Vita e opere di Pirandello

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Testo

Luigi Pirandello.
Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867, da una famiglia di agiata condizione borghese e di tradizioni risorgimentali. Compì i suoi studi a Palermo, dove si iscrisse all’università, poi si trasferì nella facoltà di Lettere a Roma e infine si laureò presso l’università di Bonn (in Germania) nel 1891. Gli studi in Germania furono molto importanti per lo scrittore perché lo misero in contatto con la cultura tedesca e gli autori romantici. Tornato in Italia nel 1892, prese residenza a Roma, dove trascorse poi gran parte della sua vita, collaborando a vari giornali, e insegnando per oltre vent’anni letteratura italiana presso l’Istituto Superiore di Magistero (dal 1897 al 1922). Nel 1893 scrisse il suo primo romanzo, L’esclusa. Nello stesso anno sposò Maria Antonietta Portulano. Nel 1903 un allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto il suo patrimonio provocò il dissesto economico della famiglia. Il fatto ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore in quanto la moglie ebbe una crisi e divenne pazza. La convivenza con la donna, ossessionata da una gelosia patologica, costituì per lo scrittore un tormento continuo, che può essere visto come il germe della sua concezione dell’istituto familiare come trappola che soffoca l’uomo. Il dissesto economico inoltre lo costrinse a mettersi in concorrenza anche sul mercato editoriale vendendo le sue novelle e romanzi. Lavorò anche per il cinema, scrivendo soggetti per film. Nonostante il buon successo ottenuto col pubblico, la critica lo considerava un umorista minore. Dal 1910 Pirandello ebbe la sua prima esperienza teatrale con la rappresentazione di Lumìe di Sicilia e La morsa. Dal 1915 la sua produzione teatrale si intensificò: mise in scena a Milano la prima commedia in tre atti Se non così. Tra il 1916 e il 1918 scrisse e fece rappresentare una serie di drammi che modificavano profondamente il linguaggio della scena del tempo, che suscitarono nel pubblico e nella critica reazioni sconcertate. Negli anni della guerra Pirandello aveva visto con favore l’intervento, ma la guerra provocò solo dolore nella sua vita: il figlio Stefano fu fatto prigioniero dagli Austriaci e la malattia mentale della moglie si aggravò, tanto che fu rinchiusa in una casa di cura, dove restò fino alla morte. Dal 1920 il teatro di Pirandello cominciò ad avere successo col pubblico. Nel 1921 Sei personaggi in cerca d’autore rivoluzionarono il linguaggio drammatico. I drammi pirandelliani, negli anni Venti e Trenta, furono rappresentati in tutto il mondo. Nel 1922 lo scrittore lasciò la cattedra universitaria e si dedicò interamente al teatro. Dal 1925 assunse la direzione del Teatro d’arte a Roma. Nel 1924 aderì al partito fascista, e ciò gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. Però la sua adesione al fascismo ebbe caratteri ambigui: da un lato egli vedeva nel fascismo una garanzia d’ordine, dall’altro vedeva l’affermazione di una genuina energia vitale che spazzava via le forme fasulle della vita sociale dell’Italia postunitaria. Presto però si rese conto del carattere di vuota esteriorità del regime e se ne distaccò. Negli ultimi anni pubblicò le sue opere in volumi: le Novelle per un anno, che raccoglievano la sua produzione novellistica; le Maschere nude i testi drammatici. Nel 1934 gli fu conferito il Premio Nobel per la letteratura. Morì a Roma, in seguito ad un attacco di polmonite, nel 1936, lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro teatrale, I giganti della montagna.
La visione del mondo e la poetica.
Alla base della poetica pirandelliana vi è una concezione vitalistica: tutta la realtà è vita, eterno divenire, flusso continuo. Tutto ciò che si stacca da questo flusso comincia a morire. Così avviene dell’identità personale dell’uomo. Noi siamo una parte dell’universale ed eterno fluire della vita, ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, a fissarci in una personalità. In realtà questa personalità è un’illusione. Anche gli altri, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare, ci danno determinate forme. Noi crediamo di essere uno per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi. Ciascuna di queste forme è una maschera che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. Sotto questa maschera non c’è nessuno, o meglio un fluire indistinto e incoerente di stati in continua trasformazione. La crisi dell’idea di identità e di persona risente dei grandi processi in atto nella società novecentesca, dove si muovono forze che tendono alla frantumazione e alla negazione dell’individuo. La presa di coscienza dell’inconsistenza dell’io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L’individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in forme in cui non può riconoscersi, che sono sentite come una trappola. La società appare a Pirandello come una costruzione artificiosa e fittizia, che isola l’uomo dalla vita e lo conduce alla morte. Alla base di tutta l’opera pirandelliana si può scorgere un rifiuto delle forme della vita sociale e un bisogno disperato di autenticità. Nelle novelle e nei romanzi Pirandello critica la condizione piccolo borghese, nel teatro critica gli ambienti alto borghesi. L’istituto in cui si manifesta per eccellenza la trappola della forma che imprigiona l’uomo è la famiglia. L’altra trappola è quella economica, la condizione sociale e il lavoro, almeno a livello piccolo borghese. Per Pirandello la società in assoluto è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale. L’unica via di salvezza che si dà ai suoi eroi è la fuga nell’irrazionale: nell’immaginazione che trasporta verso un altrove fantastico; oppure nella follia, lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale, l’arma che fa esplodere le convenzioni, riducendole all’assurdo e rivelandone l’inconsistenza. Il rifiuto della vita sociale da luogo nell’opera pirandelliana ad una figura ricorrente ed emblematica:l’eroe straniato, colui che ha preso coscienza del carattere fittizio del meccanismo sociale e si esclude, rifiutando di assumere la sua parte, osservando gli uomini imprigionati dalla trappola con un atteggiamento umoristico. Si tratta della filosofia del lontano: consiste nel contemplare la realtà come da un infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare normale, in modo da coglierne l’assurdità e la totale mancanza di senso.
Il vitalismo pirandelliano ha conseguenze anche sul piano conoscitivo. Se la realtà è in continuo divenire, non si può fissare in schemi e moduli d’ordine totalizzanti. Il reale è multiforme; non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservarlo: le prospettive possibili sono infinite e equivalenti. La visione pirandelliana è dunque caratterizzata dal relativismo conoscitivo: non si dà una verità oggettiva fissata a priori, ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un’inevitabile incomunicabilità fra gli uomini, che accresce il senso di solitudine dell’individuo.
La concezione dell’arte e la poetica di Pirandello sono enunciate in vari saggi, tra cui il più importante è L’umorismo (1908). L’opera d’arte nasce dal libero movimento della vita interiore; la riflessione, al momento della concezione, resta invisibile. Nell’opera umoristica la riflessione non si nasconde, si pone dinanzi al sentimento, lo analizza e lo scompone. Da qui nasce il sentimento del contrario, il tratto caratterizzante dell’umorismo. L’avvertimento del contrario è il comico, ma se interviene la riflessione, dall’avvertimento del contrario si passa al sentimento del contrario, cioè all’atteggiamento umoristico. La riflessione nell’arte umoristica coglie il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, permette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente. La definizione di umorismo, data da Pirandello si adatta perfettamente all’arte novecentesca. Le opere di Pirandello sono tutte testi umoristici, in cui tragico e comico sono mescolati, da cui non emerge una visione ordinata della realtà, ma il senso di un mondo frantumato.
Le poesie e le novelle.
Pirandello compone poesie dal 1883 al 1912. Egli però rifiuta le soluzioni delle più avanzate correnti poetiche contemporanee e conserva codici letterari, moduli espressivi e forme metriche tradizionali. Le raccolte principali sono Mal giocondo (1889), Pasqua di Gea (1891), Elegie renane (1895), Zampogna (1901), Fuori di chiave (1912). Pirandello scrisse novelle per tutto l’arco della sua attività creativa e decise poi di raccoglierle in volumi. Nel 1922 progettò una sistemazione globale in 24 volumi col titolo di Novelle per un anno, ma furono pubblicati solo 15 volumi. Nella raccolta non si riesce ad individuare un ordine determinato. Essa sembra riflettere la visione globale del mondo propria di Pirandello, un mondo non ordinato e armonico, ma disgregato in una miriade di aspetti precari e frantumati. All’interno della raccolta è possibile distinguere le novelle ambientate in una Sicilia contadina e quelle collocate negli ambienti piccolo borghesi continentali. Le novelle siciliane possono a prima vista ricordare il clima verista, ma Pirandello diverge dal verismo in due direzioni: da un lato riscopre il sostrato mitico e folklorico della terra siciliana, fondando il racconto su immagini archetipiche (clima decadente); dall’altro lato quelle figure sono deformate da una carica grottesca, che le trasforma in immagini bizzarre, ai limiti della follia e oltre, e le vicende divengono casi paradossali. Pirandello coglie il grottesco della vita, la casualità che fa saltare ogni idea di mondo ordinato, anche nella Sicilia contadina. Su una linea affine si collocano anche le novelle romane, dove si allinea una successione sterminata di figure umane che rappresentano la condizione piccolo borghese, una condizione meschina, grigia, frustrata. Queste figure sono la metafora di una condizione esistenziale assoluta. La trappola in cui questi esseri sono prigionieri è costituita da una famiglia oppressiva e soffocante o da un lavoro monotono e meccanico, che mortifica e fa intristire l’individuo: ma questi istituti sociali sono solo la manifestazione contingente della trappola metafisica in cui la vita è imprigionata. L’analisi di Pirandello si fissa con lucidità sulle convenzioni sociali che impongono all’uomo maschere fittizie e ruoli fissi, rivelando così il rifiuto di ogni forma di società organizzata, che spegne la spontaneità della vita. Ai miseri esseri prigionieri del meccanismo sociale non si propone alcuna vera via d’uscita. Per tratteggiare l’umanità Pirandello utilizza il suo tipico atteggiamento umoristico. Egli trasforma le figure umane in gesticolanti e allucinate marionette, mette insieme le combinazioni più artificiose e paradossali, portando all’estremo dell’assurdo i casi comuni della vita, per dimostrare che la legge che li governa è la casualità più bizzarra. Da tutto questo meccanismo assurdo scaturisce forzatamente il riso, ma sempre accompagnato da una pietà dolente per un’umanità così avvilita. Pirandello inoltre descrive le ossessioni e le angosce di questi individui, facendo emergere il fondo ignorato della psiche. Caricando la maschera che ognuno porta sul volto, egli distrugge l’idea stessa di personalità coerente.
I romanzi.
Nel 1893 Pirandello scrisse Marta Ajala, o L’esclusa. È la storia, ambientata in Sicilia, di una donna accusata ingiustamente di adulterio, che viene cacciata di casa dal marito e vi verrà riammessa solo dopo essersi resa effettivamente colpevole. Il romanzo ha legami col Naturalismo, sia nella materia, sia nell’impianto narrativo. Ma l’adulterio in realtà non ha vera consistenza oggettiva, Marta non è colpevole, ma le apparenze l’accusano. La fatalità deterministica scaturisce non da un evento reale, ma da una realtà soggettiva, il convincimento della colpa di Marta. La struttura a chiasmo della vicenda (Marta viene scacciata quando è innocente, e riaccolta in casa quando è colpevole) sottolinea gli aspetti assurdi delle azioni umane, che possono provocare conseguenze diverse da quelle previste. Al meccanismo deterministica si sostituisce il gioco imprevedibile del caso. Il gioco del caso è ripreso anche nel breve romanzo Il turno (1895), dove un innamorato deve aspettare il suo turno per sposare la donna amata, dopo la morte di altri due mariti.
Il terzo romanzo di Pirandello, Il fu Mattia Pascal fu pubblicato nel 1904. È la storia paradossale di un piccolo borghese, imprigionato nella trappola di una famiglia insopportabile e di una misera condizione sociale, che per caso si trova libero e padrone di sé: diviene economicamente autosufficiente e apprende di essere morto, in quanto la famiglia lo riconosce nel cadavere di un annegato. Invece di approfittare della liberazione dalla forma sociale, però si costruisce una nuova identità. In lui resta insuperabile l’attaccamento alla vita sociale, quindi egli soffre perché la sua identità falsa lo costringe all’esclusione dalla vita degli altri. Decide allora di rientrare nella sua vecchia identità, tornando in famiglia, ma scopre che la moglie si è risposata. Quindi si adatta alla sua condizione di forestiero della vita, che contempla gli altri dall’esterno, consapevole di non essere più nessuno. I motivi più rilevanti del romanzo sono: la trappola delle istituzioni sociali che imprigionano il flusso vitale; la critica dell’identità individuale, che si rivela una maschera convenzionale sovrapposta a un variare indistinto di stati psicologici; l’estraniarsi dal meccanismo sociale da parte di chi ha capito il gioco. In questo romanzo vi è per la prima volta l’utilizzo della poetica dell’umorismo. La realtà viene grottescamente ridotta a meccanismo assurdo, ma al di là del riso che questo suscita vi è l’autentica sofferenza del protagonista. Scatta dunque il sentimento del contrario. Il romanzo è raccontato dal protagonista, in forma retrospettiva; inoltre il racconto è focalizzato sull’io narrato, sul personaggio mentre vive i fatti. Vi è quindi un punto di vista soggettivo, parziale, mutevole, inattendibile e inaffidabile, che contribuisce a dare il senso della relatività del reale. Pirandello unisce alla narrazione la riflessione su di essa: in una prefazione metanarrativa il Mattia Pascal narratore scarta tutti i modelli di racconto ottocenteschi e avverte che l’ordine attraverso cui si presentano i fatti narrati è convenzionale.
Il romanzo I vecchi e i giovani fu pubblicato nel 1909. L’impianto è ancora vicino a quello del romanzo naturalistico. Nella sua forma esteriore è un romanzo storico, che rappresenta le vicende politiche e sociali della Sicilia e dell’Italia del 1892-93. Al centro della vicenda vi è una famiglia nobile di Girgenti, i Laurentano. L’intreccio si basa sul confronto tra due generazioni: i vecchi hanno fatto l’Italia, ma vedono i loro ideali risorgimentali negati dalla corruzione politica; i giovani appaiono smarriti e incerti sulla direzione da imprimere alla loro vita. Il procedere della storia appare all’occhio pessimistico e disincantato di Pirandello un movimento insensato che gira continuamente su se stesso. Il personaggio chiave diviene perciò il vecchio don Cosmo, che rappresenta la figura del filosofo estraniato, che guarda la vita come da un infinita lontananza. Agli occhi del vecchio le passioni, gli ideali e le ideologie politiche sono pure illusioni che ci si crea per vivere. Tutto il complesso quadro storico del romanzo finisce per appiattirsi nel fluire insensato della vita. Dietro l’impianto del romanzo storico e naturalistico riaffiora l’umorismo pirandelliano.
Nel 1911 fu pubblicato Suo marito. Sullo sfondo di una rappresentazione satirica degli ambienti intellettuali romani si innesta il motivo del modo soggettivo in cui ciascuno guarda il mondo e dell’incomunicabilità umana che ne deriva. Il contrasto si apre tra Silvia Roncella, scrittrice giunta a Roma dalla provincia, che rappresenta la spontaneità disinteressata della creazione artistica, e il marito Giustino Boggiòlo, devoto alla moglie, ma attento solo agli aspetti economici della vita. L’inconciliabilità dei due punti di vista sfocia nell’incomprensione e nella rottura. Con Si gira (1915), Pirandello torna alla narrazione soggettiva: il romanzo è costituito dal diario del protagonista, Serafino Gubbio, operatore cinematografico. Anche Serafino è il tipico eroe filosofo, estraniato dalla vita. La sua professione diviene la metafora di questo distacco contemplativo. Pirandello qui ha modo di affrontare uno dei nodi più urgenti della realtà contemporanea: il trionfo della macchina. Pirandello dinanzi alla realtà industriale e alla macchina è diffidente e ostile: prova repulsione per la macchina, che contribuisce a rendere meccanico il vivere degli uomini. La macchina da presa diventa l’emblema dell’angosciosa condizione moderna. Alla critica della meccanizzazione si unisce quella della mercificazione: la realtà industriale trasforma tutto in merce, negando la spontaneità dei sentimenti. La vicenda che sta al centro del romanzo sembra uno dei soggetti prediletti dal cinema di consumo del tempo, una tempestosa storia d’amore, che ha al centro una donna fatale, l’attrice russa Varia Nestoroff, e si conclude con un finale tragico: il giovane Aldo Nuti, innamorato geloso dell’attrice, mentre si gira una scena con una tigre, spara alla donna anziché alla belva ed è sbranato da essa; Serafino intanto continua a riprendere e resta muto per lo choc subito. Da un lato al fondo di quell’intreccio vi è un nucleo di autentica sofferenza, ma dall’altro la vicenda è svuotata di senso, ridotta a puro meccanismo.
Pubblicato nel 1926, Uno, nessuno e centomila riprende il tema della crisi dell’identità individuale. Il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre che gli altri si fanno di lui un immagine diversa da quella che egli si è creato, scopre di non essere uno, ma di essere centomila, nel riflesso delle prospettive degli altri, e quindi nessuno. Questa presa di coscienza fa saltare tutto il suo sistema di certezze e determina una crisi sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle forme in cui lo chiudono gli altri e non vi si riconosce, ma ha anche orrore della solitudine in cui lo piomba lo scoprire di non essere nessuno. Decide perciò di distruggere tutte le immagini che gli altri si fanno di lui per cercare di essere uno per tutti. Ricorre così ad una serie di gesti folli e sconcertanti. Ferito gravemente da un’amica della moglie, per evitare lo scandalo cede i suoi averi per fondare un ospizio per poveri e vi si fa ricoverare. Proprio in questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni, rinunciando ad ogni identità. In questo caso l’eroe trasforma la mancanza di identità in una condizione positiva. In questo abbandonarsi al fluire della vita si possono però scorgere i segni dell’irrazionalismo misticheggiante che connota l’ultima stagione pirandelliana. Vi è la narrazione retrospettiva da parte del protagonista, ma resta allo stato di un ininterrotto monologo.
Il teatro.
Il contesto teatrale in cui si inserisce Pirandello è quello del dramma borghese naturalistico, che si incentrava soprattutto sui problemi della famiglia e del denaro. Era un dramma serio e si basava soprattutto sulla riproduzione fedele della vita quotidiana. Pirandello apparentemente riprende quei temi e quegli ambienti, ma porta la logica delle convenzioni borghesi alle estreme conseguenze. I ruoli imposti dalla società borghese vengono assunti con estremo rigore, sino a giungere al paradosso e all’assurdo, e così vengono smascherati nella loro inconsistenza. Pirandello sconvolge due capisaldi del teatro borghese naturalistico, la verosimiglianza e la psicologia. Gli spettatori non hanno l’illusione di trovarsi di fronte a un mondo naturale, ma vedono un mondo stravolto, ridotto alla parodia e all’assurdo, in cui i casi della vita normale sono forzati all’estremo e deformati, assumendo una fisionomia stranita, che lascia sconcertati. I personaggi sono sdoppiati e contradditori, come gli intrecci, trasformati quasi in marionette. Pirandello utilizza inoltre un linguaggio agitato, fatto di continue interrogazioni ed esclamazioni, di sottintesi e mezze frasi, che danno l’idea dell’agitarsi delle passioni e impediscono l’identificazione emotiva degli spettatori. Inizialmente il teatro di Pirandello ebbe scarso successo perché pubblico e recensori non erano preparati a queste novità. Con Il piacere dell’onestà e Il giuoco delle parti, Pirandello si accosta ala poetica del teatro grottesco, che si era andato affermando sulla scena italiana dal 1916. Secondo Pirandello il grottesco è la forma che l’arte umoristica assume sulla scena. Nel 1921, coi Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello investe direttamente temi, intrecci e convenzioni teatrali del tempo. Pirandello invece del dramma dei personaggi mette in scena la sua impossibilità di scriverlo. E non può neanche rappresentarlo, non solo per la mediocrità degli attori, ma anche per l’incapacità intrinseca del teatro di rendere sulla scena ciò che uno scrittore ha concepito. Si tratta di un testo metateatrale, dove, attraverso l’azione scenica, si discute del teatro stesso. Il dramma, alla sua prima rappresentazione, suscitò l’indignazione del pubblico, impreparato a un discorso d’avanguardia che sconvolgeva le convenzioni del teatro corrente, ma in seguito andò incontro a un successo mondiale.
Enrico IV.
Al ciclo del teatro nel teatro si collega per certi aspetti anche Enrico IV (1922).
In una villa della campagna umbra vive rinchiuso da vent’anni un uomo che, impazzito per una caduta da cavallo durante una mascherata, si è fissato nella parte che interpretava, quella dell’imperatore medievale Enrico IV. Da allora vive come se fosse in quella lontana vicenda storica, assecondato da tutti quelli che lo circondano. Nella villa si introduce la donna che un tempo amava, Matilde, con l’amante Tito Belcredi, responsabile della caduta da cavallo, e la figlia Frida. Un dottore, mascherando Frida come era un tempo la madre durante la cavalcata, vuol provocare nel pazzo uno choc che lo riconduca alla ragione. Ma Enrico IV rivela di essere rinsavito da molti anni e di essersi chiuso nella pazzia per disgusto di una società corrotta. Così facendo però è rimasto escluso dalla vita e ora vivere ciò che non ha vissuto, possedendo la donna che non aveva potuto avere, nella forma di allora, cioè non Matilde, ma la giovane Frida. Belcredi interviene per difendere la fanciulla, ma Enrico IV lo uccide con la sua spada. Così, da quel momento, sarà costretto a chiudersi di nuovo, per sempre, nella pazzia.
Il dramma si collega al ciclo del metateatro perché anche qui avviene una recita in scena, quella di Enrico IV. Sulla scena si alternano due livelli di realtà, tra loro incompatibili: quello della sanità e quello della follia. Tutti i personaggi oscillano tra due identità, Enrico IV invece rimane coerente fino infondo all’identità che ha assunto da anni. La finzione dell’eroe è la continuazione cosciente, portata all’estremo, della finzione che è di tutti, costretti dal meccanismo sociale ad indossare delle maschere. Enrico IV costringe anche gli altri a mascherarsi e a recitare, per assecondarlo, ma proprio così mette in luce la finzione di cui sono prigionieri nella vita quotidiana. Verso la sua maschera l’eroe ha un atteggiamento ambivalente: da un lato ne prova fastidio, sentendo la nostalgia della vita; dall’altro la commedia sociale lo disgusta, e la maschera che lo isola dal mondo costituisce una sorta di rifugio, così il gesto finale che lo costringe a chiudersi per sempre nella parte si può intendere dettato da una volontà di fuggire da quella realtà intollerabile. Con Enrico IV ricompare la figura dell’eroe straniato dalla vita, dotato di superiore consapevolezza. Anch’egli è doppio, turbato da passioni e rimpianti che lo legano alla vita. Il gesto finale può essere letto allora come la manifestazione di una debolezza, di un incapacità di vivere. Pirandello indaga sui rapporti tra realtà e finzione, che fino al novecento erano rigorosamente separate, mentre negli anni successivi sono soggette a sconfinamenti reciproci. Tutto questo ricorda l’atteggiamento del folle, che si costruisce una realtà mentale separata e compie azioni coerenti con tale rappresentazione mentale. La follia si manifesta tutte le volte che un attore continua a comportarsi come se fosse ancora sul palcoscenico. Secondo Pirandello la follia può non essere una condizione clinica, ma il rifugio razionale di chi ha subito una violenza senza rimedio.
L’ultimo Pirandello.
Sul finire degli anni ’20 compaiono nella produzione teatrale di Pirandello nuove direzioni di ricerca. Nelle sue opere compaiono tendenze irrazionalistiche e mistiche, che puntano a stabilire un contatto con l’essenza delle cose, a rivelare una verità arcana e universale attraverso forme simboliche. Tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura vengono presupposte segrete corrispondenze. L’arte diviene lo strumento privilegiato per la rivelazione intuitiva dell’essenza e della verità, attraverso la forza suggestiva del simbolo. Anche il linguaggio muta: il discorso assume forme di liricità ispirata ed effusa, che mira a illuminare magicamente spettatore e lettore. Quindi Pirandello, che nella sua fase centrale era andato oltre il Decadentismo, la sua originaria matrice culturale, sembra riavvicinarsi ad esso proprio nell’ultima fase della sua produzione. Di questo ritorno al Decadentismo sono espressione i tre miti pirandelliani: testi teatrali che si collocano in un atmosfera mitica e simbolica, utilizzando elementi leggendari e sovrannaturali. L’azione si svolge in luoghi separati dalla realtà storica contemporanea, luoghi dell’immaginario: un isola edenica in Nuova colonia (1928), un podere felice in Lazzaro (1929), una villa simbolica della Scalogna nei Giganti della montagna (iniziato nel 1930 e rimasto incompiuto). Il testo più significativo, a cui Pirandello affida il suo testamento spirituale, è I giganti della montagna. L’opera affronta il problema, che assilla lo scrittore, della posizione dell’arte, quella teatrale, nella realtà moderna, in rapporto con il mercato e il pubblico. L’attrice Ilse vuole portare tra gli uomini il messaggio estetico, ostinandosi a recitare La favola del figlio cambiato, il testo di un poeta che l’aveva amata ormai morto, ad un pubblico volgare. Il mago Cotrone, chiuso nella villa della Scalogna, afferma che l’arte può vivere solo nella fantasia, è autosufficiente e non deve cercare il contatto con la società e il pubblico. Il mago non riesce a convincere Ilse e questa cerca l’aiuto dei Giganti, potenti creature che vivono sulla montagna e rappresentano il potere. Il simbolismo sembra voler dire che l’arte nella società industriale non può sopravvivere con le sue sole forze, ma deve cercare l’appoggio del potere economico e politico. Il finale non fu scritto da Pirandello, ma il figlio ne ha conservato la traccia confidatagli dal padre: Ilse recita la Favola dinanzi ai servi dei Giganti, ma essi la sbranano. In questa conclusione pessimistica si può cogliere l’eco di un episodio vissuto da Pirandello: egli aveva rappresentato a Roma La favola del figlio cambiato e aveva incontrato la scarsa approvazione da parte del regime. Nelle figure di Ilse e di Cotrone si proietta il dilemma dello scrittore: continuare l’attività teatrale, lottando per ottenere un sostegno, o rinunciare al rapporto col pubblico. Sembra che Pirandello propendesse per la seconda soluzione.
Le novelle scritte da Pirandello negli anni Trenta sono raccolte negli ultimi due volumi delle Novelle per un anno, Berecche e la guerra e Una giornata. In alcune di esse è mantenuto un riferimento alla realtà comune, ma si aggiunge lo scavo nella dimensione dell’inconscio. Vi si esprime anche il confronto tra la civiltà moderna ed un bisogno di autenticità, che si manifesta come ritorno alla natura o come regressione all’infanzia. Significative sono le novelle I piedi nell’erba (1934) e Il chiodo (1936). In molti casi il riferimento alla realtà salta, e le novelle si collocano in un clima surreale, fantastico, addirittura allucinato. È il caso di C’è qualcuno che ride (1934). Le forze emergenti dall’inconscio possono essere sane e vitali, ma possono anche veicolare impulsi aggressivi e distruttivi, come in Soffio (1931). La più suggestiva di queste novelle è però Una giornata (1936), metafora della vita. Quello della morte è un tema costante di queste ultime novelle pirandelliane. È affascinante anche Di sera, un geranio (1934).

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