io ora distinguere se non in due soli ceti questi uomini soggiogati da un tale governo, cioè in poveri e ricchi; direi, che si ammogliano nella tirannide i ricchi, per una loro stolta persuasione che la stirpe loro, ancorché inutilissima al mondo e spesso anche oscura, vi riesca nondimeno necessaria, e gran parte del di lui ornamento componga; i poveri, perché nulla sanno, nulla pensano, e in nulla possono oramai peggiorare il loro infelicissimo stato. Lascio per ora da parte i poveri; non già perché sprezzabili siano, ma perché ad essi nuoce assai meno il far come fanno. Parlerò espressamente de' ricchi; non per altra ragione, se non perché essendo, o dovendo costoro essere meglio educati; avendo essi in qualche picciola parte conservato il diritto di riflettere; e non potendo quindi non sentire la loro servitù; debbono i ricchi, quando non siano del tutto stolidi, moltissimo riflettere alle conseguenze del pigliar moglie nella tirannide. E per fare una distinzione meno spiacente, o meno oltraggiosa per gli uomini, che non è quella di poveri e ricchi, la farò tra gli enti pensanti, ed i non pensanti. Dico dunque, che chi pensa, e può campare senza guadagnarsi il vitto, non dee mai pigliar moglie nella tirannide; perché, pigliandovela, egli tradisce il proprio pensare, la verità, se stesso, e i suoi figli. Non è difficile di provare quanto io asserisco. Suppongo, che l'uomo pensante dee conoscere il vero; quindi indubitabilmente si dee dolere non poco in se stesso di esser nato nella tirannide; governo, in cui nulla d'uomo si conserva oltre la faccia. Ora, colui che si duole di esservi nato, avrà egli il coraggio, o per dir meglio, la crudeltà, di farvisi rinascere in altrui? di aggiungere al timore che egli ha per se stesso, l'avere a temere per la moglie, e quindi pe' figli? Parmi ciò un moltiplicare i mali a tal segno, che io non potrò pur mai credere, che chi piglia moglie nella tirannide, pensi, e conosca pienamente il vero. Il primo oggetto del matrimonio egli è, senza dubbio, di avere una fedele e dolce compagna delle private vicende, la quale dalla morte soltanto ci possa esser tolta. Supponendo ora il non supponibile, cioè che in una tirannide non fossero corrotti i costumi, onde questa compagna potesse non aver altra cura né desiderio, che di piacere al marito; chi può assicurare costui, che ella dal tiranno, o dai suoi tanti potenti satelliti, non gli verrà sedotta, corrotta, o anche tolta? Collatino, parmi, è un esempio chiaro abbastanza per dimostrare la possibilità di un tal fatto: ma gli alti effetti che da quello stupro ne nacquero, sono ai tempi nostri assai meno sperabili, benché le cagioni tutto dì ne sussistano. Mi odo già dire; Che il tiranno non può voler la moglie di tutti; che è caso anche raro nei nostri presenti costumi, ch'egli cerchi a sedurne due o tre; e che questo farà egli con promesse, doni, ed onori ai mariti, ma non mai con l'aperta violenza. Ecco le scellerate ragioni che rassicurano il cuore dei presenti mariti, i quali niun'altra cosa temono al mondo, che di non esser essi quei felici che compreranno a prezzo della propria infamia il diritto di opprimere i meno vili di loro. Molti secoli dopo Collatino, nelle Spagne, rozze ancora e quindi non molto corrotte, un altro regio stupro ne facea cacciare i tiranni indigeni, e chiamarne de' nuovi stranieri. Ma nei tempi nostri illuminati e dolcissimi, uno stupro con violenza accader non potrebbe, perché non v'è donna che si negasse al tiranno; e la vendetta qualunque, se egli pure accadesse, ne riuscirebbe impossibile; perché non v'è padre o fratello o marito, che non si stimasse onorato di un tal disonore. E la verità qui mi sforza a dir cosa, che nelle tirannidi moverà al riso il più degli schiavi, ma che in qualche altro cantuccio del globo, dove i costumi e la libertà rifugiati si siano, moverà ad un tempo dolore, maraviglia, e indegnazione; ed è, che se pure ai dì nostri vi fosse quel tale insofferente e magnanimo, che con memorabile vendetta facesse ripentire il tiranno di avergli fatto un così grave oltraggio, l'universale lo tratterebbe di stolido, d'insensato, e di traditore; e stranezza chiamerebbero in lui il non voler con molti manifesti vantaggi sopportar dal tiranno quella ingiuria stessa, che tutto dì si suole, senza utile niuno, ricevere e sopportar dai privati. Inorridisco io stesso nel dover riferire queste argute viltà, che sono il più elegante condimento del moderno pensare; e che, con vocabolo francese, lietamente chiamansi SPIRITO: ma nella forza del vero talmente confido, che io ardisco sperare che tornerà pure un tal giorno, in cui, non meno ch'io nello scrivere di tali costumi, inorridiranno i molti nel leggerli. Se nell'ammogliarsi dunque il primo scopo si è d'aver moglie; ove non si voglia pure confondere (come di tante altre cose si fa) il mantenerla coll'averla; avere non si può, perché se non la tolgono al marito il tiranno, o alcuno de' tanti suoi sgherri, ai quali invano si resisterebbe, gliela tolgono infallibilmente i corrotti scellerati universali costumi, conseguenza necessarissima dell'universal servitù. Ora, che dirò io dei figli? Quanto più cari essere sogliono i figli che la moglie, tanto più grave e funesto è l'errore di chi procreandoli somministra al tiranno un sì possente mezzo di più per offenderlo, intimorirlo, ed opprimerlo; come a se stesso procaccia un mezzo di più per esserne offeso ed oppresso. E da una delle due susseguenti sventure è impossibile cosa di preservarsi. O i figli dell'uomo pensante si educheranno simili al padre; e perciò, senza dubbio, infelicissimi anch'essi: o dal padre riescon dissimili, e infelicissimo lui renderanno. Nati per le triste loro circostanze al servire, non si possono, senza tradirgli, educare al pensare; ma, nati pur sempre per natura al pensare, non può lo sventurato padre, senza tradire la verità il suo onore e se stesso, educargli al servire. Qual partito rimane adunque nella tirannide all'uomo pensante, quando egli, per somma sfortuna e inescusabile sconsideratezza, ha dato pur l'essere ad altri infelici? È di tal sorta l'errore, che il pentimento non vale; così terribili ne sono gli effetti e così inevitabili, che le vie di mezzo non bastano. Bisognerebbe dunque nelle tirannidi, o soffocare i proprj figliuoli appena son nati, o abbandonargli alla pubblica educazione ed al volgar non-pensare. Questo partito da quasi tutti i moderni padri si siegue, e non è men crudele dell'altro, ma molto è più vile bensì. E, a chi mi dicesse (ciò che anch'io pur troppo so, ancorch'io padre non sia) che troppo alla natura ripugna il trucidare i proprj figliuoli, risponderei; che ripugna alla natura nostra non meno il ciecamente servire all'arbitrio e alla violenza d'un solo: e se poi così bene al servir ci avvezziamo, questo infame pregio in noi non si accresce, se non se in proporzione che si scemano in noi tutti gli altri naturali e veri pregi dell'uomo. Quindi è, che i filosofi pensatori fra i popoli liberi nessuna differenza, o pochissima, han posto infra la vita d'un bruto, e quella d'un uomo, che non sia per aver mai libertà, volontà, sicurezza, costumi, ed onore verace. E tali pur troppo debbono riuscire quei figli, che stoltamente procreati si sono nella tirannide; a cui se il padre non toglie la vita del corpo, necessariamente toglie loro una più nobile vita, quella dell'intelletto e dell'animo: ovvero, se sventuratamente l'una e l'altra in essi del pari coltiva, altro non fa un tal misero padre, che educar vittime per la tirannide. Conchiudo; che chi ha moglie e prole nella tirannide, tante più volte è replicatamente schiavo, e avvilito, quanti più sono gl'individui per cui egli è sforzato sempre a tremare.
Capitolo decimoquinto
DELL'AMOR DI SE STESSO NELLA TIRANNIDE
La tirannide è tanto contraria alla nostra natura, ch'ella sconvolge, indebolisce, od annulla nell'uomo presso che tutti gli affetti naturali. Quindi non si ama da noi la patria, perché ella non ci è; non si amano i parenti, la moglie, ed i figli, perché son cose poco nostre e poco sicure; non vi sono veri amici, perché l'aprire interamente il suo cuore nelle cose importanti, può sempre trasmutare un amico in un delatore premiato, e spesso anche (pur troppo!) in un delatore onorato. L'effetto necessario, che risulta nel cuor dell'uomo dal non potere amar queste cose su mentovate, si è, di amare smoderatamente se stesso. E parmi, che ne sia questa una delle principali ragioni: dal non essere securo, nasce nell'uomo il timore; dal continuo temere, nascono i due contrarj eccessi; o un soverchio amore, o una soverchia indifferenza per quella cosa che sta in pericolo: nella tirannide, temendo sempre noi tutti per le cose nostre e per noi, ma amando (perché così vuol natura) prima d'ogni altra cosa noi stessi, ne veniamo a poco a poco a temere sommamente per noi, e ogni dì meno per quelle cose nostre, che non fanno parte immediata di noi. Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi se stessi: nelle tirannidi all'incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa. Perciò l'amor di se stesso nella tirannide non è già l'amore dei proprj diritti, né della propria gloria, né del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita animale. E questa vita, per una non so qual fatalità, nello stesso modo che la vediamo tenersi tanto più cara dai vecchj, i quali oramai l'han perduta, che non dai giovani, a cui tutta rimane; così tanto più riesce cara a chi serve, quanto ella è men sicura, e val meno.
Capitolo decimosesto
SE SI POSSA AMARE IL TIRANNO, E DA CHI
Colui che potrà impunemente offendere tutti, e non essere mai impunemente offeso da chi che sia, sarà per necessità temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti. Ma costui potendo altresì beneficare, arricchire, onorare chi più gli piace, chiunque riceve favori da lui non può senza una vile ingratitudine, e senza essere assai peggiore di lui, non amarlo. Rispondo a ciò, che il tutto è verissimo; e più d'ogni cosa vero è, che chiunque riceve favori dal tiranno suol essergli sempre ingrato nel cuore; ed è quasi sempre assai peggiore di lui. Dovendone assegnar le ragioni, direi; che il troppo immenso divario fra le cose che il tiranno può dare e quelle che può togliere, rende necessario ed estremo lo abborrimento nei molti oltraggiati, e finto e stentato l'amore nei pochi beneficati. Egli può dare ricchezze, autorità, e onori supposti; ma egli può togliere tutto ciò ch'ei dà, e di più la vita, e il vero onore; cose, che non è in sua possanza di dare egli mai a nessuno. Con tutto ciò, la totale ignoranza dei proprj diritti può benissimo far nascere in alcuni uomini questo funesto errore, di amare in un certo modo colui che spogliandoli delle loro più sacre prerogative d'uomo, non toglie però loro la proprietà di alcune altre cose minori; il che, a parer di costoro, egli potrebbe pur anche legittimamente, o almeno con impunità, praticare. E certo uno stranissimo amore fia questo, e in tutto per l'appunto paragonabile a quell'amore che si verrebbe ad aver per una tigre, che non ti divorasse potendolo. Cadranno in questo stupido affetto le genti rozze e povere, che non hanno altra felicità, se non quella di non vedere mai il tiranno, e di neppure conoscerlo; e costoro assai poco verranno a temerlo, perché pochissimo a loro rimane da perdere: onde una certa tal quale giustizia venendo loro amministrata in nome di esso, la loro irriflessiva ignoranza fa loro credere, che senza il tiranno neppur quella semi-giustizia otterrebbero. Ma non potranno certamente mai pensare in tal modo coloro, che tutto dì se gli accostano, e che ne conoscono l'incapacità o la reità; ancorché ne ritraggano essi splendore, onori, e ricchezze. Troppo è nota a questi pochi la immensa potenza del tiranno, troppo care tengono essi quelle ricchezze che ne han ricevute, per non temere sommamente colui che le può loro nello stesso modo ritogliere: e il temere e l'odiare sono interamente sinonimi. Ma pure, il timore, pigliando nelle corti la maschera dell'amore, vi si viene a comporre un misto mostruosissimo affetto, degno veramente dei tiranni che lo ispirano, e degli schiavi che lo professano. Quello stesso Sejano, che nella grotta crollante e vicinissima a rovinare, salvava la vita a Tiberio con manifesto pericolo della propria, avendone egli dappoi ricevuti infiniti altri favori, congiurava pur contro lui. Sejano, amava egli Tiberio in quel punto in cui pose se stesso a un così evidente pericolo per salvarlo? certo no: Sejano in quel punto serviva dunque alla propria sua ambizione, nello stesso modo che ogni giorno vediamo nei nostri eserciti i più splendidi e molli e corrotti officiali di essi affrontare la morte, non per altro se non per far progredire la loro ambizioncella, e per maggiormente acquistarsi la grazia del tiranno. Sejano, abborriva egli maggiormente Tiberio quando gli congiurò contra, che quando il salvò? assai più certamente abborrivalo dopo, perché la immensità delle cose da lui ricevute, gli facea più da presso e con maggior terrore rimirare la immensità, più grande ancora, delle cose che quello stesso Tiberio gli poteva ritogliere. Quindi, non si credendo Sejano in sicuro, se egli non ispegneva quella sola potenza che avrebbe potuto trionfar della sua, non dubitò poscia punto, anzi con lungo e premeditato disegno, imprese a togliersi il tiranno dagli occhi. Né ai Tiberj, in qualunque tempo o luogo essi nascano e regnino, toccar mai potranno altri amici se non i Sejani. Se dunque il tiranno è sommamente abborrito da quegli stessi ch'egli benefica, che sarà egli poi da quei tanti che direttamente o indirettamente egli offende o dispoglia? La sola intera stupidità dei poveri e rozzi e lontani, può dunque (come ho di sopra dimostrato) amare il tiranno, appunto perché nessuno di questi lo vede né lo conosce; e questo amarlo va interpretato, il non affatto abborrirlo. Da ogni altra persona qualunque, nella tirannide, si può fingere bensì e anche far pompa di amare il tiranno; ma veramente amarlo, non mai. Questa servile bugiarda ed infame pompa verrà per lo più praticata dai più vili; e da quelli perciò, i quali maggiormente temendolo, maggiormente lo abborriscono.
Capitolo decimosettimo
SE IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E COME
Nello stesso modo con cui si è di sopra dimostrato, che i sudditi non possono amare il tiranno, perché essendo egli troppo smisuratamente maggiore di loro non corre proporzione nessuna fra il bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sarà facile il dimostrare, che il tiranno non può amare i suoi sudditi; perché, essendo essi tanto smisuratamente minori di lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo, riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero dargli. E si noti così alla sfuggita, che lo amare, o sia egli di amicizia, o d'amore, o di benignità, o di gratitudine, o d'altro; lo amare si è uno degli umani affetti, che più di tutti richiede, se non perfettissima uguaglianza, rapprossimazione almeno e comunanza, e reciprocità fra gli individui. Ammessa questa definizione dell'amare umano, ciascuno rimane giudice, se niuna di tutte queste cose sussistere possa infra il tiranno e i suoi schiavi; cioè, fra la parte sforzante e la parte sforzata. Corre nondimeno una gran differenza, in questa reciproca maniera del non-amarsi, infra il tiranno ed i sudditi. Questi, come tutti, (qual più qual meno, quale direttamente quale indirettamente, quale in un tempo e quale nell'altro) come offesi tutti e costretti dal tiranno, tutti lo abborriscono per lo più, e così dev'essere: ma il tiranno, come un ente non offendibile dall'universale, fuorché per manifesta ribellione contra di lui; il tiranno non abborrisce se non se quei pochissimi che egli vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno immediatamente verrebbe ad estinguerne l'odio. Non odia dunque il tiranno i suoi sudditi, perché in veruna maniera essi non l'offendono: e qualora si ritrova in trono per caso un qualche tiranno d'indole mite ed umana, egli si può pur anche usurpare la fama di amarli; né in tal caso, da altro una tal fama proviene, se non dall'essere la natura di quel principe, per se stessa, men rea di quel che lo sia per se stessa l'autorità e la possibilità impunita del nuocere, che è posta in lui. Ma io, sbadatamente, quasi ometteva una validissima ragione per cui il tiranno dee anch'egli (e non poco) se non abborrire, disprezzare almeno quella parte de' suoi sudditi che egli vede abitualmente e conosce; ed è questa; che quella parte di essi che gli si fa innanzi, e che cerca di avere alcuna comunicazione col tiranno, ella è certamente la più rea di tutte; ed egli, dopo una certa esperienza di regno, ne viene manifestamente convinto. Quanto alla parte ch'egli non conosce né vede, e che in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno dotato di umana indole la possa benissimo amare: ma questo indefinibile amore di colui che può giovare e nuocere sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né nuocere, non si può assomigliare ad alcun altro amore, che a quello con cui gli uomini amano i loro cani e cavalli; cioè, in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta servitù. Ma certamente assai minor differenza soglion porre i padroni fra essi e i loro cani e cavalli, di quella che ponga il tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi sudditi. Cotesto suo amore per essi non sarà dunque altro, che un oltraggio di più da lui fatto alla trista specie degli uomini.
Capitolo decimottavo
DELLE TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE RISTRETTE
Che siano più orgogliosi e superbi i tiranni delle estese tirannidi, come assai più potenti, la intendo: ma, che gli schiavi delle estese tirannidi ardiscano reputarsi da più che gli schiavi delle ristrette, parmi esser questo il più espresso delirio che possa entrare nella mente dell'uomo; ed una evidentissima prova mi pare, che gli schiavi non pensano e non ragionano. Se la ragione potesse ammettere alcuna differenza fra schiavo e schiavo, ella sarebbe certamente in favore del minor gregge. Quanti più sono gli uomini che ciecamente obbediscono ad un solo, tanto più vili e stupidi ed infami riputare si debbono, vie più sempre scemandosi la proporzione tra l'oppressore e gli oppressi. Quindi nell'udire io le millanterie d'un Francese, o d'uno Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore di un Portoghese, o di un Napoletano, parmi di udire una pecora del regio armento schernire la pecora d'un contadino, perché questa pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di mille. Se dunque differenza alcuna vi passa fra le tirannidi grandi e le picciole, ella non istà nella essenza della cosa, che una sola è per tutto; ma nella persona bensì del tiranno. Qualunque di essi si troverà soverchiare oltremodo in potenza i vicini tiranni, ne diverrà verisimilmente più prepotente coi sudditi, dovendo egli nelle sue ampie circostanze molto minori rispetti adoprare: ma per altra parte, avendo egli più numero di sudditi, più importanti affari, più onori da distribuire, più ricchezze da pigliarsi e da dare, (e non avendo con tutto ciò maggior senno) quella sua autorità riuscirà alquanto men fastidiosa nelle cose minute, ma egualmente inetta, ed assai più gravosa, nelle importanti. Il tiranno picciolo dovendo all'incontro usare infiniti rispetti co' suoi vicini, sforzato sarà di rimbalzo ad osservarne anche qualcuno più co' suoi sudditi: onde egli nell'offenderli, massimamente nella roba, dovrà procedere alquanto più guardingo. Ma, volendo egli pur dare sfogo alla sua autorità soverchiante, facilmente verrà ad impacciarsi nei più minuti affari dei privati; ed affacciandosi, direi così, allo sportello di ogni casa, vorrà saperne, e frammettersi nei più minimi pettegolezzi di quelle. Nelle tirannidi ampie i miseri sudditi saranno dunque maggiormente angariati, nelle ristrette più infastiditi; ed ugualmente infelici in entrambe: perché agli uomini non arreca minor danno e dolore la noja, che l'oppressione.
Della tirannide
Libro Secondo

INDICE
Capitolo.1 INTRODUZIONE AL LIBRO SECONDO
Capitolo.2 IN QUAL MODO SI POSSA VEGETARE NELLA TIRANNIDE
Capitolo.3 COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE
Capitolo.4 COME SI DEBBA MORIRE NELLA TIRANNIDE
Capitolo.5 FINO A QUAL PUNTO SI POSSA SOPPORTAR LA TIRANNIDE
Capitolo.6 SE UN POPOLO, CHE NON SENTE LA TIRANNIDE, LA MERITI, O NO
Capitolo.7 COME SI POSSA RIMEDIARE ALLA TIRANNIDE
Capitolo.8 CON QUAL GOVERNO GIOVEREBBE PIÙ DI SUPPLIRE ALLA TIRANNIDE
PROTESTA DELL'AUTORE (sonetto finale)
Capitolo primo
INTRODUZIONE AL LIBRO SECONDO
Ho ragionato nel passato libro, quanto più seppi brevemente, delle cagioni e mezzi della tirannide; e accennata ho di volo una minima parte degli effetti che ne derivano. Non intendo io di aver detto su ciò tutto quel che può dirsi; ma quanto bensì mi parve più importante, e meno detto da altri. Più brevemente ancora ragionerò, in questo secondo libro, dei modi con cui si possa sopportar la tirannide volendola, o non volendola, scuoterla.
Capitolo secondo
IN QUAL MODO SI POSSA VEGETARE NELLA TIRANNIDE
Il vivere senz'anima, è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l'onore della umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, né voglio insegnare i precetti; ancorché io gli abbia, senza volerli pure imparare, pur troppo bevuti col latte. Ciascuno per sé li ricavi dal proprio timore, dalla propria viltà, dalle proprie circostanze più o meno servili e fatali; e in fine, dal tristo e continuo esempio dei più, ciascun li ricavi.
Capitolo terzo
COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE
Io dunque parlerò a quei pochissimi, che degni di nascere in libero governo fra uomini, si trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di coloro, che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti dell'uomo conoscendo, o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini il nome.E, dovendo io pur dimostrare a que' pochissimi, in qual modo si possa vivere quasi uomo nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora contrarj alla libera loro e magnanima natura. Oh quanto più volentieri, nato io in altri tempi e governi, m'ingegnerei di dar (non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver libero! Ma, poiché vano è del tutto il dolersi dei mali che sono o pajono privi di un presente rimedio, facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un qualche sollievo.Dico per tanto; che allorché l'uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da' suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura terreno ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama; entrambe sempre, o più o meno, contaminate, allorché l'uomo in qualunque modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti.Debitamente così, ed in tempo, allontanatosi l'uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrà ad estimare se stesso ancor più che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché liber'uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile. Se costui, oltre ciò, non si trova nella funesta necessità di doversi servilmente procacciare il vitto, poiché la nobile fiamma di gloria non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità de' suoi tempi, non potendo egli assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi, con ansietà bollore ed ostinazione, quella del pensare, del dire, e dello scrivere. Ma, come pensare, e dire, e scrivere potrà egli in un mostruoso governo, in cui l'una sola di queste tre cose diventa un capitale delitto? Pensare, per proprio sollievo, e per ritrovare in quel giusto orgoglio di chi pensa un nobile compenso alla umiliazion di chi serve: dire, ai pochissimi avverati buoni, e come tali, degnissimi di compassione, di amicizia, e di conoscere pienamente il vero: scrivere, finalmente, per proprio sfogo, da prima; ma, dove sublimi poi riuscissero gli scritti, ogni cosa allora sagrificare alla lodevole gloria di giovar veramente a tutti od ai più, col pubblicare gli scritti.
L'uomo, che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi di non vi essere nato, sarà da quasi tutti i suoi conservi o sommamente sprezzato, ovvero odiatissimo: sprezzato da quelli, che per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono da meno di loro chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè da ogni vizio, viltà, e corruzione: odiato da quegli altri, che avendo mal grado loro l'idea del retto e del bene, per esecrabile viltà d'animo, e reità di costumi, sfacciatamente seguono il peggio. Ma, e quello sprezzo di una gente per se stessa disprezzabilissima, sarà una convincente prova, che un tal uomo è veramente stimabile; e l'odio di questi altri per se stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà, che egli merita e l'amore e la stima de' buoni. Quindi non dee egli punto curare né lo sprezzo, né l'odio.
Ma, se questo sprezzo e quest'odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo uomo, che ne merita il nome, e i doveri ne compie, per via dello sprezzo può essere sommamente avvilito nella tirannide; e, per via dell'odio, può esservi ridotto a manifesto e inevitabil pericolo. Questo libricciuolo non è scritto pe' codardi.Coloro, che con una condotta di mezzo fra la viltà e la prudenza, non se ne possono viver sicuri, venendo pur ricercati nella loro oscura e tacita dimora dalla inquirente autorità del tiranno, arditamente si mostrino tali ch'ei sono; e basti per loro discolpa il poter dire, che non hanno essi ricercato i pericoli; ma che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno sfuggirli.
Capitolo quarto
COME SI DEBBA MORIRE NELLA TIRANNIDE
Benché la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai concittadini, non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive; nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo. Questa gloria, quantunque ella paja inutile ad altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio; e, come rarissima, Tacito, quell'alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma. Alla eroica morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio Cordo, e di molti altri Romani proscritti dai loro primi tiranni, altro in fatti non mancava, che una più spontanea cagione, per agguagliar la virtù di costoro a quella dei Curzj, dei Decj, e dei Regoli. E siccome, là dove ci è patria e libertà, la virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa, così nella immobilmente radicata tirannide non vi può essere maggior gloria, che di generosamente morire per non viver servo.Parmi adunque, che nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltà; e morire da forti, ogniqualvolta la fortuna, o la ragione, a ciò li costringa. Un cotal poco verrà ammendata così, con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.
Capitolo quinto
FINO A QUAL PUNTO SI POSSA SOPPORTAR LA TIRANNIDE
Ma, fino a qual segno si possa sopportar l'oppressione di un tirannico governo, difficile riesce a prefiggersi: poiché non a tutti i popoli, né a tutti gl'individui, gli stessi oltraggi portano un egual colpo. Nondimeno, parlando io sempre a coloro, che non meritando oltraggio nessuno, vivissimamente quindi sentono nel più profondo cuore i più leggieri eziandio; ed essendo costoro i pochissimi (che se tali i moltissimi fossero, immediatamente ogni pubblico oltraggiator cesserebbe) a costoro dico; che si può da lor sopportare che il tiranno tolga loro gli averi, perché nessun privato avere vale quell'estremo universale scompiglio, che ne potrebbe nascere dalla loro dubbia vendetta. Così perversi sono i presenti tempi, che da una privata vendetta, ancorché felicemente eseguita, non ne potrebbe pur nascer mai nessun vero permanente bene pel pubblico, ma se gli potrebbe accrescer bensì moltissimo il danno. Onde, volendo io che i buoni, nella stessa tirannide, siano, per quanto essere il possono, cittadini; e volendo, che ai loro conservi, o giovino, o inutilmente almeno non nuocano; ai buoni non darei mai per consiglio di sturbare inutilmente la pace, o sia il sopore di tutti, per far vendetta delle loro tolte sostanze.Ma le offese di sangue nella persona dei più stretti parenti od amici, allorch'elle siano manifestamente ingiuste, ed atroci; e così, le offese nel proprio verace onore; io non ardirei mai consigliare a chi ha faccia d'uomo di tollerarle. Si può vivere senza le sostanze, perché nessuno muore di necessità; e perché l'uomo, per l'esser povero, non riesce perciò mai vile a se stesso, ove egli non lo sia divenuto pe' suoi vizj e reità: ma non si può sopravvivere alla perdita sforzata ed ingiusta di una teneramente amata persona; né, molto meno, alla perdita del proprio onore. Quindi, dovendo assolutamente un tal uomo morire, ed essendo estrema la ingiuria ricevuta, non può egli né dee più allora conservare rispetti; e, che che avvenire ne possa, il forte dee sempre morir vendicato: e chi nulla teme, può tutto.Per unica prova di quanto asserisco, addurrò la sola riflessione, che di quante tirannidi sono state distrutte, o di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto universale necessarissimo a ciò, non vi fu mai altra più incalzante ragione che le ingiurie fatte dal tiranno nell'onore principalmente, quindi nel sangue, poi nell'avere. Questo insegnamento non è dunque mio; ma egli sta nella natura degli uomini tutti. Ma pure, a chi dovesse, e volesse, vendicare una simile ingiuria, consiglierei pur sempre di farsi solo all'impresa, e di omettere interamente ogni pensiero alla propria salvezza, e come non alto, e come vano, e come sempre dannoso ad ogni magnanima importante vendetta. E chi non si sente capace di questa totale omissione di se stesso, non si reputi stoltamente capace, né degno, di eseguire una sì alta vendetta; e si persuada, che meritava egli veramente l'oltraggio che ha ricevuto; e pazientemente quindi sel goda. Ma, se l'offeso si trova del pari dotato di alto animo e d'illuminato intelletto; se da quella sua privata vendetta ne ardisce egli concepire e sperare la universale permanente libertà; tanto più allora si muova egli (ma sempre pur solo) al compiere la prima e la più importante impresa; ometta egli parimente ogni pensiero della propria salvezza; tutte quelle risentite parole, che, con grave ed inutil pericolo per sé e per l'impresa, egli avrebbe mosso agli amici per indurgli a congiurare con lui, tutte le cangi in un solo importantissimo, tacito, e ben assestato colpo: e lasci poi all'effetto che ne dee necessariamente ridondare, l'incarico di estendere e di corroborar la congiura; e al solo destino ogni cura della propria salvezza abbandoni. Ma cogli esempli più estesamente mi spiego. Il popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò felicemente contr'essi, e la tirannide al tutto distrusse, allorché finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal tiranno, e di propria mano svenata. Ma, se Lucrezia non avesse in se stessa generosamente compiuta la prima vendetta, egli è da credersi che Collatino, o Bruto, inutilmente forse, e con grave dubbio e pericolo, avrebbero congiurato contro ai tiranni: perché il popolo, e il più degli uomini, non son mai commossi, né per metà pure, dalle più convincenti ragioni, quanto lo sono da una giusta e compiuta vendetta; massimamente, allorché ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile e sanguinoso, che ai loro occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota. Se dunque Lucrezia non si fosse uccisa da sé, Collatino, come il più fieramente oltraggiato, avrebbe dovuto perdere risolutamente se stesso uccidendo l'adultero tiranno; e se egli in tale impresa periva, doveva lasciar poi a Bruto l'incarico di muovere, per via di quella sua giusta uccisione, il popolo a libertà e a furore. Ma, se non fosse stato così pubblico ed importante quest'ultimo tirannico oltraggio; e se, per essere questo aggiunto a molti altri, non fosse stata oramai matura la liberazione del popolo di Roma; i parenti e gli amici di Collatino avrebbero forse congiurato, ma contra i soli Tarquinj: in vece che Collatino, senza punto congiurare con altri, avrebbe egli solo certamente potuto uccidere il tiranno, e quindi forse anche salvare se stesso; e, congiunto poscia con Bruto, avrebbe liberato anco Roma. È dunque da notarsi in codesto accidente, che l'uomo oltraggiato gravemente nella tirannide, non dee mai da prima congiurare con altri che con se stesso; perché almeno assicura egli così la propria privata vendetta; e, con quel terribile spettacolo che egli appresta ai suoi cittadini, lascia in qualche aspetto di probabilità, e assai più matura, la pubblica, a chi la volesse e sapesse eseguirla. All'opposto, col congiurare in molti per fare la prima privata vendetta, elle si perdono spessissimo entrambe. Quell'uomo dunque, che capace si reputa di ordire e spingere una alta e giovevol congiura, il cui fine debba essere la vera politica libertà, non la imprenda giammai, se non se dopo moltissimi universali oltraggi fatti dal tiranno, e immediatamente dopo una qualche privata atroce vendetta contr'essi, felicemente eseguita da uno dei gravemente oltraggiati. E così, chi si sente davvero capace di solennemente vendicare un proprio privato importantissimo oltraggio, senza cercarsi compagni, altamente e pienamente lo vendichi; e lasci poscia ordir la congiura da chi vien dopo: che s'ella riesce a buon fine, l'onore ne sarà pur sempre in gran parte anche suo; bench'egli rimanesse spento già prima: e se la pubblica consecutiva congiura poi non riesce, tanto maggiore ne risulterà a lui privato la gloria, e la maraviglia degli uomini, che vedranno la sua privata congiura aver da lui solo ottenuto un pienissimo effetto. Ma le congiure, ancorch'elle riescano, hanno per lo più funestissime conseguenze, perché elle si fanno quasi sempre contro al tiranno, e non contra la tirannide. Onde, per vendicare una privata ingiuria, si moltiplicano senza alcun pro gl'infelici; e, o sia che il tiranno ne scampi, o sia che un nuovo gli succeda, si viene ad ogni modo per quella privata vendetta e centuplicar la tirannide, e la pubblica calamità. Quell'uomo dunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue, o nell'onore, si dee figurare che il tiranno lo abbia condannato inevitabilmente a morire; ma che nella impossibilità, in cui egli è, di scamparne, gli rimane pure la intera possibilità di vendicarsene prima, e di non morir quindi infame del tutto. Né altro deve egli pensare in quel punto, se non che, tra i precetti del tiranno, il primo e il solo non mai trasgredito da lui, si è di vendicarsi di quelli che ha offeso egli stesso. Sia dunque il primo precetto di chi più gravemente è stato offeso da lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non giusta e feroce d'altrui.
Capitolo sesto
SE UN POPOLO, CHE NON SENTE LA TIRANNIDE, LA MERITI, O NO
Quel popolo che non sente la propria servitù, è necessariamente tale, che non concepisce alcuna idea di politica libertà. Pure, siccome la totale mancanza di questa naturale idea non proviene già dagli individui, ma bensì dalle invecchiate loro circostanze, che son giunte a segno di soffocare in essi ogni lume primitivo della ragion naturale; la umanità vuole, che al loro errore si compatisca, e che non si disprezzino affatto costoro, ancorché disprezzati siano e disprezzabili. Nati nella servitù, di servi padri, nati anch'essi di servi, donde oramai, donde potrebber costoro aver ritratto alcuna idea di libertà primitiva? Naturale ed innata nell'uomo ella è, mi si dirà da taluno; ma, e quante altre cose non meno naturali, dalla educazione, dall'uso, e dalla violenza, non vengono in noi indebolite o cancellate interamente ogni giorno? Nella romana repubblica, in cui ogni Romano nascea cittadino e riputavasi libero, vi nasceano pur anco fra i soggiogati popoli alcuni schiavi, che non poteano ignorar di esser tali, ogni giorno vedendo davanti a sé i loro padroni esser liberi; e coloro si credeano pur di esser servi, e nati per esserlo; e ciò soltanto, perché erano educati, e di padre in figlio sforzati, a riputarsi tali. Ora, se nel seno stesso della più splendida politica libertà che siasi mai vista sul globo, quegli uomini ignoranti e avviliti credeano di dover essi soli esser servi, non sarà maraviglia che nelle nostre tirannidi, dove non si profferisce né il nome pure di libertà, veri servi si credano quei che vi nascono; o, per dir meglio, che non conoscendo essi libertà, non conoscano né anche servaggio. Parmi perciò, che i popoli nostri si debbano assi più compiangere che non odiare o sprezzare; essendo essi innocentemente, e per sola ignoranza, complici senza saperlo del delitto di servire, di cui ben ampia già e terribile ne van sopportando la pena. Ma l'odio, lo sprezzo, e se altro sentimento vi ha più obbrobrioso e feroce, tutti si debbono bensì dai pochi enti pensanti fieramente rivolgere contro a quella picciola classe di uomini, che, non essendo stolidi affatto né inetti, ed accorgendosi benissimo di viver servi nella tirannide, sfacciatamente pure ogni giorno il vero, se stessi, e gli altri tutti tradiscono, correndo a gara ad adulare il tiranno, ad onorarlo, a difenderlo, ed a porgere primi l'infame collo a' suoi lacci; e ciò, col sol patto che doppiamente da essi avvinto ed oppresso ne rimanga il misero ed innocente popolo; presso cui, per ottenere il lor barbaro intento, caldissimi propagatori con astuzia si fanno di ogni dannosa ignoranza. E, spingendo io più oltre questa importante differenza fra quella parte di schiavi che nella tirannide si fa istrumento d'oppressione, e quella che (senza saperne il perché) si fa vittima, ardisco asserire una cosa che parrà forse ai molti non vera, ma che io credo pure verissima. Ed è; che dalla fedeltà stessa, dalla cecità e ostinazione maggiore, con cui i popoli nella tirannide difendono il loro tiranno, si debbe arguire che essi farebbero altrettanti e più sforzi per la libertà, se mai l'acquistassero; e se fin dalle fasce, in vece del nome del tiranno, come cosa sacra avessero udito sempre religiosamente insegnarsi il nome di repubblica. Il vizio dunque della tirannide, e il maggiore obbrobrio della servitù, non risiede nel popolo; che in ogni governo è sempre la classe la meno corrotta; ma interamente risiede in quei pochi che il popolo ingannano. Ed in prova, si osservi che ogniqualvolta il tiranno eccede quel modo comportabile dalla umana stupidità, il primo sempre, anzi il solo per lo più che risentirsi ardisca delle estreme ingiurie, si è il più basso popolo, il quale pure, nella pienissima sua ignoranza, stoltamente reputa il tiranno essere quasi un Dio. All'incontro, gli ultimi sempre ad offendersi e a ricercarne vendetta, ancorché ingiuriatissimi siano dal tiranno, son quelli della più illustre classe, ed i suoi più famigliari, i quali pure indubitabilmente convinti sono, ch'egli è assai meno che un uomo. Onde conchiudo; che nella tirannide meritano solo di esser servi quei pochi, che avendo in sè la idea di libertà, (e quindi o la forza o l'arte per tentare almeno di riacquistarla per sé, facendola ad un tempo riacquistare ad altrui) antepongono tuttavia di vivere in servitù; ed anzi se ne pregiano essi; e, quanto più sanno e possono, vi costringono il rimanente dei loro simili.
Capitolo settimo
COME SI POSSA RIMEDIARE ALLA TIRANNIDE
La volontà, o la opinione di tutti o dei più, mantiene sola la tirannide: la volontà e l'opinione di tutti o dei più, può sola veramente distruggerla. Ma, se nelle nostre tirannidi l'universale non ha idea d'altro governo, come si può egli arrivare ad infondere in tutti, o nei più, questo nuovo pensiero di libertà? Risponderò, piangendo, che mezzo brevemente efficace a produr tale effetto, nessuno ve ne ha; e che ne' paesi dove la tirannide da molte generazioni ha preso radice, moltissime ve ne vuole prima che la lenta opinion la disvelga. E già mi avveggo, che in grazia di questa fatal verità, mi perdonano i tiranni europei tutto ciò che finora intorno ad essi mi è occorso di ragionare. Ma, per moderare alquanto questa loro non meno stolta che inumanissima gioja, osserverò; che ancorché non vi siano efficaci e pronti rimedj contro la tirannide, ve ne sono molti tuttavia ed uno principalissimo, rapidissimo, ed infallibile, contra i tiranni. Stanno i rimedj contro al tiranno in mano d'ogni qualunque più oscuro privato: ma i più efficaci e brevi e certi rimedj contra la tirannide, stanno (chi 'l crederebbe?) in mano dello stesso tiranno: e mi spiego. Un animo feroce e libero, allor quando è privatamente oltraggiato, o quando gli oltraggi fatti all'universale vivissimamente il colpiscono, può da sé solo in un istante e con tutta certezza efficacemente rimediare al tiranno, col ferro: e, se molti di questi animi allignassero nelle tirannidi, ben presto anco la moltitudine stessa cangerebbe il pensiero, e si verrebbe così a rimediare ad un tempo stesso alla tirannide. Ma, siccome gli animi di una tal tempra sono cosa rarissima, e principalmente in questi scellerati governi; e siccome lo spegnere il solo tiranno null'altro opera per lo più, che accrescere la tirannide; io sono costretto, fremendo, a scrivere qui una durissima verità; ed è, che nella crudeltà stessa, nelle continue ingiustizie, nelle rapine, e nelle atroci disonestà del tiranno, sta posto il più breve, il più efficace, il più certo rimedio contra la tirannide. Quanto più reo e scellerato è il tiranno, quanto più oltre spinge manifestamente l'abuso dell'abusiva sua illimitata autorità; tanto più lascia egli luogo a sperare, che la moltitudine finalmente si risenta; e che ascolti ed intenda e s'infiammi del vero; e ponga quindi solennemente fine per sempre a un così feroce e sragionevol governo. È da considerarsi, che la moltitudine rarissimamente si persuade della possibilità di quel male che ella stessa provato non abbia, e lungamente provato: quindi gli uomini volgari la tirannide non reputano per un mostruoso governo, finché uno o più successivi mostri imperanti non ne han fatto loro funesta ed innegabile prova con mostruosi eccessi inauditi. Se in verun conto mai un buon cittadino potesse divenire ministro d'un tiranno, ed avesse fermato in se stesso il sublime pensiero di sagrificare la propria vita, e di più anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la tirannide, costui non avrebbe altro migliore né più certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di secondare e per fino talmente instigare la sua tirannesca natura, che abbandonandosi egli ad ogni più atroce eccesso rendesse ad un tempo del pari la sua persona e la sua autorità odiosissima e insopportabile a tutti. E dico io espressamente queste tre parole; La sua persona, la sua autorità, e a tutti; perché ogni eccesso privato del tiranno non nuocerebbe se non a lui stesso; ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, egualmente a furore movendo l'universale e gl'individui, nuocerebbe ugualmente alla tirannide ed al tiranno; e li potrebbe quindi ad un tempo stesso interamente entrambi distruggere. Questo infame ed atrocissimo mezzo (che io primo il conosco per tale) indubitabilmente pure sarebbe, come sempre lo è stato, il solo efficace e brevissimo mezzo ad una impresa così importante e difficile. Inorridito ho nel dirlo; ma vie più inorridiscono in pensare quai siano questi governi, ne' quali se un uomo buono operar pur volesse colla maggior certezza e brevità il sommo bene di tutti, si troverebbe costretto a farsi prima egli stesso scellerato ed infame, ovvero a desistersi dall'altramente ineseguibile impresa. Quindi è, che un tal uomo non si può mai ritrovare; e che questo sopraccennato rapido effetto dell'abuso della tirannide non si può aspettare se non per via di un ministro scellerato davvero. Ma questi, non volendo perdere del proprio altro che la fama (che già per lo più mai non ebbe); e volendo egli assolutamente conservare la usurpata autorità, le prede, e la vita; questi lascierà bensì diventare il tiranno crudele e reo quanto è necessario per fare infelicissimi i sudditi, ma non mai a quell'eccesso che si bisognerebbe per tutti destargli a furore e a vendetta. Da ciò proviene, che in questo mansuetissimo secolo cotanto si è assottigliata l'arte del tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e così ben velate e varie e saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i modi coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata in eterno. Or ecco, ch'io già mi sento dintorno gridare: "Ma, essendo queste tirannidi moderate e soffribili, perché con tanto calore ed astio svelarle e perseguirle?" Perché non sempre le più crudeli ingiurie son quelle che offendono più crudelmente; perché si debbono misurare i mali dalla loro grandezza e dai loro effetti, più che dalla lor forza; perché, in somma, colui che ti cava ogni giorno poche oncie di sangue ti uccide a lungo andare ugualmente che colui che ad un tratto ti svena, ma ti fa stentare assai più. Tutte le facoltà dell'animo nostro intorpidite; tutti i diritti dell'uomo menomati o ritolti; tutte le magnanime volontà impedite o deviate dal vero; e mille e mille altre simili continue offese, che troppo lungo e pomposo declamatore parrei, se qui ad una ad una annoverarle volessi; ove la vita vera dell'uomo consista nell'anima e nell'intelletto, il vivere in tal modo tremando, non è egli un continuo morire? E che rileva all'uomo, che nato si sente al pensare e all'operare altamente, di conservare tremante la vita del corpo, gli averi, e l'altre sue cose (e queste né anco sicure) per poi perdere, senza speranza di riacquistarli giammai, tutti, assolutamente tutti, i più nobili e veri pregi dell'anima?
Capitolo ottavo
CON QUAL GOVERNO GIOVEREBBE PIÙ DI SUPPLIRE ALLA TIRANNIDE
Ma, già già mille altre obbiezioni non meno importanti m'insorgono d'ogni intorno: e queste saranno le ultime alle quali io mi creda in dovere di alquanto rispondere. "Più facil cosa è il biasimare e il distruggere, che non il rettificare e creare. Che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, già ben lo sapevano tutti coloro che stupidi affatto non sono; e per quelli che il sono, inutilissimo era il dimostrarlo. Le storie tutte fanno fede della massima instabilità dei liberi governi: onde riesce cosa intieramente vana il dimostrare che non si dee soffrir la tirannide, se infallibili mezzi non s'insegnano per eternare la libertà". Queste, o simili obbiezioni (che ne potrei riempire inutilmente le pagine) è assai facile il farle, e non così facile l'impugnarle. Quanto alla prima, rispondo di volo; che io non credo niente inutile il dimostrare ai non affatto stupidi, non già che la tirannide sia un governo esecrabile e vizioso in se stesso, poich'essi dicono di saperlo, ma che quella specie di governo sotto cui essi vivono, e che sotto il blandissimo nome di monarchia si vanno godendo, altro in fatti non è se non una intera e schietta tirannide, accomodata ai tempi; tirannide niente meno insultante e gravosa per gli uomini che qualsivoglia altra antica od asiatica, ma assai più saldamente fondata, e assai più durevole quindi, e fatale. Alla seconda obbiezione mi conviene rispondere alquanto più lungamente. Il dimostrare qual sia il male, quali ne siano le cagioni, i mezzi, ed in parte gli effetti, vien certamente ad essere un tacito insegnamento di ciò che potrebbe essere il bene; che in tutto è il contrario del male. "Se dunque venisse fatto pur mai di estirpar la tirannide in alcuna ragguardevol parte di Europa, come per esempio in tutta la Italia, qual tempra di governo vi si potrebb'egli introdurre, che non venisse dopo alcun tempo a ricadere in tirannide di uno o di più?" Se io, colla dovuta modestia e coscienza delle poche mie proprie forze, mi fo a rispondere a questo importante quesito, dico; che quando si ritrovasse l'Italia nelle circostanze a ciò necessarie, quegl'Italiani che a quei tempi si troveranno aver meglio letto e considerato tutto ciò che da Platone in poi è stato scoperto e insegnato da tanti uomini sommi circa alla meno viziosa forma dei governi; quegl'Italiani d'allora, che avran meglio studiato e conosciuto nelle diverse storie, e nei diversi paesi dello stesso lor secolo, la natura, l'indole, i costumi, e le passioni degli uomini; quelli soli potranno allora con adequato senno provvedere a ciò che operare allor si dovrebbe pel meglio; cioè, pel meno male. Se io, all'incontro, presuntuosamente rispondere volessi al quesito, mi troverei costretto di farlo col pormi ad un'altra opera, e intitolarla DELLA REPUBBLICA; nella quale individuatamente ed a lungo mi proverei a ragionare su tale materia. Ma, quando pur anche mi credessi io di avere e senno, e lumi, e dottrina, ed ingegno da ciò; bisognerebbe nondimeno sempre, che io (per non acquistarmi gratuitamente alla prima il nome di stolto) in fronte di un tal libro mi protestassi, ch'ella è impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e d'inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che richiedendo continuamente sforzo e virtù, (atteso il contrario e continuo impulso della umana natura, che assai più è propensa al bene dei privati individui, e quindi tosto al male di tutti o dei più) vanno insensibilmente ogni giorno menomandosi e corrompendosi per se stesse. E sarei anche sforzato in quella mia prefazione di aggiungervi, che quegli ordini che convengono ad uno stato, disconvengono spessissimo all'altro; che quelli che bene si adattano al principiare di uno stato novello, non operano poi abbastanza nel progredire, e alle volte anzi nuocono nel continuare; che il cangiargli a seconda col cangiarsi degli uomini dei costumi e dei tempi, ella è cosa altrettanto necessaria, quanto impossibile a prevedersi, e difficilissima ad eseguirsi in tempo. E mille e mille altre simili cose io mi troverei costretto a premettere a quella REPUBBLICA mia; le quali cose per essere già state dette meglio ch'io non le direi mai, massimamente da quel nostro divino ingegno del Machiavelli, non solamente inutili per se stesse riuscirebbero, ma pur troppo, contra l'intenzione dell'autore, una preventiva dimostrazione sarebbero della inutilità di un tal libro. E per quanto poi quella mia teorica repubblica potesse parer saggia, ragionata, e adattabile a' tempi, luoghi, religioni, opinioni, e costumi diversi; ella non verrebbe tuttavia mai ad essere eseguibile in nessunissimo cantuccio della terra, senza quivi prima ricevere da un saggio legislatore effettivo quelle tante e tali modificazioni e mutazioni, che necessarie sarebbero per quella data effettiva società; la quale certamente in alcuna cosa differirà da alcuna delle supposizioni dell'ideale legislatore. Ma quando anche poi una tale scritta repubblica venisse effettivamente nel suo intero adattata ad un qualche popolo, tutta la umana saviezza (non che la pochissima mia) non perverrebbe pur mai a stabilirvi in tal modo un governo, che il caso, cioè un avvenimento non preveduto, non avesse la forza di poterlo inaspettatamente assai peggiorare, come anche di poter migliorarlo, o mutarlo, o affatto distruggerlo. Stoltissima superbia sarebbe or dunque la mia, se un tale assunto imprendessi, sapendo già prima, che quando anche pure mi lusingassi di poter dire delle cose non dette, per lo meno inutile riuscirebbe il mio libro. Tuttavia non meno scusabile che folle una mia tale superbia sarebbe (come di chiunque altro a simile impresa oramai si accingesse), ogniqualvolta un tal libro non avesse stoltamente per fine la gloria letteraria e legislatrice, ma fosse semplicemente un virtuoso e ben intenzionato sfogo di un ottimo cittadino: e come tale, inutile allora non riuscirebbe del tutto. Dalle cose finora da me, per quanto ho saputo, rapidamente presentare al lettore, ne potrebbe frattanto, s'io non erro, ridondar questo bene: che, ove una repubblica insorgente in questi, o nei futuri tempi, sopra le rovine d'alcuna distrutta tirannide, badasse a spegnere, o a menomare quanto più le fosse possibile la pestifera influenza di quelle tante cagioni della passata servitù da me ampiamente nel primo libro dimostrate, si può credere che una tale insorgente repubblica verrebbe ad ottenere alcun peso, e stabilità. Che se io minutamente ho dimostrato come sia costituita la tirannide, indirettamente avrò dimostrato forse, come potrebbe essere costituita una repubblica. E il primo di tutti i rimedj contro alla tirannide, ancorché tacito e lento, egli è pur sempre il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché oppressi ne siano) là dove i pochi non osino appien disvelarla. Ma, quanto è necessario l'impeto, l'audacia, e (per così dire) una sacra rabbia, per disvelare, combattere, e distruggere la tirannide, altrettanto è necessaria una sagace e spassionata prudenza, per riedificare su quelle rovine; onde difficilmente l'uomo stesso potrebbe esser atto egualmente a due imprese pur tanto diverse nei loro mezzi, benché similissime nella lor meta. Ed io, per amor del vero, son pure costretto a notar qui di passo, che le opinioni politiche (come le religiose) non si potendo mai totalmente cangiare senza che molte violenze si adoprino, ogni nuovo governo è da principio pur troppo sforzato ad essere spesso crudelmente severo, e alcune volte anche ingiusto, per convincere o contenere con la forza chi non desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole innovazioni ancorché giovevoli. Aggiungerò, che, per maggiore sventura delle umane cose, è altresì più spesso necessaria la violenza, e qualche apparente ingiustizia nel posar le basi di un libero governo su le rovine d'uno ingiusto e tirannico, che non per innalzar la tirannide su le rovine della libertà. La ragione, a parer mio, è patente. La tirannide non sottentra alla libertà, se non se con una forza effettiva, e talmente preponderante, che col solo continuo minacciare facilmente contiene l'universale. E mentre con l'una mano brandisce un ferro spietato, ella spande coll'altra a piena mano quell'oro che ha colla spada estorquito. Onde, distrutti alcuni pochi capi-popolo, corrottine molti altri più, che già guasti erano e preparati al servaggio, il rimanente obbedisce e si tace. Ma, la nascente libertà, combattuta ferocissimamente da quei tanti che s'impinguavano della tirannide, freddamente spalleggiata dal popolo, che, oltre alla sua propria lieve natura, per non averla egli ancora gustata, poco l'apprezza e mal la conosce; la nascente libertà, divina impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensità, e che da quei soli pochi viene alquanto inspirata e a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei più; ov'essa per qualche beata circostanza perviene a pigliare alcun corpo, non dovendo trascurar l'occasione di mettere, se può, profonde e salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti rei che cittadini ridivenir più non possono, e che pur possono tanti altri impedirne, o guastarne. Deplorabile necessità, a cui Roma, felice maestra in ogni sublime esempio, ebbe pur anche la ventura di non andar quasi punto soggetta; poiché dal lagrimevole straordinario spettacolo dei figli di Bruto fatti uccider dal padre, ella ricevea fortemente quel lungo e generoso impulso di libertà, che per ben tre secoli poi la fece sì grande e beata. Ritornando ora al proposito mio, conchiudo con questo capitolo il libro, col dire; che non vi essendo alla tirannide altro definitivo rimedio che la universal volontà e opinione; e non potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente pel solo mezzo dei pochi che pensano, sentono, ragionano, e scrivono; il più virtuoso individuo, il più costumato, il più umano, si trova pur troppo sforzato a desiderar nel suo cuore, che i tiranni stessi, coll'eccedere ogni ragionevole modo, più rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal volontà e opinione. E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano, iniquo, e perfino scellerato, si consideri che le importantissime mutazioni non possono mai succedere fra gli uomini (come dianzi ho notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire all'essere liberi, più ancora, che dall'esser liberi al servire. Un ottimo cittadino può dunque, senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal passeggero; perché, oltre al troncare ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai più durevoli, ne dee nascere un bene molto maggiore e permanente. Questo desiderio non è reo in se stesso, poiché altro fine non si propone che il vero e durevol vantaggio di tutti. E giunge avventuratamente pure quel giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze, e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia, di liberi e virtuosi uomini.
PROTESTA DELL'AUTORE
Non la incalzante povertade audace,
Scarsa motrice a generosa impresa;
Non l'aura vana, in cui gli stolti han pace
D'ogni lor brama in debil fuoco accesa;
Non l'ozio servo, in che la Italia giace;
Cagion, ah! no, queste non fur, ch'intesa
M'ebber la mente all'alto onor verace
Di far con penna ai falsi imperj offesa.
Un Dio feroce, ignoto un Dio, da tergo
Me flagellava infin da quei primi anni,
A cui maturo e impavido mi attergo.
Né pace han mai, né tregua, i caldi affanni
Del mio libero spirto, ov'io non vergo
Aspre carte in eccidio dei tiranni.
Della tirannide. Libri due. Di Vittorio Alfieri da Asti.
Alfieri, Vittorio (1749-1803)
L'abbozzo del Della Tirannide fu steso nel 1777; ebbe da ultimo una capillare revisione, in vista della stampa, nel 1787 e nel 1789. I due libri dell'opera corrispondono alla partizione della materia trattata. Nel primo libro, dopo una innovativa dedica Alla Libertà (non a questo o a quello dei potenti di turno, come ancora si usava), si definisce cosa sia il tiranno. Il tiranno è l'«infrangi-legge», cioè colui che si trova ad essere al di sopra delle leggi, sottratto a ogni controllo, e che può «farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità». Tirannide è pertanto ogni monarchia assoluta, illuminata o no. La nozione alfieriana di tirannide include anche le repubbliche oligarchiche; nel trattato è menzionato l'esempio di Venezia, il cui assetto politico era già incorso nella riprovazione di Montesquieu. Alfieri esamina poi quali siano il fondamento e i mezzi della tirannide: la reciproca paura dei sudditi e del tiranno (un antico tema tragico e filosofico-politico, ancora ben presente nel XVIII secolo, e di perenne attualità); la viltà dei sudditi, cioè la forma più degradata di paura, distinta dal timore di chi è opportunamente prudente; l'ambizione, cioè il desiderio di emergere e primeggiare sugli altri in ricchezze, onori e privilegi; il primo ministro, «vicetiranno» talvolta peggiore del tiranno; la milizia, gustificabile solo in una libera e vera «patria»; la religione, e in particolare le religioni monoteistiche, dove l'unico Dio fornisce il modello del dispotismo politico (l'argomento non era nuovo); il falso onore, identificato proprio con quello che a Montesquieu pareva l'onore tout court e che ad Alfieri sembrava invece egoistica «brama» e infondato «diritto, di essere onorato dai più»; la nobiltà, sedotta dagli allettamenti del tiranno (altro disaccordo dal liberalismo filo-nobiliare di Montesquieu); il lusso, a torto indicato da molti come fonte di prosperità economica: la sua condanna avvicina Alfieri agli illuministi «radicali», poi ispiratori della virtù repubblicana. La tirannide si fonda dunque su forze psicologiche, e su corpi sociali precisi (milizia, clero, nobiltà). È preso inoltre in considerazione se sia opportuno sposarsi e avere figli sotto un tiranno: un tema, per Alfieri, anche ripostamente autobiografico. E la risposta è negativa.
Il secondo libro, più breve, è dedicato a come vivere sotto la tirannide, o rovesciarla. I sudditi dei tiranni non sono che armenti: l'immagine, presente anche in altre opere dello scrittore e in altra parte della stessa Tirannide, era diffusa nel Settecento, e apparteneva a un gruppo d'immagini della stessa famiglia usate da molti (Voltaire, Rousseau, Diderot, P. Verri...) per designare appunto la condizione avvilita delle masse sottoposte ai tiranni. Chi però avverta tutto il peso dell'iniquo sistema politico, e sia cosciente d'essere «incapace a scuoterlo», si tenga lontano dal potere e da quanti ne sono emanazione e strumento; non frequenti, anzitutto, le corti. Se si trova nella fortunata condizione di non dover vivere del proprio lavoro (un privilegio di cui i nobili potrebbero valersi contro i re, se volessero), rinforzi in sé stesso il sentimento di una non avventata indipendenza; e comunichi agli altri, a voce e, se è in grado di farlo efficacemente, per iscritto, il proprio desiderio di libertà. Alfieri torna peraltro a raccomandare la pratica della prudenza, a patto però che non degeneri in viltà. Come Machiavelli, da lui letto di fresco e presente anche qua e là in qualche giro di frase e in qualche passaggio dilemmatico, Alfieri condanna le troppo infide congiure. Nel caso di gravi offese private o pubbliche, il liber'uomo potrà cercare il tirannicidio, che dovrà essere un atto individuale e, con ogni probabilità, votato al sacrificio. Ma l'uccisione d'un tiranno non toglie di mezzo il sistema della tirannide: la vera liberazione si dà solo grazie a una sollevazione popolare. Essa sarà possibile anzitutto in virtù della stessa oppressione quando, ignara di freni, giunga a limiti estremi. Per questo, il miglior sovrano è in definitiva il più scellerato, perché meglio rende evidente al sudditi l'arbitrarietà del suo potere. Per un analogo paradosso, nel trattato Del Principe e delle Lettere Alfieri asserirà che al principe-mecenate è preferibile il principe che non protegge i letterati: almeno non li corrompe. Della repubblica vagheggiata non si dà, nel trattato, un progetto. A buon conto, essa non dev'essere un modello utopistico e astrattamente universale, ma, fatto salvo il costituzionalismo di fondo, un sistema capace di adeguarsi alle diverse realtà sociali un problema, questo, già posto da Montesquieu e da Rousseau. Una puntualizzazione è infine indispensabile. Per Alfieri, come per altri nel suo secolo, repubblica è anche la monarchia costituzionale. II suo repubblicanesimo fin dall'inizio incluse, nel proprio orizzonte, anche la monarchia di tipo inglese (pur con riserve sulla nobiltà dell'isola); e al costituzionalismo rimase fedele fino alla morte. S'è negata ogni originalità concettuale al Della Tirannide. Alfieriano è però l'impeto e la complessiva coerenza di cui l'autore fa mostra; inoltre il trattato è una delle prime manifestazioni della sfiducia nell'assolutismo illuminato che cominciava a diffondersi tra i philosophes europei. E inoltre di grande interesse rilevare i collegamenti fra il trattato e la sua opera tragica, peraltro di maggiore complessità.
VITTORIO ALFIERI (1749-1803)
Nasce ad Asti nel 1749 da una delle più nobili e ricche famiglie piemontesi. Perduto a un anno il padre, fu affidato alla tutela di uno zio, il quale si servì di un precettore-sacerdote per educarlo (nella satira L'educazione forse è ritratta l'immagine). Nel '58 fu posto in collegio (accademia militare di Torino) e vi rimase fino al '66. Qui veniva educata la gioventù nobile nelle scienze e negli esercizi cavallereschi, e in 9 anni si prendeva la laurea in legge. Ma i sistemi pedagogici erano senz'altro molto antiquati. Durante questi anni l'Alfieri, che conosceva perfettamente il francese (lingua della nobiltà piemontese), legge molti romanzi francesi e la Storia ecclesiastica del Fleury che contribuì notevolmente al suo scetticismo in materia di religione.
Morto lo zio tutore, l'Alfieri a 15 anni eredita il patrimonio di questi e del padre, divenendo ricchissimo. Appena poté uscire dall'accademia, si diede ai viaggi e alle dissolutezze (1766-72). In quegli anni percorse letteralmente tutta Europa, leggendo Montaigne, Montesquieu, Rousseau, Helvetius ecc., cioè quanto di meglio esprimeva la Francia di quel tempo. Il suo cosmopolitismo tuttavia non lasciò tracce profonde nella sua coscienza, se si esclude un particolare apprezzamento per la società inglese, di cui ammirava l'equilibrato governo costituzionale. I viaggi comunque gli servirono per maturare un atteggiamento critico verso il dispotismo illuminato (riformismo dall'alto) di Austria, Prussia e Russia.
Tornato in patria, continua ancora per qualche anno questa vita, s'iscrive alla massoneria, legge con molto entusiasmo Plutarco, e nel corso di un'ultima avventura galante abbozza una tragedia, Cleopatra, e scrive una farsa autocritica, I poeti, che, rappresentate entrambe nel '75, riscuotono un certo successo. A partire da questo momento inizia la sua rigenerazione spirituale e culturale. Consapevole delle sue possibilità e del suo talento letterario, con decisa e ferma volontà, l'Alfieri si propone il compito di dare all'Italia ciò di cui ancora mancava: la tragedia.
Per vincere la sua ignoranza e per liberarsi del suo francese va a vivere in Toscana (1776-81). A 46 anni s'immerge nello studio del latino e del greco. A Firenze si lega con la moglie di un ex-pretendente al trono d'Inghilterra, per la quale decide di non muoversi più dalla città. E, poiché le leggi piemontesi limitavano la libertà, ai nobili possessori di terre, fuori dello Stato sabaudo, prende la decisione di donare tutti i suoi beni alla sorella, riservandosi in cambio un vitalizio annuale. Lo fece anche perché così non aveva più bisogno di chiedere al suo re ogni volta il consenso per uscire dallo Stato e l'approvazione per ogni nuova opera da pubblicare. E così cominciò a scrivere tragedie, rime, opere politiche. Nel '77 il trattato Della tirannide, nel '78 inizia quello Del principe e delle lettere. Fra il '75 e l'86 compone 19 Tragedie, fra cui Saul e Mirra, che sono le più importanti.
Dopodiché intraprende l'ultimo suo vagabondare per l'Europa (1783-92). A Parigi assiste con entusiasmo alla Rivoluzione francese e la esalta con l'ode Parigi sbastigliata. Ma resterà presto deluso dalle conseguenze radicali che presero gli avvenimenti, per cui se ne tornerà a Firenze. Nel '90 aveva cominciato la stesura autobiografica della Vita, accompagnata da un'ampia produzione lirica, le Rime. A Firenze (1792-1803) si chiude sempre di più in un odio feroce contro i francesi, specie durante le due occupazioni napoleoniche del 1799 e 1800. Dall'89 al '97 compone 17 Satire, dal 1800 al 1802 le Commedie e infine il Misogallo, un violento libello contro la Francia. Muore in solitudine nel 1803.
IDEOLOGIA E POETICA
Il Settecento fu prodigo di tragedie. L'interesse per il genere era nato dall'influenza del teatro francese (Racine, Corneille), che era così forte da condizionare non solo la scelta degli argomenti (i sentimenti, l'amore ecc.) ma persino il metro con cui trattarli. I commediografi italiani si erano orientati, cercando di emulare i francesi, verso argomenti greco-latini, ebraici, orientali (come avveniva del resto per il melodramma). L'Alfieri non fece che porsi in questa corrente apportandovi un originale contributo (non però su quello formale, perché qui si attenne al rispetto delle unità aristoteliche di luogo e tempo).
Dotato di un fortissimo senso della libertà e insofferente a ogni tirannide, sia pubblica che privata, egli infatti concepì il teatro come mezzo di educazione civile e politica e l'artista come "sacerdote dell'umanità". Convinto che la storia sia maestra di vita, portò sulla scena i grandi personaggi, quelli secondo lui più adatti a suscitare l'amore per la libertà e l'odio contro la tirannide: Saul, Mirra, Polenice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Sofonisba, Filippo, Rosmunda, Maria Stuarda ecc. Tutti personaggi che mostrano d'avere un'altissima umanità, ma che, in definitiva, risultano troppo perfetti per permettere allo spettatore una vera immedesimazione. Il pubblico applaudiva perché affascinato dai ritmi travolgenti delle passioni rappresentate, ma avvertiva chiaramente in esse qualcosa di inarrivabile, perché troppo straordinario.
Il limite dell'Alfieri sta in quel suo modo vitalistico e individualistico di affrontare lo scontro, allora molto forte, tra tiranno e oppresso. Il protagonista principale delle sue tragedie è sempre il singolo eroe che, con coraggio e abnegazione, cerca di opporsi alla tirannia del potente (re, principe o imperatore). Il suo ideale è la personalità di Bruto e il suo mondo preferito è quello degli eroi e tirannicidi descritto da Plutarco. In questo senso, il suo riferimento alla classicità non sta tanto nello stile letterario (ché anzi l'Alfieri è un innovatore), e neppure nel riconoscimento formale della superiorità dell'antica tradizione, quanto piuttosto nell'esigenza di ricercare modelli umani eroici da riproporre, in veste moderna, ai suoi contemporanei (al di là di un'analisi storica dell'ambiente reale in cui questi personaggi sono vissuti). Politicamente l'ideale dell'Alfieri, almeno sino alla delusione per gli esiti terroristici della Rivoluzione francese, resta quello della Repubblica romana pre-cesarea e dell'antica Grecia.
Ciò che più ha condizionato la concezione “liberal-anarchica” dell'Alfieri fu il fatto ch'egli, pur avendo rinunciato agli ideali aristocratici, non rinunciò mai allo stile di vita aristocratico (per molto tempo condusse una vita errabonda, frenetica, in parte dissoluta). In qualunque paese europeo andasse l'Alfieri guardava la situazione politica con gli occhi dell'intellettuale isolato, e quella sociale con gli occhi dell'aristocratico che da parte delle masse popolari non spera in una decisa posizione antigovernativa. Quando infatti i suoi ideali giacobini-rivoluzionari si trovano realizzati nella Rivoluzione francese, la sua reazione alla necessità della dittatura politica, sarà decisamente negativa. Alfieri non era contro una particolare forma di governo, ma contro tutte, poiché là dove esisteva un "potere", per lui vi era anche ingiustizia e oppressione.
Trattato Della Tirannide. Alfieri afferma che "base e molla" della tirannia è la paura. La tirannide da lui descritta non coincide con una forma particolare di governo (anche se il riferimento alla sua epoca è evidente). La nobiltà (ambiziosa e amante del lusso), l'esercito (garante dell'ordine pubblico) e la religione (che educa all'obbedienza) sono, oltre alla paura, le armi del tiranno. Ma il tiranno è schiavo della paura non meno del suddito, poiché, per restare sul trono, ha bisogno di esercitarla quotidianamente, temendo sempre d'essere rovesciato.
Sugli oppressi il giudizio dell'Alfieri è pessimista. Chi è abituato alla sottomissione difficilmente riesce a liberarsene, anzi, arriva ad acquisire sentimenti di servilismo e di fatalismo. C'è solo una speranza secondo il poeta: che l'autoritarismo sia così duro e insopportabile da indurre il popolo a ribellarsi. Nel frattempo l'intellettuale (più poeta che filosofo) deve avere il coraggio di criticare il tiranno mediante le sue opere letterarie. Ma perché lo possa fare deve essere libero da problemi economici, ché altrimenti sarà costretto a compromettersi. Il tirannicidio dunque è escluso, ma solo fino a quando non è lo stesso popolo a insorgere. In casi estremamente sfavorevoli all'individuo l'Alfieri consiglia il suicidio.
19 Tragedie. La scelta del genere letterario tragico rispecchia psicologicamente l'esigenza individualistica del poeta-eroe. Le tragedie ruotano attorno a un personaggio principale; gli altri (sempre pochi) hanno una funzione accessoria. Il finale in genere è di due tipi: suicidio o tirannicidio. Gli argomenti sono presi dalla storia o dalla Bibbia, con predilezione per i soggetti greco-romani. L'azione si svolge in 5 atti. Il verso adoperato: endecasillabo sciolto, ma è trattato in maniera molto dura, nervosa, concisa. Alla base di ogni vicenda sta il fato, cioè una forza al di sopra dell'uomo, che lo costringe a reagire. I protagonisti, pur prigionieri delle loro passioni, proprio in questa lotta con il fato rivelano la loro forza, la loro carica emotiva. E' assente ogni preoccupazione realistica. Non c'è sfondo teatrale che ambienti i personaggi, e neppure intreccio o azione. Il linguaggio non è colloquiale (come in Goldoni) ma oratorio, solenne. I dialoghi son quasi dei monologhi (si è sordi alle parole altrui). In questo Alfieri si allontana decisamente dall'Arcadia e dal melodico dramma metastasiano.
17 Satire. Qui l'Alfieri condanna: commercio borghese, clericalismo e anticlericalismo, re, nobili e militari, il popolo e i precettori.
6 Commedie. Qui condanna: monarchia assoluta (Dario) ne L'uno, oligarchia assoluta (Gracchi) ne I pochi, democrazia assoluta (Ateniesi) ne I troppi. Condanna i grandi uomini, perché nella vita privata sono incoerenti (La finestrina) e i matrimoni nobiliari per interesse (Il divorzio). Condivide: la monarchia costituzionale di tipo inglese o della vecchia Venezia (L'antidoto). Nel 1781-83 aveva scritto 5 Odi sull'America libera, esaltando l'indipendenza dal dominio coloniale inglese.
Al popolo italiano futuro. Dedica del Bruto secondo
La dedica "Al Popolo Italiano Futuro" aggiunta autografa alla copia Polidori (Alfieri 292, c. 345r) fu stampata con lievi varianti nel tomo V dell'edizione Didot delle Tragedie (pp. 187-189). Ideato il 18-19 aprile 1786 (Alfieri 262,cc. 162r-163v), steso dal 29 novembre al 3 dicembre del medesimo anno (Alfieri 262, cc. 164r-175v) e verseggiato tra il 5 novembre e il 2 dicembre 1787 (Alfieri 282,cc. 215r-234v), il Bruto Secondo è l'ultima delle tragedie alfieriane. Concepita al pari del Bruto Primo in antagonismo con Voltaire, essa risente delle suggestioni alimentate dalla lettura delle vite plutarchiane, dei tragici francesi e italiani, dello shakespeariano Julius Caesar. La data dell'idea ci riconduce a Martinsbourg; soprattutto stabilisce una legame genetico con Del Principe e delle lettere, la Virtù sconosciuta, L'Etruria vendicata, il poemetto progettato nel maggio 1778 con il significativo titolo di Il Tirannicidio. È proprio nell'ultimo scorcio degli anni Settanta, infatti, che Alfieri fra Siena e Firenze, stimolato dall'amicizia con Francesco Gori Gandellini, "s'interroga sulla tirannide e matura il progetto di un trattato, di un poema e di varie tragedie sulla congiura" (Alfonzetti 2001, p. 161), ovverosia di Della Tirannide, della già ricordata Etruria, del Don Garzia e della Congiura de' Pazzi. Numerosi e più volte ribaditi, sia dall'autore sia dai critici, i legami intertestuali tra queste opere e i due Bruto, le due ultime tragedie "concepite insieme e nate, direi, ad un parto" precisava Alfieri nel Parere (vol. V, p. 380). La "divina passione di libertà" (Parere sul Bruto Secondo in Tragedie 1787-89, V, p. 383) su cui poggiavano la "loro unica base" (ivi), oltre ad accomunare le due tragedie, univa anche le dediche di esse, indirizzata l'una "Al Chiarissimo e Libero Uomo Il generale Washington", l'altra "Al Popolo Italiano Futuro". Scritte a Parigi, rispettivamente il 31 dicembre 1788 e il 17 gennaio 1789, recano entrambe delle date suggestive per la prossimità agli eventi di Francia. Dedicando il Bruto Primo al "liberator dell'America", Alfieri istituisce il legame tra Washington e Giunio Bruto, il console fondatore della repubblica romana, l'uno e l'altro illustri exempla virtutis. Di fronte ad essi il poeta, impedito all'azione, si presenta come "figlio di se stesso" (Del Principe e delle lettere, III, 3), grazie alla cesura che egli medesimo ha imposto alla propria esistenza e in virtù della quale la sua vita ha assunto valore emblematico. "Nato non libero, avendo pure abbandonato in tempo i miei Lari - scrive alludendo in tono oracolare alla donazione alla sorella Giulia - per poter altamente scrivere di libertà; spero di avere almeno per tal via dimostrato quale avrebbe potuto essere il mio amore per la patria, se una verace me ne fosse in sorte toccata" (dedica del Bruto Primo in Tragedie 1787-89, V, pp. 8-9). Sono espressioni che collocano la dedica sulla linea della Virtù sconosciuta, del Principe e delle lettere, di Della Tirannide, della dedica Alla libertà del trattato politico, poiché attraverso di esse Alfieri instaura anche nelle pagine preliminari delle tragedie "la corrispondenza teorica [...] tra il dire letterario ed il fare politico" (Santato 1999, p. 71). Quando la "perversità dei tempi", infatti, leggiamo in Della Tirannide, nega al sublime scrittore di "acquistare la gloria del fare, ricerchi [egli], con ansietà bollore ed ostinazione, quella del pensare, del dire, e dello scrivere" (Della Tirannide, II, 3). Rispetto a quella del Bruto Primo, la dedica del Bruto Secondo ne costituisce il naturale sviluppo; il senso di essa è condensato nel rifacimento dei vv. 7-8 del c. XXXIII dell'Inferno:
Ma se le mie parole esser den seme
che frutti onore a chi da morte io desto.
Di nuovo il rinvio è a Del Principe e delle lettere, al capitolo X del terzo libro dove al letterato è affidata la funzione di stimolo nei riguardi dei lettori, la responsabilità di insegnarci "a conoscere i nostri diritti, a ripigliarceli e a difenderli". In questa prospettiva "il teatro, la storia, i poemi, l'eloquenza oratoria, le lettere tutte in somma e sotto gli aspetti tutti una vivissima scuola divengono di virtù e di libertà" (Del Principe e delle lettere, III, 10)
Filippo. Prima versificazione
Conclusa la stesura in prosa italiana del Filippo, Alfieri avviò la lettura dei classici italiani, si esercitò nella Tebaide di Stazio tradotta dal Bentivoglio, sull'Ossian di Cesarotti, tradusse Orazio, ma l'urgenza del problema linguistico, così vivo per chi come lui era nato e viveva in una zona eccentrica rispetto alla Toscana, lo indusse a spostarsi a Pisa e a Firenze per «avvezzarmi» scrisse «a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai più» (Vita IV, 2).
Tra la fine del '75 e l'inizio del '76 aveva verseggiato per la prima volta il Filippo, ma insoddisfatto gettò alle fiamme quei versi. Giunto in Firenze nel giugno 1776 avviò quella che per noi è la prima versificazione della tragedia; il lavoro si protrasse per due mesi fino all'agosto. In quello scorcio di tempo, sempre alla ricerca di una lingua e di uno stile per il suo verso tragico, si applicò alle tragedie di Seneca, s'inondò ancora «il cervello di versi del Petrarca, di Dante, del Tasso, e sino ai primi tre canti intieri dell'Ariosto; convinto in me stesso, che il giorno verrebbe infallibilmente, in cui tutte queste forme, frasi, e parole d'altri mi tornerebbero poi fuori dalle cellule di esso miste e immedesimate coi miei propri pensieri ed affetti» (Vita IV, 2). Risoluto a diventare «ottimo poeta», non scelse di esprimersi in una lingua di comunicazione, bensì in quella di un passato glorioso, di pari grandezza, se non superiore a quello francese. La lingua d'oltralpe, veicolo della cultura contemporanea da lui conosciuta e coltivata, gli appariva «spuria», l'italiano del suo tempo privo di energia, inadatto ad esprimere il grande e il terribile, il cupo degli affetti. Per questo, nel 1783, all'osservazione di Ranieri De' Calzabigi: «La nostra lingua [...] ora eloquentemente, maestosamente, e leggiadramente si spiega nella sua virilità» (Lettera, in Parere, p. 213), avrebbe obiettato: «io la potrei convincere che la nostra lingua, diversa da tutte le altre nelle vicende sue, è nata gigante, e direi, come Pallade dalla testa di Giove, tutta armata. Così pure dimostrarle potrei, che questo è il secolo che veramente balbetta, ed anche in lingua assai dubbia, che il secento delirava, il cinquecento chiacchierava, il quattrocento sgrammaticava, ed il trecento diceva» (Risposta, in Parere, pp. 236-237).
Il fatto che la prima versificazione del Filippo non ci sia pervenuta, con una sorte comune a quella della Sofonisba, ci pone di fronte ad un interrogativo di grande interesse che nell'economia del catalogo di una mostra può essere solo accennato nelle sue linee generali. È fuor di dubbio che i manoscritti laurenziani ci consegnano la grandissima parte delle carte alfieriane le quali, proprio in forza della loro organicità, pongono la questione del criterio e della funzione con cui furono selezionate. Quando consideriamo il corpo alfieriano della Biblioteca Medicea Laurenziana nella sua totalità appare chiaro che sia gli autografi sia le copie di mano dei segretari non si distendono lungo tutto l'arco esistenziale del poeta; essi, non a caso, vanno dalla fine del 1773, data probabile dell'inizio dell'Esquisse du jugement universel, al 1803, quando termina la seconda parte della Vita, un trentennio di attività poetica nella quale si passa dalla Cleopatraccia e dai Primi tentativi tragici e lirici di un poeta in erba alle Traduzionacce prime, ai Primi abbozzi di varie prose e su su per culminare negli Abbozzi in prosa delle tragedie, nelle varie versificazioni delle stesse, fino alla Vita concepita in duplice forma: di narrazione autobiografica e di canzoniere dalla natura diaristica. I manoscritti, in breve, raccolgono la produzione degli «Anni letterari» riassunta con criterio annalistico nel Rendimento di conti da darsi al Tribunale d'Apollo (ms. Laur. Alfieri 10); il cui titolo significativamente prosegue: «sul buono o mal impiego degli anni virili dal 1774 in poi». Eccezion fatta per il Journal e per l'Esquisse (entrambi raccolti nel ms. laurenziano Alfieri 5), quando, fattosi archivista di se stesso, riordinò i suoi manoscritti, Alfieri scartò quelli anteriori alla sua conversione letteraria ed insieme con essi eliminò testimonianze di natura diversa e di epoche diverse della propria vita circondando col silenzio eventi, fatti, aneddoti biografici i quali volle rendere noti unicamente attraverso la narrazione e l'interpretazione dell'autobiografia. Per scelta di Alfieri sono le opere, i vari stadi di esse a metterci in contatto con la sua malinconia, con i «sentimenti che fanno corteggio alla sua vita, che lo mettono in disposizione favorevole alla nascita della poesia» (Debenedetti 1977, p. 206). Ma se nella Vita scritta da esso «l'intero destino di Alfieri», per riprendere ancora le parole di Debenedetti, coincideva «con una vocazione di poeta» (p. 27), per cui la biografia dell'autore corrisponde alla «biografia della sua poesia, al suo essersi fatto poeta, dopo la conquista faticosa di una lingua» , ci sembra di poter affermare che questa è anche la prospettiva delle carte autografe, fitte di date a margine e in calce, messe lì a fissare l'inizio e la fine di una fase creativa, una seduta di lavoro, un momento d'ispirazione. Nel corpo dei manoscritti le annotazioni temporali costituiscono un'immensa raccolta, una guida, all'apparenza cronologica, equivalente agli anni che tanto nei fogli manoscritti quanto nelle pagine a stampa della Vita corrono con grande evidenza lungo il testo a margine dello specchio di scrittura. Insomma, la mole degli autografi laurenziani, i volumi della biblioteca del poeta, anch'essi recanti la data di acquisto, di inizio o di fine (o entrambe) della lettura, ci danno un altro autoritratto di Alfieri, strettamente connesso a quello della Vita, verso la quale convergono e nella quale si ricompongono a stabilire un'intima relazione tra l'autobiografia e l'archivio del poeta. Il fatto di essere funzionali ad un progetto dà pertanto loro compattezza, rende meno avvertibile l'assenza di anelli, resta da vedere quanto numerosi, ma di volta in volta segnalati dai curatori più avveduti dell'edizione astese.
La prima versificazione del Filippo data alle fiamme è uno di essi; quella che ci resta comprende le cc. 4r-37v dell'Alfieri 27. Sul recto di c. 4 oltre al titolo centrato, «Filippo / Tragedia», si leggono due annotazioni autografe: «Prima versificazione, dopo altra copia buttata al fuoco. / Versi 1902», e in calce: «senza stile, piena di lunghezze e di Francesismi.» A c. 4v la lista dei personaggi: «Filippo / Isabella. / Carlo. / Gomez. / Perez. / Leonardo.»; in calce il computo dei versi distribuiti per atto: «347 / 430 / 367 / 350 / 408. / 1902.»; a c. 5r nel margine superiore destro: «li 24 Giugno 1776-Firenze»; a c. 37v in basso: «li 24 Agosto / 1776 / Firenze.»; la numerazione dei versi inizia dal v. 35 dell'atto I, cioè da c. 5v.
Rispetto alla stesura in prosa italiana, con la prima versificazione Alfieri operò su più livelli della struttura tragica; intervenne sui personaggi e ne rivide la psicologia attento all'equilibrio generale. Le variazioni di maggior rilievo riguardano il I ed il II atto. Eliminata la figura di Elvira, la tragedia inizia con il monologo di Isabella, come nell'ultima redazione; l'argomento rimane «il colpevole amore per il principe, ma la diversa forma dell'espressione consente di porre in primo piano il conflitto amore-fedeltà che si combatte nella coscienza della regina». Viene poi eliminato dal I atto il personaggio di Gomez che entrerà in scena nell'atto II il quale, anziché col monologo del sovrano (spostato alla seconda scena) prende avvio con un colloquio tra Filippo e il primo ministro. In questa versificazione Filippo è ancora una «figura tirannica imperfetta, in quanto in lui perdura il sentimento comune all'amore tradito, cioè la furibonda gelosia». Come hanno dimostrato gli studi di Giuseppe Guido Ferrero, di Laura Sannia Nowè, di Giuseppe Antonio Camerino, di Vittore Branca l'elaborazione dell'endecasillabo in questa fase risente dei modelli settecenteschi (Metastasio, Cesarotti traduttore di Ossian) insieme con la lezione di Dante, Petrarca, Tasso, nonché del giambo di Seneca.
Saul. Idea
Per un errore del legatore l'ordine dei due fogli è invertito, sicché l'idea ha inizio nella c. 77r, prosegue nel verso del medesimo e ha termine nella c. 76r. Per rimediare all'errata impaginazione Alfieri pose due crocette di richiamo, una in fondo a destra in basso di c. 77v, un'altra in alto a sinistra di c. 76r. In testa all'idea (c. 77r) è l'indicazione del giorno in cui essa fu scritta: «Roma 30 Marzo 1782», l'elenco dei personaggi: «Saul. David. Mical. Gionata. Abner. Abimelec. Pitonissa. Ombra di Samuel», e infine: «Scena in Gelboè al campo contro i Filistei». L'idea del Saul sorse dopo una lettura rapsodica della Bibbia, di cui Alfieri apprezzò le suggestioni poetiche che essa offre, e che volle esprimere in una nuova sua tragedia, la quattordicesima (Vita IV, 9). La Vita è esplicita al riguardo: «Bastò nondimeno perch'io m'infiammassi del molto poetico che si può trarre da codesta lettura, e che non potessi più stare a segno, s'io con una qualche composizione biblica non dava sfogo a quell'invasamento che n'avea ricevuto.» Nella Bibbia il poeta astese ravvisò sempre alto grado di poeticità, non mai un testo di fede, che egli volesse far sua. L'idea, secondo il consueto metodo di lavoro di Alfieri, accenna compendiosamente il contenuto delle singole scene. In essa c'è però già la definizione del tema vitale della tragedia: l'interiore «perplessità» (Parere sul Saul) di Saul. Nella vicenda biblica (I Samuele, IX-XXXXI) invece, più che Saul, il vero protagonista è una divinità inesorabile punitrice di chi non abbia obbedito ai suoi ordini pur crudeli. Alfieri concentra tutto il dramma sulla personalità turbata di Saul e sul suo rapporto tormentoso con David. Di Saul vengono subito evocati «ira», «timori», «visioni», «sogni», i sentimenti opposti che prova per David, di David «tenerezza» e «amore immenso» per Mical (che diviene Micol solo a partire dalla revisione della versificazione), la lealtà verso Saul. In fine l'idea si adegua al giudizio che lo scrittore biblico dava del vecchio re, e definisce il suo suicidio: «morte di un reprobo». Il Calcaterra chiarì come l'interesse di Alfieri per la Bibbia vada ricondotto al fervore torinese per gli studi biblici e in particolare alle sollecitazioni di un valente ebraista quale fu il suo grande amico Caluso, del quale Alfieri apprezzò una traduzione biblica già nel 1776 nella Sampaolina. Nel 1783 Alfieri tradusse in endecasillabi sciolti i primi diciotto versi del Cantico di Mosè (Esodo XV). Scriverà anche un'altra opera di argomento biblico, la tramelogedia Abele. Dal 1799 il maturo poeta leggerà regolarmente la Bibbia nel testo greco, italiano, latino, ebraico. A ragione il Saul fu dedicato al Caluso. La dedica, scritta il 27.10.1784, si conclude con una comprensibile dichiarazione di gratitudine: «Il Saulle, perciò, più che ogni altra mia tragedia, si aspetta a voi». L'idea del Saul fu pubblicata la prima volta nell'edizione nazionale astese (1982).
Saul. Stesura
Con la stesura in prosa, com'è noto, Alfieri sviluppava i dialoghi delle singole scene, conferendo alla tragedia una già compiuta seppur provvisoria fisionomia. Il passaggio dall'idea alla stesura (compiuta dal 2 all'8 aprile 1782) comportò la definizione dei personaggi, del conflitto tra Saul e Davide, del ruolo minore ma delicatissimo di Mical, della malizia di Abner, nonché l'abolizione del personaggio della «pitonissa». Nel contempo viene dato ampio spazio alle allucinazioni di Saul, peraltro precedute da quelle di Polinice, Agamennone, Oreste. Il canto di David della scena III dell'atto III, già accennato nell'idea («Gionata consiglia David a improvvisare»), è, seppure in prosa, abbozzato nella scena IV dell'atto III. La stesura mostra, ben più dell'idea, la distanza tra il testo biblico e la tragedia che Alfieri stava elaborando. Essa, così ricca di continue accensioni immaginative e già tutta prefigurante la sistemazione interna e formale definitiva, trova davvero spiegazione nell'effetto che la lettura della vicenda di Saul fece su Alfieri e narrato dalla Vita (IV, 9). In Saul è ormai solidamente delineata l'innovativa rappresentazione di un personaggio interiormente scisso, insicuro, in lotta perenne con se stesso, preda di insanabili debolezze e di assurda e frustrata volontà di dominio. Nel vecchio re è venuta meno l'energia indomabile (nel bene e nel male) di Filippo, Oreste, Antigone, Virginio, Polinice, Eteocle, che poneva questi al di sopra della comune umanità. Saul re scopre con orrore e spavento la sua irrimediabile fragilità di uomo e invano ne attribuisce la responsabilità ad altri: ora a Dio che lo ha abbandonato, ora a David, ora ai sacerdoti. I conflitti mortali tra personaggi, che animavano le precedenti tragedie alfieriane, sono trasferiti all'interno di un tiranno in piena crisi d'identità. Con Saul, e poi con Mirra, Alfieri inaugura un teatro dell'interiorità, scrutata nella sua ricchezza, ma anche nella sua oscura contraddittorietà. Nel potenziare la costruzione dei protagonisti il poeta si giovò della utilizzazione del soprannaturale e delle forze interiori suscitate da fede religiosa e dal rapporto con entità sopraumane. Viene inoltre superata la contrapposizione tra personaggi buoni e malvagi, e in uno stesso personaggio si afferma la problematica coesistenza di colpa e innocenza. Fu questa complessità a far dire ad Alfieri che Saul «era il mio personaggio più caro, perché in esso vi è di tutto di tutto assolutamente» (Vita IV, 23). La prosa della stesura è caratterizzata da trasposizioni, accenni di versi, inserzioni continue di immagini liriche, che anticipano tratti della futura versificazione. La stesura del Saul fu pubblicata la prima volta nell'edizione nazionale astese (1982).
Cleopatraccia
Nel ms. Alfieri 3, la c. 3r, reca il titolo Cleopatraccia, scritto in tempi posteriori alla composizione della tragedia, ed esprimente un giudizio di disapprovazione. Identico titolo è nel ms. Alfieri 2, c. 3r; nello stesso ms. è il titolo poi definitivo: Antonio, e Cleopatra (c. 4r). La Vita usa il titolo Cleopatra, ma Cleopatrassa nella sua Appendice VI, prima della parziale riproduzione della farsetta I Poeti. Questa prima tragedia alfieriana passò attraverso sette fasi, tutte conservate nel ms. Alfieri 3. Alfieri scrive nel gennaio 1774 (e forse già nel dicembre 1773) l'idea del solo atto primo (c. 4r e v); e, dall'11 febbraio 1774, la prima versificazione, che giunge solo fino all'inizio della scena I dell'atto I (cc. 5r-19r). Scrive poi l'idea degli atti II, III, IV, V (cc. 23r-25r), e, nell'aprile 1774 secondo Sterpos (ma il ms. ha 1775), una nuova idea completa (cc. 27r-31v). Scrive ancora una seconda versificazione incompleta fino alla scena IV dell'atto I (cc. 32v-43r), cui seguono parziale stesura in prosa in parte italiana (cc. 43r-44v) e in parte francese (cc. 44v-53v), e rifacimento in francese di alcune scene (cc. 54r-58v). Scrive finalmente la terza versificazione e prima versificazione completa (cc. 61r-67v, 79r-107v), terminata l'8 marzo 1775. La settima fase è data dalla redazione finale, serbata nel ms. Alfieri 2, cc. 2v-39r, e dovuta a un segretario. La tragedia fu compiuta poco prima del 16 gennaio 1775, data della sua prima rappresentazione, avvenuta nel teatro Carignano di Torino. La Vita (III, 14) narra che Alfieri depositò i primi abbozzi della Cleopatra sotto il cuscino di una poltroncina della Prié «circa un anno; e così furono frattanto sì dalla signora che vi si sedeva abitualmente, sì da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie». In effetti le prime 25 carte del ms. Alfieri 3 si presentano gualcite (con deformazioni in senso orizzontale irregolari dovute a forti pressioni ripetute), e sono esse ad essere state «covate». All'inizio dell'Ottocento nel palazzo Prié, a Torino, veniva mostrato un divano («an old green satin sofa») dove sarebbe stato depositato il manoscritto della Cleopatra. Per Bertana, Sirven, Sterpos il periodo di covatura non durò un anno ma solo due mesi (tra febbraio e aprile 1774). Altre testimonianze sulla composizione della Cleopatra Alfieri ha lasciato nel suo Giornale (1774-1775, 1777). Alfieri escluse la Cleopatra dall'edizione senese e da quella parigina delle sue tragedie. Amava di tanto in tanto rileggerla, per rallegrarsi con se stesso del molto cammino percorso e dei progressi fatti. Così testimoniano appunti del 1782, 1798 (ms. Alfieri 2, c. 43v, pubblicato in Alfieri, Parere, p. 66), 1799 (ms. Alfieri 3, c. 1r, in Alfieri, Antonio e Cleopatra, p. 54). La Cleopatra non fu compresa nei tredici volumi delle Opere postume di Vittorio Alfieri, aventi l'indicazione editoriale «Londra MDCCCIV», ma stampate a Firenze da Guglielmo Piatti dal luglio 1806 al novembre 1807. La sua prima stampa da noi attualmente conosciuta è contenuta nell'ultimo dei cinque volumi delle Tragedie di Vittorio Alfieri, Firenze, presso Guglielmo Piatti, 1814 (pp. 241-306). Quanto all'origine della Cleopatra, la Vita la riferisce al «tedio» procurato ad Alfieri dalle lunghe sedute in casa dell'amante ammalata e all'abitudine di contemplare, nell'nticamera di lei, arazzi con storie di Cleopatra e Antonio. Si deve tenere in conto la discreta fortuna di Cleopatra nelle arti figurative, nella cultura, nel teatro e nella poesia del Seicento e Settecento, anche in Piemonte. Ma Alfieri tenne presente anche testi letterari: la Vita di Antonio di Plutarco e la Cleopatra di Giovanni Delfino, di cui gli consiglia la lettura Paolo Maria Paciaudi. Mentre lavora alla Cleopatra infatti Alfieri chiede consulenze e pareri a lui e ad Agostino Amedeo Tana, ricevendone osservazioni riguardanti la lingua e i contenuti della tragedia (Alfieri 2, cc. 46r-59v). Suggestioni offrirono Racine e Metastasio, e per taluni stilemi e spunti Tasso e Dante. Oltre che alla ricerca di un teatro tragico rinnovato nei contenuti la Cleopatra dette inizio alla strenua ricerca di uno stile tragico, che durò fino alledizione Didot (1787-1789). Grazie alla Cleopatra Alfieri perverrà al procedimento dei tre «respiri» (idea, stesura in prosa, versificazione), adottato a partire dal Filippo per tutte le successive tragedie e poi anche nelle commedie. Nella Cleopatra appaiono prefigurazioni di personaggi e motivi delle future tragedie, nelle quali però verrà meno lo spazio eccessivo che quella dava all'amore. La Cleopatra fu accolta favorevolmente alla recita e da qualche letterato, come Filippo Risbaldo Orsini. Ma fu Alfieri il suo più severo critico, già nella farsetta I poeti, recitata subito dopo la Cleopatra, e poi nell'Examen de Cleopatre (Alfieri 3, cc. 108r-109v; Alfieri, Parere, pp. 363-367) e nel Sentimento dell'autore su questa tragedia (Alfieri 2, cc. 42r-43v; Alfieri, Parere, pp. 368-372), scritti del pari severi, e che inaugurano l'abitudine alfieriana di dare pareri critici sulle proprie tragedie. Nella Risposta (1783) al Calzabigi Alfieri definirà la Cleopatra «un mostro», ma anche dichiara di averne ricavato un bene, ovvero l'impegno a voler a ogni costo divenire autor tragico.
Rendimento di conti da darsi al tribunal d'Apollo, sul buono o mal impiego degli anni virili. Dal 1774 in poi
Tra la fine dell'89 e gli inizi del '90 Alfieri licenziava l'edizione ne varietur del suo teatro tragico, splendidamente allestita a Parigi da François-Ambroise Didot, e, sul punto di concludere anche la stampa delle opere affidate ai torchi di Kehl, apriva il cantiere della Vita scritta da esso. Non ci è giunto il primo getto del capolavoro, con ogni probabilità distribuito in annotazioni schematiche, minute e stesure parziali appena imbastite e forse eliminate dall'autore via via che la narrazione si andava sviluppando in forma organica e continuata sulle carte del ms. laurenziano Alfieri 13; disponiamo però di alcuni dei materiali che servirono di traccia al lavoro di composizione, primo fra tutti il Rendimento di conti, registrazione per annali delle esperienze latamente letterarie dell'autore dal febbraio del 1774 al dicembre 1802, dall'acerbo «primo schiccherío di due atti e mezzo della Cleopatra» alla verseggiatura dell'estrema infelice fatica teatrale, le commedie. Fatto conoscere per la prima volta da Emilio Teza, che ne diede una trascrizione imperfetta (1861), riproposto novant'anni dopo in testo decisamente migliore da Fassò in appendice all'edizione astese della Vita (vol. II, pp. 257-271), il documento è affidato a un fascicoletto le cui carte (da 67r a 71v; le cc. 72 e 73 bianche) sono campite di una scrittura minuta, fitta e regolare e sono pressoché tutte corredate del titolo corrente «Anni Letterarj». La data apposta sul foglio di coperta, «Anno 1790. in Parigi.», e la sostanziale omogeneità di ductus che contraddistingue le note relative al periodo 1774-1789 inducono a ricondurne la composizione agli inizi del 1790, quando cominciò a prendere forma la Parte Prima dell'autobiografia. Le note successive furono aggiunte poi, anno dopo anno, dal 1791 al 1803 (le ultime sette recano anche la data di registrazione), e sono una ad una accompagnate a margine dalla numerazione e dal sommario dei capitoli in cui l'autore intendeva frazionare la Continuazione della Vita. Se ne desume che il progetto iniziale dell'opera prevedeva che il contenuto di ogni capitolo fosse meccanicamente circoscritto ad un anno e non più di un anno. Il criterio fu assai opportunamente abbandonato nel maggio del 1803, quando lo scrittore consegnò l'ultima sezione del capolavoro alle pagine del ms. laurenziano Alfieri 13. Avvenne così, ad esempio, che il Capitolo Vigesimoterzo dell'Epoca Quarta, in origine riferito al 1793, finì con l'accogliere avvenimenti compresi tra il '92 e il '95, mentre il Capitolo Vigesimosettimo e il Vigesimo ottavo, in origine riferiti al '97 e al '98, si spartirono la registrazione degli avvenimenti relativi al '99. Aderente alla realtà storica più di quanto non sia, o voglia essere, la Vita scritta da esso, il Rendimento di conti consente in più occasioni di individuare i tutt'altro che infrequenti ritocchi della cronologia reale operati ad arte dall'autore nella sua idealizzata e tendenziosa ricostruzione autobiografica.
Antigone. Seconda versificazione
La seconda versificazione di Antigone reca alla carta 74r in alto a destra la nota di riepilogo delle fasi compositive della tragedia: «Creata in Pisa Giugno 1776 / Messa in versi Torino Aprile 1777 / Rifatta Roma dì 6 Giugno 1781». La carta 74v contiene la tavola dei personaggi, i quali sono divenuti quattro (Antigone, Argia, Creonte, Emone) dai cinque presenti nell'idea: è caduto infatti nel passaggio dall'idea alla stesura in prosa il personaggio del confidente Menete con il quale Argia, appena giunta a Tebe, si intratteneva a colloquio. L'eliminazione della figura del confidente è un cardine della concezione drammaturgica alfieriana già messo in atto nel Filippo con la scomparsa di Elvira quale confidente di Isabella, ma ribadito come definitivo proprio a partire da Antigone: «In questa composizione mi nasceva per la prima volta il pensiero di non introdurvi che i soli personaggi indispensabili e importanti all'azione, sgombrandola d'ogni cosa non necessaria a dirsi, ancorché contribuisse pure all'effetto» (Alfieri, Parere, p. 90). La carta 74v contiene anche l'indicazione di scena, ridotta all'essenziale e priva di qualsiasi concessione ornamentale («Scena in Tebe»), ed il computo dei versi nel passaggio dalla prima alla seconda versificazione e da questa alla copia e infine alla ristampa con la riduzione del numero dagli iniziali 1402 a 1293, calcolo tuttavia lievemente impreciso (Jannaco 1953, p. 7).
La ripresa della tragedia si colloca nel corso del felice ed operoso soggiorno romano di Alfieri legato all'amore per la contessa d'Albany; i tempi di lavoro sono puntigliosamente registrati nel manoscritto giorno dopo giorno per tutto il mese di giugno a partire dal sei fino al quattro luglio, data conclusiva, ed attesta un ritmo intenso e costante con una media giornaliera di 50-60 versi circa. Le date, segnate a margine, scandiscono il tempo reale e il tempo letterario i quali vengono a sovrammettersi e coincidere. Il manoscritto reca varianti autografe a matita non sempre agevolmente leggibili e precisamente agli atti I.1, III.3, IV.1, IV.4, V.1; esso reca altresí dei segni di matita posti lateralmente ad alcuni gruppi di versi a mo' di evidenziazione e talvolta segni o numeri collocati sopra le parole per modificarne l'ordine di lettura e la giacitura all'interno del verso, varianti non sempre registrate nel volume dell'Edizione Nazionale in quanto accolte per lo più nell'edizione Pazzini del 1783.
AllAntigone, da Alfieri giudicata «una delle meno calde» tra le sue tragedie, viene affidata la verifica scenica della propria «maniera»; affidata ad una compagnia di nobili dilettanti essa viene rappresentata nel Palazzo dell'Ambasciatore di Spagna il 20 novembre 1782 con grande successo alla presenza di spettatori quali Alessandro Verri, cui si deve un acutissimo giudizio critico (vedi scheda n. 28), e con eco notevole presso intellettuali (vedi scheda n. 27) o su fogli periodici (vedi scheda n. 26). Parte del successo, dovuto alle sensibili interpreti femminili, la duchessa di Zagarolo nel ruolo della protagonista e la duchessa di Ceri in quello di Argia, ma certo anche al carisma dell'autore investitosi del ruolo di Creonte, è da ricondurre alla centralità del tema affettivo innestato sulla vicenda tradizionale. I dialoghi tra la protagonista ed Argia, la cui presenza sostituisce quella tradizionale di Ismene, arricchiscono di sfumature sentimentali la scelta di morte dell'eroina, mentre lo stesso Creonte guadagna tratti di amore paterno seppure malinteso. Si delinea in Antigone un percorso di affetti e legami domestici, approfondito nelle tragedie ideate e composte nel periodo romano quali Merope (vedi scheda n. 32) e Saul (vedi scheda n. 39), e confermato dall'itinerario variantistico che si può ritenere pressoché concluso con la seconda versificazione .
Nella storia del teatro alfieriano Antigone rappresenta un testo chiave, quasi sperimentale, come attesta la Risposta alle critiche mosse da Calzabigi nella sua Lettera, dove la tragedia è giudicata a partire dall'esperienza della messinscena. La recita romana diviene in tal modo la premessa dell'ulteriore passo da compiere come autore: «Insuperbito non poco dal prospero successo della recita, verso il principio del seguente anno 1783 mi indussi a tentare per la prima volta la terribile prova dello stampare» (Alfieri, Vita IV, 10). La parola che assume in sé stessa un valore teatrale, in assenza di ogni concessione narrativa cara alla tragedia settecentesca, diventa a partire da Antigone un principio rigoroso della scrittura di Alfieri, non sempre compreso dai lettori: «Ma le parole si vedono elle, o si ascoltano? E se non erano disarmoniche all'orecchio, come lo divenivano all'occhio? Io le spiegherò quest'enimma. I versi dell'Antigone erano da noi recitati, non bene, ma a senso, e quindi erano chiari ai più idioti; letti poi forse non così a senso, non badando al punteggiato, divenivano oscuri. Recitati, pareano energici, perché il dire era breve, e non cantabile, né cantato; letti da gente avvezza a sonetti e ottave, non vi trovando da intuonare la tiritera, li tacciarono di duri: pure quella energia lodata nasceva certamente da questa durezza» (Alfieri, Risposta a Calzabigi, in Parere, p. 232). Già la prima versificazione della tragedia nel manoscritto Alfieri 27 alla c. 108 annota «Alba d'un nuovo stile», pur sottolineando i limiti «più scarno stile, che breve, e forte», ma la nuova versificazione e soprattutto la rappresentazione consentono all'Alfieri di rispondere a Calzabigi con la sicurezza di chi ha oramai misurato la distanza tra palco e libro.
Saul. Versificazione
Il Saul, a differenza di precedenti tragedie che ebbero più tormentata elaborazione, ebbe una sola versificazione (compiuta dal 3 al 30 luglio 1782), tuttavia non definitiva. Su di essa infatti l'autore intervenne con una serie di interventi a penna e a lapis, per sostituire parole, modificare la disposizione di altre, correggere la misura errata di versi, disapprovare termini poco aulici o troppo arcaici, eliminare ripetizioni e rime involontarie e allitterazioni. Tra il 1786 e il 1788 la versificazione così modificata fu dettata dall'autore al suo segretario Gaetano Polidori. Anche in questa fase Alfieri apportò ulteriori ritocchi formali al testo. Questa fase è conservata nel ms. laurenziano Alfieri 292, cc. 160r-214r; da questa fu tratta copia, sempre dal Polidori, e ora nel Centro nazionale di studi alfieriani (cartella 4, busta 6). La copia laurenziana fu usata per la stampa della tragedia nel vol. IV, datato 1788, delle Tragedie, apparso a Parigi presso Didot nel 1789. La versificazione consta di 1584 versi; di questi solo 240 raggiungono la lezione che rimarrà immutata fino alla stampa; altri 286 versi raggiunsero la lezione definitiva nella copia Polidori. Il canto di David (atto III, 4) viene tutto composto dal 19 al 22 luglio, e già in lezione definitiva, almeno per la sua metà. Alfieri, con siffatta inserzione lirico-musicale, modificava il rigido schema elaborato fin dal Filippo. Altra pausa lirico-musicale costituirà il coro augurale in Mirra (atto IV, 3). Tale novità va messa in relazione anche con il crescente in quegli anni gusto alfieriano per il fantastico (quasi un'esigenza di musica), ammesso esplicitamente dal Parere sul Saul: «Quel poter vagare, bisognando; e il parlar d'altro, senza abbandonare il soggetto; e il sostituire ai ragionamenti poesia, e agli affetti il maraviglioso; era questo un gran campo». I due intermezzi lirici di Saul e Mirra si offrono come «una sorta di variante del sublime tragico». La stampa accrebbe il testo della tragedia di 54 versi e apportò ancora ritocchi a molti versi. Alfieri lesse il suo Saul «in Arcadia il Giovedì 3 aprile 1783» (copia Polidori, c. 161r). In quella occasione ricevette la nomina a pastore arcade col nome di Filaerio Eratrostrico. La versificazione rappresentava per Alfieri il momento della costruzione dello stile in cui esprimere i contenuti tragici, ovvero dell'adeguamento di questi al linguaggio poetico-tragico fortemente originale e al tempo stesso tenacemente ancorato alla tradizione poetica italiana illustre, che Alfieri aveva acquisito con lungo studio. Egli aveva letto e studiato (e talora trascritto in estratti) le opere poetiche di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, la Tebaide di Stazio tradotta dal Bentivoglio, le Poesie di Ossian tradotte dal Cesarotti, ma anche Seneca, Racine, Voltaire, perfino il poi spregiato Metastasio. In sede di versificazione affiorano sotto la penna di Alfieri suggestioni, immagini, elementi di tutti questi autori in un delicato lavoro d'intarsio ma anche come sviluppo di accenni già presenti nella stesura in prosa. Nella versificazione la fisionomia della tragedia è ormai compiuta e vi si si dispiega in tutta la sua forza il dramma di Saul, non più o non solo dramma svolgentesi nella dimensione della politica, ma radicato «in una più profonda e oscura regione dell'anima». Appare tuttora oggetto di indagine il rapporto tra il teatro tragico di Alfieri e quello di Shakespeare, specialmente in relazione al Saul. La versificazione del Saul fu pubblicata la prima volta nell'edizione nazionale astese (1982).
Tragedie di Vittorio Alfieri da Asti
La princeps delle Tragedie fu stampata a Siena nel 1783 per i tipi di Giuseppe e Giovanni Pazzini Carli, figli di Vincenzo. Essa comprendeva 10 tragedie distribuite in tre volumi, differenti per dimensioni, carta e caratteri, diffusi non contemporaneamente: il primo e il secondo rispettivamente nel marzo e nel settembre 1783, il terzo nel gennaio 1785.
Sono qui esposti i voll. I e II dell'edizione (il III è mancante) conservati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze. Entrambi con i tagli dorati possiedono una splendida legatura in marocchino rosso, ornata di impressioni in oro sulle coperte e sul dorso. Hanno probabilmente guardia e controguardia in carta decorata a mano - con motivi floreali il primo, con motivo geometrico il secondo - proveniente dalla bottega fiorentina di Antonio Renucci, come si deduce dal bordo della controguardia posteriore del volume primo.
Sul frontespizio, al di sotto del titolo, recano vergata a penna la nota di possesso «Della Regoli Mocenni». Essi, infatti, al pari dei due volumi della Didot donati dalla d'Albany a Foscolo, allo stesso modo dei cinque volumi della stessa Didot segnati B.2.215, appartengono al Fondo Martelli, ovverosia alla biblioteca di Diego Martelli il quale nel 1894 dispose per testamento che il suo patrimonio librario andasse alla Biblioteca Marucelliana. Tra i volumi sono compresi quelli appartenuti a Teresa Regoli Mocenni ed a Quirina Mocenni Magiotti, poiché il Martelli era discendente della Donna Gentile, in quanto figlio di Carlo Martelli, consorte di Ernesta Mocenni, nipote di Quirina.
I due volumi marucelliani sono difformi quanto a misura (vol. I: mm 215x153; vol. II: mm 238x165), presentano carta e caratteri diversi, elementi questi comuni con tutti gli esemplari dell'edizione compreso quello completo della medesima Pazzini custodito presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze (Postillato 64), appartenuto all'abate Tommaso Valperga di Caluso e recante sul verso della guardia anteriore del vol. I la dedica autografa di Alfieri: «A Tomaso Caluso Amico del cuore / L'Autore. Roma dì 13 Marzo 1783».
La stampa dell'edizione Pazzini, iniziata nel gennaio 1783, si concluse a metà settembre dello stesso anno, ma, dopo aver distribuito il primo ed il secondo volume, per la diffusione del terzo Alfieri attese il gennaio 1785. Incoraggiato dall'esito delle letture delle tragedie date «in varie società» (Vita IV, 9), «insuperbito non poco dal prospero successo della recita» dellAntigone «nel palazzo dellambasciatore di Spagna» (Vita IV, 10), il poeta affrontò «la terribile prova dello stampare». La saltuaria presenza a Siena lo indusse ad avvalersi dell'aiuto del Gori e di altri amici del «crocchietto» senese. «Innocentemente allora io mi credeva, che nel dare un manoscritto allo stampatore fosse terminata ogni fatica dell'autore. Imparai poi dopo a mie spese, che allora quasi si riprincipia» (Vita IV, 10). Quando a Roma gli giunse il primo volume giudicò che le quattro tragedie erano state «correttissimamente stampate, grazie all'amico, e sudicissimamente stampate, come ciascun le ha viste, grazie al tipografo: e barbaramente verseggiate (come io seppi poi), grazie all'autore» (Vita IV, 10). A mano a mano che scopriva gli errori, segnalatigli anche dai suoi lettori privilegiati, gli montava la rabbia contro il tipografo e si sfogava contro di lui con Mario Bianchi dicendolo «canaglia», «bindolaccio», «viso [...] da labrate». In ogni modo la stampa portò a compimento quel processo di distacco dell'autore dalla propria opera, per cui Alfieri presto pensò ad una nuova edizione delle tragedie. Se all'indomani della pubblicazione imparò «per esperienza cosa si fossero le letterarie inimicizie e raggiri; e gli asti librarii, e le derisioni giornalistiche» (Vita IV, 10), non per questo rinunciò al giudizio di intendenti persone; richiese l'opinione dei maggiori letterati, per questo scrisse a Ippolito Pindemonte, sollecitò Melchiorre Cesarotti, si recò personalmente da Giuseppe Parini, avviando quello scambio di idee testimoniato dall'apparato critico che nel 1787-89 fece da cornice all'edizione Didot.
Anche Teresa Regoli Mocenni, la compagna di Mario Bianchi, animatrice del salotto senese nella casa presso l'arco di S. Francesco, fu tra le persone dalle quali Alfieri avrebbe voluto un parere. «Mi farà vero piacere la Signora Teresina — le mandava a dire attraverso Mario Bianchi — a dirmi tutto quello che le sarà passato per la mente nel rileggere le tragedie ultime: sì in bene, che in male. L'avrò caro assai; e chi sa ch'io da una Donna, che sente non cavi più lumi assai, che da professori che hanno il cuor col pelo?» (Epistolario, I, p. 222). La lettera era indirizzata da Pisa il 31 [gennaio] 1785; in essa Alfieri parla del «maledetto libro», cioè del terzo volume pazziniano, mancante nell'esemplare dell'edizione conservato presso la Biblioteca Marucelliana. I documenti pervenutici non dicono se la Regoli rispondesse all'invito dell'autore; con lui discusse la Mirra, ma si trattava dell'edizione Didot. Alla Regoli, poi, Alfieri donò la copia delle tragedie di mano del segretario servita per la stampa senese. È il manoscritto Ambrosiano Y.185-187 Sup. n. 7, descritto da Carmine Jannaco nell'Introduzione al Filippo e segnalato la prima volta da Francesco Novati recensendo la Bibliografia di Vittorio Alfieri di Guido Bustico (1908).
Del Principe e delle Lettere
Si collocano nella stessa area ideologica del trattato Della Tirannide e del Panegirico di Plinio a Trajano i tre libri del trattato Del Principe e delle Lettere, incentrati sull'esaltazione del poeta-eroe e sulla confutazione dell'idea, di matrice rinascimentale, secondo cui le lettere non possono che fiorire sotto l'ala protettiva dei potenti. Per parte sua, Alfieri tende invece a sostenere l'insanabilità del conflitto che oppone il tiranno, naturalmente portato a deprimere o addomesticare con ogni mezzo le lettere, allo scrittore libero, tutto proteso alla conquista di un'autonomia d'invenzione e di giudizio che lo sollevi dal ruolo di smascolinato e prezzolato cantore dei principi e delle corti, e lo consegni alla sua missione sublime di ardente paladino della libertà e della dignità dell'uomo. Di là dagli innegabili limiti di stuttura e di espressione, che lo relegano fra le opere minori dell'Astigiano, il trattato ha per un verso il merito di illuminare la concezione poetica alfieriana, che salda l'urgenza passionale e già romantica dell'ispirazione al rigore classico delle forme, ed ha per un altro verso il merito di proporre per la prima volta in Italia il mito del poeta vate, profeta dell'emancipazione e della ritrovata grandezza della patria, che sarà ereditato e rilanciato con accenti diversi da Foscolo e da Carducci.
L'abbozzo dell'opera, conservato nel ms. laurenziano Alfieri 6 insieme con l'indice schematico che servì di traccia alla composizione, fu iniziato a Firenze nel luglio del 1778, continuato a Roma, Siena e Pisa, e finalmente concluso a Martinsbourg in Alsazia il 14 gennaio del 1786. È gremito di correzioni piccole mezzane e grandi e di illuminanti postille, riportate tutte da Pietro Cazzani in appendice all'edizione critica astese del testo (Scritti politici, pp. 373-447). Due giorni dopo aver licenziato la prima stesura, Alfieri annotava in calce all'abbozzo del trattato gemello Della Tirannide:
Riletto bene da me questo libro nel 1786 [sic], dopo avere scritto quel del Principe e delle lettere, mi è sembrato questo avere più il pregio dell'impeto: e ci ho ravvisato quel bollore che i nov'anni di più vissuti in servitù, m'hanno scemato. Nel correggere poi l'uno, e l'altro è da badare assai allo stile, e ragionamenti di questo: alle lunghezze forse, e ripetizioni dell'altro. Non mai staccarli, e far che si somiglino il men che si può; e ben riflettere quel dei due dovrebbe precedere; ma credo il secondo sia da considerarsi come un comento a una parte di questo; si badi sopratutto al secondo, e terzo di quello, che dove è costretto a ripetere, o ritoccare le idee di questo, non ne replichi le frasi, ed i modi (Scritti politici, I, p. 369).
L'approfondito lavoro di revisione del Principe in vista della stampa si svolse a Parigi su una copia di servizio dettata al segretario del tempo, Gaetano Polidori, entro la metà del 1789, come documenta la schedula del Rendimento di conti relativa a quell'anno: «In tutto maggio, dettati e corretti i due libri del Principe e della Tirannide» (Vita, vol. II, p. 263). A lungo e inutilmente ricercata dagli studiosi di Alfieri, la copia Polidori, che affianca alla tormentata redazione intermedia del trattato anche quella della Tirannide e del Panegirico di Plinio a Trajano, è stata rintracciata da Roberto Marchetti nella collezione privata della famiglia Ferrero Ventimiglia ed è apparsa di recente nella mostra di prime edizioni e cimeli alfieriani tenutasi presso la Biblioteca Reale di Torino dal novembre al dicembre del 2001.
L'Etruria vendicata. Poema
La copia del poema in quattro canti, messa a pulito dal segretario Gaetano Polidori nel 1786 per essere poi stampata a Kehl coi caratteri di Baskerville nel 1788 con data 1800, presenta nel frontespizio alcuni versi del canto decimo dell'Eneide da Alfieri modificati e posti come exergo dell'opera. Il testo virgiliano, che suona «Pars mihi pacis erit dextram tetigisse tyranni», viene da Alfieri piegato dal senso neutro che assume nel contesto ad un significato politico: «Pars mihi erit vultum nudasse tyranni». Alfieri stesso sottolinea con un tratteggiato nel frontespizio le due parole modificate, dopo avere cancellato una precedente variante «caput tetigisse», le quali dichiarano le intenzioni del poema. Concepito nel corso del soggiorno senese del 1777-78, coevo dunque alla stesura di "Della tirannide" e delle due tragedie di argomento fiorentino La congiura de' Pazzi e Don Garzia, il poema ha storia travagliatissima. Nel maggio del 1788 esso reca il titolo provvisorio de Il Tirannicidio e viene portato avanti «a pezzi» «per esercitarsi al far rime» ancora negli anni 1779, 1781 e 1782 per essere ripreso nel luglio del 1784 sempre a Siena e infine nel 1786, data della versione finale. Riferendosi a così lunga gestazione Alfieri dichiara: «Postomi dunque al far versi, non abbandonai più quel mio poemetto ch'io non l'avessi interamente terminato col quarto canto, e quindi dettati, ricorretti, e riannestati insieme i tre altri, che nello spazio di dieci anni essendo stati scritti a pezzi, aveano (e forse tuttora serbano) un non so che di sconnesso; il che tra i miei molti difetti non suole però avvenirmi nelle altre composizioni» (Alfieri, Vita IV, 16).
Legato a letture di argomento storico quali le Storie fiorentine del Varchi (libro XV) e del Segni (libro VII), oltre naturalmente le opere di Machiavelli e di Guicciardini, il poema in quattro canti e in ottave, narra l'uccisione di Alessandro de' Medici ad opera di Lorenzo. Rispetto alle fonti, spesso negative nei confronti di Lorenzo, Alfieri lo celebra come un eroe di libertà già a partire dalla traccia in prosa affidata al manoscritto Alfieri 13. Quivi infatti la Libertà appare in sogno a Lorenzo e gli lascia sul letto il coltello macchiato del sangue di Cesare; Lorenzo è visto dunque come un novello Bruto e il tirannicidio trova giustificazione anche in vicende private, le insidie tese dal duca a Bianca, sorella di Lorenzo. La materia è distribuita nei canti secondo un ordine che visibilmente guarda alla tradizione epica ed alle sue convenzioni: nel primo canto la libertà personificata appare in sonno a Lorenzo, gli mostra i tirannicidi più illustri per spingerlo a gloriosa emulazione e, come nell'idea originaria, gli lascia il pugnale di Bruto; nel secondo canto vengono rivelate a Lorenzo le mire del duca sulla sorella Bianca, mentre l'ombra di Savonarola lo esorta al tirannicidio. Nel terzo canto infine si assiste alla rassegna dei ministri del duca e nel quarto alla sua morte dopo che la Libertà, assunte le forme di Bianca, lo invita nella camera di lei, dove Lorenzo lo uccide dopo un lungo discorso autogiustificativo. Come ha rilevato Franco Fido nel più recente contributo critico sul poema, Alfieri si misura con i topoi epici (visioni, rassegne, presagi, sogni) e tenta un genere per lui inconsueto in accordo col gusto coevo di rivitalizzare le forme epiche con l'immissione di contenuti attualizzanti o marcatamente politici. L'apparizione della Libertà ad esempio è alla base della struttura narrativa del poemetto La Francia dell'amico Pindemonte, destinato a celebrare il momento aurorale della rivoluzione francese, mentre sempre Pindemonte tenta il poema di argomento storico-politico in Gibilterra salvata. Né va dimenticato, nel rapporto imitativo ed emulativo che Alfieri intrattiene con Voltaire, che proprio a quest'ultimo si deve il revival epico con l'Henriade e la Pucelle. Alfieri si destreggia con impaccio tra allegorie e visioni, impaccio accresciuto dalla struttura narrativa del genere. Proprio l'esigenza di narrare viene dichiarata da Alfieri una delle maggiori difficoltà nel condurre a termine il poemetto verso il quale mostra una costante affezione: «Quell'opera, benché lavorata con tante interruzioni, in così lungo tempo, e sempre alla spezzata, e senza ch'io avessi alcun piano scritto, mi stava con tutto ciò assai fortemente fitta nel capo; e l'avvertenza ch'io vi osservava il più, era di non allungare di soverchio; il che, se io mi fossi lasciato andare agli episodj o ad altri ornamenti, mi sarebbe riuscito pur troppo facile. Ma a volerla far cosa originale e frizzante d'un agrodolce terribile, il pregio di cui più abbisognava si era la brevità. [...] Non sono però ben certo in me stesso che quei tanti interrompimenti non abbiano influito sul totale del poema, dandogli un non so che di sconnesso» (Alfieri, Vita IV, 14). Brevità e concisione unite ad un «agrodolce terribile» sembrano in realtà in contrasto con la tradizione del poema narrativo, ma all'operetta politica Alfieri nel corso degli anni affida forse più che un messaggio di libertà una sperimentazione letteraria che darà i suoi frutti nelle Satire e nelle Commedie. Si considerino la rassegna del terzo canto con i ritratti di cortigiani dai nomi parlanti, Clidofilace Coriccio Pitillo Graffio Dolcimele, oppure la descrizione del gran prete Plenario con la radicale critica dell'istituzione religiosa. Alcuni passaggi descrittivi rimandano al modello pariniano del Giorno ad esempio nella scena in cui Arrigo, fedele cortigiano, libera il pauroso Alessandro da un corsetto protettivo che lo ha fatto svenire: « Destramente la man di forficette / Armata sotto il regal ostro ei pone: / Tagliato è il laccio: il sire un sospir mette / Che in temenza sua corte ricompone» (III, vv. 305-308).
Parte di Saul trascritta da Alfieri
Il manoscritto è il quarto di cinque fascicoli nei quali Alfieri scrisse le parti di personaggi di sue tragedie, in vista di recite. Il primo, datato Firenze, 19 febbraio 1794, ha la parte di Bruto Primo; il secondo, con le parti di Carlo e di Filippo, è datato Firenze 2 maggio 1795; il terzo conserva la parte, non completa, di Oreste, e porta la data Firenze febbraio 1795. Sulla coperta del quarto fascicolo si legge: Parte di Saul 1793 Firenze; sul recto di c. 1: Saul Firenze 1793 e 1794 e 1795 ultima, 19 giugno in Pisa. La Vita (IV, 23) riferisce di recite del Saul, che Alfieri organizzava e in cui lui stesso interpretava la parte del protagonista. A Firenze, nella primavera del 1793, recitò «in casa privata, e senza palco, a ristrettissima udienza, con molto incontro»; nella primavera del 1794 in sua casa, nel 1795 di nuovo nella propria dimora e poi a Pisa: «Ed essendovi in Pisa in casa particolare di signori una altra compagnia di dilettanti, che vi recitavano pure il Saul, io invitato da essi di andarvi per la luminara, ebbi la pueril vanagloria di andarvi, e là recitai per una sola volta, e per lultima la mia diletta parte del Saul, e là rimasi, quanto al teatro, morto da re.» A Firenze nel 1793 recitarono con Alfieri (Saul) Eugenia Cocchi Bellini (Micol), Vittorio Perini (Abner), Giovanni Carmignani (David), Lorenzo Collini (Gionata), Tanfani (Achimelech). Nel 1794 la recita fu fatta «da capo» in casa del poeta (Vita IV, 23). Nel 1795 recitarono con Alfieri, sempre nella parte di Saul, il barone Giovanni de Baillou (David), Anna Portinari, Eduardo Berlinghieri (David), Marco Faleni (David), il Carmignani. A Pisa Alfieri fu invitato dal balì Angiolo Roncioni (1748-1812), aperto alle idee illuministiche e fondatore, l'11 luglio 1794, di un'Accademia teatrale, avente come scopo «l'avanzamento dei lumi e della morale» (così dichiara al suo inizio lo Statuto dell'Accademia). Nel Centro alfieriano di Asti si conservano altre trascrizioni delle parti di David, Egisto, Filippo, utilizzate per le recite fiorentine organizzate da Alfieri e provenienti dalla famiglia Baillou.
Il Misogallo
Grottesco aggregato di generi diversi, Il Misogallo raccoglie prose e rime ispirate dagli eventi epocali che segnarono il decennio compreso tra l'insurrezione di Parigi nel luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma nel febbraio '98. La critica intransigente e feroce di Alfieri, che sconfessa clamorosamente le illusioni utopiche e congela le accensioni pindariche del Parigi sbastigliato, non si appunta soltanto sulla Francia e sulla Rivoluzione, cementati in un binomio inscindibile, ma coinvolge l'intero quadro politico e sociale europeo, tiranni antichi e recenti, dominatori e oppressi, in un vortice disperato di negazione, di denigrazione e di odio a cui fa da controcanto il mito di un'Italia futura, l'Italia «virtuosa, magnanima, libera, ed una» evocata nella Prosa Prima e nel sonetto di Conclusione dell'opera. «Nel Misogallo,» commenta l'autobiografia, «io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco. Sogni e ridicolezze dautore, finchè non hanno effetto; profezie di inspirato vate, allorchè poi l'ottengono» (Vita IV, 24).
L'idea di una selezionata e ordinata raccolta dei testi misogallici che lo scrittore era solito affidare alla memoria o appuntare su carte sparse prima di introdurli nel ms. laurenziano Alfieri 13 e nel ms. laurenziano Alfieri 6, collettori distinti delle sue poesie e delle prose, non sembra risalire al gennaio 1793, come sostenne il più accreditato editore ottocentesco appellandosi a un passo della Vita che a ben vedere si limita a proporre un generico terminus post quem:
Stesi anche [nel 1793] una prosa storico-satirica su gli affari di Francia, compendiatamente, la quale poi, ritrovatomi un diluvio di composizioni poetiche, sonetti, ed epigrammi su quelle risibili e dolorose vertenze, ed a tutti que' membri sparsi volendo dar corpo e sussistenza, volli che quella prosa servisse come di prefazione all'opera che intitolerei Il Misogallo; e verrebbe essa a dare quasi ragione dell'Opera (Vita IV, 23).
Sembra piuttosto risalire alla seconda metà del 1794, quando i pezzi già composti giustificarono a pieno l'espressione «diluvio» usata nell'autobiografia e quando sui margini del laurenziano Alfieri 13 e del laurenziano Alfieri 6 i rimandi al Misogallo cominciarono ad essere coevi alla registrazione dei testi, non più integrati a posteriori. È significativo il fatto che al prosimetro non accenna alcun documento anteriore alla schedula del Rendimento di conti relativa al '95, che recita «Limato, e ricopiato il Misogallo», riferendosi ovviamente al manoscritto dove per la prima volta le tessere del mosaico misogallico erano assemblate e ordinate in base ai criteri di massima della successione cronologica e dell'alternanza dei generi, e dove per la prima volta si affacciavano la descrizione del Rame Allegorico e l'Avviso al Lettore:
In mille guise, due sentenze sole
Questa operuccia garrula racchiude:
Che Libertà è Virtude;
Ch'esser liberi i Galli, elle son fole.
Chi già 'l sapea, non logori qui gli occhi:
Chi nol vuol creder, tocchi.
Dato a lungo per «disperso» o «dall'autore stesso distrutto», quel manoscritto va riconosciuto nell'autografo di Montpellier, prezioso depositario della «prima forma» dell'opera. Il 14 febbraio 1796, completata la trascrizione, la raccolta misogallica contemplava quattro prose, un'ode, trentanove sonetti numerati oltre al Proemio e alla Conclusione e quarantacinque epigrammi numerati oltre all'Avviso e alla Licenza. Solo un mese prima, nel depositare nel ms. laurenziano Alfieri 13 l'epigramma 'Uno sforzato imprestito in bei dindi', lo scrittore aveva annotato «E quì si chiude bottega. Ep. 40. Son.i 40», ma sotto l'incalzare delle notizie relative alla campagna d'Italia non era evidentemente riuscito a contenere la sua vena rabbiosa entro gli argini di quello schema quadripartito (quattro le prose, quaranta i sonetti, quaranta gli epigrammi) e si era concesso lo sfogo di numerose aggiunte. Due anni dopo, nel febbraio del 1798, le prime due carte del manoscritto accolsero l'abbozzo e la seconda stesura della Prosa Prima, e di lì a poco furono stralciate e trasferite nella composita sezione misogallica del ms. laurenziano Alfieri 6 (cc. 92 e 93). Per compensare in parte la lacuna che si era creata all'inizio dell'autografo montpellieriano, l'autore vi introdusse allora un foglio semplice su cui segnò a grandi caratteri la canonica nota di possesso «Vittorio Alfieri. Firenze 1796.» e l'indicazione «Copia A. di mano dell'autore», inaugurando così la serie delle sigle distintive attribuite ai dieci multipli dell'operuccia.



Satire
A conclusione del lungo lavoro di ideazione, di composizione e di accurata messa a punto linguistica e stilistica avviato nel ms. 61.2 della Médiathèque di Montpellier e continuato con abnegazione nel ms. laurenziano Alfieri 13, i due sonetti e i diciassette capitoli che costituiscono le Satire furono entro l'estate del 1798 riportati in nitida e ordinata scrittura dall'autore nel ms. laurenziano Alfieri 20. Uno dei volumetti di piccolo sesto, legati in cartone ricoperto di carta blu chiaro e ornati da impressioni e tagli dorati, fatti preparare intorno al 1796 e destinati ad accogliere in copia autografa, oltre alle Satire, alcune delle opere più tarde dello scrittore astigiano: la Vita, Il Misogallo, la tramelogedia Abéle e le Rime. Parte Seconda. Lontanissima per impianto e contenuti dal progetto delineato più di vent'anni prima, l'opera era in buona sostanza compiuta e rispondeva all'ideale maschio e risentito condensato nel terzo libro del trattato Del Principe e delle Lettere:
le satire, non a mordere i privati vizj e laidezze, e molto meno a nominarne gli attori; (niun uomo vizioso meritando mai d'essere nominato da sublime scrittore) ma le satire il loro veleno tutto, ed i loro fulmini rivolgeranno unicamente a smascherare, a trafiggere, atterrare, e distruggere il pubblico vizio, da cui, come da impuro fonte, i privati tutti derivano (Scritti politici, I, p. 237).
Nel 1798, mentre le truppe e le idee francesi avanzavano in Italia, il timore che i manoscritti a cui aveva consegnato i suoi inediti fossero requisiti e distrutti dagli odiati «schiavi-cannibali» suggerì ad Alfieri di farne preparare alcune copie calligrafiche da distribuire al primo segnale di pericolo ad amici fidati, che s'impegnavano a tutelarne la sopravvivenza. Dal novembre 1798 al giugno 1799 si vennero così via via affiancando all'autografo, siglato A, tre nuovi esemplari delle Satire, siglati in successione BI, BII e C ed oggi conservati nella Médiathèque di Montpellier. Sono fondamentalmente di pugno del segretario, ma risultano integrati (nelle epigrafi e in alcune delle note a piè di pagina) dall'autore stesso, che comprensibilmente non poté fare a meno di introdurvi, o farvi introdurre dal copista, gli ultimi ritocchi a un'opera che intendeva lasciare inedita. Un'opera che apparve per la prima volta a stampa nel luglio 1806, nel terzo volume della collezione delle Opere Postume volute dalla Contessa d'Albany e pubblicate a Firenze da Guglielmo Piatti.
Sulla pagina che precede il frontespizio, la copia A reca incollata un'incisione di buona mano raffigurante il busto di un giovane dal piglio romantico accentuato da folti favoriti. Non ritrae il giovane Alfieri, come si potrebbe a tutta prima credere, vista la sua collocazione, e come tra gli altri mostra di credere il curatore del catalogo della mostra astese-alfieriana del centenario Domenico Fava, ma propone una delle tante versioni del ritratto di Ortis-Foscolo premesso all'edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, combaciando quasi a perfezione col rame che orna la stampa in data di Londra 1814 (ma Zurigo 1816). Arduo immaginare quando, da chi e perché il disegno fu introdotto nel manoscritto. Certo non vi figurava nell'ottobre del 1803, visto che non è segnalato nel diligente catalogo dei codici alfieriani redatto da François-Xavier Fabre pochi giorni dopo la scomparsa del poeta.
Esquisse du jugement universel
Il manoscritto Alfieri 5 reca testimonianza dei primi lavori composti da Alfieri al ritorno a Torino dopo il quinquennio che lo aveva visto impegnato in una serie ininterrotta di viaggi attraverso l'Europa, secondo il modello settecentesco del grand tour. Raccoglie infatti l'Esquisse du jugement universel, diviso in Première (cc. 3r-12v), Seconde (cc. 13r-16r), Troisième (cc. 21r-27r) Session, ed i Giornali ed Annali scritti in prosa francese (cc. 29r-32r, cc. 33r-35r, con fogli 32v, 35v-39v bianchi) ed italiana (cc. 40r-45v, bianchi cc. 46r e v).
L'Esquisse si apre con la c. 1r che registra «dicembre 1773 Turin / Lettre du mémbre Lavian a la socièté» e contiene la breve missiva in cui un membro trapassato invita i confratelli a mettere a profitto la sana morale contenuta nello scritto che segue. Dalla c. 2r si dipana il testo vero e proprio di quest'opera giovanile di Alfieri, pubblicata postuma, composta, in fasi successive, tra 1773 e 1774 per le riunioni serali che il nobile letterato era solito tenere settimanalmente nel suo lussuoso salotto di Piazza San Carlo a Torino con i vecchi compagni di Accademia, ora membri della Societé des Sansguignon. All'interno di questa libera associazione di giovani «ben nati e dei primari della città», ogni affiliato era tenuto a comporre scritti di varia natura e ad introdurli anonimi all'interno di un «ceppo assai ben capace» (Vita III, 13). L'Esquisse viene ricordato nell'autobiografia come uno tra i testi d'occasione che Alfieri inserì nel legno deputato e che, estratto dal presidente in carica, venne letto per il divertimento del gioviale consesso. In questo dialogo satirico in prosa francese, si finge la scena di un Giudizio Universale in cui Dio domanda alle anime conto di se stesse: la sapida galleria di ritratti che ne emerge non è priva di allusioni direttamente riconducibili alla società torinese del tempo.
La c. 2r reca in alto il titolo ed una breve chiosa del suo contenuto: «Esquisse du jugement universel, tàl qu'il séra / et tàl qu'il est, et tàl qu'il a toujours été, sur les / morts, et sur les vivants, car le / rédoutable Tribunal de Diéu; n'est jamais fermé, or l'on y rend / Continuëllémént / La Justice». Seguono, prima dell'avvio della Première Session, a sinistra: «Arrangément des personnages / Embellisément de la salle / la verge d'Aaron / l'âne de Bethléem / La bourse de Judas / &», a destra: «Embellisément de la salle / les cornes de Moyse / la pomme d'Adam / la prépuce de Salomon / &».
Nel centro della carta, infine, il disegno della pianta orizzontale della scena che presenta un motivo ricorrente nell'iconografia trinitaria collocando Dio Padre, Giudice Supremo, alla sommità di un triangolo ai cui lati presenziano il Figlio e lo Spirito Santo. Le restanti indicazioni sceniche presentano tratti allusivi che non mancano di irriverenza. La natura particolare di c. 2r, appartenente al più antico autografo alfieriano, risulta legata alla specificità di un testo che Alfieri conservò ma che non ritenne mai degno di pubblicazione, liquidandolo piuttosto tra le sue «Prime sciocchezze» nell'epigrafe del foglio di guardia. Pertanto, l'interesse di questo documento si rivela nel controcanto con lo sguardo retrospettivo dell'autobiografia, tesa a cristallizzare un'immagine di sé conforme ai desideri dello scrivente. Alla luce della suddetta chiave di lettura, risultano degne di particolare attenzione le note autografe, riguardanti l'allestimento della sala e la disposizione dei personaggi, nella misura in cui denunciano la spiccata inclinazione dell'Astigiano per una parodia dai toni accesi che talvolta tocca punte di caustica impertinenza. In tal senso, non si rivela attendibile la schematizzazione autobiografica in cui Alfieri afferma, in relazione alla Pucelle volteriana, che «l'osceno non lo ha dilettato mai» (Vita III, 7). La forza icastica del soggetto, in linea con le numerose prove satiriche di materia sacra redatte da Voltaire, rivela una coscienza autoriale incline al riso corrosivo che poi cifrerà di sé le Satire e le ultime prove comiche.
Infine, occorre ricordare che nel corrispondente passo della Vita, Alfieri non fa cenno alcuno alla natura teatrale dell'Esquisse. Eppure questo aspetto emerge con evidenza dal bozzetto scenografico che campeggia al centro della c. 2r e viene del resto confermato dalla terza sessione del dialogo in cui l'ombra di Cleopatra allude apertamente alla prima tragedia di Alfieri a lei intitolata. La mancata registrazione di questo pur evidente trait d'union con la successiva esperienza teatrale pare probabilmente riconducibile allo sguardo critico con cui l'Astigiano stigmatizzò negli anni maturi i suoi primi esperimenti letterari. Ne risulta confermata la disparità d'intenti e di risultati tra la natura magmatica dei manoscritti e la visione cristallizzata del passato ridisegnata in altra chiave dalla versione dell'autobiografia.
Vita scritta da esso
I.
Conclusa, a Parigi, l'edizione definitiva delle sue tragedie, cioè della parte della sua opera con cui il poeta soprattutto identificava la propria vocazione, Alfieri volle dare il racconto della propria esistenza e la sua giustificazione. Lesse allora, o si fece leggere dal segretario, per prepararsi, la Vita di Benvenuto Cellini, pubblicata per la prima volta e valorizzata proprio nel XVIII secolo, e i Mémoirs di Goldoni (nei quali lui stesso era menzionato). Certo aveva almeno sfogliato le Confessions di Rousseau, la cui seconda parte, pubblicata nel 1788, aveva prodotto in Francia molto rumore. Una prima redazione della Vita, il suo gran libro autobiografico, fu stesa nel 1790: il racconto giungeva fino al capitolo XIX dell'Epoca IV. La sua rielaborazione iniziò a partire dal 1798. La Vita fu quindi ricopiata nel 1803; e, tra il 4 e il 14 maggio dello stesso anno, l'autore riprese la narrazione conducendola fino allo stesso 1803.
La rielaborazione fu un momento decisivo, non solo per alcune modifiche di sostanza (vistoso è, ovviamente, il mutato giudizio sulla Rivoluzione francese, peraltro già evidente in alcune integrazioni apposte alla prima redazione), ma ancor più per lo straordinario risultato stilistico, in cui risiede una parte cospicua del pregio dell'opera: uno stile e un linguaggio personalissimi, ricchi di «urgenze espressive» (Contini) e insieme rispettosi della tradizione. Essa è divisa in quattro Epoche, corrispondenti a quattro delle cinque età che costituiscono, secondo Alfieri, la vita dell'uomo: Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità. L'opera si chiude con uno scherzoso congedo, molto settecentesco, dal lettore, che è anche un impegno a riprendere in séguito il racconto, aggiungendovi l'ultima Epoca:
A rivederci, o Lettore, se pur ci rivedremo, quando io barbogio, sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo Capitolo ultimo della mia agonizzante Virilità.
La Vita termina con questa incerta promessa. Come quasi tutte le autobiografie, anch'essa resta incompiuta; il suo racconto, interrotto dalla morte, si protende vanamente verso la vecchiaia. Un costante controllo è una delle caratteristiche generali del libro. Pur risentendo dell'innovazione introdotta nella tradizione autobiografica dalle Confessions di Rousseau (si veda ad es. l'ampio spazio riservato all'infanzia e all'adolescenza), Alfieri esclude i momenti di abbandono struggente, o ostentatamente risentito, al ricordo, caratteristici di quello. Il piglio giudicante e anche autocritico è in effetti costante, e particolarmente evidente nelle prime due Epoche. Vi è un punto focale nel racconto, ed è la conversione dellautore, a ventisei anni, alla poesia: conversione è il termine impegnativo ch'egli stesso usa (III, 1). La conversione letteraria s'intreccia, a sua volta, alla liberazione dall'ultimo «tristo amore». Segue, due anni dopo, l'incontro, anch'esso risolutivo, col «degno amore». L'autobiografia alfieriana è anzitutto la storia dell'inconsapevolezza e della ricerca di sé, e insieme della ricerca del vero, definitivo amore. Ignoto a sé egli afferma di aver trascorso la giovinezza; ignoto a sé e a chi diceva di educarlo si descrive nell'Epoca seconda. Di qui una particolare struttura tematica della Vita: quella della vocazione frustrata ma insopprimibile, e del successivo risarcimento.
Sotto il profilo artistico, la Vita si anima soprattutto nelle parti ispirate al dramma della vocazione sconosciuta e deviata (anche per colpa dei cattivi educatori) e della dispersione: un dramma definito in termini radicali, in un luogo dell'opera (III, 12), come un'alternativa tra poesia e pazzia. Uno spazio defilato resta, in questo esame di coscienza dell'autore, per gli altri personaggi. Pochissimo spazio hanno anche le descrizioni dei costumi stranieri, e il racconto degli incontri con altri scrittori; e l'intensità laconica con cui sono evocati alcuni paesaggi è anch'essa funzionale alla delineazione del personaggio Alfieri.
II.
La più antica redazione nota di entrambe le Parti della Vita scritta da esso ci è conservata nel miscellaneo laurenziano 13, rigogliosa «Selva di poesie e prose diverse», come lo definisce il Catalogo della mostra astese-alfieriana del 1949. Nella primavera del 1790, rinviato all'anno successivo il progettato viaggio in Inghilterra in compagnia della d'Albany, che ambiva conoscere quel «fortunato e libero paese» e sperava di ottenervi sostegni finanziari da parte di re Giorgio III per compensare almeno in parte la più che sicura perdita della pensione accordatagli dal re di Francia, Alfieri intraprese un viaggio avventuroso nel tempo e nella memoria: ricostruì e consegnò ad alcuni fascicoli poi confluiti nella compagine del manoscritto laurenziano il racconto della sua vita, stendendolo in trentasette tappe compositive che portano date comprese tra il 3 aprile e il 27 maggio del 1790 e fermandosi al Capitolo Decimonono dell'Epoca Quarta. Che quei fascicoli, stilati con grafia fitta e minuta e segnati da rari pentimenti e ritocchi, non rechino l'«abbozzo originale» ma una stesura più avanzata ha sostenuto con argomenti persuasivi Luigi Fassò nell'introduzione all'edizione critica astese:
il primo getto della Vita — steso probabilmente per intero su fogli staccati e sparsi — venne distrutto dall'Alfieri, la data posta in testa alla p. 2 del ms. 13, "Sabato santo. 3 aprile 1790. Parigi" è la data in cui si accinse non a scrivere, ma a ricopiare, ritoccandola, la prima stesura, così come la data "27 maggio 1790", inserita nel cap. XIX dell'Epoca Quarta, va intesa come quella in cui terminò la sua fatica di trascrittore. È quasi superfluo aggiungere che anche l'esame interno del testo conferma questa conclusione. La stesura del ms. 13 non ha nulla dell'inevitabile schematismo di un vero abbozzo. Il racconto vi appare già compiutamente e definitivamente disegnato, anche nei particolari, senza mai un pentimento o un'inesattezza di struttura, senza vuoti dovuti a lacune della memoria o a esitazioni di concezione. Per ogni "Epoca" il taglio dei capitoli è netto e preciso; i sommari, tutti marginali, e quindi tutti aggiunti a ricopiatura terminata, sono quasi sempre definitivi; la cronologia marginale 'per annali ' netta e sicura. Tutte cose, a guardar bene, che sottintendono numerosi problemi, meditati, e tentati e risolti sparsamente su altri fogli di minuta, prima di abbandonarsi a una stesura continuata da considerarsi, almeno per il momento, leggibile e conservabile.
La tesi di Fassò è generalmente condivisa dagli studiosi (basti ricordare, tra i più autorevoli, Giuseppe Guido Ferrero, Fiorenzo Forti e Giampaolo Dossena), ma non da Mario Fubini, convinto che il ms. laurenziano 13 rechi davvero «la prima redazione, di getto» dell'opera. Affidata la Parte Prima della Vita allo scartafaccio, Alfieri segnò sul foglio di guardia «Scritto da rivedersi, e proseguirsi nel Febbrajo del 1799. Fatto nel Maggio 1790.», e sigillò il tutto con strisce di carta e bolli di ceralacca rossa contrassegnati dal suo stemma gentilizio. Avrebbe voluto «non riveder più queste ciarle, fino ai cinquanta suonati; età in cui, essendo certamente finita la mia carriera letteraria, con quella freddezza maggiore, che porta seco il mezzo secolo intero, rivedrò poi questo scritto, e vi aggiungerò il conto di questi nov'anni scarsi, che mi restano a comporre, e far versi, e non più cose di affetto» (Vita, vol. II, p. 220), ma ruppe i sigilli quasi un anno prima del previsto, come rivela l'annotazione «aperto il dì 4 Marzo 1798 Firenze» da lui aggiunta su una delle strisce di protezione del manoscritto, e ne lesse il contenuto alla dAlbany: un appunto autografo alla c. 188r recita testualmente «Letto, nel Marzo del 98. per la prima volta alla mia Donna.»
Sin dal 1796 aveva predisposto il primo dei due volumetti destinati ad accogliere la copia in pulito dell'opera e nel maggio del '98 cominciò a riportarvi con esemplare scrupolo calligrafico una redazione più avanzata del testo, frutto di una rielaborazione condotta su carte che non ci sono pervenute. Rielaborazione e copiatura si intrecciarono tra loro e si conclusero il 2 maggio del 1803 con la trascrizione dell'ultimo capitolo della Parte Prima nel laurenziano 242. Due giorni dopo, Alfieri tornava allo scartafaccio ed entro il 14 del mese vi deponeva in dieci sedute di lavoro la Parte Seconda dell'opera, che spinge la narrazione autobiografica sino agli eventi del 1803 e si chiude con l'amaro autoironico congedo: «A rivederci, o Lettore, se pur ci rivedremo, quando io barbogio, sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo Capitolo Ultimo della mia agonizzante virilità» (Vita IV, 31). Anche per questa sezione è lecito pensare che l'autore si servisse di materiali e appunti preparatori eliminati man mano che la narrazione andava evolvendo in forma continua. Solo per gli ultimi tre capitoli, non si può escludere che il laurenziano 13 conservi «una prima e unica stesura, a giudicare dal gran numero di ripensamenti e rimaneggiamenti e, forse, da una certa differenza nell'inchiostro e nel modulo di scrittura rispetto alla parte precedente».
L'8 di ottobre 1803 Alfieri moriva senza aver rimesso mano alla sezione finale del capolavoro, mai approdata a un assetto definitivo e sottoposta poi dagli editori postumi a interventi di correzione, integrazione e adattamento (non sempre e non tutti dichiarati), che ne falsano in maniera inaccettabile la fisionomia precaria di testo incompiuto.
La virtù sconosciuta
Il ms. contiene la prima redazione delle prose politiche alfieriane: Della tirannide, Del principe e delle lettere, Panegirico di Plinio a Trajano, La virtù sconosciuta prose del Misogallo. La prima redazione del dialogo La virtù sconosciuta fu scritta dal 17 al 24 gennaio 1786 a Martinsbourg. Essa occupa le cc. 43r-50r del ms. Alfieri 6, che conserva anche le prime redazioni degli altri scritti politici alfieriani. Del ms. ha dato esauriente notizia il Cazzani (nell'Introduzione al primo volume di Scritti politici e morali). Egli notò il forte divario tra le prime redazioni di Della Tirannide, Del principe e delle lettere, Panegirico, e la prima stampa di queste opere, delle quali il Panegirico fu stampato a Parigi nel 1787 e i due trattati a Kehl tra il 1787 e il 1790 (Vita, vol. II, pp. 263-264). Ipotizzò perciò l'esistenza di una «redazione intermedia» servita per la stampa. Essa fu ritrovata da Roberto Marchetti (1983). Il Cazzani rilevò poi le «minori differenze» riscontrabili tra la prima redazione del dialogo e la sua prima stampa, e nel contempo il gran numero di correzioni apportate sulla prima redazione. In effetti tra i manoscritti recanti la redazione intermedia delle tre opere su ricordate e dettata al Polidori manca La virtù sconosciuta. Eppure il Rendimento di conti (Vita, vol. II, p. 263) informa che nel 1787 il poeta dettò al Polidori il dialogo; aggiunge che nel 1788 ne corresse le bozze; entro il 1790 completò la stampa delle opere affidata alla tipografia di Beaumarchais a Kehl. La virtù sconosciuta fu stampata con la data 1786. Anche per il dialogo, scritto per celebrare l'amico scomparso Francesco Gori Gandellini, Alfieri preparò dunque una copia messa a pulito e utilizzata per la stampa: copia per ora non rintracciata. Un foglio recante stampato il quarto dei sonetti che chiudono il dialogo, ovvero «Era l'amico, che il destin mi fura», è nella risguardia delle Opere di Machiavelli donato ad Alfieri dal da Cunha e conservato a Montpellier. Il foglio ha una redazione intermedia tra la prima redazione del sonetto e la stampa. Il Cazzani nota come i cinque sonetti per il Gori nella prima redazione fossero nel corpo dell'opera, alla sua fine nella stampa e privati delle «abbondanti considerazioni di indole estetica» che li accompagnavano nella prima redazione (ma «abbondanti» può valere solo per il secondo sonetto, «Oh più assai che Fenice, amico raro»). A c. 42r dell'Alfieri 6 al titolo dell'opera segue la citazione da Orazio (Carm. IV 9), il cui rapporto strettissimo col testo alfieriano è stato già discusso e approfondito. Cazzani omise di pubblicare la prima brevissima idea del dialogo, poi resa nota dal Branca. La si riproduce qui integralmente: «gli offro vita, poi elogio, poi chieggo spiegazione e ragione di suo contegno coi nobili, col governo, cogl'ignoranti, [...], coi rozzi, coi buoni, coi rei. poi parlo delle tragedie, e chieggo di dargli i pazzi. poi parlo di mia vita, egli a me di mia donna, e mi conforta a non seguirlo sí presto» (c. 42v). A Branca va il merito di avere messo a confronto prima redazione e stampa del dialogo già nel 1947, e di avere individuato nel dialogo un importante anello della esperienza prosastica di Alfieri, che segue una strada diversa da quella dei trattati e prepara la narrazione autobiografica spiegata della Vita. Nell'abbozzo Alfieri chiede all'amico di potergli dedicare La Congiura de Pazzi («chieggo di dargli i pazzi»). Alla fine del dialogo nella sua redazione ultima Vittorio fa siffatta richiesta a Francesco, motivandola col fatto che detta tragedia più di altre esprimeva i «sensi» profondi dell'amico. Nella Congiura l'eroe libertario (Raimondo) è mosso da un disincantato pessimismo (non lontano da una leopardiana coscienza della tragica condizione del vivere) e nel contempo da una disperata volontà di riscatto. Nel dialogo Alfieri insiste proprio, nel descrivere la personalità di Francesco, sul contrasto che la abitava tormentoso tra l'alto sentire e i limiti imposti dalla natura o dalla tirannide: «Te sfuggito e sottratto alle noje, al servire, al tremare, alla vecchiezza, alle infermità, e più di tutto al dolore immenso e continuo di conoscere il bene e grande, e non poterlo né ritrovar né eseguire, te invidio». I due dialoganti, che, pur nella loro affinità di sentire, danno voce alle idee soprattutto di Alfieri, prospettano una poetica e si fanno portatori di un pessimismo storico e, al tempo stesso, esistenziale.
Avviso dell'edizione Didot delle Tragedie (1787)
Subito dopo aver concordato con Didot l'edizione riveduta ed ampliata delle sue Tragedie, Alfieri fece preparare ai primi di maggio del 1787 non meno di mille copie dell'avviso (Appunti, p. 242), affidate alla stessa carta e composte con gli stessi caratteri tipografici che lui stesso aveva prescelto per l'edizione, e si impegnò attivamente a diffonderle, coinvolgendo nell'operazione non solo i librai francesi e italiani, ma anche alcuni conoscenti e amici fidati come l'abate di Caluso e il senese Mario Bianchi. In una lettera dell'8 maggio 1787 comunicava a Bianchi: «è uscito alla luce il Panegirico stampato come ella vedrà non male, e senza nessun errore; ma ho ancora mutato lo stampatore, e ho preso il miglior di qui, e lei vedrà al paragone gli avvisi di quest'ultimo, che fanno molto scomparire il Panegirico. Si è già dato principio a quest'opera importante per me; ma la piglierò adagio, e non sarà finita, che nell'anno venturo. Tutto questo ella lo vedrà chiaramente dagli avvisi che servono di saggio dell'edizione, di cui glie ne mando varie copie, giunte a una copia del Panegirico» (Epistolario, I, p. 358), e qualche tempo dopo, in una lettera del 21 maggio, gli scriveva: «Eccole, amico carissimo, il Panegirico, con 75 copie di avvisi per le tragedie. Ella riceverà questo plico da Roma per via del corrier di Francia franco [...] La prego di far correre di questi avvisi per tutta la Toscana; intanto ne arriverà poi in maggior numero al Molini in Firenze per via di mare, insieme con le copie del Panegirico che vorrà commettere» (ivi, p. 360).
Questo il testo dell'annuncio a stampa, ottimistico quanto ai tempi di realizzazione dell'opera, che in realtà impegnarono tutto l'88 e larga parte dell'89, superato quanto al contenuto dei singoli volumi, ma rigorosamente rispettoso dei prezzi, che, nonostante il vertiginoso lievitare dei costi a carico dell'autore, rimasero inalterati sino al '90:
AVVISO AL PUBBLICO.
Stanno per ristamparsi in Parigi le TRAGEDIE di VITTORIO ALFIERI, rivedute e accresciute dall'autore, coll'aggiunta di tutte le inedite; e si troveranno presso Gio. Claudio Molini, librajo in Parigi.
Tutti quelli che desiderassero averle, e massime i libraj delle diverse città d'Italia, farebbero cosa grata di volerne preventivamente dar cenno a Giuseppe Molini, librajo in Firenze; specificandogli, a un di presso, qual numero d'esemplari ne piglierebbero, e se li vogliono in carta lisciata, o naturale. Così, chi le volesse in Francia, l'accennerebbe al suddetto Gio. Cl. Molini; e in Inghilterra, a Pietro Molini, parimente librajo in Londra: e tutti si compiacerebbero di renderne avvisati i fratelli Molini dentro questo prossimo Agosto del corrente anno 1787.
Questa precauzione vien creduta necessaria dall'editore, per fissare, secondo la probabilità dello smercio del libro, la quantità delle copie da stamparsene; ed ovviare così, per quanto sarà possibile, allo scapito cagionato dalle contraffazioni.
I volumi saranno certamente quattro, e al più, cinque: conterranno quattro Tragedie ciascuno; tolto il primo, che ne avrà tre sole, stante che vi si inseriranno varie prose spettanti all'opera. La forma, carta, e caratteri, saranno per l'appunto come il presente avviso. Il prezzo di ciascun volume sarà di sei franchi in Parigi, sciolto, in carta naturale; e in carta lisciata, come sono gran parte di questi avvisi, sarà di sette franchi il volume. L'opera si darà tutta insieme; non si scompagneranno i volumi; e l'ultimo sarà certamente finito di stampare nel decorso del venturo anno 1788.
I fratelli Molini avviseranno tosto che il libro si potrà avere; e ognuno che l'avrà richiesto, potrà, o per mezzo loro, o per via più breve, come più gli piacerà, procacciarselo da Parigi.
È uscita alla luce un'altra operetta in prosa dello stesso autore; il di cui titolo è: Panegirico di Plinio a Trajano, nuovamente trovato e tradotto; e si trova presso il prefato Gio. Claudio Molini, librajo in Parigi.
Tragedie di Vittorio Alfieri da Asti
Presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze, alla segnatura indicata, sono conservati due volumi dell'edizione Didot delle Tragedie, il I ed il VI, entrambi provenienti dal fondo Martelli e donati ad Ugo Foscolo da Luisa Stolberg d'Albany. Sul recto del foglio di guardia anteriore del vol. I si legge di mano della d'Albany: «Luise d'Albany a Monsieur Foscolo»; sul verso del medesimo foglio, invece, è appuntato con ceralacca un biglietto autografo indirizzato dalla d'Albany «a Monsieur Foscolo/ aux quatre Nations»:
«Je vous envoys les Tragedies de Vittorio Alfieri imprimées sous sa direction. Vous en êstes digne. Gardez les pour souvenir de Louise d'Albany qui a eu le bonheur d'etre son amie pendant 25 ans. Florence ce Samdi 10 8bre 1812».
Il biglietto, edito per la prima volta da Nicola Bruscoli nella sua edizione delle Tragedie di Alfieri, fu riprodotto fotograficamente da Carlo Pellegrini e poi accolto nel vol. IV dell'Epistolario foscoliano. Durante le celebrazioni del 1978 ebbe modo di descriverlo nuovamente Giuseppe Nicoletti nel volume dedicato a La biblioteca fiorentina del Foscolo nella Biblioteca Marucelliana. I due volumi della Didot, infatti, che facevano parte dei libri posseduti dal Foscolo durante il soggiorno fiorentino furono donati dal poeta a Quirina Mocenni Magiotti (1781-1847) e quindi furono acquisiti per testamento dalla Biblioteca Marucelliana nel 1894. Il sesto volume, che costituisce, come sappiamo, il volume di scarto dell'edizione Didot reca una dedica essenziale sul recto del foglio di guardia: «Louise d'Albany a Monsieur Foscolo».
Sempre attraverso il Fondo Martelli la Biblioteca Marucelliana ha acquisito un altro esemplare dell'edizione Didot delle Tragedie alfieriane, sprovvisto questo del volume di scarto (B.2.215). Sono cinque volumi di cui il terzo, il quarto ed il quinto recano sul frontespizio la nota di possesso vergata a penna: «Della Regoli Mocenni». Nel quinto, però, la nota originaria è stata corretta, per cui sul cognome «Regoli» si è passati sopra con la penna per sostituirlo con il nome di «Quirina». L'esistenza di questa copia era già segnalata da Nicoletti. Si tratta dei cinque volumi dell'edizione Didot, finita di stampare a Parigi nel dicembre 1789 e che Alfieri aveva promesso a Mario Bianchi dal 1788. «Glie ne destino a lei e alla Teresina in comune una copia delle pochissime che fo tirare in carta bellissima» aveva scritto all'amico il 23 febbraio 1788. A edizione finita Alfieri mantenne la parola («Giovedì 25 del corrente [marzo 1790] ho spedito per la diligenza l'involto in cui sono le tragedie per loro», Parigi, 30 marzo [1790], in Epistolario, II, p. 35), ma a causa della «mariana pigrizia» seppe dopo molto tempo che l'esemplare era giunto agli amici. Il riscontro gli arrivò da una lettera dove Teresa discuteva della Mirra ed alla quale il poeta rispose il 4 [gennaio] 1792.
Deluso dall'edizione Pazzini Carli, dopo aver rinunciato a ricorrere nuovamente ai torchi senesi, Alfieri a Parigi decise di dare delle tragedie «una edizione bella, accurata, a bell'agio» (Vita I, 17). Scartato Philippe Denis Pierres, a cui per prova aveva fatto stampare il Panegirico di Plinio a Trajano, ricorse a François-Ambroise Didot (1730-1804), «uomo intendentissimo ed appassionato dell'arte sua, ed oltre a ciò accurato molto, e sufficientemente esperto della lingua italiana» (ivi). Nella sua fonderia egli aveva creato «le point typographique ou point Didot», basato sulla proporzione matematica dei caratteri, secondo quanto è dato ricavare dal ms. che avrebbe dovuto servire d'introduzione alla Première epreuve des nouveaux caractères de la fonderie de Fr. Am. Didot l'aîné: «On n'a point suivi les proportions ordinaires qui ne sont point parfaitement justes, et qui dailleurs ne sont nulle part les mêmes. On a pris une mesure comune, fixe et invariable, la ligne de pied de roi; et l'on a divisé cette ligne en 6 mètres ou mesure. Ces mètres forment le plus petit de nos caractères». Quando Alfieri si rivolse a lui, Didot aveva già iniziato la stampa della Collection des auteurs classiques françois et latins destinata a «l'éducation du Dauphin» (voll. 32, in 4°, 1783-1794), aveva dato una bella edizione della Gerusalemme liberata (1784, voll. 2), inoltre aveva impresso una ristampa di Dei delitti e delle pene (1780) per conto di Giovanni Claudio Molini, le Oeuvres di Racine (1783, voll. 3). Per le tragedie, dunque, Alfieri sceglieva il più illustre tipografo di autori classici antichi e moderni, poiché anche attraverso la qualità della stampa portava avanti il suo progetto di classicismo agonistico, perseguito in vista della fama presso i posteri. «Son convinto» rifletteva nella Vita, finita di narrare la fatica della Didot «che chi lascia dei manoscritti non lascia mai libri, nessun libro essendo veramente fatto e compito s'egli non è con somma diligenza stampato, riveduto, e limato sotto il torchio, direi, dall'autore medesimo» (Vita IV, 19). Il primo volume delle Tragedie, iniziato a comporre nel maggio 1787, fu terminato entro l'anno (nel dicembre 1787 «si trovò stampato il primo volume», Vita IV, 18), ma la malattia che nell'autunno aveva colpito l'autore, impedì di emendare il Filippo, il Polinice, l'Antigone. Così che nel 1789, quando si concluse l'impressione dei cinque volumi, provvide a far ricomporre il primo. Quello dell'87 fu smembrato: le tragedie formarono il sesto tomo della Didot, definito nel frontespizio, sotto il titolo 'Volume di scarto'. Gli ottavi dei testi critici in prosa, con le pagine numerate romanamente, concorsero a formare il nuovo primo volume. Quest'ultimo, recante la data 1788 in realtà fu composto in parte nel 1787 (ci riferiamo alla Lettera di Ranieri de Calsabigi, alla Risposta dell'autore, al Parere sull'arte comica in Italia) e in parte nel 1789 (nuova stampa del Filippo, del Polinice, dell'Antigone). Il Volume di scarto, di 272 pagine, fu detto tale sia perché accolse una lezione non ancora definitiva delle prime tre tragedie, sia perché mancava di quelle CXX pagine in prosa che sarebbero servite al primo, riconfezionato per ultimo nel 1789, a raggiungere la dimensione di pp. CXX+280 ed a rientrare, quindi, nella mole media calcolata per ciascuno degli altri volumi (vol. II, pp. 384; vol. III, pp. 420; vol. IV, pp. 442; vol. V, pp. 426).
CRITICA: VITTORIO ALFIERI
LA POETICA E LA TRAGEDIA DELL'ALFIERI
Per l'Alfieri l'eroe e lo scrittore sono della stessa stoffa: Orazio, Scevola, Regolo sono letterati-autori; dopo, per la nascente corruzione, questi scemano e nascono i letterati-scrittori, che insegnano la virtù non più con l'esempio ma con gli scritti. Poeti, eroi, profeti, santi, martiri hanno nel mondo una missione simile, sono tutt'uno; e solo le circostanze diverse fanno sì che si nasca, invece che eroe o santo, poeta: Siamo sulla stessa linea della poetica del Parini, ma in un mondo assai più alto. La poetica dell'Alfieri è testimonianza di una passione esclusiva, motore unico della vita interna, quale nel Parini non si trova. Solo Dante avrebbe potuto dire che la poesia è il succedaneo dell'azione.
Per esser poeta è necessario un bollente volere, «quella preziosa libera bile che sola è madre d'ogni bell'opra», insomma l'esaltazione di tutte le forze spirituali. Premio della poesia è la gloria: «quella tacita meraviglia» con cui il mondo rimira un uomo; «quel sorridergli dei buoni con gioia e venerazione; quel sogguardarlo con torvi e timidi occhi, de' rei; quell'impallidire degl'invidi; quel fremere dei potenti»: definizione alfieriana, tragica ed estatica: dice l'animo con cui l'Alfieri scriveva le sue tragedie, l'effetto che ne vagheggiava scrivendole. L'Alfieri con le sue tragedie politiche non lo ha mai raggiunto pienamente - nel fondo è sempre rimasto qualche cosa di rigido e di pratico, di impoetico -. ma in tutte si sente l'animo che ha dettato quella definizione, quel misto veemente di dolcezza e di odio che si infondeva nei suoi versi al pensiero degli onesti che egli incoraggiava, dei vili e dei tiranni che percoteva. Si sente che mentre scriveva le sue tragedie, vedeva la platea e i posteri, gli spettatori e le generazioni venture.
Questa, infatti, non è poetica, ma una riduzione della propria poesia a teoria. Fondamento di ogni grande cosa, e quindi anche della poesia, è, per l'Alfieri, l'«impulso naturale»: « un bollore di cuore e di mente per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria...; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla».
Qualche cosa di ben diverso, dunque, dalla nuda volontà di cui si parlava tanto a proposito dell'Alfieri. C'è qui un fondamento nativo senza il quale tutta la definizione cadrebbe. E qui si giunge all'ultima delle identificazioni di questo libro: non soltanto i poeti, gli eroi, i santi, i martiri sono di una stessa stoffa, ma anche i tiranni. L'impeto magnanimo che si accende in un lettore dinanzi alle pagine dei grandi autori e che rivela in lui lo scrittore, è per l'Alfieri della stessa natura. dell'ira che invasava Alessandro all'udire il nome di Achille, Cesare all'udir quello di Alessandro. L'Alfieri doveva sentire una segreta affinità fra sé e i tiranni, i potenti della terra, non solo per la violenza tirannica che egli faceva alla coscienza dei lettori delle sue tragedie imponendo loro il suo pensiero con la pressione d'un incubo, ma anche perché egli, istintivamente, non riconosceva diritto di vita se non alle anime energiche: meglio i malvagi che gli imbelli. Circostanze diverse, egli dice, avrebbero fatto di Cesare uno Scevola, di un tiranno un eroe. Questo spiega perché nelle sue tragedie ci sia tanta affinità fra quei due mortali nemici che sono l'eroe e il tiranno, perché entrambi siano capaci della medesima inflessibile e atroce tensione d'animo.
Tutto questo spiega anche le tragedie non politiche; anch'esse hanno per fondamento una forza strapotente, ben simile a quella dei due antagonisti delle altre tragedie: Mirra, Saul, Oreste, Rosmunda hanno l'immane forza spirituale di Filippo, Timoleone, Bruto.
Da quello che abbiamo detto, deriva che l'Alfieri dà una grande importanza all'estro; e da questo deriva il suo modo di lavorare: un sunto di due pagine; una tumultuosa stesura in prosa per fermare l'estro; una riposata verseggiatura. Per l'Alfieri la poesia è già nella stesura in prosa; e se non c'è, l'elaborazione posteriore non ve la può aggiungere. L'epoca IV della Vita è interessantissima per i tratti di psicologia della creazione che vi si trovano sparsi; e contribuisce a darci ragione dei pregi e dei difetti delle tragedie dell'Alfieri. Quel suo modo romantico di comporle ci spiega perché per lo più sembrino insieme così unite e così grezze, così calde e così monotone.
Questo è visibile soprattutto nelle tragedie più strettamente politiche, nelle quali si esprime una parte sola dello spirito dell'Alfieri. In esse la passione politica è viva, ma la fantasia - ossessionata - ruota sopra due punti soli: la paura che incute il tiranno, e il gagliardo allenamento dell'eroe all'idea della ribellione e della morte. Il che nasce dal fatto che nell'Alfieri la passione politica era violenta ma l'esperienza storico-politica era scarsa ed astratta; il suo amore per la storia era troppo circoscritto fra i due limiti della libertà e della schiavitù. Per ideare una tragedia politica gli bastava conoscere il fatto generico: perché la trama la riempiva sempre con la materia del suo trattato, buona per tutti i tempi, e quindi insufficiente per tutti.
Non basta a diversificare il Timoleone dalla Virginia l'intenzione patetica di rappresentare il protagonista costretto a farsi fratricida per amore della libertà; né basta a vivificare La congiura dei Pazzi il fatto che il contrasto fra gli affetti domestici e i sentimenti politici vi sia espresso meglio che nel Timoleone e nel Bruto primo, e che questa tragedia voglia essere un esempio della tirannide moderna, più blanda e perciò più difficile da distruggere.
Migliori, perché più ricchi di motivi umani, sono il Don Garzia e l'Ottavia...
In queste tragedie la ricchezza della poesia dell'Alfieri si intravvede sempre soltanto quando il motivo politico accenna a lasciare il posto a motivi più complessi e più umani. E perciò l'esame di queste non può essere che preparazione all'analisi delle altre in cui il soggetto politico manca e non domina. Nel Filippo, nel Saul, ecc. i motivi delle tragedie di libertà sono assorbiti in un quadro spirituale molto più profondo. Carattere dominante di queste tragedie è una volontà asperrima che si alimenta da una passione (Agamennone, Oreste, Rosmunda) o si divincola fra le strette furibonde di una passione (Mírra, Saul). La nobiltà delle tragedie alfieriane deriva da questo elemento volontario che proietta, la passione in un mondo più grande del reale. Per questo dominio dei propri sentimenti le figure femminili acquistano una solennità regale, e i tiranni suscitano, con l'abominio, il rispetto, e figure così dissimili come Antigone, Filippo, Saul si avvicinano come figli di un medesimo padre. Nel codice della magnanimità che si può ricavare dalle tragedie dell'Alfieri, anche i tiranni hanno qualche cosa da insegnare.
Questi magnanimi sono grandi sopra tutto nella morte, nella virilità con cui l'affrontano: Isabella come Mirra, Carlo come Saul. La morte, più spesso il suicidio, è la consacrazione suprema della nobiltà degli eroi, la liberazione dal destino troppo inferiore alla purezza della loro coscienza, l'unico modo di affermare gli ideali a cui il mondo è avverso o immaturo.
Altro carattere dominante e autobiografico delle tragedie alfieriane è la solitudine morale dei personaggi: Saul solo coi suoi presentimenti e con le sue angosce; Mirra, sola col suo ardore inconfessabile; Filippo, solo coi suoi sospetti e col suo delitto; Creonte, solo dinanzi alla giustizia divina; gli offesi che maturano la vendetta nel cuore chiuso; gli eroi della libertà immensamente lontani dal popolo vile. E tutti destano insieme un sentimento di ammirazione e di pietà.
Questa solitudine è sottolineata dalla riduzione assoluta dell'ambiente, materiale o umano. Goldoni è tutto ambiente, conversazione multipla e volubile, così nelle commedie come nei Mémoires; Alfieri è tutto individuo, dialogo corpo a corpo, concentrazione, monologo, così nelle tragedie come nella Vita. In Alfieri l'ambiente c'è: ma è, nella Vita, il deserto o il mare, nelle tragedie, una tomba - l'altare della vendetta familiare -, o una reggia - la meta della vendetta politica -. E la reggia non è mai quella delle cerimonie o delle feste: si sente che è nuda e squallida, che i colloqui vi si svolgono in piedi e in guardia.
In parecchie tragedie questi caratteri sono esagerati. Gli elementi foschi si accumulano con energia fittizia; per esempio nella Rosmunda, nel Polinice, in buona parte dell'Oreste, nell'ultimo atto dell'Antigone; e la tragedia, corsa da continue alternative sanguinose, adombrata da troppe tinte funeree, ci si configura nell'immaginazione più coll'aspetto d'una maschera che d'un volto.
Così non accade nel Filippo, nell'Agamennone, nella Mirra e nel Saul.
La prima tragedia insieme passionale e politica, è tutta mossa dallo spirito gelido e inflessibile di Filippo, che decide della sorte del figlio e della moglie. È questa la prima rappresentazione del deserto che circonda il tiranno. Tutta la pietà del duro e appassionato Alfieri sembra riserbata a Carlo e ad Isabella, nella quale si presenta il tema poetico di Mirra; tutto l'abbominio a quella mostruosa pietrificazione di uomo in re che è Filippo. Si delineano qui per la prima volta il contrasto fra il sospetto e la generosità - e quindi quell'aspetto di incubo che hanno quasi tutte le tragedie dell'Alfieri, e la liberazione dall'incubo con la morte degli eroi -; e l'arte di far soccombere le anime grandi per attirar su di loro, con l'ammirazione, la pietà, e farle più simpatiche e più reverende. E si rivela qui per la prima volta e meglio che mai, quell'arcana e involontaria pietà che si riverbera per un istante sul tiranno, condannato, come per una nemesi interna, a sentire la solitudine e la tristezza della sua feroce potenza. Il solo difetto evidente della tragedia nasce dalla preoccupazione pratica di contrapporre Perez a Gomez e a Leonardo e di mostrar chiesa e tirannide congiurate contro la libertà e la giustizia.
L'Agamennone (1776-1777) è la maturazione occulta e fatale di un delitto. Da ogni parte, da ogni indizio la catastrofe balena e trapela, come nella Mirra la confessione dell'amore incestuoso. In queste due tragedie e nel Saul quel senso della catastrofe che incalza, visibile in tutte le tragedie dell'Alfieri, trova la sua misura perfetta.
Nell'Agamennone c'è, qua e là, qualche cosa di troppo scoperto; ma il complesso è di una straordinaria potenza: e Clitennestra che, trascinata dalla passione, rilutta invano al delitto; Egisto che lo vuole, senza rimorsi, con una fredda e stringente tenacia di vendicatore; Elettra che, con femminile sensibilità, presente la catastrofe; Agamennone che, tornato in patria dopo la vittoria conquistata col sacrificio della figlia, si scopre a poco a poco così solo e insidiato: testimoniano di quale ricchezza sentimentale sia capace l'Alfieri appena abbandona la tragedia politica, e con quale lucida ansia sappia penetrare nelle più terribili profondità della coscienza.
Il Saul (1782) è la più densa espressione del mondo eroico e procelloso che ribolliva nell'anima dell'Alfieri. Il protagonista delle sue tragedie è l'uomo che esce dai confini mediocri dei comuni mortali; e quello che lo rappresenta più compiutamente è Saul che per tutta la tragedia urta vacillando contro la tempesta oscura dei suoi sentimenti più profondi, e finisce per vincerla. In lui si raccolgono i sentimenti smisurati sparsi nelle altre opere. Egli è feroce, indagatore, geloso e superbo della propria regalità, come Filippo, ma innalzato da un più eroico decoro; è sconvolto come Clitennestra, Polinice, Oreste, come i personaggi greci, da un sentimento quasi fatale che lo circonda dell'atmosfera caratteristica di tutte le buone tragedie alfieriane; è travolto da ire di origine arcana come il sentimento di Mirra; ha, nei momenti di lucidità, una saggezza magnanima superiore a tutti gli eroi plutarchiani dell'Alfieri. Se in tutta l'opera dell'Alfieri si può sentire, senza sempre notarla come difetto, una certa linearità, in Saul si nota invece una tempestosa abbondanza di vita spirituale. Nel corso della tragedia Saul è un re furibondo, nella fine - vinto se stesso - uno stoico solenne.
Saul è un'anima grande sconvolta da un momento di empietà: di qui le visioni paurose e le inquietudini tremende, che hanno una parte grandiosa nella tragedia; ma la parte più intima è quella sofferenza per aver perduto il dominio di sé, quel sentirsi menomato nella propria dignità regale per gli avvilimenti e le collere insensate da cui è vinto. Questa dignità regale, offuscata nel corso della tragedia, risorge intera dinanzi alla catastrofe della famiglia e alla sconfitta. Dalla sconfitta esterna nasce la vittoria intima, la liberazione dai sentimenti meschini. Ambizione, rivalità, orgoglio del potere materiale sfumano d'un tratto: la catastrofe dà a Saul intera e non più contrastata quella forza e quella dirittura morale che nel corso della tragedia erano combattute e velate ma trapelavano sicuramente. La catastrofe sgombra le complicazioni del suo carattere, lo rivela in tutta la sua grandezza morale.
Dopo il Saul nacque la Mirra (1784-1787), in cui l'Alfieri si espresse ancora una volta potentemente, ma senza uguagliare l'opera dove aveva riassunto il suo mondo di passioni assediatrici implacabili e dispotiche dell'animo.
È, come il Saul, una tempesta della volontà risolta con una funebre vittoria. Incoerenze, silenzi, parole esitanti tradiscono via via quella volontà che lotta invano. Qualche grido sfrenato e qualche parola incauta è tutto quello che giunge sulla scena della silenziosa lotta di Mirra figura muta e tristissima, accarezzata segretamente da una mano misericorde.
Era naturale che con la sua tempra l'Alfieri trovasse la sua materia e i suoi atteggiamenti nella morale romana, rettilinea e fiera; nella saggezza e rettitudine plutarchiana; nei miti greci che sommovono i fondi più paurosi del destino umano; nella ferocia barbara; nella proditoria freddezza delle Signorie; nell'indeprecabile vendetta del Dio ebraico; e che si formasse uno stile ferreo, angoloso, congestionato, una tecnica torrenziale e tagliante, che, nei momenti d'ispirazione, produce effetti grandiosi, e, dove questa vien meno, si sgretola in un linguaggio forzato e stridente.
Disgusti e antimilitarismo
in Vittorio Alfieri
Alfieri è figura complessa. Dopo la fortuna risorgimentale, dovuta all’immagine tramandata da Ugo Foscolo ne I sepolcri e alla influenza che ebbe su Giacomo Leopardi la fortuna critica si affievolì. Non c’è oggi autore meno letto, meno compreso e amato di lui, soprattutto nelle scuole. L’inquietudine, la ricerca di una identità che sono un segno precoce del conflitto romantico ideale-reale, si traducono in ricerca di una Patria ideale. Il potente senso di solitudine e di sradicamento fanno avvertire Alfieri vicino e attuale. Maturato in un ambiente nobiliare dei più arretrati, egli non riuscì mai ad inserirsi in maniera propositiva su un terreno di azione concreta. Il suo è un antipoliticismo che lo porta a non comprendere i contemporanei e a non esserne compreso. Percorre tutta l’Europa, prendendo contatto con i centri più importanti e vivaci della società europea; ma tali frenetici spostamenti non riescono a colmare la sua insoddisfazione, la sua ansia di ricerca di una Patria dove vivere in libertà, e contribuiscono a riaffermare il suo isolamento. Vittorio Alfieri non era avulso dal periodo storico in cui viveva e la sua opera non può essere spiegata al di fuori dell’Illuminismo. L’ansia di rinnovamento e quell’attesa di palingenesi dell’umanità, sotto il segno della razionalità e della libertà, fanno parte di un comune sentire, nonostante quel suo affermare:
ma non mi piacque il mio secol mai.
Tale ansia porta Alfieri a straniarsi dalla piccola Patria, dal Regno sabaudo e dall’Italia contemporanea, per proiettarsi in un futuro Regno ideale. Egli nega l’ottimismo del secolo dei lumi e dà luogo ad un pessimismo cupo e angoscioso, nel quale non c’è posto per la soluzione politica e non può esserci fede in nessuna Rivoluzione, né in quella Francese, né in quella d’America. Ahi, null’altro che forza al mondo dura. Una forza bruta, priva di ogni lume ideale, una violenza del potere che si esprime sotto ogni forma istituzionale, emergono nelle sue tre commedie L’Uno, I Pochi, I Troppi. La violenza viene imposta anche ai personaggi delle tragedie, anche se apparentemente vincitori come Bruto, costretto ad uccidere i propri figli. E la violenza costringerà Alfieri a prendere le distanze dalla Rivoluzione Francese, dopo un primo entusiasmo espresso nella sua ode Parigi sbastigliata. Nel libro, misto di versi e di prosa e intitolato Misogallo _ colui che odia i galli, cioè i francesi _ egli mette in luce il suo odio amaro e la sua impotenza nei confronti della demagogia e della tirannide, in cui la Rivoluzione Francese è sfociata. Questo atteggiamento lo porta ad una sorta di reazionarismo conservatore. Nella commedia L’Antidoto lo scrittore sembra addirittura inclinare verso una soluzione di tipo monarchico-costituzionale all’inglese, sistema che aveva avuto modo di osservare nei suoi viaggi in Inghilterra. La condanna per la tirannica violenza espressa dalla Rivoluzione Francese è ferma, come emerge anche da un episodio della Vita, nel quale Vittorio Alfieri mostra la sua indignazione per la prepotenza militare, subita all’epoca della sua precipitosa fuga dalla Francia, insieme alla contessa d’Albany.
Laonde io addolorato profondamente, scrive, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata, e posta in discredito da questi semifilosofi; stomacato del vedere ogni giorno tanti mezzi lumi, tanti mezzi delitti, e nulla in somma d’intero se non se l’imperizia d’ogni parte.
Oggetto ossessivo della sua arte è la tirannide, che si esprime nella volontà di potenza e con carattere distruttivo e negativo che la conduce ad annientare non solo l’avversario, ma anche se stessa. Il dramma della volontà di potenza raggiunge in Vittorio Alfieri l’espressione poetica più alta. La sua visione della realtà è individualistica, ma pur sempre antidogmatica, antigerarchica e anticonformista spinta a tal punto, che i termini di tirannide e di libertà finiscono per confondersi, per diventare tutt’uno. Il concetto di libertà è dato a priori e sembra riguardare l’individuo e non la società. All’interno di questa ultima, l’uomo non è libero: la libertà può essere conquistata soltanto attraverso l’evasione, i cui mezzi sono il suicidio, o l’isolamento o il tirannicidio. Il discorso di Vittorio Alfieri sulla libertà, nonostante il conservatorismo del punto di approdo, appare di grande interesse e di sorprendente attualità. Se in nessun contesto sociale si può essere liberi, ferma diventa la sua condanna di tutti quegli apparati che fanno da supporto al dispotismo. Questi sono, come viene reso esplicito nel trattato Della tirannide, da individuarsi nelle tre caste: sacerdotale, liberale e militare.
Se la dipendenza da qualsiasi chiesa impedisce la libertà del pensiero, le milizie sono da considerarsi un vero e proprio stato nello Stato che, sotto il falso pretesto della difesa da un presunto nemico esterno, sono impiegate come strumento di oppressione interna, per stroncare qualsiasi forma d’insurrezione. Il discorso sul riscatto da ogni servitù politica, per risorgere a vita civile è accennato nell’Esquisse du Jugement Universel (1773) e ripreso in alcuni punti della Vita, opera essenziale per la comprensione della personalità di Vittorio Alfieri. La Vita è la storia di un processo di formazione che perviene, dopo la dissipazione degli anni dell’adolescenza e della gioventù, ad una conversione morale e poetica, presupposto della concentrazione letteraria.
L’aspirazione alla libertà che caratterizza l’infanzia e l’adolescenza del futuro grande scrittore _ dopo una esperienza nell’esercito, nel 1766, quando ottiene la carica di porta-insegne nel Reggimento Provinciale d’Asti _ porta Alfieri prima ad un intiepidimento verso la vita militare, poi alla ripugnanza assoluta.
E non mi potendo assolutamente adattare a quella catena di dipendenze gradate, che si chiama subordinazione; ed è veramente l’anima della disciplina militare; ma non poteva esser l’anima mai d’un futuro poeta tragico.
Moderna e interessantissima appare oggi questa dichiarazione d’incompatibilità fra uomo di lettere e servitù dello spirito che, come Alfieri dichiarerà nel trattato Del Principe e delle Lettere, è una componente della disciplina, soprattutto militare. Il rifiuto del militarismo si evidenzia fortemente nel viaggio attraverso la Prussia di Federico II, il despota illuminato, tanto odiato anche da Giacomo Leopardi.
All’entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di uno stesso corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria.
L’universal caserma prussiana lo spinge alla fuga, perché quei perpetui soldati, non li posso neppur ora, tanti anni dopo, ingoiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la loro vista mi cagionava in quel punto. Lo stesso senso di ripugnanza che avverte lo scrittore nella visita al campo di Zorendorff, in cui si svolse ad agosto 1758 la battaglia fra Russi e Prussiani, si traduce in odio dichiarato verso tutte le guerre.
Visitai il campo di battaglia tra’ Russi e Prussiani, dove tante migliaia dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per se stesso ed ingrato vi era cresciuto e misero e rado.
Vita e morte, odio per la guerra e l’inutile spargimento di sangue per ragioni di potere, affermazione di pace ci appaiono così insolite in uno scrittore, ancora lontano dalle discussioni e dalle problematiche del nostro secolo.
Ricca di spunti significativi è la concezione alfieriana dell’intellettuale e della libertà di pensiero, come unica condizione alla base di qualsiasi arte. La libertà dello spirito non può sopportare nessuna forma di schiavitù, di asservimento al potere. L’intellettuale cortigiano è ormai superato, ma l’esercizio delle lettere è ancora riservato ad una condizione privilegiata e aristocratica. Una attività intellettuale, intesa come professione tale da garantire l’indipendenza economica di uno scrittore, per Alfieri non è positiva. Egli lascia ai posteri un invito ad essere meno asserviti a qualsiasi forma di potere, ad assumere il coraggio della libertà. Alfieri fu molto amato durante il Risorgimento, perché gli intellettuali trovarono nella sua opera uno stimolo alla funzione civile della letteratura e alla creazione della Nazione, come organismo prima culturale che politico. Nonostante il ripiegamento dello scrittore astigiano, soprattutto nell’ultimo periodo, su posizioni di fatto reazionarie e conservatrici, nel suo pensiero oggi possiamo riscontrare aspetti di forte interesse e positività che gli derivano dal rifiuto di ogni mediocrità, di ogni compromesso. Rinuncia e penosa accettazione dei limiti, che spesso hanno dato adito ad interpretazioni in chiave quasi anarchica. Quella di Alfieri è polemica violenta e decisa contro il conformismo, il servilismo e la cortigianeria. Lo scrittore può essere considerato a buon diritto l’anti Vincenzo Monti e l’anti Pietro Metastasio. Ma è nella poesia che la personalità di Vittorio Alfieri trova il compimento e la sua giustificazione. La sua affermazione libertaria, il prepotente autobiografismo che meglio si esprimono nella forma tragica, sono la vera forza di Alfieri.
Giudizi e testimonianze attraverso i secoli
Il mito biografico dell'Alfieri, poeta per volontà e tenacia, rappresenta il tema dal quale muovono i primi critici alfierani per farne una ragione di elogio all'uomo, ma di grave riserva per l'opera, come fanno Madame de Stàel, Schlegel e, più tardi, Tommaseo e Gioberti. Nell'atmosfera risorgimentale ben si comprende l'ammirazione del Mazzini per la vigorosa personalità morale politica dell'Alfieri, ma anche qui non manca qualche riserva sul carattere aristocratico del disdegno alfieriano.
Pure con un rispetto profondo per il carattere dell'Alfieri io mi permetterò qualche osservazione sulle sue tragedie. Il loro scopo è così nobile, i sentimenti che l'autore esprime sono talmente in armonia con la sua condotta personale, che le sue tragedie debbono sempre essere lodate come azioni, quand'anche si possano criticare sotto qualche rapporto come opere letterarie. Ma mi sembra che alcune sue tragedie abbiano tanta monotonia nella forza quanto quelle di Metastasio nella dolcezza. Nelle tragedie dell'Alfieri c'è tale profusione di energia e di magnanimità, o tale eccesso di violenza e di delitto, che è impossibile riconoscervi il vero carattere degli uomini. Questi non sono mai cosí malvagi né cosí generosi, come egli li dipinge. La maggior parte delle scene mette in contrasto il vizio e la virtú; ma questi contrasti non sono rappresentati con la gradazione della realtà. Se nella realtà i tiranni dovessero tollerare quello che gli oppressi gridano loro in faccia nelle tragedie dell'Alfieri, si sarebbe quasi tentati di compiangerli.
MADAME DE STAEL
Lo stile aspro e spezzato dell'Alfieri è talmente povero d'espressioni figurative, che si direbbe essere i suoi personaggi interamente privi d'immaginazione. Egli voleva dare una nuova tempra alla sua lingua materna, e non fece che spogliarla della sua leggiadria, caricandola di rigidità e durezza. Non pure egli non ha il senso dell'armonia, ma egli manca d'orecchio a segno che ne lacera il timpano colle dissonanze più insopportabili. Certamente la tragedia, per mezzo de' nobili sentimenti ch'ella inspira, deve innalzare la nostr'anima di sopra alla potenza de' sensi, ma non bisogna ch'essa cerchi di spogliare la vita delle sue seduzioni anche più pericolose; e con mostrarci tutti i repentagli che minacciano la virtú, essa fa risaltare la maestà della virtú medesima. Quando leggiamo le tragedie d'Alfieri, ne pare d'essere trasportati in un mondo più tetro e d'un aspetto più dispiacevole. Una finzione in cui gli avvenimenti giornalieri appaiono eccessivamente tristi, ed in cui le insolite catastrofi hanno qualche cosa di terribile, somiglia ad un clima il quale unisse in sé le folte nebbie de' verni del nord colle fiammeggianti tempeste della zona torrida.
Avrebbe il torto chi s'immaginasse che Alfieri abbia dato segno di maggiore accortezza e profondità che Metastasio, nella imitazione de' caratteri; egli presenta la natura umana sotto un aspetto differente, ma del pari interamente uniforme. I suoi personaggi sembrano abbozzati sovra semplici astrazioni, ed egli getta duramente il bianco e il nero l'uno appresso dell'altro. I malvagi palesano, nelle sue tragedie, la loro scelleraggine a volto scoperto; né certamente noi potremmo riconoscerli a questo contrassegno nella vita comune: ma quello in cui l'Alfieri è veramente senza scusa, si è ch'egli non rende amabili i suoi personaggi virtuosi. Quando si vede ch'egli spoglia la sua finzione d'ogni seducente grazia e sino de' semplici ornamenti della favella, si crederebbe ch'ei lo faccia con una severità meditata, per andar più direttamente al suo scopo morale; ma senza dubbio la natura aveva negato i suoi doni più lusinghieri a questo caustico ingegno.
AUGUST WILHELM VON SCHLEGEL
Alfieri sorse, e rigenerò, tormentandola, la tragedia. Ma fu lampo che solca il buio, non luce d'aurora nascente promettitrice d'un dì sereno; e splendette più a mostrarci abbietti, che ad insegnarci la via d'esser grandi. Alfieri, nato di razza patrizia, e in paese non libero, dato per ventisette anni a' pedagoghí ed all'ozio che ne mortificassero l'ingegno, poi costretto a rinnegare ogni libera potenza dell'anima ne' studi grammaticali, filologici, elementari - Alfieri, diciamolo pure animosi, quando la verità scaturisce irrecusabile da ogni pagina delle sue memorie - tragico più per vigore ostinato di volontà, che in forza d'ispirazione spontanea, non potea darci intera la riforma che i tempi volevano. A chiunque vuol farsi riformatore è necessaria la conoscenza piena e profonda di quanti elementi, di quanti mezzi intellettuali, e di quante forze compongono la civiltà del suo secolo, e della sua patria. Alfieri, studiatore indefesso di libri e scrittori appartenenti ad un esclusivo sistema di letteratura e di civiltà, non ne indovinò che i bisogni, non guardò che alla superficie. Venuto a' tempi ne' quali gli elementi della civiltà italiana non aiutati dalle circostanze fermentavano tuttavia occultamente, irato alla inezia e alla snervatezza di letterati codardi, insulsi, venali; impaziente per natura, misantropo per orgoglio, passeggiò per l'Italia come per un cimitero, senza intendere la voce segreta che usciva da quel silenzio, senza sospettare l'esistenza d'un incivilimento, a cui non mancavano che vie di sviluppo, senza intravvedere i caratteri particolari della condizione morale dell'umanità nel suo secolo.
GIUSEPPE MAZZINI
L'Alfieri non seguí le regole aristoteliche del dramma, perché il suo ingegno fosse flessibile a segno di adottare il giogo di Aristotele; ma perché egli trovò quelle regole talmente in analogia coll'indole del suo talento, che non ebbe alcun motivo di discostarsene, e credette di ritrovare nella propria natura la testimonianza della naturalezza di quelle leggi. L'Alfieri però è ben lontano dall'essere un cieco seguace di Aristotele; e se gli tien dietro in tutto quello in cui Aristotele consuona all'ingegno dell'Alfieri, non prova questi alcun ribrezzo di ubbidire di preferenza a se medesimo che al retore greco quando l'uno è in collisione coll'altro. L'unità essenziale dell'azione osservata in tutto il suo rigore è il carattere della tragedia alfieriana. Quello che i Greci avevano fatto condotti dallo stato in cui si trovava l'arte drammatica appo di essi, stato di semplicità, di brevità, di rapidezza conforme allo stato in che erano que' tempi le società, i costumi e la religione, lo fece l'Alfieri indottovi dall'energia della sua volontà insofferente di ogni ritardo, di ogni digressione; talmenteché questa volontà indisciplinata, che disdegnava ogni freno esteriore, ne ebbe però uno grande in se medesimo, quello dell'impazienza e dell'impeto, che gl'impediva di vagare negli accessori e di incurvare tampoco la linea per giungere al punto prefisso. Gli altri tragici moderni amano più o meno le linee curve e serpeggianti per giungere allo scopo della drammatica tessitura; l'Alfieri è il solo che ami la linea retta. Questa sua caratteristica che produce tutte le bellezze delle tragedie alfieriane è altresí la causa principale dei difetti che loro si appongono. Alfieri ha dunque, senza forse saperlo, ubbidendo unicamente alla propria natura, ristaurata la greca tragedia; se non che la tragedia di Eschilo, di Sofocle, di Euripide è sí dal lato della poesia e dei sentimenti, che da quello dei fatti molto più poetici, meno secca e concisa dell'alfieriana. L'unità del tempo e del luogo non sono pure in Alfieri un effetto di pedantismo, né un'imitazione, ma il ritrovato di un ingegno, che nella sostanza delle cose, come in tutte le sue modificazioni agogna alla maggiore ristrettezza e brevità di unità. Se la legge delle unità non fosse stata nata e stabilita al tempo dell'Alfieri, questo scrittore l'avrebbe inventata. In lui si osserva un fenomeno particolare non osservato abbastanza da coloro che vollero filosoficamente discorrere sul talento poetico di quel grand'uomo. Se vi furono alcuni rari, come per esempio Rousseau, in cui un'ardentissima immaginazione e un ardentissimo cuore ispirarono l'intelletto e crearono l'ingegno, l'Alfieri spetta a un'altra tempra di uomini forse ancora più rara, poiché in lui la volontà stessa e il carattere formarono lo ingegno, e furono si forti da poter sopperire all'immaginazione e fare di un uomo, in cui questa facoltà non era sovrabbondante, un poeta, e un poeta grande nel genere suo. Coloro pertanto i quali ascrissero a colpa all'Alfieri il predominio che colla sua tenace volontà volle esercitare sul suo ingegno, quasi che il valore di questo menomato fosse da quella, non ne conobbero tutto il segreto; e non s'avvidero che Alfieri, con minor vigoria di volontà e meno tiranno verso se stesso, non sarebbe riuscito il valoroso tragico dell'età sua, e tampoco il creatore di una tragedia nuova al tutto nella sua specie, e che fa epoca nella storia della drammatica letteratura.
VINCENZO GIOBERTI
L'Alfieri è più pagano dei pagani stessi. Eschilo più affettuoso, Euripide meno sentenzioso di lui. La Mirra, l'Oreste, a' Greci rappresentavan misfatti voluti dal fato in pena d'altri misfatti; ma nell'Alfieri la Mirra, l'Oreste non hanno ragione. Antigone, in Sofocle, si bella di verginità coraggiosa e d'alto martirio, nell'Alfieri ama per far dispetto al tiranno, ama per amore dell'odio. Nell'Agamennone, le due scene dove Egisto consiglia il misfatto son piene di artifizio: ma fredda la moglie, e Agamennone freddo. E quella Cassandra, piena di religione e di sventura, manca; ed in Elettra l'amore e il dolore son rabbia; e la politica guasta e fredda ogni cosa. Osò tentare il Medio evo, e ne trasse una, da lui stesso condannata, Rosmunda. Nel Saulle, la Bibbia lo ispirò, lo ispirarono i dolori e le noie della sua propria vita, Non molta poesia in David, e in Micol: molta nel re. L'Alfieri poteva indovinare tal uomo. E il Saul lo dimostra poeta. Ma l'ira, l'orgoglio, e l'incredulità lo spennarono.
Dalle cose dette parrà ch'io disprezzi l'Alfieri: e l'ammiro. Ammiro quella forte natura ch'esce non intatta, ma vincitrice, del lezzo de' vizi e de' pregiudicii patrizi; ammiro quella volontà pertinace che lo caccia nel forte delle difficoltà, con un furore talvolta non dissimile dalle quiete ispirazioni del bello; ammiro quel continuo intendere alle cose ch'egli stimava utili e grandi, e ad esse posporre non solo gli ornamenti, ma la essenza, talvolta, dell'arte. E sebbene le bellezze della natura corporea, e le gioie dell'universale amore, e l'infinito della fede, egli a sé contendesse, pur seppe dall'angusto campo in cui si rinchiuse trarre poesia quanta vale a mostrare straordinaria forza d'ingegno. E delle sue liriche, parecchie vivranno, perché in esse è l'affetto e il linguaggio poetico. E la Vita, e i pareri sulle tragedie.(opera d'alto senno); e il Saul, con molte scene di molte delle altre tragedie, e qualche scena delle commedie, e qualche satira e qualche epigramma, intessono al poeta una assai ricca corona. Oltre la fede e l'amore mancava all'uomo la scienza; e mancava a tutti i poeti del secolo andato, d'eleganza più o men periti, del resto ignoranti. All'Alfieri mancava inoltre l'esperienza degli uomini non mai da lui conosciuti, se non ne' libri, perché non mai degnati di studio: mancavagli la larga vena del dire; mancavangli i primi studii che indolciscono l'ingegno e la lingua. Però delle prose politiche e del Misogallo e dei poemetti e delle traduzioni la sua memoria va piuttosto grave che ornata; però nelle tragedie stesse il concetto, e quindi la declamazione, tengono spesso il campo; però quel nerbo pare sovente tensione e sforzo; e quella potenza che sempre ostenta se stessa, ben presto affatica. Le virtù cristiane avrebbero e dall'ostentazione e da altri difetti letterari guarito l'Alfieri; e più dai morali, che in lui molti erano; e dissimularli non giova. Disprezzo degli uomini; orgoglio verso i minori; volontà prepotente; insofferenza illiberale; gioia del dolore altrui; aridità; sdegni ingiusti, villani. Ma una scusa egli ha in pronto, e splendida: senti l'amicizia. E in tutte le parti non poteva essere cattivo, chi era in alcune poeta.
Il linguaggio alfieriano della "vita"
La Vita è caratterizzata da un'accesa attualità di rappresentazione, cui dà rilievo in modo particolare il linguaggio e lo stile dello scrittore,. che giungono alla vera.e propria creazione di vocaboli e alla sforzatura violenta degli usuali significati delle parole. Il linguaggio delle tragedie e delle rime rimane pur sempre linguaggio poetico tradizionale, sia pure con una maggiore energia espressiva, mentre nella prosa della Vita l'intento polemico-oratorio si esprime con accenti nuovi e con una vera e propria forza inventiva. Ma tale capacità inventiva è di natura essenzialmente morale, nasce cioè da un atteggiamento oratorio e non da un'autentica esigenza poetica, come fu per Dante. Tuttavia nella Vita, accanto agli squarci oratori e polemici, vanno anche individuati momenti di più raccolta malinconia, di tristezza e solitudine. In ogni caso, però, qualunque accento assuma la prosa dell'Alfieri, essa è sempre dominata e ordinata da una vigile disciplina letteraria.
Come arte di questa Vita, c'è da dire che essa, in ogni momento, esclusa la seconda parte dell'Epoca quarta, è un racconto di una accesa attualità: l'ora, il giorno, l'anno, non vi esistono come tempo cronologico, ma la narrazione è condotta sempre come sì trattasse di tempo presente. Il vecchio presente storico degli scrittori latini, che veniva fuori nei momenti di enfasi epica, è il verbo dissimulato e ideale di tutta la sintassi narrativa dell'Alfieri. Il passato è sempre attualmente vivo, nel momento in cui egli scrive.
A cotesta attualità di rappresentazione dà rincalzo e rilievo lo stesso vocabolario dello scrittore, che non ha nulla di trito e di passivo; ogni parola pare nuova di conio, o esce come arroventata da una fornace in cui tutto il vecchio sia stato calato e colato e fuso. E i critici hanno giustamente parlato di alfierismi. L'Alfieri, il prosatore e lo scrittore di satire, è un violento creatore di vocaboli, e talvolta anche un peccatore contro natura, che farebbe scandalizzare e allibire i grammatici e gli etimologi, poiché egli spesso sforza e perverte i significati delle sue parole. Ciò che dà il senso quasi di una creazione solitaria é tempestosa, all'origine stessa della civiltà letteraria. E questo stesso si accorda con quella natura aborigena dell'uomo e del poeta, di cui si diceva avanti: aborigena, ci si permetta di alfiereggiare un poco anche a noi, non nel senso razzistico o territoriale, ma in quell'altro mitologico o metaforico, come di uomo che non ha altri dietro di sé, che non conosce antenati, che non è immigrato ma autoctono, un generato originariamente in quel mondo e in quella nuvola di idee e di fantasmi, che sono la sua vita, il suo dialogo d'azione e il suo teatro.
«A voler esser brevissimo - scrive egli in una lettera al Calsabigi del 6 settembre 1783 - cosa indispensabile nella tragedia, e che sola genera l'energia, non si può esserlo che usando modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua, ma possono ben parerlo alla lettura per chi non le sa». Lo scrittore non deve mai essere, egli aggiunse, lasso e triviale, e, a dire il vero, tale è l'indole della lingua nostra, « da non mai temere in lei la durezza, bensí molto la fluidità troppa per cui le parole sdrucciolano di penna a chi scrive, di bocca a chi recita, e, con la stessa facilità, dagli orecchi di chi ascolta ». Sono osservazioni queste che l'Alfieri viene facendo a proposito del linguaggio poetico delle sue tragedie, e che si sarebbe tratti ad estendere alla lingua più prosastica della Vita e delle Satire; ma bisogna pur nettamente distinguere sulla maniera alfieriana della tragedia e dei sonetti, e sugli alfierismi veri e propri della poesia e della satira. Il linguaggio delle tragedie e delle Rime, quelle d'amore e della sua solitudine morale, è il linguaggio poetico tradizionale, e il nuovo lì sta nei modi contratti ed energici, mentre gli alfierismi sono l'invenzione é lo sfogo di un bisogno polemíco-oratorio, più che lirico, dello scrittore.
Per cotestí alfierismi, lo scrittore settecentista, inventore violento, e mai sguaiato, di molti modi di dire, si direbbe che avesse un po' della tempra dantesca, quasi per affini necessità storiche: il trecentista creava una lingua, formando ed esemplando il genio dei vari dialetti italiani e del suo fiorentino parlato sulla sintassi del latino e delle lingue provenzale e francese, già avviate nel loro sviluppo letterario; e il settecentista, che sopravviene dopo la barbarie riflessa degli artifizí vacui e sterili del Seicento e delle languidezze e fiacchezze del Settecento, per energia nativa e violenza agonistica di temperamento creerebbe anche lui nuovi modi sul genio di una lingua erculea o drammatizzata come in un vivacissimo e difficoltoso colloquio. Ma il ravvicinamento storico con Dante contiene una verità soltanto apparente, e alla fine risulta illusoria e ingannevole la predicata affinità tra i due poeti: l'Alfieri, prosatore o satirico, scrive una nuova lingua morale, non una nuova lingua poetica. Egli è un polemista e un oratore, e non un lirico; sicché la lingua di lui è ben lontana dal suggerire quell'impressione di pacatezza divina che avvertiamo nel fremito della lingua dantesca, che è quella, nelle stesse parti satiriche o sarcastiche, di un poeta: Sicché resta soltanto una metafora la maniera dantesca dell'Alfieri creatore di un nuovo vocabolario, come soltanto per metafora si dice che nell'Alfieri vi è qualcosa di michelangiolesco per lo sforzo dà lui durato nel tirocinio linguistico e metrico: se Michelangelo è il poeta dello sforzo violento e incompiuto. Si parli pure di sforzo michelangiolesco, ma è uno sforzo quello dell'astigiano talvolta leggermente calcolato. L'Alfieri ebbe qualcosa di troppo umano e sociale nella sua violenza creatrice, essendo egli sempre un po' preoccupato delle impressioni della platea: abbandonandosi a quegli stravolgimenti bizzarri e iperbolici di parole dotte e auliche o di quelle correnti dell'uso quotidiano, si avverte sempre, tra gli interstizi, un sorriso del pervertitore e violentatore estetico. Ciò che è una forma di discrezione e di buon gusto, e di indulgente modestia di uomo tra gli uomini. Lì il superuomo rinnega se stesso, e si apparenta al volgo letterato e ha una certa soggezionaccia dei barbassori dell'università, come egli chiamava i suoi pedanti.
È noto poi che l'ambizione sua fu quella di scrivere una prosa e una lingua toscana, tanto che egli soffrì sempre per un fantasticata incompiuta disciplina di toscanesimo linguistico.
Tutto questo si ricorda per dire che l'originalità artistica della Vita è assai complessa: da un lato c'è la suggestione oratoria degli squarci polemici, che sono la civetteria tragica ed eroica dell'uomo, e dall'altra ci sono i motivi di poesia più ingenua, come quei tratti in cui egli esplora le zone ombrose della sua anima germinale di uomo amoroso e malinconico, o espande il gusto delle corse pazze, del movimento e della velocità, o esalta la sua protervia di volitivo come una forma di uggia, o infine canta la tristezza della sua solitudine selvaggia di nomade europeo. Ma anche là dove prevale il prosatore violento, l'oratore bizzarro, il polemista fantasioso, dobbiamo riconoscere un'alta disciplina letteraria nello scrittore. Tutta l'opera dell'Alfieri, e anche il sue, vivere, tumultuoso ed anarchico nella materia, furono sempre agonisticamente frenati nella forma.
Il "sublime" e la morte nella tragedia alfieriana
Il momento tipico della tragedia alfieriana è quello della catastrofe irreparabile: in questo momento il suo linguaggio raggiunge i toni più alti e nuovi, supera i limiti del gusto settecentesco per approdare al livello del « sublime » che colloca i personaggi al di là dei confini della vita comune, al cospetto della morte. La morte è il grande tema della poesia alfieriana che il critico illustra in alcune situazioni fra le più intense e significative; ma il poeta non si limita a un vagheggiamento stanco e decadente della morte, poiché proprio dinanzi ad essa le figure della sua tragedia esprimono una indomabile vitalità ed energia.
La tragedia alfieriana si presenta al poeta nell'aspetto di una grandiosa irreparabile catastrofe, né a caso, come è stato osservato, le scene più poetíche si trovano di solito negli ultimi atti. Ma per giungere a quella catastrofe, che è il motivo primo e profondo dell'opera, l'autore va congegnando più d'una volta l'azione con un procedimento intellettualistico; più d'una volta il suo linguaggio sotto l'apparente concisione e concitazione si avviluppa in un frasario scolastico e talora, nonostante le intenzioni del poeta, più che drammatico, melodrammatico. Ma quando i suoi eroi hanno dinanzi a sé la visione della propria rovina, la loro parola si fa nuda ed essenziale e la loro figura s'innalza statuaria dinanzi a noi. Risuona in quelle parole il « sublime », aspirazione di tanti critici e lettori del Settecento, il « sublime » che dischiude all'animo lo spettacolo di un mondo senza confini. Dov'è la varia società del secolo, la sua « commedia dell'amore », che sembrava essere l'unico soggetto dell'arte settecentesca? Siamo sbalzati, e non già perché così lo richieda il genere tragico, fuori dai confini della vita di tutti gli uomini; fuori non soltanto dal piccolo mondo settecentesco, ma da ogni mondo terreno, sul limite tra la vita e la morte, poiché gli eroi tutti dell'Alfieri stanno su quel limite, e dal mondo in cui vivere per loro non è possibile, sono condotti ad affidarsi alla morte. «Non posso Esser tua mai; che val ch'io viva?». La morte, è stato detto, è la grande realtà della tragedia alfieriana; per i suoi tiranni il cui regno assoluto e totale non è cosa di questa terra e che sono costretti per ottenerlo a fare il vuoto intorno a sé chiudendosi in una solitudine mòrtale e non trovando in questa solitudine la pace; per i suoi eroi e per le sue eroine a cui la tirannide toglie prima ancora della vita, la volontà di vivere, e nel pensiero della morte trovano un rifugio, un sostegno, un conforto. Non vi è verso nell'opera dell'Alfieri in cui la morte sia nominata, che non palpiti di poesia, quasi che con quella parola il poeta avesse toccato la corda piú intima e più sensibile della propria ispirazione. Quel motivo che sembrerebbe monotono e privo di sviluppi si rivela ricco di infinite risonanze: ché i personaggi nel desiderio della morte liberatrice infondono tutto il loro ardore vitale, le loro passioni, il loro carattere. E le parole di Carlo che ha penetrato l'animo del padre e sa che nulla deve sperare per sé e si presenta nel suo orgoglio di uomo libero destinato al sacrificio, sono differenti dalle parole di Antigone, che nella morte cerca la liberazione dalla vergogna della sua famiglia, la vittoria sul tiranno, e più ancora su se medesima, sulla sua debolezza, sulla sua colpa; e da lei differisce la mite Romilda che alla sua implacabile nemica rivolge l'appassionata preghiera perché l'amato suo morendo sappia che con lui, degna di lui, essa è morta:
Deh! fa che a un tempo anzi il morire ei sappia,
che a forza niuna io non soggiacqui; e ch'io,
degna di lui, sicura in me, trafitta
non d'altra man che della mia, qui caddi:
e qui, chiamandolo a nome spirai;
e dall'una e dall'altra differisce Ottavia, che nulla può attendere ormai se non il supplizio e l'infamia immeritata e pur non sa vincere in sé un istintivo timore della morte desiderata, e volge il suo sguardo sospiroso a Seneca maestro del morire: « La morte, è vero, io temo: E pur la bramo; e sospiroso il guardo A te, maestro del morire, io volgo », e più innanzi nell'imminenza della catastrofe a lui riluttante chiede supplichevole un veleno che la sottragga allo strazio troppo atroce del supplizio

... Da lunghi anni
uso a mirar dappresso assai la morte,
tu stai sicuro; io non cosí; d'etade
tenera ancor, di cor mal fermo forse;
di delicate membra; a virtú vera
non mai nudrita; e incontro a morte cruda
ed immatura, io debilmente armata:
per te, se il vuoi, fuggir poss'io la vita;
ma di aspettar la morte io non ho forza.
E Saul dopo avere vagheggiato come una liberazione dal cerchio chiuso in cui si va rivolgendo, la morte in battaglia per mano dei nemici, cade, grande come mai non è stato, grande di fronte all'insolente vincitore, di fronte a Dio stesso, per mano sua, da re: ma Mirra alla morte guarda per tutta la tragedia con l'angoscia lagrimosa di una fanciulla, sola con la coscienza di una colpa inespiabile, e muore infelice come nessun'altra eroina alfieriana sentendo che vana è stata la sua lotta eroica e vana la morte stessa.
«Maestro», e poeta, «del morire» è dunque anche l'Alfieri, il vate che chiama a nuova vita i connazionali? E' questa di persuasore di morte la parola ultima della sua poesia? Disse il De Sanctis del Leopardi che «non crede al progresso e te lo fa desiderare: non crede alla libertà e te la fa amare; chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto»: una considerazione simile si può fare, mutatis mutandis, per il nostro poeta che del poeta dei Canti è come il maggiore fratello. Non in lui il melodioso lamento del Leopardi, nel quale si effonde la nostalgia invincibile per tutti i beni negati ed essi vi sono fatti in certo qual modo presenti; non il chiaroscuro del Foscolo, che in ogni verso chiude sempre una duplicità di sentimenti, lo strazio e il conforto, e la coscienza tragica della vita sublimata nella poesia dell'armonia; ma una tensione estrema, nella quale si confondono ardore di vita e ardore di morte e lo stesso verso, la stessa parola suonano insieme assoluta disperazione ed esaltazione di una forza eroica più che umana. L'impeto titanico che si incarna nei suoi tiranni non può essere se non distruttore (il titanismo alfieriano ha sempre in sé la coscienza del proprio limite); il furore che trasporta personaggi come quelli dell'Oreste si risolve in un'azione frenetica che a cagione della sua stessa violenza in breve si esaurisce per placarsi infine in una calma funerea; l'amore stesso non è per i suoi personaggi espansione dell'animo, benefico calore che avviva e consola anche se combattuto e doloroso, ma sempre, per Carlo ed Isabella, per Antigone, per Clitennestra, per Mirra, amore vietato, sentimento che essi non possono né fuggire né appagare e che si asside immoto nel loro animo come forza distruggitrice. Eppure l'orrore e l'angoscia di quei drammi non spengono il sentimento tonificante di una singolare energia: così è in ogni tragedia, così nelle sue maggiori, che nel ritmo più ampio e pacato permettono al poeta di dare voce più esplicita e più chiara a quel che nelle precedenti era indistinto e puntuale. Perciò Saul suscita insieme la nostra pietà e la nostra ammirazione: se vani e incoerenti sono i suoi atti e si esauriscono in puri gesti, noi sentiamo in quegli atti, in quei gesti di una volontà spezzata, un'energia unica, la quale avrà la sua apoteosi quando tutto sarà caduto intorno al re ed e-gli affermerà la propria grandezza nel suicidio; e Mirra, che invano combatte contro un sogno peccaminoso, invano si dibatte per nascondere la sua colpa, incapace ormai di salvarsi vivendo la vita degli altri uomini, destinata fin dal principio alla disfatta, dimostra in quella lotta un eroismo del quale essa stessa in qualche momento si esalta. Non è certo dell'Alfieri un decadentistico vagheggiamento della morte, dell'angoscia, del nulla: non cerca egli e non cercano i suoi eroi un'evasione, bensì la loro disperata negazione è ancora un'affermazione di vita.
Individualismo e passionalità della tragedia alfieriana
Non nel Parini, ma nell'Alfieri, afferma il Croce, è il primo evidente segno di un rinnovamento nella letteratura italiana. L'individualismo esasperato e la violenza estrema delle passioni che sono alla base della sua ideologia e del suo atteggiamento di fronte alla vita contribuiscono a fare dell'Alfieri uno scrittore "protoromantico", assai vicino ad analoghe correnti e figure delle altre letterature europee; mentre lo tiene al di qua di un'autentica spiritualità romantica l'assenza di un senso religioso della vita e di un concreto interesse per le vicende particolari della storia. La tragedia alfierana è tutta alimentata dal furore della passione e da una inflessibile energia di propositi: di qui il suo stile che appare come il rovesciamento del linguaggio metastasiano, la sua parola che cade sulla pagina non come suono ma come azione; di qui, infine, il carattere essenzialmente oratorio più che intimamente poetico dell'opera dell'Alfieri.
È stato talvolta segnato l'inizio della nuova letteratura italiana nel Parini; ma il Parini è di mente e d'animo uomo del Settecento, del periodo razionalistico e delle riforme; e settecentesca sebbene elegantissima è l'arte sua, didascalica e ironica nei suoi toni maggiori, erotica e galante nei minori. Il vero inizio (quando si guardi al moto delle idee e alla qualità dei sentimenti) è in Vittorio Alfieri, che tocca corde le quali vibreranno a lungo nel secolo decimonono, dal Foscolo e dal Leopardi fino al Carducci: in Vittorio Alfieri, che io non posso considerare se non come strettamente affine ai contemporanei Sturmer und Drànger di Germania, i quali s'ispirarono come lui alle pagine di Plutarco e risentirono profonda l'efficacia del Rousseau, neanche a lui estranea. Al pari degli Sturmer und Dranger, egli è fortemente individualista; e individualismo è il suo amore per la libertà e il frenetico odio alla tirannia, così indeterminato nel suo contenuto politico, perché egli aborre con la stessa risolutezza re e demagoghi e patrizi di repubblica (l'«oscena libertà posticcia» di Venezia e le «sessanta parrucche d'idioti» di Genova), e non cerca nella sua vita altro stato, e non persegue nella sua arte altro ideale, che quello del «liber'uomo», che possa cioè muoversi, parlare, operare, attuare il proprio pensiero e la propria vocazione, non oppresso e soffocato da veruna forza estranea, non contrastato o impacciato da verun ostacolo. Come gli altri consapevoli o inconsapevoli roussoviani, moventi all'assalto delle bastiglie morali, le sue passioni sono estreme per violenza; e, quasi per dar loro qualche lenimento, egli ama la solitudine, si abbandona con voluttà alla malinconia, sente l'incanto degli spettacoli naturali, delle montagne, delle acque, delle spiagge. Il freddo intellettualismo, e Voltaire che lo rappresenta, gli ripugnano, e non sopporta il «lepido stile», la leggiera e facile prosa degli illuministi, ben adatta alla divulgazione, ma che per ciò appunto a lui sembrava che prostituisse « la viril nostr'arte ». E se egli non è tutto Shakespeare, come erano i suoi affini tedeschi, se presto intermise la lettura che aveva cominciata di quel poeta, non è già perché esso non gli piacesse, ma anzi perché gli piaceva troppo: «quanto più (scrive) mi andava a sangue quell'autore, tanto più me ne volli astenere»: cioè per non correre il rischio d'imitarlo, e per serbarsi spontaneamente shakespeariano.
Si deve dunque, a mio avviso, considerare l'Alfieri come un protoromantico: il che non vuol dire propriamente romantico, come ora si è preso il vezzo di chiamarlo, confondendo ben distinti periodi spirituali. Del romantico all'Alfieri mancarono tratti essenziali, li ansia religiosa sul fine e il valore della vita, l'interessamento per la storia, e il compiacimento per gli aspetti particolari e realistici delle cose. Anche la sua autobiografia sta sulla linea delle confessioni alla Rousseau, ricca di passione e scarsa di senso storico cosí rispetto al proprio tempo come alla sua vita medesima. Di questo suo limite, e della incapacità a ritrarre come diceva, «la vera e scalza triste natura nostra», la patologia individuale e sociale, ebbe consapevolezza. «E carmi e prose in vario stil finora lo scrissi, abil non dico, ardimentoso; Storie non mai...». L'epica, l'oratoria, la tragedia, la filosofia cioè le riflessioni morali e politiche: ecco il suo campo: «Arti tutte divine; in cui, ritratto L'uom qual potria pur essere, s'innalza Al ciel chi scrive e il leggitore a un tratto».
Tale, all'incirca, la collocazione dell'Alfieri nella moderna storia mentale e morale. Ma per intendere e giudicare l'arte di lui, per risolvere il quesito, anch'esso storico, del suo svolgimento estetico, bisogna farsi presente la particolare conformazione di quell'anima. Perché l'Alfieri, prima che poeta o al tempo stesso che poeta, era uomo di passione cosí ardente («furore» è la parola che più spesso torna nelle sue pagine) da rivolgersi diritto all'azione e alla pratica, guidato da inflessibile fermezza di proposito. Azione e pratica, la quale certamente non si attuava altrove che nella parola e nelle carte, ma azione era nondimeno, se tale è essenzialmente l'oratoria. L'anelito alla libertà e l'aborrimento per la tirannia gli avevano ingenerato nell'immaginazione un fantasma pauroso, il Tiranno, che non è già un fantasma poetico, ma un incubo passionale, una sorta di condensazione della più nera nequizia umana, che ha luogo in un determinato individuo non si sa perché, se non forse per incoercibile potere di attrazione e agglomeramento. Sono colpevoli i suoi tiranni? Non si oserebbe affermarlo; o non più colpevoli, certo; di chi ha la disgrazia di essere preso da un'infezione, dall'idrofobia o dal tetano. «Ah forse voi dite il vero!» - esclama il tiranno Timofane verso i suoi congiunti ed amici, che procurano di richiamarlo ai doveri del cittadino -, «ma non v'ha più detti, E sien pur forti, che dal mio proposto Svolger possanmi omai. Buon cittadino Più non poss'io tornare. A me di vita Parte or s'è fatta la immutabil, sola, Alta mia voglia: di regnar... Fratello, tel dissi io già: corregger me sol puoi Col ferro: invano ogni altro mezzo...». Un altro di queí tiranni, Polifonte, nella Merope, - anche lui non figlio, non sposo, non padre. «tutto tiranno», che non vede «altro che regno», - sospira alla fine del primo atto, stanco sotto il cumulo della sua propria ineluttabile malvagità: «Oh quanta è impresa il mantenerti, o trono!». Ad abbattere con un colpo di mazza ferrata il Tiranno, tanto più a lui odioso perché - se lo rappresentava in modo da dovergli riuscire necessariamente incomprensibile, l'Alfieri costrusse la sua tragedia, nella nota forma, senza confidenti, senza episodi, senza intermezzi di amori, scheletrica, precisa e rapida come una macchina, tagliente col ben noto stile. Stile che ha anch'esso del proposito, dell'intestamento; della fissazione; e poiché egli non tollerava, come si è visto, la lepidezza e la leggerezza della prosa illuministica, e poiché gli moveva nausea la correlativa poesia cantarellante di quel tempo, che in Italia, e non solo in Italia, era la metastasiana, il suo dramma e lo stile di esso sono il rovescio violento del melodramma metastasiano (come ebbero già a notare, credo pei primi, la signora di Staél e Guglielmo Schlegel); e le cabalette e ariette, con cui i suoi personaggi, al pari di quei del Metastasio, palesano se stessi, stridono in digrignamenti di denti e suoni aspri e rotti. E quando per avventura la sua ira si volge al sarcasmo e all'irrisione, come nelle satire e nel Misogallo, il cipiglio tragico si cangia in comico, ma resta pur sempre cipiglio: onde quel suo coniare, nel furor comicus, vocaboli grotteschi, parole bizzarramente composte o stranamente diminutive, e versi duri e ferrei non meno di quelli delle tragedie.
Non è a dire che, ammesso quel proposito, l'Alfieri non costruisca con vigore e sapienza; ma ciò che costruisce non è nel suo intimo poesia, è oratoria appassionata. Si ricorderanno le sue grandiose esortazioni e le invettive, com'è quella di Virginio nella Virginia:
O gregge infame di malnati schiavi;
tanto il terror può in voi? l'onore, i figli,
tutto obbliate per amor di vita?
Odo, ben odo un mormorar sommesso;
ma niun si muove. Oh doppiamente vili!
Sorte pari alla mia, deh! toccar possa
a ognun di voi; peggior, se v'ha: spogliati
d'aver, d'onor, di libertà, di figli,
di spose, d'armi, e d'intelletto, torvi
possa il tiranno un dì fra strazio lungo
la non ben vostra orrida vita infame,
ch'or voi serbate a cosí infame costo...
dove l'oratoria è altamente concitata, e nondimeno quel personaggio non è poetico. E perfette sono due delle sue tragedie, dal comune consenso dei critici più lodate, il Bruto I e il Bruto II: due saldi strumenti d'acciaio ben temprato e brunito: due di quei lucidi spadoni da carnefice che si vedono nei musei. Ma la poesia non è ordigno di acciaio. E le infinite e noiose dispute dei critici sul metodo adatto o disadatto seguito dall'Alfieri nelle sue tragedie, e le differenze notate verso il sistema greco o inglese e le somiglianze col francese, sono fallaci o superflue. Il difetto, come sempre in siffatti casi, non consiste nella tecnica tragica o altra simile cosa immaginaria, ma nella sostanza poetica.
La struttura della tragedia alfieriana
La pagina di Lukàcs sull'Alfieri rientra nella complessiva trattazione che il filosofo e critico ungherese compie dei caratteri generali della tragedia, che è per lui essenzialmente conflitto fra ordinamenti sociali. In questa prospettiva, prendendo come esempio la Mirra, Lukács, mentre nota la profondità con cui l'Alfieri tratta il conflitto psicologico e morale della protagonista, la coerenza del personaggio, la linearità e l'essenzialità dello svolgimento della vicenda, tuttavia osserva come l'opera manchi, in realtà, di vero carattere e interesse drammatico proprio a causa dell'argomento troppo esclusivamente psicologico e soggettivo. In esso non c'è scontro di figure, di situazioni; anzi una sola situazione, quella della lotta interiore di Mirra contro il proprio sentimento colpevole, viene prolungata con abilità dal poeta fino alla rivelazione finale e alla catastrofe, che costituisce l'unico, limitato momento drammatico della tragedia.
Vittorio Alfieri è un tragediografo di profondo pensiero teorico. Disdegna ogni effetto che non risulti direttamente dall'essenza tragica dell'argomento di volta in volta trattato. Ora, affrontando a sua volta il tema del perventimento sessuale, la fatale passione della figlia per il padre I, egli lascia da parte tutte le conseguenze di carattere generale dell'amore proibito che cerca di superare questi ostacoli. Egli rinuncia a tutti quei mezzi con cui l'istinto spontaneamente drammatico di Ford conferiva alla sua materia un'azione apparente, una tensione apparente. Vittorio Alfieri vuol rappresentare davvero in forma drammatica il conflitto psicologico e umano della passione perversa, dell'amore incestuoso. I suoi intenti sono anche qui puri e grandi; ma qual è il risultato nella tragedia stessa? In breve: egli converte tutto il dramma in un monologo represso. Descrive, in modo molto giusto e drammatico, la sua eroina come dotata di nobili e delicati sentimenti morali, come inorridita dalla sua stessa passione, a cui però soggiace irresistibilmente nonostante la sua eroica ribellione. Durante l'intera tragedia vediamo questa nobile creatura lottare interiormente contro un oscuro e indeterminato destino, prendere una risoluzione insensata dopo l'altra per soffocare in se stessa la passione a tutti taciuta e nascosta, della quale abbiamo soltanto un vago presentimento e il cui oggetto non viene mai svelato. Finché da ultimo Mirra, minacciata dalla maledizione del padre amato, si tradisce involontariamente di fronte a lui e col suicidio, compiuto subito .dopo, pone termine al suo tormento.
Dal punto di vista drammatico Alfieri è superiore a Foíd in quanto colloca al centro dell'opera il conflitto reale, intimo e tragico, delle passioni perverse e su di esso, e su di esso soltanto, costruisce la sua azione drammatica. Proprio cosí facendo, però, egli rivela il carattere profondamente antidrammatico di ogni argomento del genere. L'unico momento veramente drammatico nel suo dramma non può essere che l'estrema confessione di Mirra, la cui portata scenica, peraltro, non va oltre, a rigore, una rivelazione mezzo balbettata, un grido di orrore del padre e quindi il suicidio di lei. Tutto il resto è soltanto preparazione, è soltanto un rinviare abilmente ripartito.
Caratteri della tragedia alfieriana
Contro la tradizione della tragedia classica, tutta conclusa nell'ultima scena, nell'ultima battuta, l'Alfieri adotta la soluzione "aperta" della tragedia barocca, che prolunga la tensione drammatica o in un'azione futura o su una tragica solitudine d'anima. Proprio questo tema della solitudine dell'uomo, dell'urto tutto risolto entro i confini dell'anima, danno vita ai due capolavori, Saul e Mirra. Un'esasperata esigenza di interiorità, un'ansia magnanima di grandezza, una virile tempestosa malinconia segnano i tratti più vigorosamente poetici di tutta l'opera alfieriana e spiegano perché, nelle tragedie, ali eroi appaiano scialbi simboli di ideali generosi ma vaghi, mentre l'anima alfieriana trova la sua espressione più autentica nella cupa grandiosa tetraggine dei tiranni. Cosí le Rime nella storia della tragedia alfieriana si pongono come un primo momento di esperienze espressive, tanto esse prendono origine da situazioni drammatiche, mentre offrono ai momenti più alti della tragedia il risultato di un continuo vigoroso esercizio di linguaggio lirico.
Mentre la tragedia classica, raciniana, si concludeva in sé, era l'immagine di un universo chiuso e quindi aveva una effettiva unità, la tragedia barocca - forse anche per evadere in qualche modo dagli schemi aristotelici - fa supporre, oltre l'azione rappresentata, un al di là, una continuazione della vicenda oltre il calare del sipario. ("Laisse faire le temps, ta vaillance et ton roi" è la famosa battuta finale del Cid ). Potremmo dire che alla forma chiusa classica si oppone una forma aperta: proprio quella che consente all'Alfieri di prolungare al di là della scena, in angoscia più drammatica perché più misteriosa, la tensione tragica delle più alte fra le sue prime tragedie.
Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio...
Ecco, piena vendetta orrida ottengo;...ma, felice son io?... (Filippo)
- O del celeste sdegno
prima tremenda giustizia di sangue,...
pur giungi, alfine... Io ti ravviso. - Io tremo. (Antigone)
Oreste, vivi: alla tua destra adulta
quest'empio ferro io serbo. In Argo un giorno,
spero, verrai vendicator del padre. (Agamennone)
... Ahi misero fratello!...
già piú non ci ode;... è fuor di sé... Noi sempre,
Pilade, al fianco a lui staremo... (Oreste)
Ho il ferro ancor; trema: or principia appena
la vendetta, che compiere in te giuro. (Rosmunda)
Te preverrò. - Ma l'altre età sapranno,
scevre di tema e di lusinga, il vero. (Ottavia)
Negli ultimi quattro esempi la tragedia si chiude non concludendosi ma introducendo chiaramente un'altra azione drammatica (la vendetta di Oreste, la catarsi del vendicatore, il tormento dei due coniugi legati dal delitto e dall'odio reciproco, il suicidio di Seneca e il suo messaggio ai posteri). Nei primi e più alti esempi (come poi nel Don Garzia) il sipario invece cala non su un nuovo e necessario episodio, ma su una solitudine desolata, su un silenzio raggelato più tragico di qualsiasi aspra vicenda («scioglimento... il più terribile a chi ben riflette: poiché a Creonte... non rimane che l'odio di Tebe, la reggia desolata e deserta, il regno mal sicuro, e l'ira certa, e oramai da lui temuta, dei numi» notava già a proposito dell'Antigone l'Alfieri stesso scrivendo a Ranieri Calsabigi). All'apertura di una nuova azione si sostituisce l'apertura su un'anima, che l'episodio rappresentato ha lasciato sola con se stessa, a misurarsi con se stessa. Sembra che l'Alfieri dalla tradizione della tragedia barocca elegga proprio questa forma, aperta ed enigmatica, per affacciarsi al buio squallore di anime sole colle loro vendette e coi loro odi, sole nella morsa implacabile di passioni sconfinate e dispotiche. Non ha ancora identificato quello che sarà il tema più suo, cosí nella tragedia come nella lirica: la solitudine dell'uomo con se stesso, insieme bramata e aborrita. Quando lo intuirà, quando da una suggestione sottintesa e affidata soltanto come un suggerimento alla fantasia del lettore, passerà a una rappresentazione esplicita, allora nasceranno i due riconosciuti capolavori del teatro alfieriano, Saul e Mirra. L'azione sarà allora tutta raccolta entro un'anima; e l'urto non avverrà piú fra personaggi diversi ma fra le passioni, le perplessità, le ambivalenze di una sola tormentatissima anima, di un personaggio di immane forza spirituale, al di là dei confini mediocri dei comuni mortalí. Il superamento delle esitazioni, dei compromessi, degli egoismi, delle viltà, anche se raggiunto attraverso la morte, rappresenterà - nel re empio-superbo e nella fanciulla empia-innocente - una catarsi solenne e conclusiva («L'Alfieri è riuscito - già notava il Gioberti - a dipingerci un tiranno che sente ripiombare su di se stesso la propria tirannide»).


Oh figli miei!... - Fui padre.
Eccoti solo, o re; non un ti resta
dei tanti amici, o servi tuoi. - Sei paga,
d'inesorabil Dio terribil ira?
............... - Empia Filiste,
me. troverai,. ma almen da re, qui... morto. - (Saul)
Oh Ciniro! ... Mi vedi...
presso al morire... Io vendicarti... seppi,...
e punir me... Tu stesso, a viva forza,
l'orrido arcano... dal cor... mi strappasti...
Ma, poiché sol colla mia vita... egli esce...
dal labro mio,... men rea... mi moro...
..................Quand'io....tel... chiesi,...
darmi... allora,... Euricléa, dovevi il ferro...
io moriva... innocente;... empia... ora... muojo. (Mirra)
Dalla forma aperta l'Alfieri torna cosí alla forma chiusa e conclusa, classica e neoclassica, attraverso una sublimazione in certo modo lirica della tragedia: una sublimazione che è insieme l'ideale approdo del suo lungo e difficile esercizio drammatico e il punto più alto del suo messaggio poetico.
Come nella vita l'Alfieri mirò a un ideale di bellezza eroica, cosí nella sua opera di scrittore puntò decisamente verso un'assoluta intimità drammatico-lirica, in cui l'anima dell'uomo, cioè la «sua» anima, fosse non tanto al centro dell'uníverso, quanto l'universo stesso. Ed è proprio nel rigore col quale perseguí questa sua vocazione che egli, come tutti i grandi artisti, pur vivendo la tradizione culturale del suo tempo, la trascese risolutamente: non perché romantico o protoromantico, ma per il suo potente e prepotente temperamento poetico. La solitudine dolorosa ed eroica, la malinconia patetica ma virile (mai romanticamente languida), l'ansia di grandezza e di magnanimità in ogni campo: insomma tutti gli accenti più alti dello scrittore risalgono a questa risoluta fedeltà, a questa esclusiva attenzione ai problemi dell'anima, della «sua» anima. «Je suis moi merce la matière de mea livres... chaque homme porte la forme entière de l'humaine condition» è l'epigrafe che l'Alfieri, con parole del «familiarissimo» Montaigne, avrebbe potuto scrivere in fronte alla sua opera. E di fatti anche le pagine apparentemente più lontane da questa vocazione (i trattati politici, le commedie, le satire...) valgono soprattutto come sforzo dello scrittore di chiarire, attraverso un distacco oggettivo o una trattazione teorica, certe pieghe di sé a se stesso drammaticamente.
L'attenzione alle esigenze sempre esasperate della personalità dell'Alfieri si pone cosí come la condizione prima anche per «saper leggere» la sua poesia. Il clima procelloso o pateticamente abbandonato delle pagine più inobliabili della Vita, gli accenti più elevati e più solitari delle rime, i personaggi più forti e suggestivi e la originalissima costruzione delle più caratteristiche tragedie, appaiono ineluttabilmente determinati e imposti da quelle esigenze interiori. Gli eroi, che l'Alfieri porta sulla scena, sono, in generale, al confronto dei tiranni, scialbi e convenzionali o teatrali e eccessivamente altisonanti; proprio perché in essi soprattutto si drappeggia la proclamazione di idee generose ma vaghe, e si gonfia lo sfogo di sentimenti scomposti e falsati dalla retorica politica. Nei loro antagonisti, invece, si riflette l'animo appassionato ed eccessivo, tempestoso e contraddittorio del poeta, tagliato nella stessa stoffa sovrumana dei tiranni, degli uomini nati a grandi cose, virtuose e empie, e ombreggiati sempre da una tristezza della potenza, di sapore tassiano e moltoniano. («La cupidità del tiranno non è di ricchezze, la quale è vilissima cupidità, ... ma è cupidigia di comandare, la quale suole esser fondata sovra la grandezza de l'animo... e chi aspira alle cose malagevoli è di grand'animo»: Tasso, Il forno, 102; I red. 126).
Esasperata esigenza di intimità anche nella costruzione delle tragedie più originali e più alte: Filippo, Clitennestra, Saul, Mirra - i suoi eroi più grandi perché più soli - chiudono e dibattono nel mistero della loro anima tutto il dramma: le azioni che si svolgono attorno non hanno che il valore di episodi scelti per dar rilievo teatrale alla loro desolazione interiore. Anzi le studiatissime elaborazioni cui lo scrittore sottopose le sue tragedie mirano, in generale, proprio a liberarle di ogni ingombrante riferimento esterno, a ridurre risolutamente l'«ambiente»: mirano cioè alla rappresentazione di una solitudine esasperata e alla conquista di una violenta intimità, le due caratteristiche massime del teatro alfieriano.
Non a caso del resto l'esperienza più propriamente lirica, quella delle Rime - questo «giornale» segreto cui giorno per giorno l'Alfieri affidava le notazioni più rapide e più immediate della folla di « occasioni » che caratterizza il suo esercizio di artista -, si pone proprio come il banco di prova, il punto di passaggio obbligato tanto per il narratore della Vita che per il poeta delle tragedie. E quel tono smisurato, ignaro di qualsiasi semitono morale e sentimentale, quel linguaggio rapido e intenso, quasi un parlare prorompente, quel fremere, quel furore - cioè i caratteri che sono stati identificati come i più originali e i più continui della scrittura dell'Alfieri nei suoi vari momenti - discendono da questo rigore lirico, immane e categorico.
Il rapporto, a prima vista così suggestivo, tra la Vita e le Rime - che potrebbe richiamare quello fra lo Zibaldone e i Canti, unico nella storia della nostra poesia - è infatti un rapporto insolitamente rovesciato proprio per la prepotenza dell'esigenza lirica: la notazione in versi, la trasfigurazione degli episodi ha preceduto la narrazione autobiografica. Non si può respingere l'impressione che l'Alfieri, quando volle narrare di sé in prosa, abbia trovato, nelle Rime e nelle note che le accompagnano, una traccia generale e suggestive filigrane particolari.
Nella storia della tragedia alfieriana le rime rappresentano, in certo modo, il libro segreto in cui fermare le prime idee e le prime impressioni, in cui riporre il ricordo dei vari moti dell'anima, in cui saggiare il linguaggio più nuovo, in cui tentare i primi impasti di colore. E se queste note sono spesso nei sonetti ancora incerte, provvisorie, grezze, non è difficile scorgervi le filigrane più preziose del mirabile ordito delle tragedie.
Ma d'altra parte lo stesso linguaggio delle rime è tanto dominato e quasi tiranneggiato dal temperamento eccessivo e drammatico dello scrittore, da tendere - come ho dimostrato al altrove - quasi sempre a un'intonazione coturnata, a una spezzatura teatrale, a una violenza. tragica. I sonetti si pongono, sí, come il primo e più geloso momento nella genesi delle tragedie, ma spesso appaiono folgorati e attratti dal miraggio di quel clima eroico e sovrumano: e spesso nascono da un drammatico urto di sentimenti e di passioni in contrasto, da concitati dibattiti interiori, da furori eroici e da sdegni morali impennantisi su debolezze e incertezze sempre in agguato.
Come i momenti più alti delle sue tragedie, per la loro categorica intimità, ricorrono naturalmente a un linguaggio lirico, così le sue rime più inobliabili muovono prevalentemente da situazioni e da atteggiamenti drammatici, in atmosfera tragica. Tragedia, lirica, autobiografia si staccano da quell'unica ricca, generosa matrice sentimentale che abbiamo definito con le amate parole di Montaigne: se ne staccano non quali contemplazioni di se stesso, ma come prorompenti rivelazioni, folgorazioni abbaglianti, impeti di furore. Il riflettersi continuo dei modi dell'una forma in quelli dell'altra, non è effetto di una consuetudine tecnica, quanto espressione di una necessità di fantasia: della suprema «ragione» teatrale dell'Alfieri scrittore, dell'Alfieri «poeta dei gridi dell'anima».
LA POLEMICA ANTIDOGMATICA DELL'ALFIERI
La polemica che occupa il centro dello spirito alfieriano è empiricamente duplice, sostanzialmente una e colpisce contemporaneamente il dogmatismo cattolico e l'assolutismo monarchico.
Occorre distinguere nel pensiero alfieriano la critica al cattolicismo dalla critica alla religione: posta questa legittima e necessaria distinzione, la polemica alfieriana è tutta coerente e chiara; le poche contraddizioni che non si aboliscono per questa via si giustificano come frammentarie digressioni suggerite da motivi artistici: il famoso sonetto «Alto, devoto, mistico, ingegnoso» che muove da alcuni veri e propri concetti religiosi dell'Alfieri, degni di speciale discussione, rappresenta poi nei suoi accenti più cattolicamente ortodossi il risultato di un episodio di seduzione esercitata da un misticismo estetizzante del culto. E non è problema che qui importi discutere, ossia non rientra in sede di teoria della religione l'atteggiamento pratico attenuato e conciliante che egli assunse durante la Rivoluzione francese verso persone e cose del culto: che per reazione all'ottusa antireligioneria gallica egli sia stato tratto a considerare i Papi, e insieme i Re, quali parapeggio: questo è problema di empirismo storico che si deve discutere solo quando si voglia tessere la cronaca o la biografia esterna dell'Alfieri.
Il documento più importante del pensiero alfieriano sul cattolicismo è il capitolo VIII del libro I Della Tírannide che nel suo significato centrale racchiude la negazione della vecchia ontologia.
Critica il monoteismo con criteri politici esclusivistici e limitati, ma contemporaneamente affaccia la distinzione tra cattolicismo e cristianesimo, distinzione profondamente romantica e filosoficamente notevole per la sua immediata fecondità ideale; è quasi l'implicito riconoscimento del valore etico dell'atto che dà vita alla creazione religiosa e nell'Alfieri, contemporaneo agli enciclopedisti e ai catechisti laici, dimostra una singolare inquietudine spirituale e una profonda coscienza dei massimi problemi...
I paladini francesi dell'incredulità avevano volte le loro critiche e i loro sarcasmi all'ingenuità superstiziosa delle credenze popolari: con ciò avevano creduto di stroncare religione e cattolicismo. L'Alfieri aveva accolto nella giovinezza, respirandoli col sensismo ch'era nell'aria, alcuni di siffatti motivi, ma rimase così lontano dallo spirito degli enciclopedisti (ritenuti sue fonti dal pregiudizio corrente) che invece dei germi dell'astratta critica intellettualistica e delle sottigliezze razionaliste ha svolto dalle sue premesse una concezione integrale e unitaria della realtà.
La sua critica al cattolicismo significa perciò critica al dogmatismo sterile, che si è sostituito alla esperienza religiosa, condanna della fede divenuta convenzionalità, della morale irrigidita nella precettistica, dello spirito falsificato nello schema.
Nel suo ardore libertario la lotta contro il dogmatismo cattolico è lotta contro il Medio Evo, ossia contro una tradizione esausta che è presente solo per soggiogare le menti con un esempio diseducatore di passività.
La sua negazione si rivolge contro la Chiesa, non contro lo spirito religioso e muove sostanzialmente da un'intima religiosità, superiore al principio criticato.
Nella storia delle affermazioni teoriche dell'irreducibile contrasto tra la Chiesa e lo Stato nazionale, dal Machiavelli al Vaticano e lo Stato di G.M. Bertini, l'Alfieri si inserisce con piena coscienza attingendo ai motivi di speculazione più concreti.
Il Papa, l'inquisizione, il purgatorio, la confessione, il celibato: ecco le basi antiumane che costituiscono il cattolicismo e che bisogna demolire. Esaminiamo partitamente la dimostrazione alfieriana dell'inaccettabilità di questi concetti e di questi istituti...
Nella negazione del Papa è implicita la negazione del dominio temporale, come risulta da questo epigramma:

Sia pace ai frati,
Purché sfratati; E pace ai preti,
Ma pochi e queti, Cardinalume
Non tolga lume,
Il maggior prete
Torni alla rete.
Il papa è papa e re
Dessi aborrir per tre.
I popoli soltanto per ignoranza e per timore possono credere esservi un uomo «che rappresenti immediatamente Dio; un uomo che non possa errar mai; ora l'ignoranza è l'antitesi della libertà e il timore, non potendo essere ispirato dalle scomuniche, attesta chiaramente che dove è il pensiero del Pontefice, là è il tiranno, dove vi è dommatismo religioso, là vi sono spade a sostenerlo». Mentre le credenze meramente astratte e prive di pratica influenza (come la Trinità) sono da ritenersi poco nocive anche se irrazionali, «l'autorità illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro ammanto della religione importa molte e notabili conseguenze; tali insomma che ogni popolo, che crede o ammette una tale autorità si rende schiavo per sempre». E per mettere bene in luce l'immoralità della credenza l'Alfieri disegna minutamente il processo antieducativo attraverso cui essa si sviluppa nella sua piena logica. Un popolo sano e libero che accetti la credenza nella infallibile e illimitata autorità del Papa «è già interamente disposto a credere in un Tiranno, che con maggiori forze affettive, e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel Papa stesso, lo persuaderà o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo Papa nelle religiose».
Il cattolicismo comincia con una rinuncia alla dignità umana e contraddice ogni giusta preparazione all'autonomia dello spirito: ché, se anche la fede venga meno nell'individuo, egli è per questo «tormentato, perseguitato, sforzato da una forza superiore effettiva». Così, «quella prima generazione d'uomini crederà nel Papa per timore». Ogni sforzo operoso si spegne per ineluttabile logica sotto la costrizione dell'abitudine, ogni spiritualità si irrigidisce. I figli crederanno nel Pontefice per «abitudine»; i nipoti per «stupidità». La conclusione del ragionamento appare, attraverso la commozione, impassibile e tragica: fredda verità ineluttabile, angosciosa condanna che stronca ogni velleità. «Ecco in qual guisa un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del Papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo». Ma oggi i più in Europa ammettono tale autorità senza crederla, e di qui l'Alfieri trae argomento a sperare che non possa essere ormai gran fatto durevole poiché la forza intrinseca di tali vecchi principi è ormai tramontata e si sostengono al presente solo per opera del Tiranno.
«Dove ci è il cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante l'inquisizione» .
«La inquisizione, quel tribunale sì iniquo di cui basta il nome per far raccapricciare» .
«Autorità dei preti e dei frati, vale a dire della classe più crudele, la più sciolta da ogni legame sociale, ma la più codarda a un tempo».
Senza pregiudizi di cattolico liberale in anticipo (benché il cattolicismo liberale fosse ormai nell'aria) l'Alfieri afferra la rigida connessione logica e pratica che fa coesistere nell'unità del sistema generale tutti i termini e gli elementi della teoria e della praxis cattolica. La sua critica presuppone la rigorosa coerenza del principio contro cui si esercita. La complicità di inquisizione e tirannide diventa nell'inesorabile polemica alfieriana il nuovo aspetto e l'evidente chiarimento della premessa ideale che aveva rivelato la sostanza dogmatica e tirannica del principio cattolico. La conclusione si esprime ancora una volta nel ritornello «non vi può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente e un popolo libero».
PARERE DELL'AUTORE SUL "SAUL"
Le antiche colte nazioni, o sia che fossero più religiose di noi, o che in paragone dell'altre stimassero maggiormente se stesse, fatto si è, che quei loro soggetti, in cui era mista una forza soprannaturale, esse li reputarono i più atti a commuovere in teatro. E certamente non si potrà né dire, né supporre, che una città come Atene, in cui Pirrone e tanti altri filosofi di ogni setta ed ogni opinione pubblicamente insegnavano al popolo, fosse più credula e meno spregiudicata che niuna delle nostre moderne capitali.
Ma comunque ciò fosse, io benissimo so, che quanto piacevano tali specie di tragedie a quei popoli, altrettanto dispiacciono ai nostri; e massimamente quando il soprannaturale si accatta dalla propria nostra officina. Se ad un così fatto pensare non avessi trovato principalmente inclinato il mio secolo, io avrei ritratto dalla Bibbia più altri soggetti di tragedie, che ottimi da ciò mi pareano. Nessun tema lascia maggior libertà al poeta di innestarvi poesia descrittiva, fantastica e lirica, senza punto pregiudicare alla drammaticità e all'effetto; essendo queste ammissioni o esclusioni una cosa di mera convenzione; poiché tale espressione, che in bocca di un Romano, di un Greco (e più ancora in bocca di alcuni dei nostri moderni eroi) gigantesca parrebbe e forzata, verrà a parer semplice e naturale in bocca di un eroe di Israele. Ciò nasce dall'aver noi sempre conosciuti codesti biblici eroi sotto quella sola scorza, e non mai sotto altra; onde siamo venuti a reputare in essi natura, quello che in altri reputeremmo affettazione, falsità e turgidezza.
L'aprire il campo all'immagine, il poter parlare per similitudini, potere esagerare le passioni coi detti, e rendere per vie soprannaturali verisimile il falso; tutti questi possenti aiuti riescono di un grande incentivo al poeta per fargli intraprendere tragedie di questo genere: ma le rendono altresì, appunto per questo, più facili assai e trattarsi; perché con arte e abilità minore il poeta può colpire assai più, e oltre il diletto, cagionar meraviglia. Quel poter vagare, bisognando; e il parlar d'altro, senza abbandonare il soggetto; e il sostituire ai ragionamenti poesia, e agli effetti il meraviglioso; era questo un gran campo da cui gli antichi poeti raccoglievano con minor fatica più gloria. Ma il nostro secolo, niente poetico, e tanto ragionatore, non vuole queste bellezze in teatro, ogniqualvolta non siano elle necessarie ed utili, e parte integrante della cosa stessa.
Saul, ammessa da noi la fatal punizione di Dio per aver egli disobbedito ai sacerdoti, si mostra, per quanto a me pare, quale essere dovea. Ma per chi anche non ammettesse questa mano di Dio vendicatrice aggravata sovr'esso, basterà l'osservare, che Saul credendo d'essersi meritata l'ira di Dio, per questa sola stia opinione fortemente concepita e creduta, potea egli benissimo cadere in questo stato di turbazione, che lo rende non meno degno di pietà che di meraviglia.
David, amabile e prode giovinetto, credo che in questa tragedia, potendovi egli sviluppare principalmente la sua natia bontà, la compassione ch'egli ha per Saul, l'amore per Gionata e Micol, ed il suo non finto rispetto per i sacerdoti, e la sua magnanima fidanza in Dio solo; io credo che da questo tutto ne venga David a riuscire un personaggio a un tempo commoventissimo e meraviglioso.
Micol, è una tenera sposa e una figlia obbediente; né altro dovea essere.
Gionata ha del soprannaturale forse ancor più che David; ed egli in questa tragedia ne ha più bisogno, per poter mirare di buon occhio il giovinetto David, il quale preconizzato re dai profeti, se non era l'aiuto di Dio, dovea parere a Gionata piuttosto un rivale nemico, che non un fratello. L'effetto che risulta in lui da questa specie di amore inspirato e dalla sua totale rassegnazione al volere divino, parmi che sia di renderlo affettuosissimo in tutti i suoi detti al padre, alla sorella, e al cognato; e ammirabilissimo, senza inverisimiglianza, agli spettatori.
Abner, è un ministro guerriero, più amico che servo a Saulle; quindi a me non par vile, benché esecutore talora dei suoi crudeli comandi.
Achimelèch è introdotto qui, non per altro, se non per avervi un sacerdote, che sviluppasse la parte minacciante e irritata di Dio, mentre che David non ne sviluppa che la parte pietosa. Questo personaggio potrà da taluno, e non senza ragione, esser tacciato d'inutile. Né io dirò che necessario egli sia, potendo benissimo stare la tragedia senz'esso. Ma credo che questa tragedia non si abbia intieramente a giudicare come l'altre, con le semplici regole dell'arte; ed io primo confesso, che ella non regge a un tale esame severo. Giudicandola assai più sulla impressione che se ne riceverà, che non sulla ragione che ciascheduno potrà chiedere a se stesso della impressione ricevuta, io stimo che si verrà così a fare ad un tempo e la lode e la critica del soprannaturale adoprato in teatro.
Tutta la parte lirica di David nel terz'atto, siccome probabilmente l'attore (quando ne avremo) non sarà musico, non è già necessario che ella venga cantata per ottenere il suo effetto. Io credo, che se un'arpa eccellente farà ad ogni stanza degli ottimi preludi esprimenti ed imitanti il diverso affetto che David si propone destare nell'animo di Saul, l'attore dopo un tal preludio potrà semplicemente recitare i suoi versi lirici; ed in questi gli sarà allora concesso di pigliare quella armoniosa intuonazione tra il canto e la recita, che di sommo diletto ci riesce allorquando sentiamo ben porgere alcuna buona poesia da quei pochissimi che intendendola, invasandosene, non la leggendo e non la cantando, ce la sanno pur fare penetrar dolcemente per gli orecchi nel cuore. Se questo David sarà dunque mai qual dev'essere un attore perfetto, egli conoscerà oltre l'arte della recita, anche quella del porger versi; e s'io non mi lusingo, questi versi lirici in tal modo presentati, e interrotti dall'arpa maestra nascosta fra le scene, verranno a destare nel cuore degli spettatori un non minore effetto che nel cuore di Saulle.
Quanto alla condotta, il quart'atto è il più debole, e il più vuoto, di questa tragedia. L'effetto rapido e sommamente funesto della catastrofe, crederei che dovesse riuscire molto teatrale.
In questa tragedia l'autore ha sviluppato, o spinta assai più oltre che nell'altre sue, quella perplessità del cuore umano, così magica per l'effetto; per cui un uomo appassionato di due passioni fra loro contrarie, a vicenda vuole e disvuole una cosa stessa. Questa perplessità è uno dei maggiori segreti per generare commozione e sospensione in teatro. L'autore forse per la natura sua poco perplessa, non intendeva questa parte nelle prime sue tragedie, e non abbastanza ha saputo valersene nelle seguenti, fino a questa, in cui l'ha adoprata per quanto era possibile in lui. Ed anche, per questa parte, Saul mi pare molto più dottamente colorito, che tutti gli eroi precedenti. Nei suoi lucidi intervalli, ora agitato dall'invidia e sospetto contro David, ora dall'amor della figlia per il genero; ora irritato contro ai sacerdoti, or penetrato e compunto di timore e di rispetto per Iddio, fra le orribili tempeste della travagliata sua mente, e dell'esacerbato ed oppresso suo cuore, o sia egli pietoso, o feroce, non riesce pur mai né disprezzabile, né odioso.
Con tutto ciò un re vinto, che uccide di propria mano se stesso per non essere ucciso dai soprastanti vincitori, è un accidente compassionevole sì, ma per quest'ultima impressione che lascia nel cuore degli spettatori, è un accidente assai meno tragico che ogni altro dall'autore finora trattato.
ORIGINALITA' DELL'ALFIERI
La prima occhiata, qual che ella sia, che gittata venga sulle tragedie di Alfieri, avverte che questo Scrittore si è voluto aprire una nuova strada nell'arringo della laurea tragica. La economia dei suoi piani drammatici, il carattere de' suoi personaggi, il lor numero, il suo dialogo, lo stile suo, tutto, fino al rigido laconismo con cui egli indica il luogo dell'azione, fa a ogni meno accorto sentire, che il suo scopo primario fu la originalità, che l'arte non ha già fatto con lui un sol passo, ma che si è a perdita d'occhio dilungata dal punto in cui la trovò.
Questo annunzia di buon'ora una tale altezza d'indole e di genio, un così vivo disdegno per tutto che è d'altri, una tale fiducia nelle proprie forze, che un autore in qualsivoglia genere di componimento con una simile fisionomia non può a meno di sorprendere e imporre. L'uomo straordinario, che o per la forza del proprio carattere, o per quella del proprio genio abbandona il già detto e il già fatto, e fa e dice da sé, soggioga necessariamente la stima universale, sia per l'ascendente che ha sull'animo degli uomini la novità, sia per quello, più forte eziandio, che si concilia il coraggio di così fatte intraprese.
La ragione, e la esperienza hanno altronde dimostrato, che una originalità di soverchio affettata ha sempre nociuto nelle arti imitative alla lor vera perfezione, e anche allorché, senza questa affettazione di originalità la sola forza propria del genio ha portato alcuno al sommo dell'arte, senza che le ne sia derivato tal danno, questo supremo punto di altezza è stato sempre circondato di pericoli, per chi ha voluto seguirne le tracce. Avvi nelle arti imitative un termine, che mentre fissa il vero bello, e il vero sublime, è a un contatto immediato col deforme, e col noioso. Guai a chi oltrepassa questo confine!
È necessario allora, che la critica regoli i passi dell'arte imitativa; ch'essa accennando le bellezze, che possono senza pericolo esser di modello, e di norma agli altri, additi quelle che bisogna rispettare, come patrimonio esclusivo del genio, e che non è lecito di, toccare sotto pena di perdersi:
Ultima prova via est et eget moderamine certo.
In questo aspetto il Programma dell'Accademia di Lucca che invita i letterati italiani a determinare la indole delle novità introdotte nella imitazione drammatica, è diretto a rendere un importante servigio all'arte. Esso è il colpo d'occhio di un genio, che ha misurato, con la rapidità che gli è propria, tutto il tratto da Alfieri percorso, che ha conosciuto la natura de' limiti che lo separano dal restante de' tragici, ed ha indovinato come l'arte dovea librarsi in questo spazio vastissimo.
Non basta aver riconosciuto un forte carattere di originalità nei drammi di Alfieri: uopo è indagare la indole propria di questa originalità, per indi desumere fino dalle prime disposizioni dello spirito dell'Autore il carattere dominante, ch'egli ha per così dire portato nel tirare le grandi linee del suo lavoro.

IL "DON CARLO" DI SCHILLER E IL "FILIPPO" D'ALFIERI
Sul cadere del secolo scorso due poeti esposero sul teatro a due nazioni la trista istoria del re che potè uccidere un figlio senza dirne ai viventi né ai posteri la cagione. Il « Filippo » di Alfieri fu primamente steso in prosa francese nel 1775, poi due volte in verso italiano nell'anno seguente, poi una terza volta, poi una quarta nel 1781. In settembre del 1782 era pronto alla stampa con tredici altre tragedie; era stampato nel 1783.
Schiller, giovane d'anni ventidue non ancora compiuti, fuggiva nell'autunno del 1781 da Stutgarda e dall'importuno suo mecenate, per vivere due anni in una solinga villa di Franconia dove tracciava le prime idee del suo Don Carlo, e nel 1784 ne pubblicava alcune scene nel primo volume della «Talìa». Nell'estate dell'anno seguente (1785) lo conduceva a compimento, ma dopo averlo del tutto rifatto, e dolente d'aver posto nella «Talìa» quei primi abbozzi. Queste date fanno pensare che la scelta dell'argomento fosse spontanea in ambo i poeti, benché anteriore di parecchi anni in Alfieri, il quale, già pervenuto a virile età, lo ridusse primamente in iscritto nel 1775, quando Schiller era adolescente di quindici anni; e rifatta la sua tragedia cinque volte, la pubblicò quando Schiller tracciava i primi pentimenti della sua.
I sensi medesimi movevano ambo gli scrittori: l'altiera speranza di levare a più generosi pensieri le loro nazioni, e l'odio del potere arbitrario e violento. Ambedue, e per giungere a questo fine, e per assecondare le richieste dell'arte, fecero forza al nudo fatto istorico...
Quando il fatto in complesso sia consono, non tanto all'istoria, quanto all'attuale idea che la nazione si è fatta di dati tempi e luoghi e costumi, il poeta ha compiuto il debito suo. Basta ch'egli diffonda su tutto il suo lavoro una gran verisimiglianza, giusta le opinioni invalse al suo tempo. Una generazione erudita nelle istorie naturalmente non può non esigere dai poeti una fedeltà sempre maggiore; poiché l'ignoranza o l'incuria offenderebbe le menti, e ad ogni passo raffredderebbe col dubbio e colla critica e col disprezzo gli affetti. Ma tutta questa materia istorica non è per l'arte più che una servile sustanza, destinata a ricevere e sostenere una forma; non è più che un corpo destinato a fodero dello spirito e della vita. Ciò che importa è l'efficace trattazione degli affetti e il profondo commovimento delle moltitudini adunate. E se il poeta può darci questo, questo solo, gli siano rimessi tutti i suoi peccati...
Noi vorremmo che messe una volta in disparte le trite e superficiali controversie d'unità, di mole, di forma, d'intreccio, si apprezzasse nella tragedia sopra tutto il valor morale e intimo delle figure poste in azione. E allora siamo certi che lo spassionato osservatore, dopo aver trovato nell'opera di Schiller bellezze d'un ordine altissimo e tratti che spirano il più delicato affetto, si lagnerebbe che riescano dispersi a soverchi intervalli, tra un fogliame di freddi accessori. Riconoscerebbe che la vantata verità del costume locale consiste più nel materiale contorno di dame, e grandi, e paggi inginocchiati, che nell'intimo sentimento di dignità che il popolo spagnolo serbò sempre nel tempo del suo fiore e nel suo decadimento; e quindi loderebbe piuttosto il fondo del quadro, o direm pure la cornice, che le figure e le movenze. Riconoscerebbe che l'illustre istorico, al paro d'Alfieri, anzi più assai d'Alfieri, sprezzò nella tragedia il rigor delle date, e le smosse liberamente e le aggruppò, come le smove e aggruppa naturalmente la oscillante memoria e l'impaziente immaginazione dei popoli; e, com'è ben giusto, le fece serve alle alte ragioni della poesia e dell'effetto. Riconoscerebbe che Schiller, al paro d'Alfieri, si valse dei nomi d'un'altra età, per incarnare le opinioni e i voti del mondo contemporaneo. Infine non negherebbe che se si scrutano con severo sindacato le singole figure, la regina talora scende al ragguaglio di donna vulgare; Don Carlo e Posa non hanno la rigorosa idealità del cavaliere spagnolo; e in Filippo e in Alba manca quella fermezza e durezza d'animo che infatti ebbero; mentre ed Alba stesso e tutta la corte cadono a più abietta corruttela che non sia loro attribuita nemmeno dai loro nemici. Perloché in generale l'opera d'Alfieri, comunque angustiata dallo spazio e dalle rigide osservanze teatrali, sovrasta per precisione di date istoriche, per verità di sentimento nazionale, per concentrazione di luce e di calore, e sopratutto per continua delicatezza e dignità. Lo squisito merito di Schiller risiede sopra tutto in quella spontaneità e sovrabbondanza, con cui si effondono le concezioni d'un ingegno ineguale ma liberissimo, e tutto ridondante di giovanile fecondità.
Ma siccome nessuno ci costringe a prender l'una delle tragedie e ricusar l'altra; siccome nessuno ci vieta di abbracciare con equo e candido giudizio ambo gli illustri poeti: così noi, lasciata ogni cosa a suo luogo, diremo il nostro desiderio che da ogni lato si apportino pure le straniere dovizie a fecondare il nostro terreno.
LA MIRRA
Nell'Ippolito di Euripide comparisce Fedra abbandonata della persona, col passo faticoso, il capo languente, magra, gli occhi cavi: ha tutte le apparenze di una malattia mortale. Che cosa è? È un Dio che si è gittato tutto in lei, che l'arde e la consuma, e la tiene in un delirio e turbamento di sensi che dà pur talora luogo alla ragione: allora ella piange ed abbassa gli occhi per vergogna. E' una delle più pietose scene che ci abbia tramandato l'antichità. Fedra ama il figliuolo del suo marito; ed il Coro che compiange i suoi mali, quando conosce ciò, manda un grido d'orrore. Ma notisi bene. Si abborrisce la cosa in sé, non Fedra - si teme la collera di Venere mostratasi in lei, invano ripugnante; tutti la chiamano sventurata; nessuno la dice empia, se non solo ella stessa, che non può scacciare da sé il nemico Iddio, e sente tutto l'orrore della sua passione, e la espia con la morte. L'influsso fatale di Venere e la passione rimasta a distanza, non incontrandosi mai sulla scena la matrigna e il figliastro, rendono tollerabile sul teatro la Fedra antica. In Racine, Venere è una parola rimasta per tradizione; il soprannaturale ci è per cerimonia; il fondo del dramma è lo svolgimento progressivo di una passione colpevole, ma non mostruosa. Qui non questione di teologia, ma di poesia. Un fatto viene rappresentato dal poeta secondo il giudizio che ne fanno i contemporanei e l'impressione che ne ricevono. Nella tragedia di Racine non ci è il sentimento di ciò che il fatto ha in sé di mostruoso e d'innaturale; non ci è né presso il poeta né presso gli spettatori. Quindi il poeta ha potuto alzare a Fedra il velo di cui l'ha ricoperta Euripide; e condurre il suo amore verso il figliastro fino ad una vera dichiarazione, ed il pubblico ha potuto non solo tollerare, ma applaudire questa scena, riboccante di bellezze poetiche. Mutate ora i nomi dei due personaggi, chiamate l'uno Mirra e l'altro Ciniro; sia la figlia che sveli il suo abominevole amore verso del padre al padre; e a voi parrà che la terra vi tremi sotto i piedi e che la natura si capovolga. È impossibile! Ciò segna l'infinita distanza che separa la Fedra dalla Mirra. Questa finisce, dove comincia la prima. La scoperta della passione nella Fedra è il punto di partenza, nella Mirra è la catastrofe. Racine ha per campo tutta la storia di una passione colpevole in tutte le sue gradazioni dal punto ch'essa è conosciuta; Alfieri ha per campo la storia oscura e a lampi di una passione abominevole fino al punto che sia conosciuta... Ma ciò che costituisce il pregio della Mirra, è la sua originalità; è la passione colta in uno dei suoi momenti non rappresentati ancora dalla tragedia, un nuovo orizzonte aperto all'arte.
Mirra ama di un amore abominevole e lo sa, e teme che una parola, uno sguardo, un gesto non la tradisca, e quanto più si sforza e meno riesce ad occultare la fiamma: ella muore nel momento stesso che il segreto le fugge di bocca. La tragedia così è una lunga lotta la soverchia e turbasi visibilmente. Le escono parole equivoche, in apparenza naturalissime come il suo dolore di dover, maritandosi, abbandonare i genitori:
Non li vedrai mai più!...
Abbandonarli... e morir... di dolore;
eppure, guardando a' suoi gesti e sguardi disperati, che oltrepassano qualsivoglia espressione consueta di filiale affetto, lo spettatore si vede balenare qualche orribile mistero e ne rifugge spaventato...
Nel terzo atto grande è l'aspettazione. Ecco la figlia per la prima volta in presenza del padre e della madre. Quanta tenerezza verso la madre, con quale abbandono le parla! come i suoi sguardi cercano lei per tema d'incontrarsi in altri sguardi! È sul suo seno ch'ella inchina il capo, trangosciata e lacrimosa.
Ma che?... voi pur dell'orrendo mio stato
Piangete? Oh madre amata!... entro il tuo seno
Ch'io, suggendo le tue lacrime, conceda
Un breve sfogo anche alle mie!...
Ma il padre! al primo vederlo rimane atterrita.
Oh ciel! che veggo?
Anco il padre!...
Né si risolve a parlargli, e sospira e tiene gli occhi a terra e impallidisce.
. . . . . . Signor...
ella dice esitando e si arresta.
Tu mal cominci; a te non sono
Signor; padre son io: puoi tu chiamarmi
Con altro nome, o figlia?
Ma tanta tenerezza l'empie di tremore, né mai è ch'ella si attenti di chiamarlo padre o di volger la parola a lui solo. Noi assistiamo all'ultima prova di Mirra. Descritto pietosamente il suo stato, ella ottiene da' genitori che le nozze si stringano subito, che subito si parta; ed il terzo atto finisce in una falsa calma. Sono imminenti le nozze .... La scena terza dell'atto quarto in cui si celebra il sacro rito, è la crisi della tragedia. Mirra in questo lungo sforzo ha logore le sue forze; le sue parole sono vivaci e risolute, ma gli occhi brillano di un ardore febbrile; ella è piena di una esaltazione fittizia. Innanzi ai sacerdoti, mentre il Coro invoca Venere e chiama le benedizioni celesti sugli sposi, gli spettatori guardano con terrore il sembiante trasformato di Mirra e convulso: la natura, quanto più repressa, con tanto più impeto prorompe al di fuori. Si precipita verso la catastrofe. La fanciulla non ode più, non vede più; Venere la possiede tutta.
Chi al seri mi stringe? ove son io? che dissi?
Son io già sposa? Oimè!...
Stupefatti noi la veggiamo respingere la madre, fuggire dalle sue braccia, guardarla con occhi infocati; poi pentirsi e chiederle perdono; poi imprecare, maledirla, riempier d'orrore i circostanti, e poi di nuovo:
Deh! perdonami, deh! ...non io favello:
Una incognita forza in me favella.
Il mistero s'intravede, funerei lampi spesseggiano a chiarirci la vista, eppur noi temiamo la luce già tanto desiderata e chiudiamo volontariamente gli occhi per non vedere, per non credere quello che già si dipinge nell'ansietà di tutti i volti. Padre e figlia stannosi dirimpetto, soli. Il padre alterna sdegni e carezze. Stringe fra le braccia la figlia trepida, che fugge e ritorna e fugge ancora, ebbra, insana: miserabile lotta del corpo infiammato e dell'anima inorridita.
. . . . . . Ormai per sempre
Perduto hai tu l'amor del padre,
esclama Cinino corrucciato.
. . . . . . Da te morire io lungi?...
Oh madre mia felice!... almen concesso...
A lei sarà... di morire... Al tuo fianco.
Queste parole sono illuminate dal gesto, dallo sguardo; l'orribile segreto scoppia fuori, e nel tempo stesso la fanciulla cade sul proprio sangue. Gli spettatori non han tempo di mandare un grido d'orrore che già quel grido si trasforma in un lungo gemito. L'ira è congiunta con la pietà, lo spavento con l'orrore, e restiamo immobili. Padre e madre fuggono, straziati da opposti sensi.
- Empia!... oh mia figlia!... -
Mirra muore sola nelle ultime convulsioni mostrando l'interna ribellione della natura alla sua volontà.
È una delle tragedie meglio concepite e più profondamente pensate di Alfieri. Non ci è che un solo personaggio, che parla, di cui si parla: tutti vi stanno per porre in luce, per dar rilievo al protagonista. Nessuno, fuori di Mirra, ha carattere, una individualità prominente; non vi è alcuna distrazione; Mirra, anche assente, empie di sé tutto. Il solo carattere che mi par vizioso è quello di Pereo, che si uccide quando sa di non essere amato. Ciò fa supporre in lui qualche cosa di eroico e un fervidissimo amore. Ben ci è nelle sue parole; egli dice spesso che ama, che si ammazzerà, ecc., mala sua passione è debolmente rappresentata, il suo carattere è appena abbozzato e riesce freddo e duretto. Alfieri ha temuto creare una individualità possente che svolga la nostra attenzione da Mirra. La stessa azione non ha niente di serio; essa è uno stimolo esterno per far traboccare tutto ciò che ferve nel seno di Mirra. Così tutta la tragedia non è che una serie di manifestazioni sempre meno oscure secondo che la giovinetta è più stretta ed incitata dai fatti, insino a che il fatale mistero le esce di bocca. L'istrumento di queste manifestazioni sono gesti, sguardi, sospiri che contraddicono alle parole, e però la vera tragedia non è in quello che è espresso, ma in quello che è rappresentato. Il gesto non è qui semplice accompagnamento della parola, ma il rivale di essa che le si pone dirimpetto, ed ora la commenta, ora l'accusa e la smentisce. Gusterà questa tragedia un lettore di così viva immaginazione, che si componga nella mente una Mirra fantastica atteggiata in quella guisa che la vedeva il poeta.

ALFIERI PROTOROMANTICO
stato talvolta segnato l'inizio della nuova letteratura italiana nel Parini; ma il Parini è di mente e d'animo uomo del Settecento, del periodo razionalistico e delle riforme, e settecentesca sebbene elegantissima è l'arte sua didascalica e ironica nei toni maggiori, erotica e galante nei minori. Il vero inizio (quando si guardi al moto delle idee e alla qualità dei sentimenti) è in Vittorio Alfieri, che tocca corde le quali vibreranno a lungo nel secolo decimonono, dal Foscolo e dal Leopardi fino al Carducci; in Vittorio Alfieri, che io non posso considerare se non come strettamente affine ai contemporanei Sturmer und Drànger di Germania, i quali s'ispirarono come lui alle pagine di Plutarco e risentirono profonda l'efficacia del Rousseau, neanche a lui estranea. Al pari degli Sturmer und Drànger, egli è fortemente individualista; e individualismo è il suo amore perla libertà e il frenetico odio alla tirannia, così indeterminato nel suo contenuto politico, perché egli aborre con la stessa risolutezza re e demagoghi e patrizi di repubblica (l'«oscena libertà posticcia» di Venezia e le «sessanta parrucche d'idioti» di Genova), e non cerca nella sua vita altro stato, e non persegue nella sua arte altro ideale, che quello del «liber'uomo», che possa cioè muoversi, parlare, operare, attuare il proprio pensiero e la propria vocazione, non oppresso e soffocato da veruna forza estranea, non contrastato impacciato da verun ostacolo. Come gli altri consapevoli o inconsapevoli roussoviani, moventi all'assalto delle Bastiglie morali, le sue passioni sono estreme per violenza; e, quasi per dar loro qualche lenimento, egli ama la solitudine, si abbandona con voluttà alla malinconia, sente l'incanto degli spettacoli naturali, delle montagne, delle acque, delle spiagge. Il freddo intellettualismo, e il Voltaire che lo rappresenta, gli ripugnano, e non sopporta il «lepido stile», la leggiera e facile prosa degli illuministi, ben adatta alla divulgazione, ma che per ciò appunto a lui sembrava che prostituisse «la viril nostr'arte». E se egli non è tutto Shakespeare, come erano i suoi affini tedeschi, se presto intermise la lettura che aveva cominciato di quel poeta, non è già perché esso non gli piacesse, ma anzi perché gli piaceva troppo: «quanto più (scrive) mi andava a sangue quell'autore, tanto più me ne volli astenere»: cioè per non correre il rischio di imitarlo, e per serbarsi spontaneamente shakespeariano. C'è perfino qualche concetto sul cattolicismo, di lui non cattolico, che anticipa lo Chateaubriand (il quale veramente non si è potuto mai sapere se poi fosse sul serio cattolico). Alludo a quel singolare sonetto, che, comincia: «Alto, devoto, mistico, ingegnoso, Grato alla vista, all'ascoltar soave, Di puri inni celesti armonioso È il nostro culto: amabilmente grave...», e più oltre ha il verso: «Dell'uom gli arcani appien sol Roma intende».
Si deve dunque, a mio avviso, considerare l'Alfieri come un Protoromantico: il che non vuol dire propriamente romantico, come ora si è preso il vezzo di chiamarlo, confondendo ben distinti periodi spirituali.
Del romantico all'Alfieri mancano tratti essenziali, l'ansia religiosa sul fine e il valore della vita, l'interessamento per la storia, e il compiacimento per gli aspetti particolari e realistici delle cose. Anche la sua autobiografia sta sulla linea delle confessioni alla Rousseau, ricca di passione e scarsa di senso storico così rispetto al proprio tempo come alla sua vita medesima. Di questo suo limite, e della incapacità a ritrarre, come diceva, «la vera e scalza triste natura nostra», la patologia individuale e sociale, ebbe consapevolezza. «E carmi e prose in vario stil finora, lo scrissi, abil non dico, ardimentoso; Storie non mai...». L'epica, l'oratoria la tragedia, la filosofia cioè le riflessioni morali e politiche: ecco il suo campo: «Arti tutte divine, in cui, ritratto L'uom qual potria pur essere, s'innalza Al ciel chi scrive e il leggitore a un tratto» .
Tale, all'incirca, la collocazione dell'Alfieri nella moderna storia mentale e morale. Ma per intendere e giudicare l'arte di lui, per risolvere il quesito, anch'esso storico, del suo svolgimento estetico, bisogna farsi presente la particolare conformazione di quell'anima. Perché l'Alfieri, prima che poeta o al tempo stesso che poeta, era un uomo di passione così ardente («furore» è la parola che più spesso torna nelle sue pagine) da rivolgersi diritto all'azione e alla pratica, guidato da inflessibile fermezza di proposito. Azione e pratica, la quale certamente non si attuava altrove che nella parola e nelle carte, ma azione era nondimeno, se tale è essenzialmente l'oratoria. L'anelito alla libertà e l'aborrimento per la tirannia gli avevano ingenerato nell'immaginazione un fantasma pauroso, il Tiranno, che non è già un fantasma poetico ma un incubo passionale, una sorta di condensazione della più nera nequizia umana, che ha luogo in un determinato individuo non si sa perché, se non forse per incoercibile potere di attrazione e agglomeramento. Sono colpevoli i suoi tiranni? Non si oserebbe affermarlo; o non più colpevoli, certo, di chi ha la disgrazia di essere preso da un'infezione, dall'idrofobia o dal tetano. «Ah forse voi dite il vero!» - esclama il tiranno Timofane verso i suoi congiunti ed amici, che procurano di richiamarlo ai doveri del cittadino -, «ma non v'ha più detti, E sien pur forti, che dal mio proposto Svolger passanmi ormai. Buon cittadino Più non posso tornare. A me di vita Parte or s'è fatta la immutabil, sola, Alta mia voglia: di regnar... fratello, Tel dissi io già: corregger me sol puoi Col ferro: invano ogni altro mezzo...». Un altro di quei tiranni, Polifonte, nella «Merope», - anche lui non figlio, non sposo, non padre, «tutto tiranno», che non vede «altro che regno», - sospira, alla fine del primo atto, stanco sotto il cumulo della sua propria ineluttabile malvagità: «Oh quanta è impresa il mantenerti, o trono!» Ad abbattere con un colpo di mazza ferrata il Tiranno, tanto più a lui odioso perché se lo rappresentava in modo da dovergli riuscire necessariamente incomprensibile, l'Alfieri costrusse la sua tragedia, nella nota forma, senza confidenti, senza episodi, senza intermezzi di amore, scheletrica, precisa e rapida come una macchina, tagliente col ben noto stile. Stile che ha anch'esso del proposito, dell'intestamento, della fissazione, e poiché egli non tollerava, come si è visto, la lepidezza e la leggerezza della prosa illuministica, e poiché gli moveva nausea la correlativa poesia canterellante di quel tempo, che in Italia, e non solo in Italia, era la metastasiana, il suo dramma e lo stile di esso sono il rovescio violento del melodramma metastasiano (come ebbero già a notare, credo per primi, la signora di Staél e Guglielmo Schlegel), e le cabalette e ariette, con cui i suoi personaggi, al pari di quelli del Metastasio, palesano se stessi, stridono in digrignamenti di denti e suoni aspri e rotti. E quando per avventura la sua ira si volge al sarcasmo e all'irrisione, come nelle satire e nel Misogallo, il cipiglio tragico si cangia in comico, ma resta pur sempre cipiglio: onde quel suo coniare, nel «furor comicus», vocaboli grotteschi, parole bizzarramente composte o stranamente diminutive, e versi duri e ferrei non meno di quelli delle tragedie.

LA POETICA E LA TRAGEDIA DELL'ALFIERI
Per l'Alfieri l'eroe e lo scrittore sono della stessa stoffa: Orazio, Scevola, Regolo sono letterati-autori; dopo, per la nascente corruzione, questi scemano e nascono i letterati-scrittori, che insegnano la virtù non più con l'esempio ma con gli scritti. Poeti, eroi, profeti, santi, martiri hanno nel mondo una missione simile, sono tutt'uno; e solo le circostanze diverse fanno sì che si nasca, invece che eroe o santo, poeta: Siamo sulla stessa linea della poetica del Parini, ma in un mondo assai più alto. La poetica dell'Alfieri è testimonianza di una passione esclusiva, motore unico della vita interna, quale nel Parini non si trova. Solo Dante avrebbe potuto dire che la poesia è il succedaneo dell'azione.
Per esser poeta è necessario un bollente volere, «quella preziosa libera bile che sola è madre d'ogni bell'opra», insomma l'esaltazione di tutte le forze spirituali. Premio della poesia è la gloria: «quella tacita meraviglia» con cui il mondo rimira un uomo; «quel sorridergli dei buoni con gioia e venerazione; quel sogguardarlo con torvi e timidi occhi, de' rei; quell'impallidire degl'invidi; quel fremere dei potenti»: definizione alfieriana, tragica ed estatica: dice l'animo con cui l'Alfieri scriveva le sue tragedie, l'effetto che ne vagheggiava scrivendole. L'Alfieri con le sue tragedie politiche non lo ha mai raggiunto pienamente - nel fondo è sempre rimasto qualche cosa di rigido e di pratico, di impoetico -. ma in tutte si sente l'animo che ha dettato quella definizione, quel misto veemente di dolcezza e di odio che si infondeva nei suoi versi al pensiero degli onesti che egli incoraggiava, dei vili e dei tiranni che percoteva. Si sente che mentre scriveva le sue tragedie, vedeva la platea e i posteri, gli spettatori e le generazioni venture.
Questa, infatti, non è poetica, ma una riduzione della propria poesia a teoria. Fondamento di ogni grande cosa, e quindi anche della poesia, è, per l'Alfieri, l'«impulso naturale»: « un bollore di cuore e di mente per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria...; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla».
Qualche cosa di ben diverso, dunque, dalla nuda volontà di cui si parlava tanto a proposito dell'Alfieri. C'è qui un fondamento nativo senza il quale tutta la definizione cadrebbe. E qui si giunge all'ultima delle identificazioni di questo libro: non soltanto i poeti, gli eroi, i santi, i martiri sono di una stessa stoffa, ma anche i tiranni. L'impeto magnanimo che si accende in un lettore dinanzi alle pagine dei grandi autori e che rivela in lui lo scrittore, è per l'Alfieri della stessa natura. dell'ira che invasava Alessandro all'udire il nome di Achille, Cesare all'udir quello di Alessandro. L'Alfieri doveva sentire una segreta affinità fra sé e i tiranni, i potenti della terra, non solo per la violenza tirannica che egli faceva alla coscienza dei lettori delle sue tragedie imponendo loro il suo pensiero con la pressione d'un incubo, ma anche perché egli, istintivamente, non riconosceva diritto di vita se non alle anime energiche: meglio i malvagi che gli imbelli. Circostanze diverse, egli dice, avrebbero fatto di Cesare uno Scevola, di un tiranno un eroe. Questo spiega perché nelle sue tragedie ci sia tanta affinità fra quei due mortali nemici che sono l'eroe e il tiranno, perché entrambi siano capaci della medesima inflessibile e atroce tensione d'animo.
Tutto questo spiega anche le tragedie non politiche; anch'esse hanno per fondamento una forza strapotente, ben simile a quella dei due antagonisti delle altre tragedie: Mirra, Saul, Oreste, Rosmunda hanno l'immane forza spirituale di Filippo, Timoleone, Bruto.
Da quello che abbiamo detto, deriva che l'Alfieri dà una grande importanza all'estro; e da questo deriva il suo modo di lavorare: un sunto di due pagine; una tumultuosa stesura in prosa per fermare l'estro; una riposata verseggiatura. Per l'Alfieri la poesia è già nella stesura in prosa; e se non c'è, l'elaborazione posteriore non ve la può aggiungere. L'epoca IV della Vita è interessantissima per i tratti di psicologia della creazione che vi si trovano sparsi; e contribuisce a darci ragione dei pregi e dei difetti delle tragedie dell'Alfieri. Quel suo modo romantico di comporle ci spiega perché per lo più sembrino insieme così unite e così grezze, così calde e così monotone.
Questo è visibile soprattutto nelle tragedie più strettamente politiche, nelle quali si esprime una parte sola dello spirito dell'Alfieri. In esse la passione politica è viva, ma la fantasia - ossessionata - ruota sopra due punti soli: la paura che incute il tiranno, e il gagliardo allenamento dell'eroe all'idea della ribellione e della morte. Il che nasce dal fatto che nell'Alfieri la passione politica era violenta ma l'esperienza storico-politica era scarsa ed astratta; il suo amore per la storia era troppo circoscritto fra i due limiti della libertà e della schiavitù. Per ideare una tragedia politica gli bastava conoscere il fatto generico: perché la trama la riempiva sempre con la materia del suo trattato, buona per tutti i tempi, e quindi insufficiente per tutti.
Non basta a diversificare il Timoleone dalla Virginia l'intenzione patetica di rappresentare il protagonista costretto a farsi fratricida per amore della libertà; né basta a vivificare La congiura dei Pazzi il fatto che il contrasto fra gli affetti domestici e i sentimenti politici vi sia espresso meglio che nel Timoleone e nel Bruto primo, e che questa tragedia voglia essere un esempio della tirannide moderna, più blanda e perciò più difficile da distruggere.
Migliori, perché più ricchi di motivi umani, sono il Don Garzia e l'Ottavia...
In queste tragedie la ricchezza della poesia dell'Alfieri si intravvede sempre soltanto quando il motivo politico accenna a lasciare il posto a motivi più complessi e più umani. E perciò l'esame di queste non può essere che preparazione all'analisi delle altre in cui il soggetto politico manca e non domina. Nel Filippo, nel Saul, ecc. i motivi delle tragedie di libertà sono assorbiti in un quadro spirituale molto più profondo. Carattere dominante di queste tragedie è una volontà asperrima che si alimenta da una passione (Agamennone, Oreste, Rosmunda) o si divincola fra le strette furibonde di una passione (Mírra, Saul). La nobiltà delle tragedie alfieriane deriva da questo elemento volontario che proietta, la passione in un mondo più grande del reale. Per questo dominio dei propri sentimenti le figure femminili acquistano una solennità regale, e i tiranni suscitano, con l'abominio, il rispetto, e figure così dissimili come Antigone, Filippo, Saul si avvicinano come figli di un medesimo padre. Nel codice della magnanimità che si può ricavare dalle tragedie dell'Alfieri, anche i tiranni hanno qualche cosa da insegnare.
Questi magnanimi sono grandi sopra tutto nella morte, nella virilità con cui l'affrontano: Isabella come Mirra, Carlo come Saul. La morte, più spesso il suicidio, è la consacrazione suprema della nobiltà degli eroi, la liberazione dal destino troppo inferiore alla purezza della loro coscienza, l'unico modo di affermare gli ideali a cui il mondo è avverso o immaturo.
Altro carattere dominante e autobiografico delle tragedie alfieriane è la solitudine morale dei personaggi: Saul solo coi suoi presentimenti e con le sue angosce; Mirra, sola col suo ardore inconfessabile; Filippo, solo coi suoi sospetti e col suo delitto; Creonte, solo dinanzi alla giustizia divina; gli offesi che maturano la vendetta nel cuore chiuso; gli eroi della libertà immensamente lontani dal popolo vile. E tutti destano insieme un sentimento di ammirazione e di pietà.
Questa solitudine è sottolineata dalla riduzione assoluta dell'ambiente, materiale o umano. Goldoni è tutto ambiente, conversazione multipla e volubile, così nelle commedie come nei Mémoires; Alfieri è tutto individuo, dialogo corpo a corpo, concentrazione, monologo, così nelle tragedie come nella Vita. In Alfieri l'ambiente c'è: ma è, nella Vita, il deserto o il mare, nelle tragedie, una tomba - l'altare della vendetta familiare -, o una reggia - la meta della vendetta politica -. E la reggia non è mai quella delle cerimonie o delle feste: si sente che è nuda e squallida, che i colloqui vi si svolgono in piedi e in guardia.
In parecchie tragedie questi caratteri sono esagerati. Gli elementi foschi si accumulano con energia fittizia; per esempio nella Rosmunda, nel Polinice, in buona parte dell'Oreste, nell'ultimo atto dell'Antigone; e la tragedia, corsa da continue alternative sanguinose, adombrata da troppe tinte funeree, ci si configura nell'immaginazione più coll'aspetto d'una maschera che d'un volto.
Così non accade nel Filippo, nell'Agamennone, nella Mirra e nel Saul.
La prima tragedia insieme passionale e politica, è tutta mossa dallo spirito gelido e inflessibile di Filippo, che decide della sorte del figlio e della moglie. È questa la prima rappresentazione del deserto che circonda il tiranno. Tutta la pietà del duro e appassionato Alfieri sembra riserbata a Carlo e ad Isabella, nella quale si presenta il tema poetico di Mirra; tutto l'abbominio a quella mostruosa pietrificazione di uomo in re che è Filippo. Si delineano qui per la prima volta il contrasto fra il sospetto e la generosità - e quindi quell'aspetto di incubo che hanno quasi tutte le tragedie dell'Alfieri, e la liberazione dall'incubo con la morte degli eroi -; e l'arte di far soccombere le anime grandi per attirar su di loro, con l'ammirazione, la pietà, e farle più simpatiche e più reverende. E si rivela qui per la prima volta e meglio che mai, quell'arcana e involontaria pietà che si riverbera per un istante sul tiranno, condannato, come per una nemesi interna, a sentire la solitudine e la tristezza della sua feroce potenza. Il solo difetto evidente della tragedia nasce dalla preoccupazione pratica di contrapporre Perez a Gomez e a Leonardo e di mostrar chiesa e tirannide congiurate contro la libertà e la giustizia.
L'Agamennone (1776-1777) è la maturazione occulta e fatale di un delitto. Da ogni parte, da ogni indizio la catastrofe balena e trapela, come nella Mirra la confessione dell'amore incestuoso. In queste due tragedie e nel Saul quel senso della catastrofe che incalza, visibile in tutte le tragedie dell'Alfieri, trova la sua misura perfetta.
Nell'Agamennone c'è, qua e là, qualche cosa di troppo scoperto; ma il complesso è di una straordinaria potenza: e Clitennestra che, trascinata dalla passione, rilutta invano al delitto; Egisto che lo vuole, senza rimorsi, con una fredda e stringente tenacia di vendicatore; Elettra che, con femminile sensibilità, presente la catastrofe; Agamennone che, tornato in patria dopo la vittoria conquistata col sacrificio della figlia, si scopre a poco a poco così solo e insidiato: testimoniano di quale ricchezza sentimentale sia capace l'Alfieri appena abbandona la tragedia politica, e con quale lucida ansia sappia penetrare nelle più terribili profondità della coscienza.
Il Saul (1782) è la più densa espressione del mondo eroico e procelloso che ribolliva nell'anima dell'Alfieri. Il protagonista delle sue tragedie è l'uomo che esce dai confini mediocri dei comuni mortali; e quello che lo rappresenta più compiutamente è Saul che per tutta la tragedia urta vacillando contro la tempesta oscura dei suoi sentimenti più profondi, e finisce per vincerla. In lui si raccolgono i sentimenti smisurati sparsi nelle altre opere. Egli è feroce, indagatore, geloso e superbo della propria regalità, come Filippo, ma innalzato da un più eroico decoro; è sconvolto come Clitennestra, Polinice, Oreste, come i personaggi greci, da un sentimento quasi fatale che lo circonda dell'atmosfera caratteristica di tutte le buone tragedie alfieriane; è travolto da ire di origine arcana come il sentimento di Mirra; ha, nei momenti di lucidità, una saggezza magnanima superiore a tutti gli eroi plutarchiani dell'Alfieri. Se in tutta l'opera dell'Alfieri si può sentire, senza sempre notarla come difetto, una certa linearità, in Saul si nota invece una tempestosa abbondanza di vita spirituale. Nel corso della tragedia Saul è un re furibondo, nella fine - vinto se stesso - uno stoico solenne.
Saul è un'anima grande sconvolta da un momento di empietà: di qui le visioni paurose e le inquietudini tremende, che hanno una parte grandiosa nella tragedia; ma la parte più intima è quella sofferenza per aver perduto il dominio di sé, quel sentirsi menomato nella propria dignità regale per gli avvilimenti e le collere insensate da cui è vinto. Questa dignità regale, offuscata nel corso della tragedia, risorge intera dinanzi alla catastrofe della famiglia e alla sconfitta. Dalla sconfitta esterna nasce la vittoria intima, la liberazione dai sentimenti meschini. Ambizione, rivalità, orgoglio del potere materiale sfumano d'un tratto: la catastrofe dà a Saul intera e non più contrastata quella forza e quella dirittura morale che nel corso della tragedia erano combattute e velate ma trapelavano sicuramente. La catastrofe sgombra le complicazioni del suo carattere, lo rivela in tutta la sua grandezza morale.
Dopo il Saul nacque la Mirra (1784-1787), in cui l'Alfieri si espresse ancora una volta potentemente, ma senza uguagliare l'opera dove aveva riassunto il suo mondo di passioni assediatrici implacabili e dispotiche dell'animo.
È, come il Saul, una tempesta della volontà risolta con una funebre vittoria. Incoerenze, silenzi, parole esitanti tradiscono via via quella volontà che lotta invano. Qualche grido sfrenato e qualche parola incauta è tutto quello che giunge sulla scena della silenziosa lotta di Mirra figura muta e tristissima, accarezzata segretamente da una mano misericorde.
Era naturale che con la sua tempra l'Alfieri trovasse la sua materia e i suoi atteggiamenti nella morale romana, rettilinea e fiera; nella saggezza e rettitudine plutarchiana; nei miti greci che sommovono i fondi più paurosi del destino umano; nella ferocia barbara; nella proditoria freddezza delle Signorie; nell'indeprecabile vendetta del Dio ebraico; e che si formasse uno stile ferreo, angoloso, congestionato, una tecnica torrenziale e tagliante, che, nei momenti d'ispirazione, produce effetti grandiosi, e, dove questa vien meno, si sgretola in un linguaggio forzato e stridente
PENSIERO E SENTIMENTO POLITICO DELL'ALFIERI
Mentre il Parini valica i confini del riformismo politico settecentesco col suo sentimento di giustizia sociale, con la sua contrapposizione di classi, l'Alfieri passa oltre a quello, si può dire, senza neppure entrarvi, in forza del suo prepotente individualismo. Schiettamente, radicalmente individualistico era per verità tutto il pensiero politico del riformismo settecentesco: ma in maniera assai diversa. Il riformismo settecentesco mirava all'utilità, al benessere dell'uomo, e cercava di realizzarli nella vita associata con un individualismo utilitario e sociale (non sembri assurdo questo accoppiamento: individualismo sociale, come di termini antitetici. L'antitesi - che naturalmente anch'essa non esclude la sintesi imposta dalle necessità della vita, - non è propriamente fra individuo e società, ma fra individuo e Stato: la società è composta di individui, è intessuta di bisogni, di interessi, di sentimenti individuali, e come tale si contrappone essa medesima allo stato, nel senso di governo, anzichè identificarsi con quello). L'individualismo dell'Alfieri è un individualismo idealistico, che ha radice nel bisogno di affermazione del proprio io. Perciò, mentre il primo fa capo al concetto di utilità sociale, il secondo fa capo a quello di libertà politica. Neppure la libertà politica era ignota al riformismo settecentesco; ma non vi acquistava rilievo netto, e tanto meno preponderanza, centralità. Era piuttosto un limite dell'ingerenza governativa, una conseguenza naturale dell'utilitarismo, un sottinteso della ragione. La politica. del Settecento ha una tendenza, vedemmo, «apolitica», e in questo apoliticismo trova una delle sue caratteristiche. Essa postula un governo illuminato come strumento del proprio riformismo, del benessere individuale-sociale, piuttosto che formulare direttamente e principalmente il problema politico dei diritti dell'individuo e del popolo nella cosa pubblica e occuparsi sistematicamente della costituzione di questa. Ciò vale non solo per i pensatori italiani del Settecento da noi fin qui esaminati, ma in gran parte anche per quelli francesi. Il Contrat Social del Rousseau è la maggiore eccezione; ma esso sembra aver avuto per questa parte (cioè per il problema costituzionale) poca influenza nella stessa Francia prima della rivoluzione o dei tempi immediatamente antecedenti ad essa, e certamente ne ebbe ancora meno in Italia.
Non ne ebbe ad ogni modo nessuna sul liberalismo radicale dell'Alfieri...
Nucleo del pensiero, del sentimento politico alfieriano è la libertà individuale, quella che gli «uomini veri» chiamano «di vita parte» (sonetto introduttivo a Della Tirannide). Coloro che della libertà non godono e non ne sentono la mancanza, coloro che non conoscono i diritti dell'uomo e non esercitano le facoltà umane, usurpano il nome di uomini: essi non sono che «turpissimi armenti» (Della Tirannide, 1. II, c. 3). È celebre la confessione da lui fatta nella Vita che tra i suoi sentimenti predominava «una profonda ferocissima rabbia ed aborrimento contro ogni qualsivoglia tirannide» (epoca IV, c. I). Egli non volle vedere Caterina II a Pietroburgo per «odio purissimo della tirannide in astratto», anche se nel caso specifico l'avversione era accresciuta dal fatto che si trattava di persona rea di aver fatto uccidere il marito (Vita, epoca III, c. 9). E precisamente egli odia la tirannide perché «i pessimi governi» trascurano e soffocano le virtù dei temperamenti individuali. Del che aveva sperimentato l'effetto su se stesso: perché in un breve ritorno in Piemonte, trovandosi coi «barbassori» governanti, stava piuttosto in atteggiamento di liberto che d'uomo libero (Vita, epoca IV, c. 13).
Che cosa intende l'Alfieri per tirannide? Non occorre ricordare che i governi tirannici erano riprovati dagli scrittori settecenteschi, o per meglio dire erano stati riprovati sempre dagli scrittori politici anche più ortodossi. Ma già dalle citazioni che abbiamo fatto s'intravede quale ampio concetto, diverso dal comune della sua età, avesse l'Alfieri della tirannide. Lo ha spiegato con molta precisione egli stesso nei due primi capitoli del suo trattato intitolato appunto così, trattato che è del 1777. Tiranno va detto non soltanto chi ha una facoltà illimitata di nuocere, anche se non ne abusa; ma altresì tirannico è qualsiasi governo nel quale chi è preposto all'esecuzione delle leggi può farle, distruggerle, sospenderle, sia poi il governante ereditario o elettivo, uno o più, legittimo o usurpatore (l. I, c. 2). Tirannide è anche quando i legislatori sono essi medesimi gli esecutori delle leggi, o quando i detti esecutori non devono renderne conto (ivi). E con questi concetti in mano egli identifica monarchia e tirannide. Non è soltanto nelle tragedie ch'egli fa chiamare da Giocasta «il fero trono» un'ingiustizia antica ognor sofferta, e più aborrita ognora, e fa definire da Polinice il regnare come il far legge d'ogni propria voglia, il farsi pari ai Numi (Polinice, a. II, sc. 4). Le tirate delle tragedie corrispondono abbastanza esattamente al pensiero alfieriano, per quanto si può parlare di un pensiero riflesso riguardo a un così bollente effonditore dei propri sentimenti nella loro spontaneità originaria. Non manca tuttavia di un certo vigore logico quel che egli dice nel secondo capitolo di Della Tirannide: la monarchia è tirannide, se le leggi non hanno forza per se stesse, indipendentemente dalla volontà del monarca; se hanno questa forza, allora non è più monarchia, cioè governo di un solo. Principe, insomma, è per l'Alfieri uguale a tiranno: è rilevato espressamente in Della Tirannide (l. 1, c. I) come la definizione del primo, data in Del Principe e delle Lettere (l. I, c. 2), sia uguale a quella del secondo. Egli fa applicazione di questo principio nella Vita (epoca IV, c. 6) chiamando tirannide la monarchia sabauda e quella francese di avanti la Rivoluzione.
L'effetto generale della tirannide - o della monarchia - per l'Alfieri è che «sotto all'assoluto governo di un solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa» (Della Tirannide, l. I, c. 5). L'individualismo morale alfieriano va diritto alle conseguenze etiche di un regime privo di libertà. Gli stessi sentimenti, le stesse forze morali subiscono, in un simile regime, un capovolgimento, una trasformazione totale, che è una totale corruzione. «L'amor di se stesso nella tirannide non è già l'amore dei propri diritti, né della propria gloria, né del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita animale » (Della Tirannide, l. I, c. 15). L'ambizione, che è lo stimolo a farsi maggiori degli altri e di se stessi, «produce del pari e le più gloriose e le più abbominevoli imprese»: sotto la tirannide si verifica il secondo caso, perché l'ambizione trova impediti tutti i fini virtuosi e sublimi (ivi, l. I, c. 5). Nonostante ogni differenza fra lo spirito dell'Alfieri e quello del riformismo settecentesco, occorre qui ricordare come nel Filangieri abbiamo trovato espressi concetti perfettamente analoghi circa il differente atteggiarsi dell'amor proprio sotto i governi dispotici e in quelli liberi. La tirannide, che in Asia fece l'uomo meno che uomo, estirpata dalla Grecia, fece i Greci pari ai Numi, il primo popolo della terra (Timoleone, a. III, sc. 4). Sempre per questo suo individualismo morale, la critica alfieriana s'interessa a rilevare i mali effetti della tirannide sul tiranno medesimo: quali che siano le intenzioni sue originarie, il tiranno o re, diviene nemico della virtù, grave a sé ed agli altri.
di mercar laude
avido ognor, ma convinto in te stesso
che esecrazion sol merti,
sempre pieno di sospetti e di paura, sempre assetato d'oro e di sangue, privo di amici e di parenti,
a infami schiavi
non libero signor; primo di tutti,
e minor di ciascuno
(Timoleone, a. III, sc. 4).
Soprattutto egli è schiavo della ragion di stato, che adultera in lui i sentimenti più naturali, più fondamentali dell'umanità. Così Emone dice al padre Creonte:
Tutto sei re: tuo figlio
non puoi tu amare, a tirannia sostegno
cerchi, non altro
(Antigone, a. IV, sc. 2).
Agli occhi dell'Alfieri non vi sono giustificazioni alla tirannide in artifici giuridici, in vantaggi pratici. Invano Timofane, il tiranno di Corinto, adduce nel Timoleone che egli ha avuto il suo potere dai più, che è stato creato in forza di una legge (a. II, sc. 3); invano adduce l'esempio di Licurgo che per far servire il suo potere al bene comune dovette farsi tiranno, ed enuncia un aforisma che ha dietro di sé tutta una storia dottrinale:
Ah! sola
può la forza al ben far l'uom guasto trarre
(a. I, sc. I).
Invano egli fa il ragionamento (anche questo non meno tradizionale nel pensiero politico) che, se l'unico reggitore è ottimo, ottimo sarà anche il suo governo, ed enumera tutti i vantaggi di un principe saggio, anche se malamente asceso al trono: buone leggi, sicurezza e tranquillità interna, energia e rapidità di azione, e forza e grandezza dello Stato. Timoleone risponde con quel confronto che abbiamo già riportato fra l'Asia e la Grecia, sostenendo l'effetto morale disastroso prodotto dall'assolutismo sul carattere morale (a. III, se. 4), sulla "pianta uomo", per servirsi di un'altra espressione alfieriana. Può il sovrano assoluto aver buona indole, far più bene che male (come Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III in Piemonte); «con tutto ciò quando si pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere vengono dal loro assoluto volere, bisogna fremere, e fuggire» (Vita, epoca IV, c. 13).
Non senza acutezza di osservazione, raggiunta attraverso l'intensità medesima della sua passione libertaria, l'Alfieri afferma che la «tirannide» può cambiare forme col cambiare dei tempi, senza perdere la propria sostanza, che è quella dell'arbitrio: «In questo mansuetissimo secolo, cotanto si è assottigliata l'arte del tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e cosí ben velate e varie saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i modi coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata in eterno» (Della Tirannide, 1. II, c. 7). A questo proposito egli osserva come il cambiamento lentissimo prodotto dai libri finisca per trasformare totalmente l'opinione; ma contemporaneamente si trasforma anche l'arte del comandare, e gli uomini rimangono sudditi ugualmente (Del Principe e delle lettere, 1. I, c. 8). È lo stesso assolutismo illuminato che qui l'Alfieri colpisce; ma la sua chiaroveggenza non è giunta a tanto da scorgere come in realtà la nuova «mansuetudine» minasse le basi della «tirannia» e preparasse, sia pure senza saperlo e volerlo, lo scoppio, di lì a qualche anno, della rivoluzione.
PESSIMISMO ALFIERIANO
L'attività letteraria dell'Alfieri si inizia con L'esquisse du jugement universel, tentativo di una rappresentazione satirica della società del tempo, e si conclude con lo scherno amaro delle Commedie: né è un caso che al principiante ancora in cerca di sé medesimo, come all'autore precocemente invecchiato e ormai staccato dai suoi fantasmi più cari, si offrisse come materia della sua scrittura il mondo dei vizi e delle meschinità umane e che la medesima insofferenza che traspare dai passi più significativi dello scritto giovanile erompa dalla chiusa dell'ultima commedia.
Spettatori, fischiate a tutt'andare
L'autor, gli attori, e l'Italia, e voi stessi;
Questo è l'applauso debito ai vostri usi.
Quell'insofferenza non era, o non era soltanto, la manifestazione di aria giovinezza inesperta o di una vecchiaia delusa, ma uno stato d'animo costante, che non viene meno nell'Alfieri durante gli anni del fervore creativo e che diventa sentimento dominante ed esclusivo, appena quel fervore accenna ad attenuarsi o a spegnersi. Anche nel suo tempo migliore, quello della composizione delle tragedie, egli avrebbe potuto dire di sé, - ma l'avrebbe detto con accenti più vigorosi e personali, «J'eus le défaut d'approuver rarement ce qui se passoit autour de moi et un penchant beaucoup plus fort pour blàmer que pour applaudir»: non da questa o da quella circostanza, soggettiva od oggettiva, traevano la loro origine i suoi giudizi negativi intorno a uomini e a cose, ma, quali ne fossero l'occasione e l'oggetto, da una qualità peculiare del suo spirito, che prima di ogni altra attrae l'attenzione di chi si accinga a studiarlo.
«Di questo secolo servile ed ozioso, tutto, ben so, t'è nausea e noia; nulla ti innalza; nulla ti punge; nulla ti lusinga...», gli dice nel dialogo La virtù sconosciuta l'amico estinto, vissuto al pari di lui, come egli scrive piangendo sulla comune sorte, «nei più morti tempi della nostra Italia», o, come dirà di sé in un sonetto del Misogallo, «nel più inerte verno dell'Italia »: e della « feccia nostra presente », si discorre in quel dialogo, e « vile » in un sonetto è chiamato il secolo tutto, - «Ma, non mi piacque il vil mio secolo mai», - e «vile», l'Italia nell'epigramma dedicatorio a Pasquale Paoli.
Tu invan col brando, ed io con penna invano
Risuscitar la Italia vil tentammo...
Il biasimo, come si vede, si converte in condanna, una condanna, che ignora le distinzioni e le sfumature necessarie e colpisce non questo o quell'aspetto dell'Italia contemporanea, ma l'Italia tutta, e con l'Italia tutto il secolo: e la condanna dell'aborrito presente tende a trasformarsi in una condanna dell'uomo, quale dolorosamente egli scopre in ogni luogo e in ogni tempo, e, prima che in altri, in sé medesimo. «Non sempre, anzi le più rade volte scorgerai nel mio pur troppo piccolo cuore sane ed alte ragioni che il muovano», sono queste ancora parole della Virtù sconosciuta, e non diversa da quella di Vittorio suona poco più innanzi la confessione del suo Francesco: «E forse spessissimo la fonte di ciò che virtù chiamavi e che tale ti parca, avresti visto esser tale da dovermi costar lo svelartelo, non modestia, no, bensì ardire molto e vergogna». La preoccupazione dei moventi segreti e meno degni, che ispirano anche le azioni in apparenza più nobili, era, tanti anni prima delle Commedie, viva nell'intimo petto del poeta, che non poteva nasconderla nemmeno nell'operetta dedicata alla celebrazione della virtù singolarissima di quell'«unico» amico.
Intransigenza di una severa coscienza morale? Non lo si può negare, ma più ancora di quella intransigenza, la quale non escluderebbe di per sé una superiore temperanza e pacatezza di giudizio, i passi citati e i molti altri che si potrebbero citare, fanno palese un senso acuto e tormentoso delle debolezze umane. «Il grand'uomo, è pure uomo, e quindi piccolissima cosa è anch'egli» : il pensiero di questa piccolezza non abbandona, si può dire, mai l'Alfieri, che è costretto a riconoscerla anche in quei pochi rari individui verso i quali bramosamente si volge, offeso dalla mediocrità degli infiniti altri, e che anche in sé stesso ritrova sempre, accanto al «gigante», il «nano», ogni qualvolta va meditando qualche «alta cosa». Davvero, non si può dire che egli nutra illusioni sulla «vera e scalza, trista natura nostra»: basti ricordare gli accenni alla «ferocia naturale» dell'uomo o qualcuno di quegli aforismi, non indegni del Machiavelli, sparsi nella Vita e nelle opere politiche, o la parola divina, che nell'Abele si fa sentire ammonitrice dal cielo dopo il delitto di Caino: «Uom, lasciato a te stesso, ecco qual sei». Né mancano fra i suoi scritti richiami, in prosa e in versi, all'animalità dell'uomo e ai suoi inevitabili e meno piacevoli aspetti, non diversi per l'argomento e per la crudezza dell'espressione da qualche articolo, a lui ben noto, del Dictionnaire philosophique. Non per quei passi soli del resto, coi quali si manifesta in forma estrema quel suo tormentoso sentimento, siamo indotti a riconoscere in lui quasi una vena di cinismo: e per vero il suo volto, nel quale una donna, Isabella Albrizzi, credette di vedere «l'immagine di una divinità corrucciata», illuminato com'era «da certo splendore che dopo avergli indorato i capelli pareva diffondersi per tutta la faccia e irradiarla», ci sembra talora contrarsi in un ghigno, che non può non far pensare a quello del Voltaire, l'autore mai dimenticato delle letture giovanili...
Sembra che quanto vi è di positivo nella cultura del tempo debba inevitabilmente sfuggirgli e che egli ne esasperi le negazioni, traendone nuovo alimento al suo cruccio e al suo sdegno. Così, venuta meno in lui la ragionata fiducia del Voltaire, la considerazione dei mali umani gli ispira soltanto uno stato di rancore contro la sua condizione di uomo e contro tanta parte dei suoi simili: ignaro della saggezza predicata nei libri che gli sono familiari, lo vediamo ribellarsi contro quei limiti, che i suoi contemporanei stimarono invalicabili, e talora, diremmo, contro quegli stessi, che gli uomini di ogni età devono, per vivere, riconoscere. Naturale conclusione del sonetto Cose omai viste, che si è citato più sopra, è l'esortazione che il poeta, conscio della vanità della vita, fa a sé medesimo: «Muori: ei n'è tempo il dì che indarno arditi Gli occhi addentrando nei futuri lutti, Cieco esser senti e d'esserlo t'irriti»: ma al rifiuto della vita, prima ancora dei suoi eroi, egli sembra tendere in tutta la sua opera.
È negli Annali la nota confessione, «1749. A' 17 gennaio nacqui per mia disgrazia», e, parecchi anni innanzi in uno dei primi sonetti, aveva scritto: «Nascer, sì nascer chiamo aspra vicenda, Non il morir, ond'io d'angosce tante Scevro rimango...», e in una pagina dei Giornali, discorrendo del suo proposito di rendersi familiare il pensiero della morte: «M'arrabbia il vedere nella natura umana una tenacità nell'amar codesta prigione corporea tanto più quanto val meno». Quasi potremmo crederlo un mistico, quest'uomo del secolo decimottavo, che pure in quello stesso anno faceva professione di fede sensistica, - «Veder, toccare, udir, gustar, sentire, Tanto, e non più, ne diè Natura avara...» - e che come qui di «prigione corporea», parla altrove del «mondo», non diversamente d'un cristiano, tutto rivolto alla patria celeste!
Non giunto a mezzo di mia vita ancora,
Pur sazio e stanco del goder fallace
Son di quest'empio, traditor, mendace mondo...
La sua irrequietezza non era l'uneaseness del Locke, in cui il pensiero del tempo riconosceva la molla necessaria dell'azione, bensì l'inquietudine che sarà dei romantici, tormento di chi si sente troppo più grande del mondo in cui è posto a vivere e in cui pensa non gli sia dato manifestare la sua singolare, intima forza. Già nella sua pagina diremmo di aver letto le parole estreme del suo minore fratello recanatese: «Non val cosa nessuna I moti tuoi...»: ma, ad esprimere anzi a simboleggiare il suo sentire, basta, con quella del carcere, l'immagine del «deserto», che più d'una volta incontriamo ne' suoi scritti, s'a che della solitudine selvaggia il poeta si compiaccia quasi in essa sola trovi la sua patria vera, - «Sol nei deserti tacciono i miei guai», - sia che, guardando intorno a sé, non riesca a scorgere nello spettacolo vario del mondo se non un eguale, tedioso grigiore. Non soltanto la disperazione per il distacco dalla sua donna gli faceva vagheggiare la «vita muta, solitaria, dura» dei monaci della Grande Chartreuse e gli ispirava questa grande, desolata quartina!
Dell'empio mondo traditore il vuoto,
I casi vari e sempre pur gli stessi,
E l'aspra noia, e il rio languor mi è noto,
Né più vedrei, se in lui mill'anni stessi.
Anche quando quel tristissimo 1783 sarà un ricordo lontano, il concetto e qualcuna delle espressioni di questi versi ritorneranno in quel sonetto, nel quale con animo più pacato il poeta cerca di chiarire quel sentimento, che da tanto tempo gli è ormai familiare.
Cose ormai viste, e a sazietà riviste,
Sempre vedrai, s'anco mill'anni vivi:
E studia, e ascolta, e pensa, e inventa, e scrivi,
Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste.
E certo non mai così chiaramente come in questo sonetto egli riconobbe quale fosse la cagione vera della sua tristezza: quell'ansia di grandezza, che, dopo averlo spinto a farsi «singular fra l'altra gente», e poi a cercare fuori del consorzio umano, nei «deserti», il mondo più veramente suo, non mai placata, gli faceva intravedere, al di là dell'umanità, il fantasma, irraggiungibile, del superuomo, e, infondendogli nel petto l'amore della vita più che umana, gli toglieva il gusto stesso del vivere.
Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste...
Il grido d'orgoglio della sua età, così fiera delle proprie conquiste e così fiduciosa nelle tante altre, che attendeva prossime, e in un progresso indefinito, che vedeva schiudersi dinanzi, moriva sulle sue labbra: ma l'impulso che spingeva i suoi contemporanei ad un'opera varia e feconda di rinnovamento in ogni campo del sapere e della vita civile, non era spento in lui, che, nulla stimando i fini conseguiti o quelli più facilmente conseguibili, «nil actum credens dum quid superesset agendum», si protendeva col desiderio verso un fine così elevato, che scolorava ai suoi occhi ogni risultato possibile dell'umana attività. L'esaltazione dell'uomo cedeva il luogo al sogno del superuomo, e le conseguenze pratiche non erano per questo molto diverse - alla persuasione di essere circondato da tanti, che «usurpano il nome di uomini», e che l'uomo vero fosse da cercare soltanto in un passato remoto o in un avvenire lontano e mal determinato. Regresso? Eppure, quel pessimismo che sembrava negare l'opera multiforme del secolo e inaridire le fonti stesse dell'azione, rappresentava un affinamento nella coscienza morale del tempo, poiché opponeva alla soddisfazione per i risultati conseguiti un dubbio salutare sul loro effettivo valore e lasciava intravedere al di là degli scopi immediati un superiore ideale di vita. Ricordiamo che l'Alfieri, seguace fedele, se pur riluttante, dei suoi maestri, non mostra mai nei suoi scritti di considerare il piacere come il fine della nostra vita, così come non si preoccupa nella sua speculazione politica del benessere dei singoli o delle collettività: per istinto, diremmo, - ché per una critica di concetti non era fatto, - egli respingeva l'edonismo della morale contemporanea, ed anche il suo pessimismo non sorgeva dalla persuasione che irraggiungibile è la felicità, ma, come si è detto, dalla preoccupazione della grandezza, ossia della affermazione piena ed intera della personalità umana, che egli sentiva, in sé stesso e in altrui impedita e limitata da tanti ostacoli interni ed esterni e talora gli pareva addirittura possibile soltanto in condizioni affatto diverse da quelle in cui siamo posti a vivere, e, perciò in effetto, mero e doloroso desiderio.
Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste.
Non così avevano salutato quel sogno, che gonfiava d'entusiasmo il loro petto, i rappresentanti dello Sturm und Drang germanico, negatori, al pari dell'Alfieri, degli spiriti utilitari e antieroici della morale illuministica e dotati, come egli era, di un senso vivissimo e quasi esasperato della propria singolare ed unica individualità. La gioia trionfale del titanismo, il nostro poeta non la conobbe, o forse appena la presenti nella sua prima giovinezza - come ci par di intravedere attraverso la narrazione della Vita: -- né fu anche sua l'orgogliosa coscienza, che gli Sturmer ebbero, di poter improntare, non diversamente dalla divinità, del loro spirito creatore un proprio mondo. Se la figura, che impersona nella forma artisticamente più pura quello stato d'animo, il Prometeo goethiano, leva sereno e impavido il suo sguardo incontro a Zeus, in mezzo alle creature che va formando a sua immagine («Hier sitz' ich, forme Menschet, - Nach meinem Bilde - Ein Geschlecht, das mir gleich sei, - Zu leiden, zu weinen, - Zu geniessen und zu freuen sich, - Und dein nicht zu achten - Wie ich»), Saul, la massima espressione del titanismo alfieriano, soltanto nell'istante supremo si erge di fronte all'inesorabile Dio, ma la forza della sua volontà altrimenti non può manifestare che col darsi la morte. È palese la ragione, culturale e confessionale, di questi diversi sviluppi di un medesimo stato d'animo: come è anche palese che, in confronto con quello germanico, il titanismo alfieriano debba sembrare assai povero di senso cosmico e metafisico, tutto rivolto com'è il nostro poeta al mondo limitato degli uomini e al conflitto dei loro ideali politici - anche il Saul più che il contrasto fra il re ebreo e il suo Dio, rappresenta il contrasto fra Saul e Davide, o meglio, il travaglio del vecchio sovrano, anelante a ricuperare l'integrità del proprio volere. Ma è anche da aggiungere che la coscienza della vanità del suo sogno superumano, preservò l'Alfieri da quel che di torbido ed impuro ci colpisce nelle manifestazioni dei minori Sturmer (quanto innocenti, al confronto, il rosso mantello svolazzante, e le corse sfrenate a cavallo, e le altre famose sue originalità): nella sua sofferenza, che è così visibile sul suo volto e che lo purifica da quanto vi era d'orgoglioso nel suo desiderio di grandezza, come da quel che vi potè essere di cinico e di crudele in certi atteggiamenti verso i suoi simili, riconosciamo il segno di una viva sensibilità morale, e nel pessimismo di tanti suoi accenti, la serietà di uno spirito che non si abbandona a un facile entusiasmo, e, non riuscendo a convertire il proprio ideale etico in una fede rasserenatrice, non maschera la propria incapacità con vane effusioni, ma insiste più che sul contenuto positivo della sua idealità, su quanto le si oppone e sembra negarla
LE LETTERA DELL'ALFIERI
Non è ricchissimo l'epistolario dell'Alfieri ed a un lettore poco iniziato può sembrare perfino poco alfieriano un epistolario in cui non si sente il continuo scatto di una passione che si fa ritmo gagliardo, in cui non ritorna il romanzesco procedere della Vita.
Ed è proprio a una precisazione migliore del temperamento alfieriano, troppo spesso presentato in maniera scolastica come crucciato e fremente, che le lettere servono mirabilmente, lumeggiando con accenni minuti e poco retorici quelle venature, presenti in ogni opera alfieriana, di una sostanza di umanità non astrattamente eroica, di un'attenzione poetica acuta e sensibile ai dati più elementari della giornata umana che anche nelle prime pagine della Vita hanno fatto parlare di poesia della memoria, di Proust, di analisi poetica. Perciò l'uso dell'epistolario nella conoscenza dell'Alfieri appare essenziale, in quanto, fuori della pettegola e assurda misurazione del possibile divario fra l'uomo reale e il suo ritratto poetico, ci permette di accertare la concretezza, l'aderenza vitale, ricca anche di abbandoni, di care nostalgie, che nutrono la tensione di un grande poeta che la tradizione più comune ha immaginato troppo convulsa, continuamente clamorosa. Donde derivava quella impressione di venerazione e di fastidio in una lettura scolastica e retorica che distacca dall'Alfieri tanti lettori che pure amano Leopardi e Foscolo.
Il vero Alfieri, il grande poeta del preromanticismo italiano, il poeta di una passione di liberazione non solo politica e patriottica, ma diremmo religiosa e profondamente personale che si inserisce nella storia della spiritualità romantica, è assai più complesso e presuppone un atteggiamento intimo che non è semplice furia di lotta, di gesti essenziali, ma è anche agio di osservazione, bisogno di concretezza, possibilità di sogno, di tristezza nostalgica. Così che le sue orribili melanconie, il suo romantico amore d'infinito hanno la base su sentimenti più limitati e gustati, su visioni di paesaggi non astratti. E proprio l'Alfieri, il «volontarista» dell'arte, rivela così invece un gusto intimo di esperienza, una sensibilità di quotidiane sensazioni, che, se non equivalgono certo all'attenzione leopardiana per il proprio vivere dolente, hanno una sicura validità nel rendere tanto più concreto e sensibile l'alto mondo di Saul e di Mirra.
Certo, sempre gli epistolari rivelano i poeti nella loro espressione più nuda, nella loro reazione alle vicende, nel loro volto meno mascherato ma, nel caso dell'Alfieri, una specie di nudo lirismo sale da queste pagine poco elaborate e coincide con quel tono di esperienza non sempre rapita, di sensibilità più pacata che si può ben sentire in certe parti della Vita, perfino in versi delle Rime o delle Tragedie: quel gusto sobriamente edonistico delle azioni mescolate sempre a un tedio nascente, a un fremito, a un disperato bisogno di affetti realmente vissuti, che nutre la più esaltata poesia alfieriana, che porta il suo segreto sapore nella scena più desolata.
Tutta un'aria di vita non eccezionale e non convulsa circola nell'epistolario e ci assicura l'esclusione di un persistere maniaco in una posa, aggiunge agli impeti alfieriani il sostegno di una concretezza quotidiana nella relazione con gli uomini e con le cose. Torna vivo nelle lettere il senso del tempo vissuto; il milieu settecentesco con le sue relazioni affettuose, ma scrupolosamente riguardose, con i suoi particolari di scomodo e di agio lussuoso (viaggi, carrozze, poste, locande, palazzi grandiosi e mal riscaldati), con il suo brio riposato, con il suo accento accademico, e insieme il tono sensibile ed elegante che nella cortesia un po' brusca dell'Alfieri si fa sentimentale, a volte già integralmente romantico. «E chi sa ch'io da una donna che sente non cavi più lumi assai che da professori che hanno il cuor col pelo?»: scrive in una lettera dell'85, e questi accenni a una sensibilità che da sensistica si fa romantica, si moltiplicano specie in quel gruppo di lettere - il più unitario e il più gustoso - scritte a Mario Bianchi e Teresa Mocenni, la coppia amante di Siena a cui l'Alfieri indirizza le sue espressioni più intime e continue in una sorta di diario ravvivato da una nostalgia che non si precisa, ma s'intende, per Siena, e da una confidenza, da un legame nati da una morte e conclusi con una morte (quella di «Checco» il Gori-Gandellini, il modello della «virtù sconosciuta» e quella dello stesso Bianchi), confermati da una simpatia di situazione simile (una coppia irregolare come quella dell'Alfieri e della Albany), da una intesa di «fini amanti» («Mi s'arricciano i capelli sempre che io penso al pericolo che si corre quando si vive in altri come facciam noi», al Bianchi, 9 aprile '86) e da una sollecitudine affettuosa e quasi protettrice per la malattia dell'amico, che danno a queste lettere un incanto di stile insolitamente tenero e triste, sorridente e pessimistico in uno sfondo di comprensione senza coturno tragico, senza pensiero di gloria. C'è in queste lettere, ben più sensibili di quelle scritte alla madre o all'abate di Caluso (confidente piuttosto di preoccupazioni culturali ed artistiche), un fondo di tristezza non corrucciata, coerente con il tono amichevole e sorridente di racconti, di inviti. Una tristezza pensosa che sale fino ad espressioni risolute e potenti («Sono tristissimo e solo nel mondo»), ma che per lo più le svolgono da un contesto più calmo e quasi abbandonato: «Mi saluti la Teresina caramente e beato lei che ogni giorno può pur vederla e contarle i suoi guai e sentire i suoi, sola dolcezza della vita: il resto è morir continuo» (al Bianchi, 20 dicembre '84). Questa malinconia non è certo la «ninfa gentile» del Pindemonte e mantiene la serietà grave della tragedia, ma è insieme un tono d'intimità, che dà un sapore più profondo alle maggiori tensioni delle tragedie e le giustifica fuori di una astratta grandezza, in una concreta, sofferta umanità. Una malinconia che placa il ritmo prosastico, lo scioglie in un abbandono di timbro romantico, in cui si affaccia il motivo, che sarà poi foscoliano, della morte come affermazione antiretorica e pace del tumulto passionale. «Penso spessissimo a Checco nelle mie passeggiate mattutine e dico: questo luogo gli piacerebbe, questa città, questo fiume, e poi piango e poi leggo il Petrarca, che sempre ho in tasca; penso alla Donna mia e ripiango; e così tiro innanzi e desidero la morte, e mi spiace di non aver ragioni per darmela» (al Bianchi, da Pisa, 8 luglio '8S). Abbandoni nostalgici sempre più intimi e avidi di una zona di silenzio, colmata solo da intensi affetti, da un senso del nuovo valore del sentimento che distacca recisamente l'Alfieri dall'equilibrio settecentesco: «Giova assai più alla fantasia e all'affetto il credere che il nostro Mario sia col Candido e col Gori, e che stiano parlando e pensando di noi, e che li rivedremo una volta, che non di crederli tutti un pugno di cenere. Se tal credenza ripugna alla fisica e all'evidenza gelida matematica, non è perciò da disprezzarsi; il primo pregio dell'uomo è il sentire; e le scienze insegnano a non sentire. Viva dunque l'ignoranza e la poesia, per quanto elle possono stare insieme: immaginiamo, e crediamo l'immaginato per vero: l'uomo vive d'amore, l'amore lo fa Dio: ché Dio chiamo io l'uomo vivissimamente sentente» (scriveva il 10 dicembre '96 alla Mocenni dopo la morte del Bianchi).
Ma sempre queste esplosioni più forti, che si collegano poi a espressioni più facilmente riferibili all'Alfieri eroico e tragico, al suo tormento, che qui ha mostrato la sua origine più intima e altrove ha le sue giustificazioni ideali più vaste, sono preparate e sostenute da una trama più minuta di cronaca quotidiana modesta e sincera, di atteggiamenti assorti che costituiscono la chiara base di uno stato d'animo poetico, sognante e attento, che era necessario anche per gli scatti di una tensione più drammatica. Ecco così formarsi da certe sue lettere un'aura di quiete, in cui il fremito alfieriano perde il suo battere più convenzionale, è pena intima bisognosa di espressione; è l'orario scrupolosamente seguito in giornate ormai prive dell'avventurosità giovanile, il lavoro notturno alla lucerna interrotto da cavalcate mattutine entro panorami pisani o alsaziani (ma il «suo» panorama è quello toscano e soprattutto l'incontro ideale Pisa-Siena), il cocciuto colloquio con il Caluso sul senile studio del greco e sulla letteratura seguìta nei segreti più tecnici dello stile (e illuminata da rapide e audaci intuizioni: «Il Petrarca avrebbe eternato la sua gatta se ne avesse voluto scrivere quanto la sua Laura», 25 novembre '99), la esplicita dichiarazione di una vita tutta in profondità e in casalinga tranquillità: «I veri letterati, che non fanno bottega del loro sapere, sono veramente i re di questo mondo e le gerarchie e i santi dell'altro. Lo studio e i libri e le dolcezze domestiche, aspettando la morte, sono veramente le sole cose che meritino d'esser considerate dall'uomo, quando ha sfogata la gioventù» (al Caluso, 21 aprile 18oo). È appunto di questo Alfieri impegnato ormai nella sua vita più vera di poeta, prima calda d'affetti che tendono e giustificano la sua poesia, poi sempre più rinchiusa nello studio come preparazione «alla morte» (e la presenza della morte è tra le più assidue presenze, con l'amicizia, e l'amore, in questo epistolario), è di questo Alfieri, fermo nel suo «degno amore» e nella sua poesia, che le lettere ci parlano nel loro stile poco retorico e avviato a soluzioni più alleggerite e sottili, più modestamente concrete nel loro carattere poco impegnativo, rispetto all'alto linguaggio poetico, che proprio in queste prove meno solenni ha la riprova migliore di una sublimità non astratta, di una tensione non vacua e retorica.

Esempio



  


  1. Toni

    Sublime specchio di veraci detti

  2. Arianna

    Grazie mille per queste informazioni mi saranno molto utili.

  3. Alessio

    Cerco appunti per una tesi sul dialogo La virtù sconosciuta