Virgilio: L'Eneide

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Testo

ENEIDE
di Virgilio
Trad. di Annibal Caro

LIBRO PRIMO

Quell'io che giа tra selve e tra pastori
di Titiro sonai l'umil sampogna,
e che, de' boschi uscendo. a mano a mano
fei pingui e cуlti i campi, e pieni i vуti
d'ogn'ingordo colono, opra che forse
agli agricoli и grata; ora di Marte

L'armi canto e 'l valor del grand'eroe
che pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errт, quanto sofferse, in quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l'insuperabil forza
del cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondт la sua cittade, e gli suoi dиi
ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
il nome de' Latini, il regno d'Alba,
e le mura e l'imperio alto di Roma.
Musa, tu che di ciт sai le cagioni,
tu le mi detta. Qual dolor, qual onta
fece la dea ch'и pur donna e regina
de gli altri dиi, sн nequitosa ed empia
contra un sн pio? Qual suo nume l'espose
per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
possono ancor lа su l'ire e gli sdegni?
Grande, antica, possente e bellicosa
colonia de' Fenici era Cartago,
posta da lunge incontr'Italia e 'ncontra
a la foce del Tebro: a Giunon cara
sн, che le fыr men care ed Argo e Samo.
Qui pose l'armi sue, qui pose il carro,
qui di porre avea giа disegno e cura
(se tale era il suo fato) il maggior seggio,
e lo scettro anco universal del mondo.
Ma giа contezza avea ch'era di Troia
per uscire una gente, onde vedrebbe
le sue torri superbe a terra sparse,
e de la sua ruina alzarsi in tanto,
tanto avanzar d'orgoglio e di potenza,
che ancor de l'universo imperio avrebbe:
tal de le Parche la volubil rota
girar saldo decreto. Ella, che tйma
avea di ciт, non posto anco in oblio
come, a difesa de' suoi cari Argivi,
fosse a Troia acerbissima guerriera,
ripetendone i semi e le cagioni,
se ne sentia nel cor profondamente
or di Pari il giudicio, or l'arroganza
d'Antнgone, il concъbito d'Elettra,
lo scorno d'Ebe, alfin di Ganimede
e la rapina e i non dovuti onori.
Da tante, oltre al timor, faville accesa,
quei pochi afflitti e miseri Troiani
ch'avanzaro agl'incendi, a le ruine,
al mare, ai Greci, al dispietato Achille,
tenea lunge dal Lazio; onde gran tempo,
combattuti da' vиnti e dal destino,
per tutti i mari andвr raminghi e sparsi:
di sн gravoso affar, di sн gran mole
fu dar principio a la romana gente.
Eran di poco, e del cospetto a pena
de la Sicilia navigando usciti,
e giа, preso de l'alto, a piene vele
se ne gian baldanzosi, e con le prore
e co' remi facean l'onde spumose,
quando, punta Giunon d'amara doglia:
«Dunque, - disse - ch'io ceda? e che di Troia
venga a signoreggiar Italia un re,
ch'io nol distorni? Oh, mi son contra i fati!
Mi sieno: osт pur Pallade, e poteo
ardere e soffocar giа degli Argivi
tanti navili, e tanti corpi ancidere
per lieve colpa e folle amor d'un solo,
Aiace d'Oпlиo. Contra costui
ella stessa vibrт di Giove il tиlo
giъ dalle nubi; ella commosse i vиnti
e turbт 'l mare, e i suoi legni disperse:
e quando ei giа dal fulminato petto
sangue e fiamme anelava, a tale un turbo
in preda il diи, che per acuti scogli
miserabil ne fe' rapina e scempio.
Tanto puт Palla? Ed io, io de gli dиi
regina, io sposa del gran Giove e suora,
son di quest'una gente omai tant'anni
nimica in vano? E chi piъ de' mortali
sarа che mi sacrifichi, e m'adori?»
Ciт fra suo cor la dea fremendo ancora,
giunse in Eтlia, di procelle e d'аustri
e de le furie lor patria feconda.
Eolo и suo re, ch'ivi in un antro immenso
le sonore tempeste e i tempestosi
vиnti, sн com'и d'uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e ribellanti
tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che ne trema la terra e n'urla il monte.
Ed ei lor sopra, realmente adorno
di corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.
Se ciт non fosse, il mar, la terra e 'l cielo
lacerati da lor, confusi e sparsi
con essi andrian per lo gran vano a volo;
ma la possa maggior del padre eterno
provvide a tanto mal serragli e tenebre
d'abissi e di caverne; e moli e monti
lor sopra impose; ed a re tale il freno
ne diи, ch'ei ne potesse or questi or quelli
con certa legge o rattenere o spingere.
A cui davanti l'orgogliosa Giuno
allor umнle e supplichevol disse:
«Eцlo, poi che 'l gran padre del cielo
a tanto ministerio ti prepose
di correggere i vиnti e turbar l'onde,
gente inimica a me, mal grado mio,
naviga il mar Tirreno; e giunta a vista
и giа d'Italia, al cui reame aspira;
e d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco v'adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli, spingi i tuoi vиnti, gonfia l'onde,
aggiragli, confondigli, sommergigli,
o dispergigli almeno. Appo me sono
sette e sette leggiadre ninfe e belle;
e di tutte piъ bella e piъ leggiadra
и Deiopиa. Costei vogl'io, per merto
di ciт, che sia tua sposa; e che tu seco
di nodo indissolubile congiunto,
viva lieto mai sempre, e ne divenga
padre di bella e di te degna prole».
Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi che tu scopra i tuoi desiri,
ed a me ch'io gli adempia. Io ciт che sono
son qui per te. Tu mi fai Giove amico,
tu mi dаi questo scettro e questo regno;
se re puт dirsi un che comandi a' vиnti.
Io, tua mercй, su co' celesti a mensa
nel ciel m'assido; e co' mortali in terra
son di nembi possente e di tempeste».
Cosн dicendo, al cavernoso monte
con lo scettro d'un urto il fianco aperse,
onde repente a stuolo i vиnti usciro.
Avean giа co' lor turbini ripieni
di polve e di tumulto i colli e i campi,
quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto
s'avventaron nel mare, e fin da l'imo
lo turbвr sн, che ne fкr valli e monti;
monti, ch'al ciel, quasi di neve aspersi,
sorti l'un dopo l'altro, a mille a mille
volgendo, se ne gian caduchi e mobili
con suono e con ruina i liti a frangere.
Il grido, lo stridore, il cigolare
de' legni, de le sarte e de le genti,
i nugoli che 'l cielo e 'l dн velavano,
la buia notte, ond'era il mar coverto,
i tuoni, i lampi spaventosi e spessi,
tutto ciт che s'udia, ciт che vedevasi
rappresentava orror, perigli e morte.
Smarrissi Enea di tanto, e tale un gelo
sentissi, che tremante al ciel si volse
con le man giunte, e sospirando disse:
«O mille volte fortunati e mille
color che sotto Troia e nel cospetto
de' padri e de la patria ebbero in sorte
di morir combattendo! O di Tidиo
fortissimo figliuol, ch'io non potessi
cader per le tue mani, e lasciar ivi
questa vita affannosa, ove lasciolla
vinto per man del bellicoso Achille,
Ettor famoso e Sarpedonte altero?
E se d'acqua perire era il mio fato,
perchй non dove Xanto o Simoenta
volgon tant'armi e tanti corpi nobili?»
Cosн dicea; quand'ecco d'Aquilone
una buffa a rincontro, che stridendo
squarciт la vela, e 'l mar spinse a le stelle,
Fiaccвrsi i remi; e lа 've era la prua,
girossi il fianco; e d'acqua un monte intanto
venne come dal cielo a cader giъ.
Pendono or questi or quelli a l'onde in cima;
or a questi or a quei s'apre la terra
fra due liquidi monti, ove l'arena,
non men ch'ai liti, si raggira e ferve.
Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;
- Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro
da l'altezza de l'onde allor celato,
che sorgea primo in alto mare altissimo -
e tre ne fыr dal pelago a le Sirti,
(miserabile aspetto) ne le secche
tratte da l'Euro, e ne l'arene immerse.
Una, che 'l carco avea del fido Oronte
con le genti di Licia, avanti agli occhi
di lui perн. Venne da Bora un'onda,
anzi un mar, che da poppa in guisa urtolla,
che 'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;
e lei girт sн che 'l suo giro stesso
le si fe' sotto e vortice e vorago,
da cui rapita, vacillante e china,
quasi stanco palиo, tre volte volta,
calossi gorgogliando, e s'affondт.
Giа per l'ondoso mar disperse e rare
le navi e i naviganti si vedevano;
giа per tutto di Troia, a l'onde in preda,
arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;
giа quel ch'era piъ valido e piъ forte
legno d'Ilпonиo, giа quel d'Acate
e quel d'Abante e quel del vecchio Alete,
ed alfin tutti sconquassati, a l'onde
micidпali aveano i fianchi aperti;
quando, a tanto rumor, da l'antro uscito
il gran Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi i piъ riposti fondi:
«Oh - disse irato - ond'и questa importuna
tempesta?» E grazпoso il capo fuori
trasse de l'onde; e rimirando intorno,
per lo mar tutto dissipati e laceri
vide i legni d'Enea; vide lo strazio
de' suoi ch'a la tempesta, a la ruina
e del mare e del cielo erano esposti.
E ben conobbe in ciт, come suo frate,
che ne fфra cagion l'ira e la froda
de l'empia Giuno. Euro a sй chiama e Zefiro,
e 'n tal guisa acremente li rampogna:
«Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,
razza perversa? Voi, voi, senza me,
nel regno mio la terra e 'l ciel confondere,
e far nel mare un sн gran moto osate?
Io vi farт... Ma di mestiero и prima
abbonazzar quest'onde. Altra fiata
in altra guisa il fio mi pagherete
del fallir vostro. Via tosto di qua,
spirti malvagi; e da mia parte dite
al vostro re che questo regno e questo
tridente и mio, e che a me solo и dato.
Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case degne di voi; quella и sua reggia;
quivi solo si vanti; e per regnare,
de la prigion de' suoi vиnti non esca».
Cosн dicendo, in quanto a pena il disse,
la tempesta cessт, s'acquetт 'l mare,
si dileguвr le nubi, apparve il sole.
Cimтtoe e Triton, l'una con l'onde,
l'altro col dorso, le tre navi indietro
ritirвr da lo scoglio in cui percossero.
Le tre che ne l'arena eran sepolte,
egli stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevт col tridente ed a sй trassele.
Poscia sovra al suo carro d'ogn'intorno
scorrendo lievemente, ovunque apparve,
agguagliт 'l mare, e lo ripose in calma.
Come addivien sovente in un gran popolo,
allor che per discordia si tumultua,
e imperversando va la plebe ignobile,
quando l'aste e le faci e i sassi volano
e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,
se grave personaggio e di gran merito
esce lor contro, rispettosi e timidi,
fatto silenzio, attentamente ascoltano,
ed al detto di lui tutti s'acquetano;
cosн d'ogni ruina e d'ogni strepito
fu 'l mar disgombro, allor che umнle e placido
a ciel aperto il gran rettor del pelago
co' suoi lievi destrier volando scуrselo.
Stanchi i Troiani, ai liti ch'eran prossimi
drizzaro il corso, e 'n Libia si trovarono.
И di lа lungo a la riviera un seno,
anzi un porto; chй porto un'isoletta
lo fa, che in su la bocca al mare opponsi.
Questa si sporge co' suoi fianchi in guisa
ch'ogni vento, ogni flutto, d'ogni lato
che vi percuota, ritrovando intoppo,
o si frange, o si sparte, o si riversa.
Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime,
sotto cui stagna spazпoso un golfo
securo e queto: e v'ha d'alberi sopra
tale una scena, che la luce e 'l sole
vi raggia, e non penиtra: un'ombra opaca,
anzi un orror di selve annose e folte.
D'incontro и di gran massi e di pendenti
scogli un antro muscoso, in cui dolci acque
fan dolce suono; e v'ha sedili e sponde
di vivo sasso: albergo veramente
di ninfe, ove a fermar le stanche navi
nй d'аncora v'и d'uopo, nй di sarte.
Qui sol con sette, che raccolse a pena
di tanti legni, Enea ricoverossi.
Qui stanchi tutti e maceri, e del mare
ancor paurosi, i liti a pena attinsero,
che a terra avidamente si gittarono.
Acate fece in pria selce e focнle
scintillar foco, e diиlli esca e fomento.
Altri poscia d'intorno ad altri fuochi
(come quei che di vitto avean disagio,
e le biade trovвr corrotte e molli)
si diкr con vari studi e vari ordigni
a rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
Intanto Enea sovr'un de' scogli asceso,
quanto si discopria con l'occhio intorno,
stava mirando s'alcun legno fosse
per alcun luogo apparso, o quel d'Antиo,
o quel di Capi, o pur quel di Caнco
che in poppa avea la piъ sublime insegna.
Nпun ne vide: ma ben vide errando
gir per la spiaggia tre gran cervi, e dietro
d'altri minori innumerabil torma,
che in sembianza d'armenti empian le valli.
Fermossi: e pronto a cotal uso avendo
l'arco e 'l turcasso (chй quest'armi appresso
gli portava mai sempre il fido Acate),
diи lor di piglio: e saettando prima
i primi tre, che piъ vide altamente
erger le teste e inalberar le corna,
contra 'l volgo si volse; e 'l lito e 'l bosco,
ovunque gli scorgea, folgorт tutto.
Ne cacciт, ne ferн, strage ne fece
a suo diletto; nй si vide prima
sazio che, come sette eran le navi,
sette non ne vedesse a terra stesi.
In questa guisa ritornando al porto,
gli spartн parimente a' suoi compagni;
e con essi del vin, che 'l buon Aceste
a l'uscir di Sicilia in don gli diede,
molt'urne dispensт per ricrearli;
poscia a conforto lor cosн lor disse:
«Compagni, rimembrando i nostri affanni,
voi n'avete infiniti omai sofferti
vie piъ gravi di questi. E questi fine,
(quando che sia) la dio mercede, avranno.
Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli
di tutti i mari omai, voi de' Ciclopi
varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete l'ardir, sgombrate i petti
di tйma e di tristizia. E' verrа tempo
un dн che tante e cosн rie venture,
non ch'altro, vi saran dolce ricordo.
Per vari casi e per acerbi e duri
perigli и d'uopo far d'Italia acquisto.
Ivi riposo, ivi letizia piena
vi promettono i fati, e nuova Troia
e nuovi regni al fine. Itene intanto:
soffrite, mantenetevi, serbatevi
a questo, che dal ciel si serba a voi,
sн glorioso e sн felice stato».
Cosн dicendo a' suoi, pieno in se stesso
d'alti e gravi pensier, tenea velato
con la fronte serena il cuor doglioso.
Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi
giа rivolti a la preda, altri le tиrgora
le svelgon da le coste, altri sbranandola
mentre и tiepida ancor, mentre che palpita,
lunghi schidioni e gran caldaie apprestano,
e l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano.
Poscia d'un prato e seggio e mensa fattisi,
taciti prima sopra l'erba agiandosi,
d'opima carne e di vin vecchio empiendosi,
quanto puon lietamente si ricreano.
Poichй fыr sazi, a ragionar si diкro,
con voce or di timore or di cordoglio,
de' perduti compagni, in dubbio ancora
se fosser vivi, e se pur giunti al fine
piъ de' richiami lor nulla curassero.
Enea vie piъ di tutti e di pietate
e di dolor compunto, il caso acerbo
or d'Аmico, or d'Oronte, e Lico e Gнa
ne' sospir richiamava e 'l buon Cloanto.
Erano al fine omai; quando il gran Giove
da l'alta spera sua mirando in giuso
la terra e 'l mar di questo basso globo,
mentre di lito in lito, e d'uno in altro
scerne i popoli tutti, al cielo in cima
fermossi, e ne la Libia il guardo affisse.
Venere, allor ch'a le terrene cose
lo vide intento, dolcemente afflitta
il volto, e molle i begli occhi lucenti,
gli si fece davanti, e cosн disse:
« Padre, che de' mortali e de' celesti
siedi eterno monarca, e folgorando
empi di tйma e di spavento il mondo,
e quale ha contra te fallo sн grave
commesso Enea mio figlio, o i suoi Troiani,
che, dopo tanti affanni e tante stragi,
c'han di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare,
non trovin pace, nй pietа, nй loco
pur che gli accetti? In cotal guisa omai
del mondo son, non che d'Italia, esclusi.
Io mi credea, signor (quel che promesso
n'era da te), che tornasse anco un giorno,
quando che fosse, il generoso germe
di Dardano a produr quei glorпosi
eroi, quei duci invitti, quei Romani
de l'universo domatori e donni:
e tu ne 'l promettesti. Or come, padre,
il ciel cangia destino, e tu consiglio?
Questa sola credenza era cagione
di consolarmi in parte de l'eccidio
de la mia Troia, ch'io soffrissi in pace
tante ruine sue, fato con fato
ricompensando. Or la fortuna stessa
e vie piъ fera la persegue e dura.
E quanto durerа, signore, ancora?
Tal non fu giа d'Antиnore l'esilio;
ch'ei non piъ tosto de l'achive schiere
per mezzo uscio, che con felice corso
penetrт d'Adria il seno; entrт securo
nel regno de' Liburni; andт fin sopra
al fonte di Timavo; e lа 've il fiume
fremendo il monte intuona, e lа 've aprendo
fa nove bocche un mare, e, mar giа fatto,
inonda i campi e rumoreggia e frange,
Padoa fondт, pose de' Teucri il seggio,
e diи lor nome e le lor armi affisse.
Ivi ridotto il suo regno, e composto
quпetamente, or lo si gode in pace.
E noi, noi del tuo sangue, e che da te
avemo anco del cielo arra e possesso,
ad una sola indegnamente in ira,
perdute, ohimи! le proprie navi, fuori
siamo d'Italia e di speranza ancora
di non mai piъ vederla. Or questo и 'l pregio
che si deve a pietade? E questo и il regno
che da te, padre mio, ne si promette?»
Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto
con che 'l ciel rasserena e le tempeste,
rimirolla, basciolla, e cosн disse:
«Non temer, Citerиa, chй saldi e certi
stanno i fati de' tuoi. S'adempieranno
le mie promesse; sorgeran le torri
de la novella Troia; vedrai le mura
di Lavinio; porrai qui fra le stelle
il magnanimo Enea. Chй nй 'l destino
in ciт si cangerа, nй 'l mio consiglio.
Ma per trarti d'affanni, io te 'l dirт
piъ chiaramente; e scoprirotti intanto
de' fati i piъ reconditi secreti.
Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarа; farа gran guerra, vincerа:
domerа fere genti: imporrа leggi:
darа costumi, e fonderа cittа:
e di giа, vinti i Rutuli, tre verni
e tre stati regnar Lazio vedrallo.
Ascanio giovinetto, or detto Iulo,
ed Ilo prima infin ch'Ilio non cadde,
succederagli; e trenta giri interi
del maggior lume, il sommo imperio avrа.
Trasferirallo in Alba: Alba la lunga
sarа la reggia sua possente e chiara.
Qui regneranno poi sotto la gente
d'Ettorre un dopo l'altro un corso d'anni
tre volte cento; finch'Ilia regina
d'un parto produrrа gemella prole.
Indi capo ne fia Romolo invitto.
Questi, in vece di manto, adorno il tergo
de la sua marzпal nudrice lupa,
di Marte fonderа la gran cittade:
e dal nome di lui Roma diralla.
A Roma non pongo io termine o fine:
chй fia del mondo imperatrice eterna.
E l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare
e 'l ciel per tйma intorbida e scompiglia,
con piъ sano consiglio al mio conforme,
procurerа che la romana gente
in arme e 'n toga a l'universo imperi.
E cosн stabilisco: e cosн tempo
ancor sarа ch'Argo, Micene e Ftia
e i Greci tutti tributari e servi
de la casa di Assаraco saranno.
Di questa gente, e de la Iulia stirpe,
che da quel primo Iulo il nome ha preso,
Cesare nascerа, di cui l'impero
e la gloria fia tal, che per confine
l'uno avrа l'Oceаno, e l'altra il cielo.
Questi, giа vinto il tutto, poi che onusto
de le spoglie sarа de l'Orпente,
anch'egli avrа da te qui seggio eterno,
e lа giъ fra' mortali incensi e vуti.
L'aspro secolo allor, l'armi deposte,
si farа mite. Allor la santa Vesta
e la candida Fede e 'l buon Quirino
col frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor con salde e ben ferrate sbarre
de la guerra saran le porte chiuse:
e dentro in fra la ruggine sepolto
con cento nodi incatenato e stretto
gran tempo si starа l'empio Furore;
e rabbioso fremendo orribilmente,
con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderа l'armi e le catene indarno».
Cosн detto, spedн tosto da l'alto
di Maia il figlio a far sн ch'a' Troiani
fosse Cartago e il suo paese amico,
perchй del fato la regina ignara,
non fosse lor, per feritа de' suoi
o per sua tйma, inospitale e cruda.
Vassene il messaggier per l'aria a volo
velocemente, e ne la Libia giunto,
quel ch'imposto gli fu ratto eseguisce.
E giа, la dio mercй, lasciano i Peni
la lor fierezza; e la regina in prima
s'imbeve d'un affetto e d'una mente
verso i Troiani affabile e benigna.
La notte intanto, del pietoso Enea
molti furo i sospir, molti i pensieri.
Conchiuse alfin ch'a l'apparir del giorno
spпar dovesse, e riportarne avviso
a suoi compagni, in qual paese il vento
gli avesse spinti; e s'uomini o pur fere
(perchй incolto il vedea) quivi abitassero.
Cosн tra selve ombrose e cave rupi
fatti i legni appiattar, sol con Acate,
e con due dardi in mano in via si pose.
In mezzo de la selva una donzella,
ch'era sua madre, sн com'era avanti
che madre fosse incontro gli si fece.
Donzella a l'armi, a l'abito, al sembiante
parea di Sparta, o quale in Tracia Arpаlice
leggiera e sciolta, il dorso affaticando
di fugace destrier, l'Ebro varcava.
Al collo avea di cacciatrice un arco
abile e lesto, i crini a l'aura sparsi,
nudo il ginocchio; e con bel nodo stretto
tenea raccolto della gonna il seno.
Ella fu prima a dire: «Avreste voi,
giovani, de le mie sorelle alcuna
vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,
o che gli omeri vesta d'una pelle
di cervier maculato, o che gridando
d'un zannuto cignal segua la traccia?»
Cosн Venere disse. Ed, a rincontro,
di Venere il figliuol cosн rispose:
«Nпuna ho de le tue veduta, o 'ntesa,
vergine... qual ti dico, e di che nome
chiamar ti deggio? Chй terreno aspetto
non и giа 'l tuo, nй di mortale il suono.
Dea sei tu veramente, o suora a Febo,
o figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:
e chпunque tu sii, propizia e pia
vиr noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.
Dinne sotto qual cielo, in qual contrada
siamo or del mondo: chй raminghi andiamo;
e qui dal vento e da fortuna spinti
nulla o de gli abitanti o de' paesi
notizia abbiamo. A te, s'a ciт m'aнti,
di nostra man cadrа piъ d'una vittima».
Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo
celeste onore. In Tiro usan le vergini
di portar arco, e di calzar coturni;
e di Tiro e d'Agиnore le genti
traggon principio, che qui seggio han posto:
ma 'l paese и di Libia, ed avvi in guerra
gente feroce. Or n'и capo e regina
Dido che, da l'insidie del fratello
fuggendo, и qui venuta. A dirne il tutto
lunga fфra novella e lungo intrico.
Ma toccandone i capi, avea costei
Sichиo per suo consorte, uno il piъ ricco
di terra e d'oro, che in Fenicia fosse,
da la meschina unicamente amato,
anzi il suo primo amore. Il padre intatta
nel primo fior di lei seco legolla.
Ma del regno di Tiro avea lo scettro
Pigmalпon suo frate, un signor empio,
un tiranno crudele e scellerato
piъ ch'altri mai. Venne un furor fra loro
tal, che Sichиo da questo avaro e crudo,
per sete d'oro, ove men guardia pose,
fu tra gli altari ucciso; e non gli valse
che la germana sua tanto l'amasse.
Ciт fe' celatamente: e per celarlo
vie piъ, con finzпoni e con menzogne
deluse un tempo ancor l'afflitta amante.
Ma nel fin, di Sichиo la stessa imago,
fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida, macilenta e spaventevole,
le apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli empi altari ove cadde, il crudo ferro
che lo trafisse, e del suo frate tutte
l'occulte scelleraggini le aperse.
Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le disse
"tostamente, e lontano". E per sussidio
de la sua fuga, le scoperse un loco
sotterra, ov'era inestimabil somma
d'oro e d'argento, di molt'anni ascoso.
Quinci Dido commossa, ordine occulto
di fuggir tenne, e d'adunar compagni;
chй molti n'adunт, parte per odio,
parte per tйma di sн rio tiranno.
Le navi che trovвr nel lito preste,
caricвr d'oro, e fкr vela in un sъbito.
Cosн 'l vento portossene la speme
de l'avaro ladrone. E fu di donna
questo sн degno e memorabil fatto.
Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai
sorger la gran cittade e l'alta rтcca
de la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa nomossi, per l'astuta merce
che, per fondarla, fкr di tanto sito
quanto cerchiar di bue potesse un tergo.
Ma voi chi siete? onde venite? e dove
drizzate il corso vostro?» A tai richieste
pensando Enea, dal piъ profondo petto
trasse la voce sospirosa, e disse:
«O dea, se da principio i nostri affanni
io contar ti volessi, e tu con agio
udissi una da me sн lunga istoria,
non finirei che fine avrebbe il giorno.
Noi siam Troiani (se di Troia antica
il nome ti pervenne unqua a gli orecchi),
e la tempesta che per tanti mari
giа cotant'anni ne travolve e gira,
n'ha qui, come tu vedi, al fin gittati.
Io sono Enea, quel pio che da' nemici
scampati ho meco i miei patrii Penati,
fino a le stelle ormai noto per fama.
Italia vo cercando, che per patria
Giove m'assegna, autor del sangue mio.
Con diece e diece ben guarnite navi
uscii di Frigia, il mio destin seguendo
e lo splendor de la materna stella.
Or sette me ne son restate appena,
scommesse, aperte e disarmate tutte.
Ed io mendнco, ignoto e peregrino,
de l'Asia in bando, da l'Europa escluso,
e 'n fin dal mar gittato or ne la Libia
vo per deserti inospiti e selvaggi.
E qual m'и piъ del mondo or luogo aperto?»
Venere intenerissi; e nel suo figlio
tant'amara doglienza non soffrendo,
cosн 'l duol con la voce gl'interruppe:
«Chпunque sei, tu non sei giа, cred'io,
al cielo in ira; poi ch'a sн grand'uopo
ti diи ricovro a sн benigno ospizio.
Segui pur francamente: e quinci in corte
va' di questa magnanima regina;
ch'io giа t'annunzio le tue navi, e i tuoi
da miglior vиnti in miglior parte addotti
salvi e securi omai, se i miei parenti
non m'ingannвr quando gli augъri appresi.
Mira lа sovra a quel tranquillo stagno
dodici allegri cigni, che pur dianzi
confusi e dissipati a cielo aperto
erano in preda al fero augel di Giove,
com'or sottratti dal suo crudo artiglio
rimessi in lunga ed ozпosa riga
si rivolgono a terra, e giа la radono.
E sн com'essi con gioiose ruote
trattando l'aria, col cantar, col plauso
mostrato han d'allegria segno e di scampo;
cosн, placato il mare, a piene vele,
e le tue navi e gli tuoi naviganti
o preso han porto, o tosto a prender l'hanno:
vattene or lieto ove 'l sentier ti mena».
Ciт detto, nel partir, la neve e l'oro
e le rose del collo e de le chiome,
come l'aura movea, divina luce
e divino spirвr d'ambrosia odore:
e la veste, che dianzi era succinta,
con tanta maestа le si distese
infino a' piи, ch'a l'andar anco, e dea
veracemente e Venere mostrossi.
Poscia che la conobbe, e la sua fuga
o fermare, o seguir piъ non poteo,
con un rammarco tal dietro le tenne:
«Ahi! madre, ancora tu vиr me crudele,
a che tuo figlio con mentite larve
tante volte deludi? A che m'и tolto
di congiunger la mia con la tua destra?
Quando fia mai ch'io possa a viso aperto
vederti, udirti, ragionarti, e vera
riconoscerti madre?» Egli in tal guisa
si querelava; e verso la cittade
se ne giano invisibili ambidue:
chй la dea, sospettando non tra via
fossero distornati o trattenuti,
di folta nebbia intorno gli coverse.
Ella in alto levossi, e Cipri e Pafo
lieta rivide, ov'entro al suo gran tempio
da cento altari ha cento volte il giorno
d'incensi e di ghirlande odori e fumi.
Ed essi intanto in vиr le mura a vista
giunser de la cittа, ch'al colle incontro
fe' lor superba e specпosa mostra.
Maravigliasi Enea che sн gran macchina
giа sorga, ove pur dianzi non vedevasi
fors'altro che foreste, o che tuguri.
Mira il travaglio, mira la frequenzia
e le porte e le vie piene di strepito.
Vede con quanto ardor le turbe tirie
altri a le mura, altri a la rтcca intendono
e i gravi legni e i gran sassi che volgono
questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;
e quei, che del senato e de gli offici
piantan le curie e i fтri e le basiliche.
Scorge lа presso al mar che 'l porto cavano,
qua, sotto al colle, che un teatro fondano,
per le cui scene i gran marmi che tagliano,
e le colonne, che tant'alto s'ergono,
le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.
Con tal sogliono industria a primavera
le sollecite pecchie al sole esposte
per fiorite campagne esercitarsi,
quando le nuove lor cresciute genti
mandano in campo a cфr manna e rugiada,
di celeste liquor le celle empiendo;
o quando incontro a scaricare i pesi
van de l'altre compagne; o quando a stuolo
scacciano i fuchi, ingorde bestie e pigre,
che, solo intente a logorar l'altrui,
de le conserve lor si fan presepi,
allor che l'opra ferve, allor che 'l mиle
sparge di timo d'ogn'intorno odore.
«O fortunati voi, di cui giа sorge
il desпato seggio!», Enea dicendo,
a parte a parte lo contempla e loda.
Arriva intanto a la muraglia, e chiuso
ne la sua nube, maraviglia a dirlo!
tra gente e gente va, che non и visto.
Era nel mezzo a la cittade un bosco
di sacro rezzo e grato, ove sospinti
da la tempesta capitaro i Peni
primieramente; e nel fondar trovaro
quel che pria da Giunon fu lor predetto
di barbaro destrier teschio fatale,
la cui sembianza imagine e presagio
fu poi che quella gente e quella terra
saria per molte etа ferace e fera.
Qui fabbricava la sidonia Dido
un gran tempio a Giunone, il cui gran nume
e i doni e la materia e l'artificio
lo facean prezпoso e venerando.
Mura di marmo avea; colonne e fregi
di mischi, e gradi e travi e soglie e porte
di risonante e solido metallo.
Qui si ristette Enea: qui vide cosa
che tйma gli scemт, speme gli accrebbe,
e di pace affidollo e di salute;
chй mentre, in aspettando la regina
ch'ivi s'attende, la cittа vagheggia,
mentre nel tempio l'apparato e l'opre
e 'l valor degli artefici contempla,
a gli occhi una parete gli s'offerse,
in cui tutta per ordine dipinta
era di Troia la famosa guerra.
E, conosciuti a le fattezze conte
prima il troiano re, poscia l'argivo
e 'l fero d'ambidue nimico Achille,
fermossi, e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,
mira fin dove и la notizia aggiunta
de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo
loco che pien non sia de' nostri affanni?
Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia
ancor virtъ; chй feritа non regna
lа 've umana miseria si compiagne.
Or ti conforta, chй tal fama ancora
di pro ti fia cagione e di salvezza».
Cosн dicendo, e la giа nota istoria
mirando, or con sospiri, ed or con lutto
va di vana pittura il cor pascendo.
E come quei ch'a Troia il tutto vide,
i siti rammentandosi e le zuffe,
col sembiante riscontra il vivo e 'l vero.
Quinci vede fuggir le greche schiere,
quindi le frigie: a quelle Ettorre infesto,
a queste Achille, a cui parea d'intorno
che solo il suon del carro e solo il moto
del cimiero avventasse orrore e morte.
Nй senza lagrimar Reso conobbe
ai destrier bianchi, ai bianchi padiglioni,
fatti di sangue in mille parti rossi:
che sotto v'era Dпomede, anch'egli
insanguinato; e si facea d'intorno
alta strage di gente che nel sonno,
prima che da lui morta, era sepolta.
Vedea quindi i cavalli al campo addotti,
che non potкr (fato a' Troiani avverso!)
di Troia erba gustare, o ber del Xanto.
Scorge d'un'altra parte in fuga vтlto
Troпlo, giа senz'armi e senza vita:
giovinetto infelice, che di tanto
diseguale ad Achille, ebbe ardimento
di stargli a fronte. Egli in su 'l vтto carro
giacea rovescio, e strascinato e lacero
da' suoi cavalli, avea la destra ancora
a le redini involta, e 'l collo e i crini
traea per terra; e l'asta, onde trafitto
portava il petto, con la punta in giuso
scrivea note di sangue in su la polve.
Ecco intanto venir di Palla al tempio
in lunga schiera ed ordinata pompa
le donne d'Ilio a far del peplo offerta.
Battonsi i petti, e scapigliate e scalze
paion pregar divotamente afflitte
perdуno e pace; ed ella irata e fera,
vтlte le luci a terra e 'l tergo a loro,
mostra fastidio di mirarle e sdegno.
Vede il misero Ettтr che giа tre volte
tratto era d'Ilio a la muraglia intorno.
Vede il padre piъ misero, ch'in forza
del dispietato e suo nimico Achille,
oro in premio gli dа del suo cadavero;
spettacolo crudel che gli trafigge
profondamente e piъ d'ogn'altro il core,
ove il carro, gli arnesi e 'l corpo stesso
vede d'un tanto amico, ed un re tale,
che solo e disarmato e supplichevole
stassi a l'ucciditor del figlio avanti.
Vi riconobbe ancor se stesso, ov'era
a dura mischia incontro a' greci eroi.
Riconobbe lo stuol che d'Orпente
addusse de l'Aurora il negro figlio:
e lui raffigurт, che di Vulcano
avea lo sbergo e l'armatura in dosso.
Scorge d'altronde di lunati scudi
guidar Pentesilиa l'armate schiere
de l'Amazzoni sue: guerriera ardita,
che succinta, e ristretta in fregio d'oro
l'adusta mamma, ardente e furпosa
tra mille e mille, ancor che donna e vergine,
di qual sia cavalier non teme intoppo.
Stava da tante meraviglie ad una
sola vista ristretto, attento e fiso
Enea pien di vaghezza e di stupore:
quand'ecco la regina accompagnata
da real corte, con real contegno
entro al tempio bellissima comparve.
Qual su le ripe de l'Eurota suole,
o ne' gioghi di Cinto, allor Dпana
ch'a l'Orиadi sue la caccia indнce,
a mille che le fan cerchio d'intorno,
divisar vari offici, e faretrata
da la faretra in su gir sovra l'altre
neglettamente altera, onde a Latona
s'intenerisce per dolcezza il core;
tale era Dido, e tal per mezzo a' suoi
se ne gia lieta, e dava ordine e forma
al nuovo regno, a i magisteri, a l'opre.
Giunta al cospetto de la diva, in mezzo
de la maggior tribuna, in alto assisa,
cinta d'armati, in maestа si pose:
e mentre con dolcezza editti e leggi
porge a la gente, e con egual compenso
l'opre distribuisce e le fatiche;
rivolgendosi Enea, nel tempio stesso
vede da gran concorso attorneggiati
entrar Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri
Troiani, che da sй disgiunti e sparsi
avea dianzi del mar l'aspra tempesta.
Stupor, timor, letizia, tenerezza
e disio d'abbracciarli e di mostrarsi
assaliro in un tempo Acate e lui.
Ma, dubii del successo, entro la nube
dissimulando se ne stкro, e cheti,
per ritrar che seguisse e che seguito
fosse giа de le navi e de' compagni,
di cui questi eran primi e li piъ scelti
di ciascun legno. E giа pieno era il tempio
di tumulto e di vуti ch'altamente
si sentian vиnia risonare e pace.
Poichй furo entromessi, e ch'udпenza
fur lor concessa, il saggio Ilпoneo
prese umilmente in cotal guisa a dire:
«Sacra regina, a cui dal cielo и dato
fondar nuova cittade, e con giustizia
por freno a gente indomita e superba,
noi miseri Troiani, a tutti i vиnti,
a tutti i mari omai ludibrio e scherno,
caduti dopo l'onde in preda al foco
che da' tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghiamti a proveder che nel tuo regno
non si commetta un sн nefando eccesso.
Fa cosa di te degna, abbi di noi
pietа, che pii, che giusti, ch'innocenti
siamo, non predatori, non corsari
de le vostre marine o de l'altrui:
tanto i vinti d'ardire, e gl'infelici
d'orgoglio e di superbia, ohimи! non hanno.
Una parte d'Europa и, che da' Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra, dagli Enotrei cуlta.
Prima Enotria nomossi, or, come и fama,
preso d'Italo il nome, Italia и detta.
Qui 'l nostro corso era diritto, quando
Orпon tempestoso i vиnti e 'l mare
sн repente commosse, e mar sн fero,
vиnti sн pertinaci, e nembi e turbi
cosн rabbiosi, che sommersi in parte
e dispersi n'ha tutti: altri a le secche,
altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
e noi pochi, di tanti, ha qui condotti.
Ma qual sн cruda gente, qual sн fera
e barbara cittа quest'uso approva,
che ne sia proibita anco l'arena?
Che guerra ne si muova, e ne si vieti
di star ne l'orlo de la terra a pena?
Ah! se de l'armi e de le genti umane
nulla vi cale, a dio mirate almeno,
che dal ciel vede e riconosce i meriti
e i demeriti altrui. Capo e re nostro
era pur dianzi Enea, di cui piъ giusto,
piъ pio, piъ pro' ne l'armi, piъ sagace
guerrier non fu giа mai. Se questi и vivo,
se spira, se il destin non ce l'invidia,
quanto ne speriam noi, tanto potresti
tu non pentirti a provocarlo in prima
a cortesia. Ne la Sicilia ancora
avem terre, avem armi, avemo Aceste
che n'и signore, ed и de' nostri anch'egli.
Quel che vi domandiamo и spiaggia, и selva,
и vitto da munir, da risarcire
i vтti e stanchi e sconquassati legni,
per poter lieti (ritrovando il duce
e gli altri nostri, o se pur mai n'и dato
veder l'Italia) ne l'Italia addurne;
ma se nostra salute in tutto и spenta,
se te, nostro signor, nostro buon padre,
di Libia ha 'l mare, e piъ speranza alcuna
non ci riman del giovinetto Iulo,
almen tornar ne la Sicania, ond'ora
siam qui venuti e dove il buon Aceste
n'и parato mai sempre ospite e rege».
Al dir d'Ilпoneo fremendo tutti
assentirono i Teucri, e la regina
con gli occhi bassi e con benigna voce
brevemente rispose: «O miei Troiani,
toglietevi dal cuore ogni timore,
ogni sospetto. Gli accidenti atroci,
la novitа di questo regno a forza
mi fan sн rigorosa, e sн guardinga
de' miei confini. E chi di Troia il nome,
chi de' Troiani i valorosi gesti,
e l'incendio non sa di tanta guerra?
Non han perт sн rozzo core i Peni:
non sн lunge da lor si gira il sole,
che nй pietа nй fama unqua v'arrive.
Voi di qui sempre, o de la grand'Esperia
e di Saturno che cerchiate i campi,
o che vogliate pur d'Aceste e d'Иrice
tornare ai liti, in ogni caso liberi
ve n'andrete e sicuri. Ed io d'aнta
scarsa non vi sarт, nй di sussidio:
e se qui dimorar meco voleste,
questa и vostra cittа. Tirate al lito
vostri navili: chй da' Teucri a' Tiri
nulla scelta farт, nullo divario.
Cosн qui fosse il vostro re con voi!
cosн ci capitasse! Ma cercando
io manderт di lui fino a l'estremo
de' miei confini la riviera tutta,
se per sorte gittato in queste spiagge
per selve errando o per cittadi andasse».
Rincorossi a tal dire il padre Enea
e 'l forte Acate; e di squarciare il velo
stavan giа disпosi. Acate il primo
mosse dicendo: «Omai, signor, che pensi?
Tutto и sicuro, e tutti a salvamento
i nostri legni e i nostri amici avemo.
Sol un ne manca; e questo a noi davanti
il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto
di tua madre risponde». A pena Acate
ciт disse, che la nugola s'aperse,
assottigliossi e col ciel puro unissi.
Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli
di chiarezza e d'aspetto e di statura,
che come un dio mostrossi: e ben a dea
era figliuol, che di bellezza и madre.
Ei degli occhi spirava e de le chiome
quei chiari, lieti e giovenili onori
ch'ella stessa di lui madre gl'infuse.
Tale aggiunge l'artefice vaghezza
a l'avorio, a l'argento, al pario marmo,
se di fin oro li circonda e fregia.
Cotal, comparso d'improvviso a tutti,
si fece avanti a la regina, e disse:
«Quegli che voi cercate, Enea troiano,
son qui, dal mar ritolto. A te ricorro,
vera regina, a te sola pietosa
de le nostre ineffabili fatiche.
Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde
d'ogni strazio bersaglio, d'ogni cosa
bisognosi e mendнci, nel tuo regno
e nel tuo albergo umanamente accogli.
A renderti di ciт merito eguale
bastante non son io, nй fфran quanti
de la gente di Dardano discesi
vanno per l'universo oggi dispersi.
Ma gli dиi (s'alcun dio de' buoni ha cura,
se nel mondo и giustizia, se si truova
chi d'altamente adoperar s'appaghe)
te ne dian guiderdone. Etа felice!
Avventurosi genitori e grandi
che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi
si rivolgono al mare, infin ch'a' monti
si giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo,
i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi
mi saran sempre, ovunque io sia, davanti».
Ciт detto, lietamente a' suoi rivolto,
al caro Ilпonиo la destra porse,
la sinistra a Sergesto, e poscia al forte
Cloanto, al forte Gнa: l'un dopo l'altro
tutti gli salutт. Stupн Didone
nel primo aspetto d'un sн nuovo caso,
e d'un uom tale; indi riprese a dire:
«Qual forza o qual destino a tanti rischi
t'hanno in sн strani, in sн feri paesi
esposto, o de la dea famoso figlio?
E sei tu quell'Enea che in su la riva
di Simoenta il gran dardanio Anchise
di Venere produsse? Io mi ricordo
quel che n'intesi giа da Teucro, quando,
fuor di sua patria, il suo padre fuggendo,
nuovi regni cercava. Egli a Sidone
venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo mio padre allor facea l'impresa
e 'l conquisto di Cipro. Infin d'allora
io del caso di Troia e del tuo nome
e de l'oste de' Greci ebbi notizia.
Ed ei ch'era sн rio nimico vostro,
celebrava il valor di voi Troiani,
e trar volea da Troia il suo legnaggio.
Voi da me dunque amico e fido ospizio,
giovini, arete. E me fortuna ancora,
a la vostra simнle, ha similmente
per molti affanni a questi luoghi addotta:
sн che natura e sofferenza e pruova
de' miei stessi travagli ancor me fanno
pietosa e sovvenevole a gli altrui».
Ciт detto, Enea cortesemente adduce
ne la sua reggia. In ogni tempio indнce
feste e preci solenni. Ordina appresso
che si mandino al mar venti gran tori,
cento gran porci, cento grassi agnelli,
con cento madri, e ciт ch'a' suoi compagni
per vitto e per letizia и di mestiero.
Dentro al real palagio, realmente,
de' piъ gentili e sontuosi arnesi
il convito e le stanze orna e prepara;
cuopre d'ostro le mura; empie le mense
d'argento e d'oro, ove per lunga serie
son de' padri e degli avi i fatti egregi.
Enea, cui la paterna tenerezza
quetar non lascia, a le sue navi innanzi
ratto spedisce Acate, che di tutto
Ascanio avvisi, ed a sй tosto il meni;
chй in Ascanio mai sempre intento e fiso
sta del suo caro padre ogni pensiero.
Gli comanda, oltre a ciт, ch'a la regina
porti alcune a donar spoglie superbe
che si salvвr da la ruina appena
e dal foco di Troia: un ricco manto
ricamato a figure, e di fin'oro
tutto contesto: un prezпoso velo,
cui di pallido acanto un ampio fregio
trapunto era d'intorno: ambi ornamenti
d'Elena argiva, e di sua madre Leda
mirabil dono. In questo avea le bionde
sue chiome avvolte il dн che di Micene
a nuove nozze, e non concesse, uscio;
e porti anco lo scettro, onde superba
Ilпone di Prпamo sen giva
primogenita figlia, e 'l suo monile
di gran lucide perle; e quella stessa,
onde 'l fronte cingea, doppia corona,
di gemme orпentali ornata e d'oro.
Tutto ciт procurando il fido Acate
in vиr le navi accelerava il piede.
Venere in tanto con nuov'arte e nuovi
consigli s'argomenta a far che in vece
e 'n sembianza d'Ascanio il suo Cupнdo
se ne vada in Cartago; e con quei doni,
con le dolcezze sue, con la sua face
alletti, incenda, amor desti e furore
nel petto a la regina, onde sospetto
piъ non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia
de la sua gente, o di Giunon l'insidie,
che da pensare e da vegghiar le danno
tutte le notti. E fatto a sй venire
l'alato dio, cosi seco ragiona:
«Figlio, mia forza e mia maggior possanza:
figlio, che del gran padre anco non temi
l'orribil tиlo, onde percosso giacque
chi ne diи fin nel ciel briga e spavento,
a te ricorro e dal tuo nume aнta
chieggio a l'altro mio figlio Enea tuo frate.
Come Giuno il persegua, e come l'aggia
per tutti i mari omai spinto e travolto,
tu 'l sai che del mio duol ti sei doluto
piъ volte meco. Or la sidonia Dido
l'ave in sua forza, e con benigni e dolci
modi fin qui l'accoglie e lo trattiene.
Ma lа dov'и, lassa! che val, comunque
sia caramente accolto? in casa a Giuno
da le carezze ancor chi m'assicura?
Ch'ella piъ neghittosa o meno atroce,
in un caso non fia di tanto affare.
E perт con astuzia e con inganno
cerco di prevenirla, e del tuo foco
ardere il cuor de la regina in guisa,
ch'altro nume nol mute, e meco l'ami
d'immenso affetto. Or come agevolmente
ciт porre in atto e conseguir si possa,
ascolta. Enea manda testй chiamando
il suo regio fanciullo, amor supremo
del caro padre, e mio sommo diletto,
perchй de' Tiri a la cittа sen vada
con doni a la regina, che di Troia
a l'incendio avanzarono ed al mare.
Questo vinto dal sonno, o sopra l'alta
Citиra, o dentro al sacro bosco Idalio
terrт celato sн ch'ei non s'accorga,
ed accorto di ciт non faccia altrui
con alcun suo rintoppo. E tu che puoi,
fanciullo, il noto fanciullesco aspetto
mentire acconciamente, in lui ti cangia
sola una notte, e gli suoi gesti imita.
E quando Dido al suo real convito
riceveratti, e, come a mensa fassi,
sarа, bevendo e ragionando, allegra;
quando, come farа, cortese in grembo
terratti, abbracceratti, e dolci baci
porgeratti sovente, a poco a poco
il tuo foco le spira e 'l tuo veleno».
Al voler della sua diletta madre
pronto mostrossi e baldanzoso Amore,
e gittт l'ali; ed in un tempo l'abito
e 'l sembiante e l'andar prese di Iulo.
Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio
tale un profondo e dolce sonno infuse,
e 'n guisa l'adattт, che agiatamente
in grembo lo si tolse; e ne la cima
de la selvosa Idalia, entro un cespuglio
di lieti fiori e d'odorata persa,
a la dolce aura, a la fresc'ombra il pose.
Cupнdo co' suoi doni allegramente,
per far quanto gli avea la madre imposto,
con la guida si pon d'Acate in via.
Giunse che giunta era Didone appunto
ne la gran sala, che di fini arazzi,
di fior, di frondi e di festoni intorno
era tutta vestita, ornata e sparsa.
E giа sopra la sua dorata sponda
con real maestа s'era nel mezzo
a tutti gli altri alteramente assisa.
Appresso Enea, poscia di mano in mano
sopra drappi di porpora e di seta
si stendea la troiana gioventute.
Giа con l'acqua e con Cerere a le mense
gli aurati vasi e i nitidi canestri
e i bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano dentro, a le vivande intorno,
intorno a' fuochi, a dar ordine a' cibi,
cinquanta ancelle, ed altre cento fuori
con altrettanti di una stessa etade
tra scudieri e pincerni; e gli atrii tutti
si rпempiкr di Tiri, a cui le mense
di tappeti dipinti eran distese.
A l'apparir del giovinetto Iulo
corser tutti a mirare il manto e 'l velo
e gli altri ch'adducea leggiadri arnesi,
a sentir quelle sue finte parole,
a contemplar quel grazпoso aspetto,
ch'ardore e deitа raggiava intorno.
Ma sopra tutti l'infelice Dido
non potea nй la vista, nй 'l pensiero
saziar, mirando or gli suoi doni, or lui;
e com' piъ gli rimira, e piъ s'accende.
Poichй lunga fпata umile e dolce
del non suo genitor pendй dal collo,
e finse di figliuol verace affetto,
si volse a la regina. Ella con gli occhi,
col pensier tutto lo contempla e mira:
lo palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.
Misera! che non sa quanto gran dio
s'annidi in seno. Ei de la madre intanto
rimembrando il precetto, a poco a poco
de la mente Sichиo comincia a trarle,
con vivo amore e con visibil fiamma
rompendole del core il duro smalto,
e 'ntroducendo il suo giа spento affetto.
Cessati i primi cibi, e da' ministri
giа le mense rimosse, ecco di nuovo
comparir nuove tazze e vino e fiori,
per lietamente incoronarsi e bere.
Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo
che d'allegrezza empian le sale e gli atrii.
E i torchi e le lumiere che pendevano
da i palchi d'oro, poichй notte fecesi,
vinceano 'l giorno e 'l sol, non che le tenebre.
Qui fattosi Didone un vaso porgere
d'oro grave e di gemme, ov'era solito
ne' conviti e ne' dн solenni e celebri
ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono,
di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo,
orт, cosн dicendo: «Eterno Giove,
che, Albergator nomato, hai de gli alberghi
e de le cortesie cura e diletto,
priegoti ch'a' Fenici ed a' Troiani
fausto sia questo giorno, e memorando
sempre a' posteri loro. E te, Liиo,
largitor di letizia, e te, celeste
e bionda Giuno, a questa prece invoco.
Voi co' vostri favori, e Tiri e Peni,
prestate a' prieghi miei divoto assenso».
Ciт detto, riversollo, e lievemente
del sacrato liquor la mensa asperse,
poscia ella in prima con le prime labbia
tanto sol ne sorbн quanto n'attinse.
Indi con dolce oltraggio e con rampogne
a Bizia il diи, che valorosamente
a piena bocca infino a l'aureo fondo
vi si tuffт col volto, e vi s'immerse.
Ciт seguоr gli altri eroi. Comparve intanto
co' capei lunghi e con la cetra d'oro
il biondo Iopa: e, qual Febo novello,
cantт del ciel le meraviglie e i moti
che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantт le vie che drittamente torte
rendon vaga la luna e buio il sole;
come prima si fкr gli uomini e i bruti;
com'or si fan le piogge e i venti e i folgori:
cantт l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno,
e perchй tanto a l'Oceаno il verno
vadan veloci i dн, tarde le notti.
Un novo plauso incominciaro i Tiri:
seguiro i Teucri: e l'infelice Dido,
che giа fea dolce con Enea dimora,
quanto bevesse amor non s'accorgendo,
a lungo ragionar seco si pose
or di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi
venisse a Troia de l'Aurora il figlio,
or qual fosse Diomede, or quanto Achille.
«Anzi, se non t'и grave, - al fin gli disse -
incomincia a contar fin da principio
e l'insidie de' Greci e la ruina
e l'incendio di Troia, e 'l corso intero
de gli errori vostri: giа che 'l settim'anno
e per terra e per mar raminghi andate».

LIBRO SECONDO

Stavan taciti, attenti e disпosi
d'udir giа tutti, quando il padre Enea
in sй raccolto, a cosн dir da l'alta
sua sponda incominciт: «Dogliosa istoria
e d'amara e d'orribil rimembranza,
regina eccelsa, a raccontar m'inviti:
come la giа possente e glorпosa
mia patria, or di pietа degna e di pianto,
fosse per man de' Greci arsa e distrutta.
E qual ne vid'io far ruina e scempio:
ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui
del suo caso infelice. E chi sarebbe,
ancor che Greco e Mirmidуne e Dтlopo,
che a ragionar di ciт non lagrimasse?
E giа la notte inchina, e giа le stelle
sonno, dal ciel caggendo,
a gli occhi infondono:
ma se tanto d'udire i nostri guai,
se brevemente di saver t'aggrada
l'ultimo eccidio, ond'ella arse e cadeo,
benchй lutto e dolor mi rinnovelle,
e sol de la memoria mi sgomente,
io lo pur conterт. Sbattuti e stanchi
di guerreggiar tant'anni, e risospinti
ancor da' fati, i greci condottieri
a l'insidie si diкro; e da Minerva
divinamente instrutti, un gran cavallo
di ben contesti e ben confitti abeti
in sembianza d'un monte edificaro.
Poscia, finto che ciт fosse per vуto
del lor ritorno, di tornar sembiante
fecero tal, che se ne sparse il grido.
Dentro al suo cieco ventre e ne le grotte,
che molte erano e grandi, in sн gran mole,
rinchiuser di nascosto arme e guerrieri
a ciт per sorte e per valore eletti.
Giace di Troia un'isola in cospetto
(Tиnedo и detta) assai famosa e ricca,
mentre ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto
и sol di naviganti e di navili,
infido seno, e mal sicura spiaggia.
Qui, poichй di Sigиo sciolse e spario,
la greca armata si rattenne, e dietro
appiattossi al suo lito ermo e deserto:
e noi credemmo che veracemente
fosse partita, e che a spiegate vele
gisse a Micene. Onde la Teucria tutta,
giа cotant'anni lagrimosa e mesta,
volta ne fu subitamente in gioia.
S'aprоr le porte, uscоr d'Ilio e d'intorno
le genti tutte, disпose e liete
di veder vтti i campi e sgombri i liti,
ch'eran coverti pria di navi e d'armi.
"Qui s'accampava Achille, e qui de' Dтlopi
eran le tende, ivi solean le zuffe
farsi de' cavalieri e lа de' fanti"
dicean parte vagando; e parte accolti
facean mirando al gran destriero intorno
meraviglie e discorsi: e chi per sacro,
e chi per esecrando il vуto e 'l dono
avean di Palla. Il primo fu Timete
a dir ch'entro le mura, e ne la rтcca
quindi si conducesse, o froda, o fato
che ciт fosse de' miseri Troiani.
Ma Capi e gli altri, il cui piъ sano avviso
o per insidпose, o per sospette,
quantunque sacre, avea le greche offerte,
voleano o che del mar fosse nel fondo
precipitato, o che di fiamme ardenti
si circondasse, o che forato e lacero
gli fosse il petto e sviscerato il fianco.
Stava tra questi due contrari in forse
in due parti diviso il volgo incerto;
quando con gran caterva e con gran furia
da la rтcca discese, e di lontano
gridт Laocoonte: "O ciechi, o folli,
o sfortunati! agli nemici, a' Greci
date credenza? a lor credete voi
che sian partiti? e sarа mai che doni
siano i lor doni, e non piъ tosto inganni?
Cosн v'и noto Ulisse? O in questo legno
sono i Greci rinchiusi, o questa и macchina
contra alle nostre mura, o spia per entro
ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte
per di sopra assalirne. E che che sia,
certo o vi cova o vi si ordisce inganno,
chй de' Pelasgi e de' nemici и 'l dono".
Ciт detto, con gran forza una grand'asta
avventogli, e colpillo, ove tremante
stette altamente infra due coste infissa:
e 'l destrier, come fosse e vivo e fiero,
fieramente da spron punto cotale,
si storcй, si crollт, tonogli il ventre,
e rintonвr le sue cave caverne.
E se 'l fato non era a Troia avverso,
se le menti eran sane, avea quel colpo
giа commossi infiniti a lacerarlo,
e del tutto a scovrir l'agguato argolico:
ond'oggi e tu, grand'Ilio, e tu, diletta
Troia, staresti. Ma si vide intanto
de' pastor paesani una masnada
venir gridando al re, ch'ivi era giunto,
e trargli avanti un giovine prigione
ch'avea dietro le mani al tergo avvinte.
Questi era greco; e da' suoi Greci avea
di salvare il destrier, d'aprir lor Troia
assunto impresa; e per condurla, a tempo
ascosto, a tempo a quei pastori offerto
s'era per se medesmo, in sй disposto
e fermo di due cose una a finire,
o quest'opra, o la vita. A ciт concorso,
per desio di vedere, il popol tutto
dal caval si distolse, e diessi a gara
a schernire il prigione. Or ascoltate
le malizie de' Greci; e da quest'uno
conosceteli tutti. Egli nel mezzo
cosн com'era a le nemiche schiere,
turbato, inerme e di catene avvinto,
fermossi: e poi che rimirolle intorno,
con voce di pietа proruppe, e disse:
"Or quale o terra, o mare, o loco altrove
sarа, misero me! che mi raccolga,
o che m'affidi omai? poichй tra' Greci
non ho dov'io ricovri, e da' Troiani
non deggio altro aspettar che strazio e morte?"
Ne commosse a pietа, n'acquetт l'ira
sн doglioso rammarco: e con dolcezza
e con promesse il confortammo a dire
chi, di che loco e di che sangue fosse,
e che portasse, e qual fidanza avesse
a darnesi prigione. Egli, in tal guisa
assecurato, al re si volse e disse:
"Signor, segua che vuole, in tuo cospetto
io dirт tutto; e dirт vero. E prima
d'esser greco io non niego; chй fortuna
puт ben far che Sinon sia gramo e misero,
ma non giа mai che sia bugiardo e vano.
Non so se, ragionandosi, a gli orecchi
ti venne mai di Palamиde il nome,
che nomato e pregiato e glorпoso,
e da Belo altamente era disceso;
se ben con falso e scelerato indizio
di tradigion, per detestar la guerra,
ei fu da' Greci indegnamente occiso:
com'or, che ne son privi, i Greci stessi
lo piangon tutti! A questo Palamede,
a cui per parentela era congiunto,
il pover padre mio ne' miei prim'anni
pria per valletto nel mestier de l'armi
poi per compagno a questa guerra diemmi.
Infin ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore,
fioriro anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome
e 'l grado mio ne fыr talvolta in pregio.
Estinto lui (che per invidia avvenne,
com'ognun sa, del traditore Ulisse),
amaramente il piansi. E 'l caso indegno
d'un tanto amico, e la mia vita oscura
tra me sdegnando, come soro e folle
ch'io fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte
mel consentisse, o se mai fossi in Argo
vincitor ritornato, alta vendetta
ne gli promisi, e con minacce e motti
acerbi acerbamente il provocai.
Questo fu del mio mal prima radice;
e quinci de' suoi falli e del mio duolo
consapevole Ulisse, a spaventarmi,
a travagliarmi, a seminar susurri
si diи nel volgo, e procurarmi inciampi
ond'io cadessi. E non cessт, ch'ordimmi
per mezzo di Calcante... Ma dov'entro,
lasso! senza profitto a fastidirvi
con noiose novelle? A voi sol basta
di saver ch'io son greco, giа che i Greci
tutti egualmente per nimici avete.
Or datemi, signor, supplizio e morte
qual a voi piace, chй piacere e gioia
n'aranno i regi ancor d'Itaca e d'Argo".
E qui si tacque. Allor brama ne venne,
non che disio, di piъ sapere avanti;
non ben sapendo ancor, miseri noi!
quanta scelleratezza e quanta astuzia
fosse ne' Greci. Egli, a seguir costretto,
mostrossi in prima paventoso, e poscia
di nuovo assicurossi, e finse, e disse:
"Hanno molte fпate i Greci, afflitti
giа da la guerra, e dal disagio astretti,
disпato e tentato anco piъ volte
di qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace.
Cosн fatto l'avessero! Ma sempre
or il verno, or i vиnti, or le procelle
gli han distornati. E pur dianzi che l'opra
del caval che vedete era fornita,
di nuovo in sul partire, e 'n sul far vela,
di tempeste, di turbini e di nembi
risonт 'l cielo, e conturbossi il mare.
Onde, sospesi, Eurнpilo mandammo
a spпar sopra a ciт quel che da Febo
ne s'avvertisse. Riportonne un empio
e spaventoso oracolo; e fu questo:
- Col sangue e con la morte d'una vergine
placaste i vиnti per condurvi in Ilio;
col sangue e con la morte ora d'un giovine
convien placarli per ridurvi in Grecia. -
A cosн fiera voce sbigottissi,
impallidissi, e tremт 'l volgo tutto,
ciascun per sй temendo; e nessun certo
qual di loro accennasse Apollo e 'l fato.
Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo
con gran tumulto appresentar Calcante:
e del volere in ciт de' santi numi
interrogollo. Ed ei rispose in guisa
che la sua fellonia, benchй da tutti
fusse prevista, fu perт da molti
simulata e taciuta, e da molti anco
a me predetta: pur ei tacque ancora
per dieci giomi; e scaltramente al niego
si mise di voler che per suo detto
fosse alcun destinato o spinto a morte.
Ma poi, come da gridi astretto e vinto,
di conserto con lui ruppe il silenzio,
sн ch'io fui dichiarato al fin per vittima;
consentоr tutti, perchй tutti ancora
finian con la mia morte il lor periglio.
Era giа da vicino il giorno orribile,
in che doveano al sacrificio offrirmi:
e giа 'l farro e giа 'l sale e giа le bende
erano a le mie tempie intorno avvolte,
quando, rotto (io nol niego) ogni ritegno,
da la morte mi tolsi: e fin ch'a' vиnti
desser le vele (ch'eran presti a darle)
di buia notte in un pantan m'ascosi,
ove nel fango infra le scarde e i giunchi
stava qual mi vedete. Ora son qui
privo d'ogni conforto e d'ogni speme
di mai piъ riveder la patria antica,
i dolci figli e 'l desпato padre,
che saran, lasso me! per la mia fuga,
benchй innocenti, ancor forse in mia vece
incarcerati, e tormentati, e morti.
Or io, signor, per quelli eterni dиi
che scorgon di lа su se 'l vero io parlo,
per quella pura e 'ntemerata fede
(se tra' mortali in alcun loco и tale)
ond'io giа tutto a rivelar ti vegno,
priegoti che pietа di me ti prenda,
e de' miei tanti e sн gravosi affanni
ch'indegnamente io soffro". A cotal pianto
commossi, e da noi fatti anco pietosi,
vita e vиnia gli diamo. E di sua bocca
comanda il re che si disferri e sciolga;
poi dolcemente in tal guisa gli parla:
"Qual tu ti sia, de' tuoi perduti Greci
ti dimentica omai; chй per innanzi
sarai de' nostri. Or mi rispondi il vero
di quel ch'io ti domando. A che fine hanno
qui sн grande edificio i Greci eretto?
Per consiglio di cui? Con qual avviso
l'han fabbricato? И vуto? и magia? и macchina?
Che trama и questa?" Avea 'l re detto a pena,
quand'ei, d'inganni e d'arte greca instrutto,
le giа disciolte mani al cielo alzando,
disse: "Voi fochi eterni e 'nvпolabili,
voi fasce ond'io portai le tempie avvinte,
voi sacri altari, e voi cultri nefandi,
cui fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico
per testimoni invoco. A me lece ora
ch'io mi disciolga, e mi dissacri in tutto
da l'obbligo de' Greci. E mi lece anco
che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi
quel che da lor si cela, giа ch'astretto
piъ non son de la patria a legge alcuna.
Tu, se vero io ti dico, e se gran merto
di ciт ti rendo, e te, Troia, conservo,
conserva a me la giа promessa fede.
Nel cominciar di questa guerra i Greci
riposero ogni speme, ogni fidanza
ne l'aiuto di Palla; e ben riposte
fыr sempre, infin che l'empio Dпomede,
e l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse,
il sacro tempio suo non vпolaro:
come fкr quando, ne la rтcca ascesi,
n'uccisero i custodi, e n'involaro
il Palladio fatale, osando impuri
por le man sanguinose al sacrosanto
suo simulacro; e macular le intatte
e 'ntemerate sue verginee bende.
Da indi in qua d'ardir sempre e di forze
scemвr, non che di speme; e Palla infesta
ne fu lor sempre; e ne diи chiari segni
e portentosi, allor ch'al campo addotta
fu la sua statua, che, posata a pena,
torvamente mirogli, e lampi e fiamme
vibrт per gli occhi, e per le membra tutte
versт salso sudore. Indi tre volte,
meraviglia a contarlo! alto da terra
surse, e 'mbracciт lo scudo, e brandн l'asta.
Allor gridando indovinт Calcante
che fuggir si dovesse, e tosto a' vиnti
spiegar le vele: chй di Troia in vano
era l'assedio, se con altri augъri
d'Argo non si tornava un'altra volta,
e de la dea non si placava il nume,
ch'or, per ciт fare, han seco in Grecia addotto.
Onde giunti a Micene, incontinente
si daranno a dispor l'armi e le genti
e gli dиi che gli aнti, e gli accompagni.
Poi, ripassando il mar, con maggior forza
di nuovo assaliranvi e d'improvviso:
cosн Calcante interpreta, e predice.
Or questa mole, che tant'alto sorge,
qui per consiglio di Calcante и posta
in vece del Palladio, e per ammenda
del nume offeso, a bello studio intesta
di legni cosн gravi e cosн grandi,
ed a sн smisurata altezza eretta,
a fin che per le porte entro a le mura
quinci addur non si possa, ove per segno
e per memoria poi del nume antico
riverita da voi, sacrata e cуlta
sia ricovro e tutela al popol vostro.
Chй allor che questo dono a Palla offerto
per vostra man sia vпolato e guasto,
ruina estrema (la qual sopra lui
caggia piъ tosto) a voi vuol che ne venga,
ed al gran vostro impero: ed, a rincontro,
quando da voi sia dentro al vostro cerchio
condotto e custodito, allor che l'Asia
congiurerа con le sue forze tutte
a l'esterminio d'Argo, e che tal fato
sopra a' nostri nepoti in cielo и fisso".
Con tal arte Sinon, con tali insidie
fe' sн che gli credemmo; e quelli stessi
cui non potкr nй 'l figlio di Tideo,
nй di Larissa il bellicoso alunno,
nй diece anni domar, nй mille navi,
furon da lagrimette e da menzogne
sforzati e vinti. In questa a gl'infelici
un altro sopravvenne assai maggiore
e piъ fiero accidente; onde a ciascuno
d'improvviso spavento il cor turbossi.
Era Laocoonte a sorte eletto
sacerdote a Nettuno; e quel dн stesso
gli facea d'un gran toro ostia solenne:
quand'ecco che da Tиnedo (m'agghiado
a raccontarlo) due serpenti immani
venir si veggon parimente al lito,
ondeggiando coi dorsi onde maggiori
de le marine allor tranquille e quete.
Dal mezzo in su fendean coi petti il mare,
e s'ergean con le teste orribilmente,
cinte di creste sanguinose ed irte.
Il resto con gran giri e con grand'archi
traean divincolando, e con le code
l'acque sferzando sн che lungo tratto
si facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti a la riva, con fieri occhi accesi
di vivo foco e d'atro sangue aspersi,
vibrвr le lingue, e gittвr fischi orribili.
Noi, di paura sbigottiti e smorti,
chi qua, chi lа ci dispergemmo; e gli angui
s'affilвr drittamente a Laocoonte,
e pria di due suoi pargoletti figli
le tenerelle membra ambo avvinchiando,
sen fкro crudo e miserabil pasto.
Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme
giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto
l'avvinser sн che le scagliose terga
con due spire nel petto e due nel collo
gli racchiusero il fiato; e le bocche alte,
entro al suo capo fieramente infisse,
gli addentarono il teschio. Egli, com'era
d'atro sangue, di bava e di veleno
le bende e 'l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar con le man tentava indarno,
e d'orribili strida il ciel feriva;
qual mugghia il toro allor che dagli altari
sorge ferito, se del maglio appieno
non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
I fieri draghi alfin dai corpi esangui
disviluppati, in vиr la rтcca insieme
strisciando e zufolando, al sommo ascesero:
e nel tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti, a' piи di lei si raggrupparo.
Rinnovossi di ciт nel volgo orrore
e tremore e spavento; e mormorossi
che degnamente avea Laocoonte
di sua temeritа pagato il fio,
e del furor che contra al sacro legno
gli armт l'impura e scelerata mano:
e gridвr tutti che di Palla al tempio
si conducesse, e con preghiere e vуti
de la dea si facesse il nume amico.
A ciт seguire immantinente accinti,
ruiniamo la porta, apriam le mura,
adattiamo al cavallo ordigni e travi,
e ruote e curri a' piedi, e funi al collo.
Cosн mossa e tirata agevolmente
la macchina fatale il muro ascende,
d'armi pregna e d'armati, a cui d'intorno
di verginelle e di fanciulli un coro,
sacre lodi cantando, con diletto
porgean mano a la fune. Ella, per mezzo
tratta de la cittа, mentre si scuote,
mentre che ne l'andar cigola e freme,
sembra che la minacci. O patria, o Ilio,
santo de' numi albergo! inclita in arme
dardania terra! Noi la pur vedemmo
con tanti occhi a l'entrar, che quattro volte
fermossi, e quattro volte anco n'udimmo
il suon de l'armi: e pur, da furia spinti,
ciechi e sordi che fummo, i nostri danni
ci procurammo: chй 'l dн stesso addotto
e posto in cima a la sacrata rтcca
fu quel mostro infelice. Allor Cassandra
la bocca aperse, e quale esser solea
verace sempre e non creduta mai,
l'estremo fine indarno ci predisse:
e noi di sacra e di festiva fronde
velammo i templi il dн, miseri noi,
che de' lieti dн nostri ultimo fue.
Scende da l'Oceаn la notte intanto,
e col suo fosco velo involve e copre
la terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme
l'ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi,
a i lor riposi addormentati e queti
giacean securamente; e giа da Tиnedo
a l'usata riviera in ordinanza
vиr noi se ne venia l'argiva armata,
col favor de la notte occulta e cheta;
quando da la sua poppa il regio legno
ne diи cenno col foco. Allor Sinone,
che per nostra ruina era da noi
e dal fato maligno a ciт serbato,
accostossi al cavallo, e 'l chiuso ventre
chetamente gli aperse, e fuor ne trasse
l'occulto agguato. Usciro a l'aura in prima
i primi capi baldanzosi e lieti,
tutti per una fune a terra scesi.
E fыr Tisandro e Stиnelo ed Ulisse,
Atamante e Toante e Macaуne
e Pirro e Menelao con lo scaltrito
fabbricator di questo inganno, Epиo.
Assalоr la cittа che giа ne l'ozio
e nel sonno e nel vino era sepolta;
ancisero le guardie; aprоr le porte;
miser le schiere congiurate insieme;
e diкr forma a l'assalto. Era ne l'ora
che nel primo riposo hanno i mortali
quel ch'и dal cielo a i loro affanni infuso
opportuno e dolcissimo ristoro:
quand'ecco in sogno (quasi avanti gli occhi
mi fosse veramente) Ettтr m'apparve
dolente, lagrimoso, e quale il vidi
giа strascinato, sanguinoso e lordo
il corpo tutto, e i piи forato e gonfio.
Lasso me! quale e quanto era mutato
da quell'Ettтr che ritornт vestito
de le spoglie d'Achille, e rilucente
del foco ond'arse il gran navile argolico!
Squallida avea la barba, orrido il crine
e rappreso di sangue; il petto lacero
di quante unqua ferite al patrio muro
ebbe d'intorno. E mi parea che 'l primo
foss'io che lagrimando gli dicessi:
"O splendor di Dardania, o de' Troiani
securissima speme, e quale indugio
t'ha fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni
tanto da noi bramato? Ahi, dopo quanta
strage de' tuoi, dopo quanti travagli
de la nostra cittа giа stanchi e domi
ti riveggiamo! E qual fero accidente
fa sн deforme il tuo volto sereno?
E che piaghe son queste?". Egli a ciт nulla
rispose, come a vani miei quesiti:
ma dal profondo petto alti sospiri
traendo: "Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse -
togliti a queste fiamme. Ecco che dentro
sono i nostri nemici. Ecco giа ch'Ilio
arde tutto e ruina. Infino ad ora
e per Priamo e per Troia assai s'и fatto.
Se difendere omai piъ si potesse,
fфra per questa man difesa ancora:
ma dovendo cader, le sue reliquie
sacre e gli santi suoi numi Penati
a te solo accomanda; e tu li prendi
per compagni a' tuoi fati; e, come и d'uopo,
cerca loro altre terre, ergi altre mura;
chй dopo lungo e travaglioso esilio
l'ergerai piъ di Troia altere e grandi".
Detto ciт, da le chiuse arche riposte
trasse, e mi consegnт le sacre bende
e l'effigie di Vesta e 'l foco eterno.
Spargonsi intanto per diverse parti
de la presa cittа le grida e 'l pianto
e 'l tumulto de l'armi; e rinforzando
via piъ di mano in man, tanto s'avanza
che a l'antica magion del padre Anchise
(come che fosse assai remota, e chiusa
d'alberi intorno) il gran rumore aggiunge.
Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo
subitamente d'un terrazzo in cima,
e porgo per udir gli orecchi attenti.
Cosн rozzo pastor, se da gran suono
и da lunge percosso, in alto ascende,
e mirando si sta confuso e stupido
o foco che al soffiar d'un torbid'Austro
stridendo arda le biade e le campagne;
o tempestoso e rapido torrente
che dal monte precipiti, e le selve
ne meni e i cуlti e le ricolte e i campi.
Allor tardi credemmo; allor le insidie
ne fыr conte de' Greci. E giа 'l palagio
era di Deпfтbo arso e distrutto;
giа 'l suo vicino Ucalegуn ardea,
e l'incendio di Troia in ogni lato
rilucea di Sigиo ne la marina;
e s'udian gridar genti e sonar tube.
Io m'armo, e, forsennato, anco ne l'armi
non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,
raunati i compagni, avventurarmi,
menar le mani, e ne la rтcca addurmi;
mi fan l'impeto e l'ira ad ogni rischio
precipitoso; e solo a mente vienmi
che un bel morir tutta la vita onora.
Eravam mossi; quando ecco tra via
ne si fa Panto d'improvviso avanti,
Panto figlio d'Otrиo, che de la rтcca
era custode, e sacerdote a Febo.
Questi, scampato da' nemici a pena,
inverso il lito attonito fuggendo,
i sacri arredi e i santi simulacri
de gli dиi vinti, e 'l suo picciol nipote
si traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi -
a che siam giunti? Ove ricorso abbiamo,
se la rтcca и giа presa?". Ei sospirando
e piangendo rispose: " И giunto, Enea,
l'ultimo giorno e 'l tempo inevitabile
de la nostra ruina. Ilio fu giа;
e noi Troiani fummo: or и di Troia
ogni gloria caduta. Il fero Giove
tutto in Argo ha rivolto; e tutti in preda
siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo,
ch'era a Palla devoto, altero in mezzo
stassi de la cittade, e d'ogni lato
arme versa ed armati. Il buon Sinone
gode de la sua frode, e d'ogn'intorno
scorrendo si rimescola, e s'aggira
gran maestro d'incendi e di ruine.
A porte spalancate entran le schiere
senza ritegno ed a migliaia, quante
nй d'Argo usciron mai nй di Micene.
Gli altri che prima entraro, han giа le strade
assedпate: e stan con l'armi infeste,
parate a far di noi strage e macello.
Soli son fino a qui sorti in difesa
i corpi de le guardie: e questi al buio
fanno con lievi e repentini assalti
tale una cieca resistenza a pena".
Dal parlar di costui, dal nume avverso
spinto, mi caccio tra le fiamme e l'armi,
ove mi chiama il mio cieco furore,
e de le genti il fremito e le strida
che feriscono il cielo. E per compagni
primieramente al lume de la luna
mi si scopron Rifиo, Ifito il vecchio
ed Ipane e Dimante: indi comparve
il giovine Corиbo. Era costui
figlio a Migdуne, insanamente acceso
de l'amor di Cassandra; e, come fosse
giа suo consorte, pochi giorni avanti
in soccorso del suocero e de' Frigi
s'era a Troia condotto. Infortunato!
che non avea la sua sposa indovina
ben anco intesa. A questi insieme accolti,
per accendergli piъ mi volgo e dico:
"Giovini forti e valorosi, in vano
omai fia la fortezza e 'l valor vostro;
poichй perduti siamo e che Troia arde,
e gli dиi tutti, a cui tutela e cura
si reggea questo impero, in abbandono
lasciano i nostri templi e i nostri altari.
Ma se voi cosн fermi e cosн certi
siete pur, com'io veggio, a seguitarmi,
ancor che a morte io vada, in mezzo a l'armi
avventiamci, e moriamo. Un sol rimedio
a chi speme non have и disperarsi".
Cosн l'ardir di quegli animi accesi
furor divenne. Usciam di lupi in guisa
che rapaci, famelici e rabbiosi,
col ventre vтto e con le canne asciutte
sentan de' lupicini urlar per fame
pieno un digiun covile. Andiam per mezzo
de' nemici e de l'armi a morte esposti,
senza riservo, e via dritti fendiamo
la cittа tutta, a la buia ombra occulti,
che l'altezza facea de gli edifici.
Or chi puт dir la strage e la ruina
di quella notte? E qual и pianto eguale
a tante occisпoni, a tanto eccidio?
Troia ruina, la superba, antica
e glorпosa Troia, che tant'anni
portт scettro e corona. Era, dovunque
s'andava, di cadaveri, di sangue,
d'ogni calamitа pieno ogni loco,
le vie, le case, i templi. E non pur soli
caddero i Teucri, chй l'antico ardire
destossi, e surse alcuna volta ancora
negli lor petti. I vincitori e i vinti
giacean confusamente, e d'ogni lato
s'udian pianti e lamenti; e questi e quelli
eran da la paura e da la morte
in mille guise aggiunti. Andrтgeo il primo
de' Greci fu ch'avanti ne s'offerse,
condottier di gran gente. Egli, avvisando
parte sollecitar de la sua schiera:
"Affrettatevi, - disse - a che badate?
che 'ndugio и 'l vostro? Altri espugnata ed arsa
e depredata han di giа Troia, e voi
testй venite?" Avea ciт detto a pena,
che 'l segno e la risposta indarno attesa,
tra nemici si vide; e come attonito
restando, con la voce il piи ritrasse.
Come repente il vпator s'arretra,
se d'improvviso fra le spine un angue
avvien che prema, ed ei premuto e punto
d'ira gonfio e di tosco gli s'avventi;
cosн dal nostro subitano incontro
sovraggiunto in un tempo e spaventato,
Andrтgeo per fuggir ratto si volse.
Ma noi che, impauriti e sconcertati,
a la sprovvista gli assalimmo in lochi
a lor non consueti, in breve spazio
li circondammo, e gli uccidemmo alfine:
tanto nel primo assalto amica e presta
ne fu la sorte. E qui fatto Corиbo
d'un tal successo e di coraggio altero:
"Compagni, - disse - poi che la fortuna
con questo sн felice agli altri incontri
ne porge aнta, a nostro scampo usiamla.
Mutiam gli scudi, accomodiamci gli elmi
e l'insegne de' Greci. O biasmo o lode
che ciт ne sia, chi co' nemici il cerca?
L'arme ne daranno essi". E, cosн detto,
la celata e 'l cimier d'Andrтgeo stesso
e la sua scimitarra e la sua targa
per lui si prese, armi onorate e conte,
Cosн fece Rifиo, cosн Dimante,
e cosн tutti: chй per sй ciascuno
di nuove spoglie allegramente armossi.
Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii
non eran nosco; e ne l'oscura notte
con ogni occasпone in ogni loco
ci azzuffammo con essi; e di lor molti
mandammo a l'Orco, e ritirar molt'altri
ne facemmo a le navi: e fыr di quelli
che per viltа nel cavernoso e cieco
ventre si racquattвr del gran cavallo.
Ma che? Contra 'l voler de' regi eterni
indarno osa la gente. Ecco dal tempio
trar veggiam di Minerva, con le chiome
sparse, e con gli occhi indarno al ciel rivolti,
la vergine Cassandra. Io dico gli occhi,
perchй le regie sue tenere mani
eran da' lacci indegnamente avvinte.
A sн fero spettacolo Corиbo
infurпato, e di morir disposto,
anzi che di soffrirlo, a quella schiera
scagliossi in mezzo; e noi ristretti insieme
tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi
una strage crudele e miserabile
e da' nostri medesmi, che la cima
tenean del tempio, e dardi e sassi e travi
ne versarono addosso, imaginando
da l'armi, da' cimieri e da l'insegne
di ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno,
tratti dal gran rumore e da lo sdegno
de la ritolta vergine, s'uniro
ai nostri danni. Il bellicoso Aiace,
i fieri Atridi, i Dтlopi e gli Argivi,
tutti ne furon sopra in quella guisa
ch'opposti un contra l'altro Affrico e Bora
e Garbino e Volturno accolte in mezzo
han le selve stridenti o 'l mare ondoso,
quando col suo tridente in fin dal fondo
il gran Nereo il conturba. E tornвr anco
incontro a noi quei che da noi pur dianzi
sen gоr rotti e dispersi; e questi in prima
scoprоr le nostre insidie, e fкr palesi
le cangiate armi e gli mentiti scudi,
e 'l parlar che dal greco era diverso.
Cosн ne fu subitamente addosso
un diluvio di gente. E qui per mano
di Penelиo, davanti al sacro altare
de l'armigera Dea cadde Corиbo:
cadde Rifиo, ch'era ne' Teucri un lume
di bontа, di giustizia e d'equitate
(cosн a Dio piacque); ed Ipane e Dimante
caddero anch'essi; e questi, ohimи! trafitti
per le man pur de' nostri. E tu, pietoso
Panto, cadesti; e la tua gran pietate,
e l'нnfola santissima d'Apollo
in ciт nulla ti valse. O fiamme estreme,
o ceneri de' miei! fatemi fede
voi che nel vostro occaso io rischio alcuno
non rifiutai nй d'arme, nй di foco,
nй di qual fosse incontro, nй di quanti
ne facessero i Greci: e se 'l fato era
ch'io dovessi cader, caduto fфra:
tal ne feci opra. Ne spiccammo al fine
da quel mortale assalto. Ifito e Pelia
ne venner meco: Ifito afflitto e grave
giа d'anni; e Pelia indebolito e tardo
d'un colpo, che di mano ebbe d'Ulisse.
Quinci divelti, al gran palagio andammo
da le grida chiamati. Ivi era un fremito,
un tumulto, un combatter cosн fiero,
come guerra non fosse in altro loco,
e quivi sol si combattesse, e quivi
ognun morisse, e nessun altro altrove:
tal v'era Marte indomito, e de' Greci
tanto concorso. Avean la porta cinta
di schiere e di testuggini e di travi,
e d'ambi i lati a la parete in alto
appoggiate le scale; onde saliti
e spinti un dopo l'altro, con gli scudi
si ricoprian di sopra, e con le destre
rampicando salian di grado in grado.
A rincontro i Troiani, altri di sopra
muri e tetti versando e torri intere,
i travi e i palchi d'oro e i fregi tutti
de la reggia e de' regi avean per armi;
fermi a far sн (poich'eran giunti al fine)
ch'ogni cosa con lor finisse insieme;
ed altri unitamente entro a la porta
stavan coi ferri bassi, in folta schiera
a guardia de l'entrata. E qui di novo
a sovvenir la corte, a far difesa
per entro, a dare a' vinti animo e forza
mi posi in core: e 'n cotal guisa il fei.
Era un andito occulto ed una porta
secretamente accomodata a l'uso
de le stanze reali, onde solea
Andromaca infelice al suo buon tempo
gir a' suoceri suoi soletta, e seco
per domestica gioia al suo grand'avo
il pargoletto Astпanatte addurre.
Quinci entromesso, me ne salsi in cima
a l'alto corridore, onde i meschini
facean di sopra a le nemiche schiere
tempesta in vano. Era dal tetto a l'aura
spiccata, e sopra la parete a filo
un'altissima torre, onde il paese
di Troia, il mar, le navi e 'l campo tutto
si scopria de' nemici. A questa intorno
co' ferri ci mettemmo e co' puntelli;
e da radice ov'era al palco aggiunta,
e da' suoi tavolati e da' suoi travi
recisa in parte la tagliammo in tutto,
e la spingemmo. Alta ruina e suono
fece cadendo; e di piъ greche squadre
fu strage e morte e sepoltura insieme.
Gli altri vi salоr sopra; e d'ogni parte
senz'intermissпon d'ogni arme un nembo
volava intanto. In su la prima entrata
stava Pirro orgoglioso; e d'armi cinto
sн luminose, e da' riflessi accese
di tanti incendi, che di foco e d'ira
parean lunge avventar raggi e scintille.
Tale un colъbro mal pasciuto e gonfio,
di tana uscito, ove la fredda bruma
lo tenne ascoso, a l'aura si dimostra,
quando, deposto il suo ruvido spoglio,
ringiovenito, alteramente al sole
lubrico si travolve, e con tre lingue
vibra mille suoi lucidi colori.
Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga
d'Achille, Automedonte, e lo stuol tutto
era de' Sciri: e di giа sotto entrati,
fiamme a' tetti avventando, ogni difesa
ne facean vana. E qui co' primi, avanti
Pirro con una in man grave bipenne
le sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno
de la ferrata porta abbatte e frange,
e per disgangherarla ogni arte adopra.
Tanto al fin ne recide che nel mezzo
v'apre un'ampia finestra. Appaion dentro
gli atrii superbi, i lunghi colonnati,
e di Priamo e degli altri antichi regi
i reconditi alberghi. Appaion l'armi
che davanti eran pronte a la difesa.
S'ode piъ dentro un gemito, un tumulto,
un compianto di donne, un ululato,
e di confusпone e di miseria
tale un suon che feria l'aura e le stelle.
Le misere matrone spaventate,
chi qua, chi lа per le gran sale errando,
battonsi i petti; e con dirotti pianti
dаnno infino a le porte amplessi e baci.
Pirro intanto non cessa, e furпoso,
in sembianza del padre, ogni riparo,
ogni intoppo sprezzando, entro si caccia.
Giа l'arпete a fieri colpi e spessi
aperta, fracassata, e d'ambi i lati
da' cardini divelta avea la porta;
quand'egli a forza urtт, ruppe e conquise
i primi armati; e quinci in un momento
di Greci s'allagт la reggia tutta.
Qual и se, rotti gli argini, spumoso
esce e rapido un fiume, allor che gonfio
e torbo e ruinoso i campi inonda,
seco i sassi traendo e i boschi interi,
e gli armenti e le stalle e ciт che avanti
gli s'attraversa; in cotal guisa io stesso
vidi Pirro menar ruina e strage;
e vidi ne l'entrata ambi gli Atridi;
vidi Ecъba infelice, ed a lei cento
nuore d'intorno; e Prпamo vid'anco
ch'estinguea col suo sangue, ohimи! quei fochi
che da lui stesso eran sacrati e cуlti.
Cinquanta maritali appartamenti
eran ne' suo serraglio: quale, e quanta
speranza de' figlioli e de' nipoti!
Quanti fregi, quant'oro, quante spoglie,
e quant'altre ricchezze! e tutte insieme
periro incontinente: e dove il foco
non era, erano i Greci. Or, per contarvi
qual di Prпamo fosse il fato estremo,
egli, poscia che presa, arsa e disfatta
vide la sua cittade, e i Greci in mezzo
ai suoi piъ cari e piъ riposti alberghi;
ancor che vиglio e debole e tremante,
l'armi, che di gran tempo avea dismesse,
addur si fece; e d'esse inutilmente
gravт gli omeri e 'l fianco; e come a morte
devoto, ove piъ folti e piъ feroci
vide i nemici, incontr' a lor si mosse.
Era nel mezzo del palazzo a l'aura
scoperto un grand'altare, a cui vicino
sorgea di molti e di molt'anni un lauro
che co' rami a l'altar facea tribuna,
e con l'ombra a' Penati opaco velo.
Qui, come d'atra e torbida tempesta
spaventate colombe, a l'ara intorno
avea le care figlie Ecuba accolte;
ove agl'irati dиi pace ed aнta
chiedendo, agli lor santi simulacri
stavano con le braccia indarno appese.
Qui, poichй la dolente apparir vide
il vecchio re giovenilmente armato:
"O, - disse - infelicissimo consorte,
qual dira mente, o qual follia ti spinge
a vestir di quest'armi? Ove t'avventi,
misero? Tal soccorso a tal difesa
non и d'uopo a tal tempo: non, s'appresso
ti fosse anco Ettor mio. Con noi piъ tosto
rimanti qui; chй questo santo altare
salverа tutti; o morren tutti insieme".
Ciт detto, a sй lo trasse; e nel suo seggio
in maestate il pose. Ecco davanti
a Pirro intanto il giovine Polite,
un de' figli del re, scampo cercando
dal suo furore, e giа da lui ferito,
per portici e per logge armi e nemici
attraversando, in vиr l'altar sen fugge:
e Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza
sн che giа giа con l'asta e con la mano
or lo prende, or lo fиre. Alfin qui giunto,
fatto di mano in man di forza esausto
e di sangue e di vita, avanti agli occhi
d'ambi i parenti suoi cadde, e spirт.
Qui, perchй si vedesse a morte esposto,
Prпamo non di sй punto oblпossi,
nй la voce frenт, nй frenт l'ira:
anzi esclamando: "O scelerato, - disse -
o temerario! Abbiati in odio il cielo,
se nel cielo и pietate; o se i celesti
han di ciт cura, di lassъ ti caggia
la vendetta che merta opra sн ria.
Empio, ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto
mio proprio fai governo e scempio tale
d'un tal mio figlio, e di sн fera vista
le mie luci contamini e funesti.
Cotal meco non fu, benchй nimico,
Achille, a cui tu menti esser figliolo,
quando, a lui ricorrendo, umanamente
m'accolse, e riverн le mie preghiere;
gradн la fede mia; d'Ettor mio figlio
mi rendй 'l corpo esangue: e me securo
nel mio regno ripose". In questa, acceso,
il debil vecchio alzт l'asta, e lanciolla
sн che senza colpir languida e stanca
ferн lo scudo, e lo percosse a pena,
che dal sonante acciaro incontinente
risospinta e sbattuta a terra cadde.
A cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque
messaggiero a mio padre, e da te stesso,
le mie colpe accusando e i miei difetti,
fa' conto a lui come da lui traligno:
e muori intanto". Ciт dicendo, irato
afferrollo, e, per mezzo il molto sangue
del suo figlio, tremante e barcolloni,
a l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo
con la sinistra il prese, e con la destra
strinse il lucido ferro, e fieramente
nel fianco infino agli elsi gliel'immerse.
Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse
Prпamo, un re sн grande, un sн superbo
dominator di genti e di paesi,
un de l'Asia monarca, a veder Troia
ruinata e combusta; a giacer quasi
nel lito un tronco desolato, un capo
senza il suo busto, e senza nome un corpo.
Allor pria mi sentii dentro e d'intorno
tale un orror, che stupido rimasi.
E, di Prпamo pensando al caso atroce,
mi si rappresentт l'imago avanti
del padre mio, ch'era a lui d'anni eguale.
Mi sovvenne l'amata mia Creъsa,
il mio picciolo Iulo, e la mia casa
tutta a la vпolenza, a la rapina,
ad ogni ingiuria esposta. Allora in dietro
mi volsi per veder che gente meco
fosse de' miei seguaci; e nullo intorno
piъ non mi vidi: chй tra stanchi e morti
e feriti e storpiati, altri dal ferro,
altri da le ruine, altri dal foco,
m'avean giа tutti abbandonato. In somma
mi trovai solo. Onde, smarrito errando,
e d'ogn'intorno rimirando, al lume
del grand'incendio, ecco mi s'offre a gli occhi
di Tindaro la figlia, che nel tempio
se ne stava di Vesta, in un reposto
e secreto ridotto ascosa e cheta:
Elena, dico, origine e cagione
di tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo
furia comune. Onde comunemente
e de' Greci temendo e de' Troiani
e de l'abbandonato suo marito,
s'era in quel loco, e 'n se stessa ristretta,
confusa, vilipesa ed abborrita
fin dagli stessi altari. Arsi di sdegno,
membrando che per lei Troia cadea;
e 'l suo castigo e la vendetta insieme
de la mia patria rivolgendo: "Adunque -
dicea meco - impunita e trпonfante
ritornerа la scelerata in Argo?
E regina vedrа Sparta e Micene?
Goderа del marito, de' parenti,
de' figli suoi? Farа pompe e grandezze,
e d'Ilio avrа per serve e per ministri
l'altere donne e i gran donzelli intorno?
E qui Priamo sarа di ferro anciso,
e Troia incensa, e la dardania terra
di tanto sangue tante volte aspersa?
Non fia cosн; che se ben pregio e lode
non s'acquista a punire o vincer donna,
io lodato e pregiato assai terrommi,
se si dirа ch'aggia d'un mostro tale
purgato il mondo. Appagherommi almeno
di sfogar l'ira mia: vendicherommi
de la mia patria; e col fiato e col sangue
di lei placherт l'ombre, e farт sazie
le ceneri de' miei". Ciт vaneggiando,
infurпava; quand'ecco una luce
m'aprio la notte, e mi scoverse avanti
l'alma mia genitrice in un sembiante,
non come l'altre volte in altre forme
mentito o dubbio, ma verace e chiaro,
e di madre e di dea, qual, credo, e quanta
su tra gli altri Celesti in ciel si mostra.
Cotal la vidi, e tale anco per mano
mi prese; e con pietа le sante luci
e le labbia rosate aperse, e disse:
"Figlio, a che tanto affanno? a che tant'ira?
Chй non t'acqueti omai? Questa и la cura
che tu prendi di noi? Chй non piъ tosto
rimiri ov'abbandoni il vecchio Anchise
e la cara Creъsa e 'l caro Iulo,
cui sono i Greci intorno? E se non fosse
che in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco
fфran giа tutti. Ah! figlio, non il volto
de l'odпata Argiva, non di Pari
la biasmata rapina, ma del cielo
e de' celesti il voler empio atterra
la troiana potenza. Alza su gli occhi,
ch'io ne trarrт l'umida nube, e 'l velo
che la vista mortal t'appanna e grava:
poscia credi a tua madre, e senza indugio
tutto fa' che da lei ti si comanda:
vedi lа quella mole, ove quei sassi
son da' sassi disgiunti, e dove il fumo
con la polve ondeggiando al ciel si volve,
come fiero Nettuno infin da l'imo
le mura e i fondamenti e 'l terren tutto
col gran tridente suo sveglie e conquassa.
Vedi qui su la porta come Giuno
infurпata a tutti gli altri avanti
si sta cinta di ferro, e da le navi
le schiere d'Argo a' nostri danni invita:
vedi poi colа su Pallade in cima
a l'alta rocca, entro a quel nembo armata,
con che lucenti e spaventosi lampi
il gran Gуrgone suo discopre e vibra.
Che piъ? mira nel ciel, che Giove stesso
somministra a gli Argivi animo e forza,
e incontro a le vostre armi a l'arme incita
gli eterni dиi. Cedi lor, figlio, e fuggi,
poi che indarno t'affanni. Io sarт teco
ovunque andrai, sн che securamente
ti porrт dentro a' tuoi paterni alberghi".
Cosн disse; e per entro a le folt'ombre
de la notte s'ascose. Allor vid'io
gl'invisibili aspetti, e i fieri volti
de' numi a Troia infesti, e Troia tutta
in un sol foco immersa, e fin dal fondo
sottosopra rivolta. In quella guisa
che d'alto monte in precipizio cade
un orno antico, i cui rami pur dianzi
facean contrasto a' vиnti e scorno al sole,
quando con molte accette al suo gran tronco
stanno i robusti agricoltori intorno
per atterrarlo, e gli dan colpi a gara,
da cui vinto e dal peso, a poco a poco
crollando e balenando, il capo inchina,
e stride e geme e dal suo giogo al fine
e con parte del giogo si diveglie,
o si scoscende; e ciт che intoppa urtando,
di suono e di ruina empie le valli.
Allor discesi; e la materna scorta
seguendo, da' nemici e da le fiamme
mi rendei salvo: chй dovunque il passo
volgea, cessava il foco, e fuggian l'armi.
Poi ch'io fui giunto a la magione antica
del padre mio, di lui prima mi calse
e del suo scampo, e per condurlo a' monti
m'apparecchiava, quand'ei disse:"O figlio,
io decrepito, io misero, che avanzi
ai dн de la mia patria? Io posso, io deggio
sopravvivere a Troia? E fia ch'io soffra
sн vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni
siete di sangue e di vigore intieri,
voi vi salvate. A me, s'io pur dovea
restare in vita, avrebbe il ciel serbato
questo mio nido. Assai, figlio, e pur troppo
son vissuto fin qui; poi ch'altra volta
vidi Troia cadere, e non cadd'io.
Fatemi or di pietа gli ultimi offici;
iteratemi il vale, e per defunto
cosн composto il mio corpo lasciate,
ch'io troverт chi mi dia morte; e i Greci
medesmi o per pietate, o per vaghezza
de le mie spoglie, mi trarran di vita
e di miseria: e se d'esequie io manco,
se manco di sepolcro, il danno и lieve.
Da l'ora in qua son io visso a la terra
disutil peso, ed al gran Giove in ira,
che dal vento percosso e da le fiamme
fui dal folgore suo". Ciт memorando
stava il misero padre a morte additto;
e d'intorno gli er'io, Creъsa, Iulo,
la casa tutta con preghiere e pianti
stringendolo a salvarsi, a non trar seco
ogni cosa in ruina, a non offrirsi
da se stesso a la morte. Ei fermo e saldo
nй di proponimento, nй di loco
punto si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido,
di morir desпoso. E qual v'era altro
rimedio o di consiglio, o di fortuna?
"Ah! che di questa soglia io tragga il piede,
padre mio, per lasciarti? Ah! che tu possa
creder tanto di me? Da la tua bocca
tanto di sceleranza e di viltate
и d'un tuo figlio uscito? Or s'и destino
che di sн gran cittа nulla rimanga,
se piace a te, se nel tuo core и fermo
che nй di te, nй de gli tuoi si scemi
la ruina di Troia; e cosн vada,
e cosн fia: ch'io veggio a mano a mano
qui del sangue del re tutto cosperso,
e bramoso del nostro, apparir Pirro,
ch'i padri occide anzi a gli altari, e i figli
anzi agli occhi de' padri. Ah! madre mia,
per questo fine qui salvo e difeso
m'hai da l'armi e dal foco, acciт ch'io veggia
con gli occhi miei ne la mia casa stessa
i miei nimici e 'l mio padre e 'l mio figlio
e la mia donna crudelmente occisi
l'un nel sangue de l'altro? Mano a l'arme!
Chi mi dа l'armi? Ecco che 'l giorno estremo
a morte ne chiama. Or mi lasciate
ch'io torni infra i nimici, e che di nuovo
mi razzuffi con essi: chй non tutti
abbiam senza vendetta oggi a perire".
E giа di ferro cinto, a la sinistra
m'adattavo lo scudo, e fuori uscia,
quand'ecco in su la soglia attraversata
Creъsa avanti a' piи mi si distende,
e me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo
m'appresenta, e mi dice: "Ah! mio consorte,
dove ne lasci? S'a morir ne vai,
chй non teco n'adduci? E se ne l'armi
e nell'esperпenza hai speme alcuna,
chй non difendi la tua casa in prima?
ove Ascanio abbandoni? ove tuo padre?
ove Creъsa tua, che tua s'и detta
per alcun tempo?". E ciт gridando empiea
di pianto e di stridor la magion tutta:
quand'ecco innanzi a gli occhi, e fra le mani
de gli stessi parenti, un repentino
e mirabile a dir portento apparve;
chй sopra il capo del fanciullo Iulo
chiaro un lume si vide, e via piъ chiara
una fiamma che tremola e sospesa
le sue tempie rosate e i biondi crini
sen gia come leccando, e senza offesa
lievemente pascendo. Orrore e tйma
ne presi in prima. Indi a quel santo foco
d'intorno, altri con acqua, altri con altro,
ognun facea per ammorzarlo ogn'opra.
Ma 'l padre Anchise a cotal vista allegro,
le man, gli occhi e la voce al ciel rivolto,
orт dicendo: "Eterno onnipotente
signor, se umana prece unqua ti mosse,
vиr noi rimira, e ne fia questo assai.
Ma se di merto alcuno in tuo cospetto
и la nostra pietа, padre benigno,
danne anco aнta; e con felice segno
questo annunzio ratifica e conferma".
Avea di ciт pregato il vecchio appena,
che tonт da sinistra e dal convesso
del ciel cadde una stella, che per mezzo
fendй l'ombrosa notte, e lunga striscia
di face e di splendor dietro si trasse.
Noi la vedemmo chiaramente sopra
da' nostri tetti ire a celarsi in Ida,
sн che lasciт, quanto il suo corso tenne,
di chiara luce un solco; e lunge intorno
fumт la terra di sulfureo odore.
Allor vinto si diede il padre mio;
e tosto a l'aura uscendo, al santo segno
de la stella inchinossi, e con gli dиi
parlт devotamente: "O de la patria
sacri numi Penati, a voi mi rendo.
Voi questa casa, voi questo nipote
mi conservate. Questo augurio и vostro,
e nel poter di voi Troia rimansi".
Poscia, rivolto a noi: " Fa', figliuol mio,
ormai - disse - di me che piъ t'aggrada;
ch'al tuo voler son pronto, e d'uscir teco
piъ non recuso". Avea giа 'l foco appresa
la cittа tutta, e giа le fiamme e i vampi
ne ferian da vicino, allor che 'l vecchio
cosн dicea: "Caro mio padre, adunque, -
soggiuns'io - com'и d'uopo, in su le spalle
a me ti reca, e mi t'adatta al collo
acconciamente: ch'io robusto e forte
sono a tal peso: e sia poscia che vuole:
ch'un sol periglio, una salute sola
fia d'ambedue. Seguami Iulo al pari;
Creъsa dopo: e voi, miei servi, udite
quel ch'io diviso. И de la porta fuori
un colle, ov'ha di Cerere un antico
e deserto delъbro, a cui vicino
sorge un cipresso, giа molt'anni e molti
in onor de la dea serbato e cуlto.
Qui per diverse vie tutti in un loco
vi ridurrete; e tu con le tue mani
sosterrai, padre mio, de' santi arredi
e de' patrii Penati il sacro incarco,
che a me, sн lordo e sн recente uscito
da tanta uccisпon, toccar non lece
pria che di vivo fiume onda mi lave".
Ciт detto, con la veste e con la pelle
d'un villoso leon m'adeguo il tergo;
e 'l caro peso a gli omeri m'impongo.
Indi a la destra il fanciulletto Iulo
mi s'aggavigna e non con moto eguale
ei segue i passi miei, Creъsa l'orme.
Andiam per luoghi solitari e bui:
e me, cui dianzi intrepido e sicuro
vider de l'arme i nembi e de gli armati
le folte schiere, or ogni suono, ogni aura
empie di tйma: sн geloso fammi
e la soma e 'l compagno. Era vicino
a l'uscir de la porta, e fuori in tutto,
com'io credea, d'ogni sinistro incontro;
quand'ecco d'improvviso udir mi sembra
un calpestнo di gente, a cui rivolto
disse il vecchio gridando: "Oh! fuggi, figlio,
fuggi, chй ne son presso. Io veggio, io sento
sonar gli scudi, e lampeggiar i ferri".
Qui ridir non saprei come, nй quale
avverso nume a me stesso mi tolse:
chй mentre da la fretta e dal timore
sospinto esco di strada, e per occulte
e non usate vie m'aggiro e celo,
restai, misero me! senza la mia
diletta moglie, in dubbio se dal fato
mi si rapisse, o travпata errasse,
o pur lassa a posar posta si fosse.
Basta ch'unqua di poi non la rividi,
nй per vederla io mi rivolsi mai,
nй mai me ne sovvenne, infin che giunti
di Cerere non fummo al sagro poggio.
Ivi ridotti, ne mancт di tanti
sola Creъsa, ohimи! con quanto scorno
e con quanto dolor del suo consorte
e del figlio e del suocero e di tutti!
Io che non feci allora, e che non dissi?
Qual degli uomini, folle! e degli dиi
non accusai! Qual vidi in tanto eccidio,
o ch'io provassi, o che avvenisse altrui,
caso piъ miserando e piъ crudele?
Qui mio figlio, mio padre e i patrii numi
lascio in guardia a' compagni, ed io de l'armi
pur mi rivesto, e 'ndietro me ne torno,
disposto a ritentar ogni fortuna,
a cercar Troia tutta, a por la vita
ad ogni repentaglio. Incominciai
in prima da le mura e da la porta,
ond'era uscito; e le vie stesse e l'orme
ripetei tutte per cui dianzi io venni,
gli occhi portando per vederla intenti.
Silenzio, solitudine e spavento
trovai per tutto. A casa aggiunsi in prima,
cercando se per sorte ivi smarrita
si ricovrasse. Era giа presa e piena
di nemici e di foco; e giа da' tetti
uscian da' vиnti e da le furie spinte
rapide fiamme e minacciose al cielo.
Torno quinci al palagio; indi a la rтcca:
seguo a le piazze, a' portici, a l'asilo
di Giunon, che giа fatti eran conserve
de la preda di Troia, a cui Fenice
e 'l fiero Ulisse eran custodi eletti.
Qui d'ogni parte le troiane spoglie
fin de le sacristie, fin de gli altari
le sacre mense, i prezпosi vasi
di solid'oro, e i paramenti e i drappi
e le delizie e le ricchezze tutte
a gli incendi ritolte, erano addotte.
D'intorno innumerabili prigioni
stavan di funi e di catene avvinti,
e matrone e donzelle e pargoletti,
che di sordi lamenti e di muggiti
facean ne l'aria un tuono; e men fra loro
era la donna mia: nй dove fosse,
piъ ripensar sapendo, osai dolente
gridar per le vie tutte; e, benchй in vano,
mille volte iterai l'amato nome.
Mentre cosн tra furпoso e mesto
per la cittа m'aggiro, e senza fine
la ricerco e la chiamo, ecco davanti
mi si fa l'infelice simulacro
di lei, maggior del solito. Stupii,
m'aggricciai, m'ammutii. Prese ella a dirmi,
e consolarmi: "O mio dolce consorte,
a che sн folle affanno? A gli dиi piace
che cosн segua. A te quinci non lece
di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
ch'io sia teco a provar gli affanni tuoi;
chй soffrir lunghi esigli, arar gran mari
ti converrа pria ch'al tuo seggio arrivi,
che fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno
Tebro con placid'onde opimi campi
di bellicosa gente impingua e riga.
Ivi riposo e regno e regia moglie
ti si prepara. Or de la tua diletta
Creъsa, signor mio, piъ non ti doglia:
chй i Dтlopi superbi, o i Mirmidуni
non vedranno giа me, dardania prole,
e di Prпamo figlia, e nuora a Venere,
nй donna lor, nй di lor donne ancella:
chй la gran genitrice degli dиi
appo sй tiemmi. Or il mio caro Iulo,
nostro comune amore, ama in mia vece;
e lui conserva, e te consola. Addio".
Cosн detto, disparve. Io, che dal pianto
era impedito, ed avea molto a dirle,
me le avventai, per ritenerla, al collo;
e tre volte abbracciandola, altrettante,
come vento stringessi o fumo o sogno,
me ne tornai con le man vтte al petto.
E cosн scorsa e consumata indarno
tutta la notte, al poggio mi ritrassi
a' miei compagni, ove trovai con molta
mia maraviglia d'ogni parte accolta
una gran gente, un miserabil volgo
d'ogni etа, d'ogni sesso e d'ogni grado,
a l'esiglio parati, e 'nsieme additti
a seguir me, dovunque io gli adducessi,
o per mare o per terra. Uscia giа d'Ida
la mattutina stella, e 'l dн n'apria,
quando in dietro mi volsi, e vidi Troia
fumar giа tutta; e de la rтcca in cima,
e di sovr'ogni porta inalberate
le greche insegne; onde nй via, nй speme
rimanendomi piъ di darle aнta,
cedei; ripresi il carco, e salsi al monte».

LIBRO TERZO

«Poi che fu d'Asia il glorпoso regno
e 'l suo re seco e 'l suo legnaggio tutto,
com'al cielo piacque, indegnamente estinto,
Ilio abbattuto e la nettunia Troia
desolata e combusta; i santi augъri
spпando, a vari esigli, a varie terre
per ricovro di noi pensando andammo:
e ne la Frigia stessa, a piи d'Antandro,
ne' monti d'Ida, a fabbricar ne demmo
la nostra armata, non ben certi ancуra
ove il ciel ne chiamasse, e quale altrove
ne desse altro ricetto. Ivi le genti
d'intorno accolte, al mar ne riducemmo,
e n'imbarcammo alfine. Era de l'anno
la stagion prima, e i primi giorni a pena,
quando, sciolte le sarte e date a' venti
le vele, come volle il padre Anchise,
piangendo abbandonai le rive e i porti
e i campi ove fu Troia, i miei compagni
meco traendo e 'l mio figlio e i miei numi
a l'onde in preda, e de la patria in bando.
И de la Frigia incontro un gran paese
da' Traci arato, al fiero Marte additto,
ampio regno e famoso, e seggio un tempo
del feroce Licurgo. Ospiti antichi
s'eran Traci e Troiani; e fin ch'a Troia
lieta arrise fortuna, ebbero entrambi
comuni alberghi. A questa terra in prima
drizzai 'l mio corso, e qui primieramente
nel curvo lito con destino avverso
una cittа fondai, che dal mio nome
Enиade nomossi; e mentre intorno
me ne travaglio, e i santi sacrifici
a Venere mia madre ed agli dиi,
che sono al cominciar propizi, indico:
mentre che 'n su la riva un bianco toro
al supremo Tonante offro per vittima,
udite che m'avvenne. Era nel lito
un picciol monticello, a cui sorgea
di mirti in su la cima e di corniali
una folta selvetta. In questa entrando
per di fronde velare i sacri altari,
mentre de' suoi piъ teneri e piъ verdi
arbusti or questo, or quel diramo e svelgo;
orribile a veder, stupendo a dire,
m'apparve un mostro: chй, divelto il primo
da le prime radici, uscоr di sangue
luride gocce, e ne fu 'l suolo asperso.
Ghiado mi strinse il core; orror mi scosse
le membra tutte; e di paura il sangue
mi si rapprese. Io le cagioni ascose
di ciт cercando, un altro ne divelsi;
ed altro sangue uscinne: onde confuso
vie piъ rimasi; e nel mio cor diversi
pensier volgendo, or de l'agresti ninfe,
or del scitico Marte i santi numi
adorando, porgea preghiere umнli,
che di sн fiera e portentosa vista
mi si togliesse, o si temprasse almeno
il diro annunzio. Ritentando ancora,
vengo al terzo virgulto, e con piъ forza
mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
e lo scuoto e lo sbarbo (il dico, o 'l taccio?),
un sospiroso e lagrimabil suono
da l'imo poggio odo che grida e dice:
"Ahi! perchй sн mi laceri e mi scempi?
Perchй di cosн pio, cosн spietato,
Enea, vиr me ti mostri? A che molesti
un ch'и morto e sepolto? A che contamini
col sangue mio le consanguinee mani?
Chй nй di patria, nй di gente esterno
son io da te; nй questo atro liquore
esce da sterpi, ma da membra umane.
Ah! fuggi, Enea, da questo empio paese:
fuggi da questo abbominevol lito:
chй Polidoro io sono, e qui confitto
m'ha nembo micidiale, e ria semenza
di ferri e d'aste che, dal corpo mio
umor preso e radici, han fatto selva".
A cotal suon, da dubbia tйma oppresso,
stupii, mi raggricciai, muto divenni,
di Polidoro udendo. Un de' figliuoli
era questi del re, ch'al tracio rege
fu con molto tesoro occultamente
accomandato allor che da' Troiani
incominciossi a diffidar de l'armi,
e temer de l'assedio. Il rio tiranno,
tosto che a Troia la fortuna vide
volger le spalle, anch'ei si volse, e l'armi
e la sorte seguн de' vincitori;
sн che, de l'amicizia e de l'ospizio
e de l'umanitа rotta ogni legge,
tolse al regio fanciul la vita e l'oro.
Ahi de l'oro empia ed esecrabil fame!
E che per te non osa, e che non tenta
quest'umana ingordigia? Or poi che 'l gelo
mi fu da l'ossa uscito, a' primi capi
del popol nostro ed a mio padre in prima
il prodigio refersi, e di ciascuno
il parer ne spiai. "Via, - disser tutti
concordemente - abbandoniam quest'empia
e scelerata terra; andiam lontano
da questo infame e traditore ospizio;
rimettiamci nel mare". Indi l'esequie
di Polidoro a celebrar ne demmo;
e, composto di terra un alto cumulo,
gli altar vi consacrammo a i numi inferni,
che di cerulee bende e di funesti
cipressi eran coverti. Ivi le donne
d'Ilio, com'и fra noi rito solenne,
vestite a bruno e scapigliate e meste
ulularono intorno; e noi di sopra
di caldo latte e di sacrato sangue
piene tazze spargemmo, e con supremi
richiami amaramente al suo sepolcro
rivocammo di lui l'anima errante.
Nй pria ne si mostrвr l'onde sicure,
e fidi i venti, che, del porto usciti,
incontinente ne vedemmo avanti
sparir l'odiosa terra, e gir da noi
di mano in man fuggendo i liti e i monti.
И nel mezzo a l'Egeo, diletta a Dori
ed a Nettuno, un'isola famosa,
che giа mobile e vaga intorno a' liti
agitata da l'onde errando andava,
ma fatta di Latona e de' suoi figli
ricetto un tempo, dal pietoso arciero
tra Gпaro e Micon fu stretta in guisa,
ch'immota, e cуlta, e consacrata a lui,
ebbe poi le tempeste e i vиnti a scherno.
Qui porto placidissimo e securo
stanchi ne ricevette, e giа smontati
veneravam d'Apollo il santo nido;
quand'ecco Anio suo rege, e rege insieme
e sacerdote, che di sacre bende
e d'onorato alloro il crine adorno,
ne si fa 'ncontro. Era al mio padre Anchise
giа di molt'anni amico; onde ben tosto
lo riconobbe, e con sembiante allegro
lui primamente, indi noi tutti accolti,
n'abbracciт, ne 'nvitт, seco n'addusse.
Quinci al delъbro, ch'ad Apollo in cima
era d'un sasso anticamente estrutto,
tutti salimmo; ed io devoto orai:
"Danne, padre Timbrиo, propria magione,
e propria terra, ove giа stanchi abbiamo
posa e ristoro, e ne da' stirpe e nido
opportuno, durabile e securo;
danne Troia novella; e de' Troiani
serba queste reliquie, che avanzate
sono a pena agli storpi, a le ruine,
al foco, a' Greci, al dispietato Achille.
Mostrane chi ne guidi, ove s'indrizzi
il nostro corso, a qual fia 'l nostro seggio.
Coi tuoi piъ chiari e manifesti augъri,
signor, tu ne predici e tu n'ispira".
Avea ciт detto a pena, che repente
il limitare, il tempio, e 'l monte tutto
crollossi intorno; scompigliвrsi i lauri;
aprissi, e dagli interni suoi ridotti
mugghiт la formidabile cortina.
Noi riverenti a terra ne gittammo;
e 'l suon, ch'era confuso, a l'aura uscendo,
articolossi, e cosн dire udissi:
"Dardanidi robusti, onde l'origine
traeste in prima, ivi ancor lieto e fertile
di vostra antica madre il grembo aspettavi.
Di lei dunque cercate; a lei tornatevi:
ch'ivi sovr'ogni gente, in tutti i secoli
domineranno i glorпosi Enиadi,
e la posteritа de gli lor posteri".
Ciт disse Apollo: e del suo detto fessi
infra noi gran letizia e gran bisbiglio,
interrogando e ricercando ognuno
qual paese, qual madre, qual ricetto
ne s'accennasse. Allora il padre Anchise
da lunge i tempi ripetendo e i casi
dei nostri antichi eroi: "Signori, udite -
ne disse, - ch'io darт lume e compenso
a le vostre speranze. И del gran Giove
Creta quasi gran cuna in mezzo al mare
isola chiara, e regno ampio e ferace,
che cento gran cittа nodrisce e regge.
Ivi sorge un'altr'Ida, onde nomata
fu l'Ida nostra; ond'ha seme e radice
nostro legnaggio: onde primieramente
Teucro, padre maggior de' maggior nostri
(se ben me ne rammento), errando venne
a le spiagge di Reto, ov'egli elesse
di fondare il suo regno. Ilio non era,
nй di Pergamo ancor sorgean le mura
fino in quel tempo: e sol ne l'ime valli
abitavan le genti. Indi a noi venne
la gran Cibele madre; indi son l'armi
de' Coribanti, indi la selva idea,
e quel fido silenzio, onde celati
son quei nostri misteri, e quei leoni
ch'al carro de la dea son posti al giogo.
Di lа dunque veniamo, e lа vuol Febo
che si ritorni. Or via seguiamo il fato:
plachiamo i vиnti e ne la Creta andiamo,
che non и lunge; e se n'и Giove amico,
anzi tre dн n'approderemo ai liti".
Ciт detto, a ciascun dio, come conviensi,
sacrificando, due gran tori occise:
e l'un diede a Nettuno e l'altro a Febo:
una pecora negra a la Tempesta;
al Sereno una bianca. Era in quei giorni
fama che Idomeneo, cretese eroe,
da la sua patria e da' paterni regni
era scacciato; onde di Creta i liti
d'armi, di duce e di seguaci suoi,
nostri nimici, in gran parte spogliati,
stavano a noi senza contesa esposti.
Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;
trapassammo di Nasso i pampinosi
colli, e Bacco onorammo: i verdi liti
di Dтnisa, e d'Olлaro varcammo:
giungemmo a Paro, e le sue bianche ripe
lasciammo indietro: indi di mano in mano
l'altre Cнcladi tutte e 'l mar che rotto
da tant' isole e chiuso ondeggia e ferve;
e seguendo, com'и de' naviganti
marinaresca usanza, - in Creta! in Creta! -
lietamente gridando, con un vento
che ne feria senza ritegno in poppa,
quasi a volo andavamo; onde ben tosto
de' Cureti appressammo i liti antichi;
e gli scoprimmo, e v'approdammo alfine.
Giunti che fummo, avidamente diemmi
a fabricar le desпate mura,
e Pergamea da Pergamo le dissi.
Con questo amato nome amore e speme
destai di nuova patria, e studio intenso
d'alzar le mura e di fondar gli alberghi.
Eran le navi in su la rena addotte
per la piъ parte; era la gente intenta
a l'arti, a la coltura, ai maritaggi,
ad ogni affare; ed io lor ministrava
leggi e ragioni, e facea templi e strade,
quando fera, improvvisa pestilenza,
ne sopravvenne; e la stagione e l'anno
e gli uomini e gli armenti e l'aria e l'acque
e tutto altro infettonne; onde ogni corpo
o cadeva o languiva; e la semente
e i frutti e l'erbe e le campagne stesse
da la rabbia di Sirio e dal veleno
de l'orribil contage arse e corrotte,
ci negavano il vitto. Il padre mio
per consiglio ne diи che un'altra volta,
rinavigando il navigato mare,
si tornasse in Ortigia, e che di nuovo
ricorrendo di Febo al santo oracolo,
perdon gli si chiedesse, aнta e scampo
da sн maligno e velenoso influsso,
ed alfin del cammino e de la stanza
chiaro ne si traesse indrizzo e lume.
Era giа notte, e giа dal sonno vinta
posa e ristoro avea l'umana gente,
quando le sacre effigi de' Penati,
quelle che meco avea tratte dal foco
de la mia patria, quelle stesse in sogno
vive mi si mostrвr veraci e chiare:
tal piena, avversa e luminosa luna
penetrava, per entro al chiuso albergo,
di puri vetri i lucidi spiragli;
e com'eran visibili, appressando
la sponda ov'io giacea, soavemente
mi si fecero avanti, e 'n cotal guisa
mi confortaro: "Quel che Apollo stesso,
se tornaste in Ortigia, a voi direbbe,
qui mandati da lui vi diciam noi:
e noi siam quei che dopo Troia incensa
per tanti mari a tanti affanni teco
n'uscimmo, e te seguiamo e l'armi tue.
Noi compagni ti siamo, e noi saremo
ch'a la nova cittа, che tu procuri,
daremo eterno imperio, e i tuoi nipoti
ergeremo a le stelle. Alto ricetto
tu dunque e degno de l'altezza loro
prepara intanto; e i rischi e le fatiche
non rifiutar di piъ lontano esiglio.
Cerca loro altro seggio; ergi altre mura
vie piъ chiare di queste: chй di Creta
nй curiam noi, nй lo ti dice Apollo.
Una parte d'Europa и, che da' Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra. Dagli Enotri cуlta,
prima Enotria nomossi: or, com'и fama,
preso d'Italo il nome, Italia и detta.
Questa и la terra destinata a noi.
Quinci Dardano in prima e Iasio usciro;
e Dardano и l'autor del sangue nostro.
Sorgi dunque e riporta al padre Anchise
quel ch'or noi ti diciam, chй diciam vero:
e tu cerca di Cтrito e d'Ausonia
l'antiche terre, chй da Giove in Creta
regnar ti s'interdice". Io di tal vista,
e di tai voci, ch'eran voci e corpi
de' nostri dиi, non simulacri e sogni
(chй ne vid'io le sacre bende e i volti
spiranti e vivi), attonito e cosperso
di gelato sudore, in un momento
salto dal letto; e con le mani al cielo
e con la voce supplicando, spargo
di doni intemerati i santi fochi.
Riveriti i Penati, al padre Anchise
lieto men vado, e del portento intera-
mente il successo e l'ordine gli espongo.
Incontinente riconobbe il doppio
nostro legnaggio, e i due padri e i due tronchi
de' cui rami siam noi vette e rampolli;
e d'erro uscito: "Ora io m'avveggio, - disse -
figlio, che segno sei de le fortune
e del fato di Troia; e ciт rincontro
che Cassandra dicea: sola Cassandra
lo previde e 'l predisse. Ella al mio sangue
augurт questo regno; e questa Italia
e questa Esperia avea sovente in bocca.
Ma chi mai ne l'Esperia avria creduto
che regnassero i Teucri? E chi credea
in quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio,
cediamo a Febo; e ciт che 'l dio del vero
ne dа per meglio, per miglior s'elegga".
Ciт disse, e i detti suoi tosto eseguimmo;
ed ancor questa terra abbandonammo,
se non se pochi. N'andavamo a vela
con second'aura; e giа d'alto mirando,
non piъ terra apparia, ma cielo ed acqua
vedevam solamente, quando oscuro
e denso e procelloso un nembo sopra
mi stette al capo, onde tempesta e notte
ne si fece repente e di piъ siti
rapidi uscendo imperversaro i vиnti;
s'abbuiт l'aria, abbaruffossi il mare,
e gonfiaro altamente e mugghiвr l'onde.
Il ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori
si squarciт d'ogni parte. Il giorno notte
fessi, e la notte abisso: e l'un da l'altro
non discernendo, Palinuro stesso
de la via diffidossi e de la vita.
Cosн tolti dal corso, e quinci e quindi
per lo gran golfo dissipati e ciechi,
da buio e da caligine coverti,
tre soli interi senza luce errammo,
tre notti senza stelle. Il quarto giorno
vedemmo al fin, quasi dal mar risorta,
la terra aprirne i monti e gittar fumo.
Caggion le vele; e i remiganti a pruova,
di bianche schiume il gran ceruleo golfo
segnando, inverso i liti i legni affrettano.
Nй prima fui di sн gran rischio uscito,
che giunto nelle Strтfadi mi vidi.
Strтfadi grecamente nominate
son certe isole in mezzo al grande Ionio,
da la fera Celeno e da quell'altre
rapaci e lorde sue compagne Arpie
fin d'allora abitate, che per tйma
lasciвr le prime mense, e di Finиo
fu lor chiuso l'albergo. Altro di queste
piъ sozzo mostro, altra piъ dira peste
da le tartaree grotte unqua non venne.
Sembran vergini a' volti; uccelli e cagne
a l'altre membra: hanno di ventre un fedo
profluvio, ond'и la piuma intrisa ed irta,
le man d'artigli armate: il collo smunto,
la faccia per la fame e per la rabbia
pallida sempre e raggrinzata e magra.
Tosto che qui sospinti in porto entrammo,
ecco sparsi veggiam per la campagna
senza custodi andar gran torme errando
di cornuti e villosi armenti e greggi.
Smontiamo in terra; e per far carne, prese
l'armi, a predare andiamo, e de la preda
gli dиi chiamiamo e Giove stesso a parte.
Fatta la strage e giа parati i cibi
e distese le mense, eravam lungo
al curvo lito a ricrearne assisi,
quand'ecco che da' monti in un momento
con dire voci e spaventoso rombo
ne si fan sopra le bramose Arpie;
e con gli urti e con l'ali e con gli ugnoni,
col tetro, osceno, abbominevol puzzo
ne sgominвr le mense, ne rapiro,
ne infettвr tutti e i cibi e i lochi e noi.
Era presso un ridotto, ove alta e cava
rupe d'arbori chiusa e d'ombre intorno
facea capace ed opportuno ostello.
Ivi ne riducemmo, e ne le mense
riposti i cibi e ne gli altari i fochi,
a convivar tornammo; ed ecco un'altra
volta d'un'altra parte per occulte
e non previste vie ne si scoverse
l'orribil torma; e con gli adunchi artigli,
co' fieri denti e con le bocche impure
ghermоr la preda, e ne lasciвr di novo
vтte le mense e scompigliate e sozze.
Allor: "Via, - dico a' miei - di guerra и d'uopo
contra sн dira gente". E tutti a l'arme
ed a battaglia incito. Eglino, in guisa
ch'io li disposi, i ferri ignudi e l'aste
e gli scudi e le frombe e i corpi stessi
infra l'erba acquattaro; il lor ritorno
stкro aspettando. Era Miseno in alto
a la veletta asceso; e non piъ tosto
scoprir le vide, e schiamazzare udille,
che col canoro suo cavo oricalco
ne diи cenno a' compagni. Uscоr d'agguato
tutti in un tempo, e nuova zuffa e strana
tentвr contra i marini uccelli in vano:
chй le piume e le terga ad ogni colpo
aveano impenetrabili e secure;
onde securamente al ciel rivolte
se ne fuggiro, e ne lasciвr la preda
sgraffiata, smozzicata e lorda tutta.
Sola Celиno a l'alta rupe in cima
disdegnosa fermossi e, d'infortuni
trista indovina infurпossi, e disse:
"Dunque non basta averne, ardita razza
di Laomedonte, depredati e scуrsi
gli armenti e i campi nostri, che ancor guerra,
guerra ancor ne movete? E le innocenti
Arpie scacciar del patrio regno osate?
Ma sentite, e nel cor vi riponete
quel ch'io v'annunzio. Io son Furia suprema
ch'annunzio a voi quel che 'l gran Giove a Febo,
e Febo a me predice. Il vostro corso
и per l'Italia, e ne l'Italia arete
e porto e seggio. Ma di mura avanti
la cittа che dal ciel vi si destina
non cingerete, che d'un tale oltraggio
castigo arete; e dira fame a tanto
vi condurrа, che fino anco le mense
divorerete". E, cosн detto, il volo
riprese in vиr la selva, e dileguossi.
Sgomentaronsi i miei, cadde lor l'ira;
e prieghi, invece d'armi, e voti oprando,
mercй chiesero e pace, o dive o dire
che si fosser l'alate ingorde belve:
e 'l padre Anchise in su la riva sporte
al ciel le palme, e i gran celesti numi
umilmente invocando, indisse i sacri
a lor dovuti onori: "O dii possenti,
o dii benigni, voi rendete vane
queste minacce; voi di caso tale
ne liberate; e voi giusti e voi buoni
siate pietosi a noi ch'empi non siamo".
Indi ratto comanda che dal lito
si disciolgano i legni. Entriam nel mare,
spieghiam le vele agli austri, e via per l'onde
spumose a tutto corso in fuga andiamo
lа 've 'l vento e 'l nocchier ne guida e spinge.
E giа d'alto apparir veggiam le selve
di Zacinto; passiam Dulichio e Same;
varchiam Nиrito alpestro; e via fuggendo,
e bestemmiando, trapassiam gli scogli
d'Itaca, imperio di Laerte, e nido
del fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre
il nimboso Leucаte, e quel che tanto
a' naviganti и spaventoso, Apollo.
Ivi stanchi approdammo; ivi gittate
l'аncore, ed accostati i legni al lito,
ne la picciola sua cittade entrammo.
Grata vie piъ quanto sperata meno
ne fu la terra; onde purgati ergemmo
altari e vуti, ed ostie a Giove offrimmo.
E d'Azio in su la riva festeggiando,
ignudi ed unti, uscоr de' miei compagni
i piъ robusti, e, com'и patria usanza,
varie palestre a lotteggiar si diкro:
gioiosi che per tanto mare e tante
greche terre inimiche a salvamento
fosser tant'oltre addotti. Era de l'anno
compito il giro, e i gelidi aquiloni
infestavano il mare; ond'io lo scudo,
che di forbito e concavo metallo
fu giа del grande Abante insegna e spoglia,
con un tal motto in su le porte appesi:
A' GRECI VINCITORI ENEA LEVOLLO,
ED A TE 'L SACRA, APOLLO. Indi al mar giunti
ne rimbarcammo: e remigando a gara,
fummo in un tempo de' Feaci a vista,
e gli varcammo: poi rivolti a destra,
costeggiammo l'Epiro, e di Caonia
giungemmo al porto, ed in Butroto entrammo.
Qui cosa udii, che meraviglia e gioia
mi porse insieme; e fu, ch'Eleno, figlio
di Prпamo re nostro, era a quel regno
di greche terre assunto, e che di Pirro
e del suo scettro e del suo letto erede
troiano sposo a la troiana Andromache
s'era congiunto. Arsi d'immenso amore
di visitarlo, e di spпar da lui
come ciт fosse; e de l'armata uscendo,
scesi nel lito, e me n'andai con pochi
a ritrovarlo. Era quel giorno a sorte
Andromache regina in su la riva
del nuovo Simoenta a far solenne
sepolcral sacrificio; e, come и rito
de la mia patria, avea, fra due grand'are
di verdi cespi una gran tomba eretta,
monumento di lagrime e di duolo.
ove con tristi doni e con lugъbri
voci del grand'Ettтr l'anima e 'l nome
chiamando, il finto suo corpo onorava.
Poichй venir mi vide, e che di Troia
avvisт l'armi, e me conobbe, un mostro
veder le parve, e forsennata e stupida
fermossi in prima; indi gelata e smorta
disvenne e cadde; e dopo molto, a pena
risensando, mirommi, e cosн disse:
"Oh! sei tu vero, o pur mi sembri Enea?
Sei corpo od ombra? Se da' morti udito
и il mio richiamo, Ettтr perchй te manda?
Perch'ei teco non viene? E sei tu certo
nunzio di lui?" Ciт detto, lagrimando,
empia di strida e di lamenti i campi.
Io di pietа e di duol confuso, a pena
in poche voci, e quelle anco interrotte,
snodai la lingua: "Io vivo, se pur vita
и menar giorni sн gravosi e duri:
ma cosн spiro ancora, e veramente
son io quel che ti sembro. O da qual grado
scaduta, e da quanto inclito marito!
Andromache d'Ettтr a Pirro, a Pirro
fosti congiunta? Or qual altra piъ lieta
t'incontra, e piъ di te degna fortuna?"
Abbassт 'l volto, e con sommessa voce
cosн rispose: "O fortunata lei
sovr'ogni donna, che regina e vergine,
ne la sua patria a sacrificio offerta,
del nimico fu vittima e non preda,
nй del suo vincitor serva nй donna:
io dopo Troia incensa, e dopo tanti
e tanti arati mari, a servir nata,
de la stirpe d'Achille il giogo e 'l fasto,
e 'l superbo suo figlio a soffrir ebbi.
Questi poi con Ermпone congiunto,
e lei, che de la razza era di Leda
e del sangue di Sparta, a me preposta,
volle ch'Eleno ed io, servi ambidue,
n'accoppiassimo insieme. Oreste intanto,
che tфr l'amata sua donna si vide,
da l'amore infiammato e da le faci
de le furie materne, anzi agli altari
del padre Achille, insidпosamente
tolse la vita a lui. Per la sua morte
fu 'l suo regno diviso; e questa parte
de la Caonia ad Eleno ricadde,
che dal nome di Cаone troiano
cosн l'ha detta, come disse ancora
Ilio da l'Ilio nostro questa rтcca
che qui su vedi; e Simoenta e Pergamo
queste picciole mura e questo rivo.
Ma te quai vиnti, o qual nostra ventura
ha qui condotto, fuor d'ogni pensiero
di noi certo, e tuo forse? Ascanio nostro
vive? cresce? che fa? come ha sentito
la morte di Creъsa? E qual presagio
ne dа ch'Enea suo padre, Ettor suo zio
si rinnovino in lui?" Cotali Andromache
spargea pianti e parole; ed ecco intanto
il teucro eroe che de la terra uscendo,
con molti intorno a rincontrar ne venne.
Tosto che n'adocchiт, meravigliando
ne conobbe, n'accolse, e lietamente
seco n'addusse, de' comuni affanni
molto con me, mentre andavamo, anch'egli
ragionando e piangendo. Entrammo al fine
ne la picciola Troia, e con diletto
un arido ruscello, un cerchio angusto
sentii con finti e rinnovati nomi
chiamar Pergamo e Xanto; e de la Scea
porta entrando abbracciai l'amata soglia.
Cosн fecero i miei, meco godendo
l'amica terra, come propria e vera
fosse lor patria. Il re le sale e i portici
di mense empiendo, fe' lor cibi e vini
da' regii servi realmente esporre
con vaselli d'argento e coppe d'oro.
Passato il primo giorno e l'altro appresso,
soffiвr prosperi i vиnti; ond'io commiato
a l'indovino re chiedendo, seco
mi ristrinsi e gli dissi: "Inclito sire,
cui non son degli dиi le menti occulte,
che Febo spiri e 'l tripode e gli allori
del suo tempio dispensi, e de le stelle
e de' volanti ogni secreto intendi,
danne certo, ti priego, indicio e lume
de le nostre venture. Il nostro corso,
com'ogni augurio accenna ed ogni nume
ne persuade, и per l'Italia; e lieto
e fortunato ancor ne si promette
infino a qui. Sola Celeno Arpia
novi e tristi infortuni, e fame ed ira
degli dиi ne minaccia. Io da te chieggio
avvertenze e ricordi, onde sia saggio
a tai perigli, e forte a tanti affanni".
Qui pria solennemente Eleno, occisi
i dovuti giovenchi, in atto umнle
impetrт dagli dиi favore e pace;
poscia, raccolto in sй, le bende sciolse
del sacro capo; e me, cosн com'era
a tanto officio attonito e sospeso,
per man prendendo, a la febиa spelonca
m'addusse avanti, e con divina voce
intonando proruppe: "O de la dea
pregiato figlio (quando a gran fortuna
и chiaro in prima che 'l tuo corso и vтlto;
tal и del ciel, de' fati e di colui
che gli regge, il voler, l'ordine e 'l moto),
io di molte e gran cose che antiveggo
del tuo peregrinaggio, acciт piъ franco
navighi i nostri mari, e 'l porto ausonio,
quando che sia, securamente attinga,
poche ne ti dirт, ch'a te le Parche
vietan che piъ ne sappi; ed a me Giuno,
ch'io piъ te ne riveli. In prima il porto,
e l'Italia che cerchi, e sн vicina
ti sembra, и da tal via, da tanti intrichi
scevra da te, ch'anzi che tu v'aggiunga,
ti parrа malagevole, e lontana
piъ che non credi; e ti fia d'uopo avanti
stancar piъ volte i remiganti e i remi,
e 'l mar de la Sicilia e 'l mar Tirreno,
e i laghi inferni e l'isola di Circe
cercar ti converrа, pria che vi fondi
securo seggio. Io di ciт chiari segni
darotti, e tu ne fa nota e conserva.
Quando piъ stanco e travagliato a riva
sarai d'un fiume, u' sotto un'elce accolta
sarа candida troia, ed arа trenta
candidi figli a le sue poppe intorno,
allor di': - Questo и 'l segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la mia sede, e questo и 'l fine
de' miei travagli -. Or che l'ingorda fame
addur ti deggia a trangugiar le mense,
comunque avvenga, i fati a ciт daranno
opportuno compenso; e questo Apollo
invocato da voi presto saravvi.
Queste terre d'Italia e questa riva
vиr noi vтlta e vicina ai liti nostri,
и tutta da' nimici e da' malvagi
Greci abitata e cуlta: e perт lunge
fuggi da loro. I Locri di Narizia
qui si posaro; e qui ne' Salentini
i suoi Cretesi Idomeneo condusse;
qui Filottete il melibeo campione
la piccioletta sua Petilia eresse.
Fuggili, dico, e quando anco varcato
sarai di lа ne l'alto lito, intento
a sciфrre i vуti, di purpureo ammanto
ti vela il capo, acciт tra i santi fochi,
mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto
te coi tuoi sacrifici non conturbi:
e questo rito poi sia castamente
da te servato e da' nepoti tuoi.
Quinci partito, allor che da vicino
scorgerai la Sicilia, e di Peloro
ti si discovrirа l'angusta foce,
tienti a sinistra, e del sinistro mare
solca pur via quanto a di lungo intorno
gira l'isola tutta, e da la destra
fuggi la terra e l'onde. И fama antica
che questi or due tra lor disgiunti lochi
erano in prima un solo, che per forza
di tempo, di tempeste e di ruine
(tanto a cangiar queste terrene cose
puт de' secoli il corso), un dismembrato
fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto urtт, tanto rуse, che l'esperio
dal sicolo terreno alfin divise:
e i campi e le cittа, che in su le rive
restaro, angusto freto or bagna e sparte.
Nel destro lato и Scilla; nel sinistro
и l'ingorda Cariddi. Una vorago
d'un gran baratro и questa, che tre volte
i vasti flutti rigirando assorbe,
e tre volte a vicenda li ributta
con immenso bollor fino a le stelle.
Scilla dentro a le sue buie caverne
stassene insidпando; e con le bocche
de' suoi mostri voraci, che distese
tien mai sempre ed aperte, i naviganti
entro al suo speco a sй tragge e trangugia.
Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto
ha di donna e di vergine; il restante,
d'una pistrice immane, che simнli
a' delfini ha le code, ai lupi il ventre.
Meglio и con lungo indugio e lunga volta
girar Pachino e la Trinacria tutta,
che, non ch'altro, veder quell'antro orrendo,
serntir quegli urli spaventosi e fieri
di quei cerulei suoi rabbiosi cani.
Oltre a ciт, se prudenti, se fedeli
sembrar ti puт che sian d'Eleno i detti,
e se scarso non m'и del vero Apollo,
sovr'a tutto io t'accenno, ti predico,
ti ripeto piъ volte e ti rammento,
la gran Giunone invoca: a Giunon vуti
e preghi e doni e sacrifici offrisci
devotamente; che, lei vinta alfine,
terrai d'Italia il desпato lito.
Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia
sarai di Cuma, il sacro averno lago
visita, e quelle selve e quella rupe,
ove la vecchia vergine Sibilla
profetizza il futuro, e 'n su le foglie
ripone i fati: in su le foglie, dico,
scrive ciт che prevede, e ne la grotta
distese ed ordinate, ove sian lette,
in disparte le lascia. Elle serbando
l'ordine e i versi, ad uopo de' mortali
parlan de l'avvenire, e quando, aprendo
talor la porta, il vento le disturba,
e van per l'antro a volo, ella non prende
piъ di ricфrle e d'accozzarle affanno;
onde molti delusi e sconsigliati
tornan sovente, e mal di lei s'appagano.
Tu per soverchio che ti sembri indugio,
per richiamo de' vиnti o de' compagni,
non lasciar di vederla, e d'impetrarne
grazia, che di sua bocca ti risponda,
e non con frondi. Ella daratti avviso
d'Italia, de le guerre e de le genti
che ti fian contra; e mostreratti il modo
di fuggir, di soffrir, d'espugnar tutte
le tue fortune, e di condurti in porto.
Questo и quel che m'occorre, o che mi lice
ch'io ti ricordi. Or vanne, e co' tuoi gesti
te porta e i tuoi con la gran Troia al cielo".
Poscia che ciт come profeta disse,
comandт come amico ch'a le navi
gli portassero i doni, opre e lavori
ch'avea d'oro e d'avorio apparecchiati,
e gran masse d'argento e gran vaselli
di dodonиo metallo: una lorica
di forbite azzimine; e rinterzate
maglie, dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro,
una targa, un cimiero, una celata,
ond'era a pompa ed a difesa armato
Nлottтlemo altero. Il vecchio Anchise
ebbe anch'egli i suoi doni: ebber poi tutti
cavalli e guide; e fu di remi e d'armi
ciascun legno provvisto; e perchй 'l vento
che secondo feria, non punto indarno
spirasse, ordine avea di sciфr le vele
giа dato Anchise, a cui con molto onore
si fece Eleno avanti, e cosн disse:
"O ben degno a cui fosse amica e sposo
la gran madre d'Amore: o de' celesti
sovrana cura, ch'a l'eccidio avanzi
giа due volte di Troia, eccoti a vista
giunto d'Italia. A questa il corso indrizza:
ma fa mestier di volteggiarla ancora
con lungo giro, poichй lunge assai
и la parte di lei che Apollo accenna.
Or lieto te ne va, padre felice
di sн pietoso figlio. Io, giа che l'aura
sн vi spira propizia, indarno a bada
piъ non terrovvi". Indi la mesta Andromache
fece con tutti, e con Ascanio al fine
la suprema partenza. Arnesi d'oro
guarniti e ricamati, e drappi e giubbe
di moresco lavoro, ed altri degni
di lui vestiti e fregi, e ricca e larga
copia di biancherie donogli, e disse:
"Prendi, figlio, da me quest'opre uscite
da le mie mani, e per memoria tienle
del grande e lungo amor che sempre avratti
Andromache d'Ettorre; ultimi doni
che ricevi da' tuoi. Tu mi sei, figlio,
quell'unico sembiante che mi resta
d'Astпanatte mio. Cosн la bocca,
cosн le man, cosн gli occhi movea
quel mio figlio infelice; e, d'anni eguale
a te, del pari or saria teco in fiore".
Ed io da loro, anzi da me partendo,
con le lagrime agli occhi al fin soggiunsi:
"Vivete lieti voi, cui giа la sorte
vostra и compita: noi di fato in fato,
di mare in mar tapini andrem cercando
quel che voi possedete. A noi l'Italia
tanto ognor se ne va piъ lunge, quanto
piъ la seguiamo; e voi giа la sembianza
d'Ilio e di Troia in pace vi godete,
regno e fattura vostra. Ah! che de l'altra
sia sempre e piъ felice e meno esposta
a le forze de' Greci. Io, s'unqua il Tebro
vedrт, se fia giammai che ne' suoi campi
sorgan le mura destinate a noi;
come la nostra Esperia e 'l vostro Epiro
si son vicini, e come ambe le terre
fien vicine e cognate, ed ambe avranno
Dardano per autore, e per fortuna
un caso stesso; cosн d'ambedue
mi proporrт che d'animi e d'amore
siamo una Troia: e ciт perpetua cura
sia de' nostri nipoti". Entrati in mare,
ne spingemmo oltre a gli Cerаuni monti
a Butroto vicini, onde a le spiagge
si fa d'Italia il piъ breve tragitto.
Giа dechinava il sole, e crescean l'ombre
de' monti opachi, quando a terra vтlti
col desire e co' remi in su la riva
pur n'adducemmo, e procurammo a' corpi
cibo, riposo e sonno. Ancor la notte
non era al mezzo, che del suo stramazzo
surse il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe
con gli orecchi spiati il vento e 'l mare,
mirт le stelle, contemplт l'Arturo,
l'Iadi piovose, i gemini Trпoni,
ed Orпone armato; e, visto il cielo
sereno e 'l mar sicuro, in su la poppa
recossi, e 'l segno dienne. Immantinente
movemmo il campo, e quasi in un baleno
giunti e posti nel mar, vela facemmo.
Avea l'Aurora giа vermiglia e rancia
scolorite le stelle, allor che lunge
scoprimmo, e non ben chiari, i monti in prima,
poscia i liti d'Italia. - Italia! - Acate
gridт primieramente. - Italia! Italia! -
da ciascun legno ritornando allegri
tutti la salutammo. Allora Anchise
con una inghirlandata e piena tazza
in su la poppa alteramente assiso:
"O del pelago - disse - e de la terra,
e de le tempeste numi possenti,
spirate aure seconde, e vиr l'Ausonia
de' nostri legni agevolate il corso".
Rinforzaronsi i vиnti; apparve il porto
piъ da vicino; apparve al monte in cima
di Pallade il delъbro. Allor le vele
calammo, e con le prore a terra demmo.
И di vиr l'Orпente un curvo seno
in guisa d'arco, a cui di corda in vece
sta d'un lungo macigno un dorso avanti,
ove spumoso il mar percuote e frange.
Ne' suoi corni ha due scogli, anzi due torri,
che con due braccia il mar dentro accogliendo,
lo fa porto e l'asconde; e sovra al porto
lunge dal lito и 'l tempio. Ivi smontati,
quattro destrier vie piъ che neve bianchi,
che pascevano il campo, al primo incontro
per nostro augurio avemmo. "Oh! - disse Anchise, -
guerra ne si minaccia; a guerra additti
sono i cavalli; o pur sono anco al carro
talvolta aggiunti, e van del pari a giogo:
guerra fia dunque in prima, e pace dopo".
Quinci devoti venerammo il nume
de l'armigera Palla, a cui gioiosi
prima il corso indrizzammo. In su la riva
altari ergemmo; e noi d'intorno, come
Eleno ci ammonн, le teste avvolte
di frigio ammanto, a la gran Giuno argiva
preghiere e doni e sacrifici offrimmo.
Poichй solennemente i prieghi e i vуti
furon compiti, al mar ne radducemmo
immantinente; e rivolgendo i corni
de le velate antenne, il greco ospizio
e 'l sospetto paese abbandonammo.
E prima il tarentino erculeo seno
(se la sua fama и vera) a vista avemmo;
poscia a rincontro di Lacinia il tempio,
la rтcca di Caulуne e 'l Scillacиo,
onde i navili a sн gran rischio vanno;
indi ne la Trinacria al mar discosto
d'Etna il monte vedemmo, e lunge udimmo
il fremito, il muggito, i tuoni orrendi
che facean ne' suoi liti e 'ntorno a' sassi
e dentro a le caverne i flutti e i fuochi,
al ciel ruttando insieme il mare e 'l monte
fiamme, fumo, faville, arene e schiuma.
Qui disse il vecchio Anchise:
"И forse questa
quella Cariddi? Questi scogli certo,
e questi sassi orrendi Eleno dianzi
ne profetava. Via, compagni, a' remi
tutti in un tempo, e vincitori usciamo
d'un tal periglio". Palinuro il primo
rivolse la sua vela e la sua proda
al manco lato; e ciт gli altri seguendo,
con le sarte e co' remi in un momento
ne gittammo a sinistra; e 'l mar sorgendo
prima al ciel ne sospinse; indi calando,
ne l'abisso ne trasse. In ciт tre volte
mugghiar sentimmo i cavernosi scogli,
e tre volte rivolti in vиr le stelle
d'umidi sprazzi e di salata schiuma
il ciel vedemmo rugiadoso e molle.
Eravam lassi; e 'l vento e 'l sole insieme
ne mancвr sн, che del vпaggio incerti
disavvedutamente a le contrade
de' Ciclopi approdammo. И per se stesso
a' vиnti inaccessibile e capace
di molti legni il porto ove giugnemmo;
ma sн d'Etna vicino, che i suoi tuoni
e le sue spaventevoli ruine
lo tempestano ognora. Esce talvolta
da questo monte a l'aura un'atra nube
mista di nero fumo e di roventi
faville, che di cenere e di pece
fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
vibrano ad ora ad or lucide fiamme
che van lambendo a scolorir le stelle;
e talvolta, le sue viscere stesse
da sй divelte, immani sassi e scogli
liquefatti e combusti al ciel vomendo
in fin dal fondo romoreggia e bolle.
И fama, che dal fulmine percosso
e non estinto, sotto a questa mole
giace il corpo d'Encиlado superbo;
e che quando per duolo e per lassezza
ei si travolve, o sospirando anela,
si scuote il monte e la Trinacria tutta;
e del ferito petto il foco uscendo
per le caverne mormorando esala,
e tutte intorno le campagne e 'l cielo
di tuoni empie e di pomici e di fumo.
A questi mostri tutta notte esposti,
entro una selva stemmo, non sapendo
le cagion d'essi, e di cercarle ogn'uso
ne si togliea, poichй 'l paese conto
non c'era: nй stellato, nй sereno
si vedea 'l ciel, ma fosco e nubiloso,
e tra le nubi era la luna ascosa.
Giа del giorno seguente era il mattino,
e 'l chiaro albore avea l'umido velo
tolto dal mondo, quando ecco dal bosco
ne si fa 'ncontro un non mai visto altrove
di strana e miserabile sembianza,
scarno, smunto e distrutto: una figura
piъ di mummia che d'uomo. Avea la barba
lunga, le chiome incolte, indosso un manto
ricucito di spini: orrido tutto,
e squallido e difforme, con le mani
verso il lito distese, a lento passo
venia mercй chiedendo. Era costui,
come prima ne parve e poscia udimmo,
greco, e di quei che militaro a Troia.
Onde noi per Troiani e i nostri arnesi
e le nostr'armi conoscendo, in prima
attonito fermossi; e poscia quasi
rincomato a noi venne e con preghiere
e con pianto ne disse: "Oh! se le stelle,
se gli dиi, se quest'aura onde spiriamo,
generosi e magnanimi Troiani,
serbin la vita a voi, quinci mi tolga
la pietа vostra, e vosco m'adducete,
ove che sia; chй mi fia questo assai;
poi ch'io son greco, e di quei Greci ancora
che venner (lo confesso) a i danni vostri.
Se 'l fallo и tale, e se 'l vostro odio и tanto
ch'io ne deggia morir, morte mi date,
e (se cosн v'aggrada) a brano a brano
mi lanпate, e ne fate esca a' pesci;
chй se per man d'umana gente io pиro,
perir mi giova". E, cosн detto, a' piedi
ne si gittт. Noi l'esortammo a dire
chi fosse e di che patria e di che sangue,
e qual era il suo caso. Il vecchio Anchise
la sua destra gli porse, e con tal pegno
l'affidт di salute; ond'ei securo
tosto soggiunse: "Itaca и patria mia,
Achemиnide il nome. Io fui compagno
de l'infelice Ulisse; e venni a Troia,
la povertа del mio padre Adamasto
fuggendo (cosн povero mai sempre
foss'io stato con lui!); qui capitai
con esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia
con gli altri suoi questo crudele ospizio,
per tйma abbandonommi e per oblio
ne l'antro del Ciclopo. И questo un antro
opaco, immenso, che macello и sempre
d'umana carne, onde ancor sempre intriso
и di sanie e di sangue: ed и 'l Ciclopo
un mostro spaventoso, un che col capo
tocca le stelle (o Dio, leva di terra
una tal peste!), ch'a mirarlo solo,
solo a parlarne, orror sento ed angoscia.
Pascesi de le viscere e del sangue
de la misera gente; ed io l'ho visto
con gli occhi miei nel suo speco rovescio
stender le branche e, due presi de' nostri,
rotargli a cerco e sbattergli e schizzarne
infra quei tufi le midolle e gli ossi.
Vist'ho quando le membra de' meschini
tiepide, palpitanti e vive ancora,
di sanguinosa bava il mento asperso,
frangea co' denti a guisa di maciulla.
Ma nol soffrн senza vendetta Ulisse;
nй di se stesso in sн mortal periglio
punto oblпossi; chй non prima steso
lo vide ebbro e satollo a capo chino
giacer ne l'antro, e sonnacchioso e gonfio
ruttar pezzi di carne e sangue e vino,
che ne restrinse; ed invocati in prima
i santi numi, divisт le veci
sн che parte il tenemmo in terra saldo,
parte, con un gran palo al foco aguzzo,
sopra gli fummo; e quel ch'unico avea
di targa e di febиa lampade in guisa
sotto la torva fronte occhio rinchiuso,
gli trivellammo, vendicando alfine,
col tфr la luce a lui, l'ombre de' nostri.
Ma voi che fate qui? chй non fuggite,
miseri voi? Fuggite, e senza indugio
tagliate il fune e v'allargate in mare;
che cosн smisurati e cosн fieri,
com'и costui che Polifemo и detto,
ne son via piъ di cento in questo lito,
tutti Ciclopi, e tutti antropofаgi,
che vanno il dн per questi monti errando.
Giа visto ho la cornuta e scema luna
tornar tre volte luminosa e tonda,
da che son qui tra selve e tra burroni
con le fere vivendo. Entro una rupe
и 'l mio ricetto; e quindi, benchй lunge
gli miri, ad or ad or d'avergl'intorno
mi sembra, e 'l suon n'abborro e 'l calpestio
de la voce e de' piи. Pascomi d'erbe,
di cтccole e di more e di corniali,
e di tali altri cibi acerbi e fieri:
vita e vitto infelice. In questo tempo,
quanto ho scoperto intorno, unqua non vidi
ch'altro legno giammai qui capitasse,
salvo ch'i vostri. A voi dunque del tutto
m'addico: e, che che sia, parrammi assai
fuggir questa nefanda e dira gente.
Voi, pria che qui lasciarmi, ogni supplicio
mi date ed ogni morte". A pena il Greco
avea ciт detto, ed ecco in su la vetta
del monte avverso Polifemo apparve.
Sembrato mi sarebbe un altro monte
a cui la gregge sua pascesse intorno,
se non che si movea con essa insieme,
e torreggiando, inverso la marina
per l'usato sentier se ne calava.
Mostro orrendo, difforme e smisurato,
che avea come una grotta oscura in fronte
in vece d'occhio, e per bastone un pino,
onde i passi fermava. Avea d'intorno
la greggia a' piedi, e la sampogna al collo,
quella il suo amore, e questa il suo trastullo,
ond'orbo alleggeriva il duolo in parte.
Giunto a la riva, entrт ne l'onde a guazzo:
e pria de l'occhio la sanguigna cispa
lavossi, ad or ad or per ira i denti
digrignando e fremendo: indi si stese
per entro 'l mare, e nel piъ basso fondo
fu pria co' piи che non fыr l'onde a l'anche.
Noi per paura, ricevuto in prima,
come ben meritт, l'ospite greco,
di fuggir n'affrettammo; e chetamente
sciolte le funi, a remigar ne demmo
piъ che di furia. Udн 'l Ciclopo il suono
e 'l trambusto de' remi; e vтlti i passi
vиr quella parte e 'l suo gran pino a cerco,
poichй lungi sentinne, e lungamente
pensт seguirne per l'Ionio in vano,
trasse un mugghio, che 'l mare e i liti intorno
ne tremвr tutti; ne sentн spavento
fino a l'Italia; ne tonaron quanti
la Sicania avea seni, Etna caverne.
L'udir gli altri Ciclopi, e da le selve
e da' monti calando, in un momento
corsero al porto, e se n'empiero i liti.
Gli vedevam da lunge in su l'arena,
quantunque indarno, minacciosi e torvi
stender le braccia a noi, le teste al cielo:
concilio orrendo, chй ristretti insieme
erano quai di querce annose a Giove,
di cipressi coniferi a Dпana
s'ergono i boschi alteramente a l'aura.
Fero timor n'assalse; e da l'un canto
pensammo di lasciar che 'l vento stesso
ne portasse a seconda ovunque fosse,
purchй lunge da loro; ma da l'altro,
d'Eleno ce 'l vietava il detto espresso,
che per mezzo di Scilla e di Cariddi
passar non si dovesse a sн gran rischio,
e di sн poco spazio e quinci e quindi
scevri da morte. In questa, che giа fermi
eravam di voltar le vele a dietro,
ecco che da lo stretto di Peloro,
ne vien Bora a grand'uopo, onde repente
a la sassosa foce di Pantagia,
al megarico seno, ai bassi liti
ne trovammo di Tapso. In cotal guisa
riferiva Achemenide, compagno
che s'и detto d'Ulisse, esser nomati
quei lochi, onde pria seco era passato.
Giace de la Sicania al golfo avanti
un'isoletta che a Plemmirio ondoso
и posta incontro, e dagli antichi и detta
per nome Ortigia. A quest'isola и fama
che per vie sotto al mare il greco Alfeo
vien da Dтride intatto, infin d'Arcadia
per bocca d'Aretusa a mescolarsi
con l'onde di Sicilia. E qui del loco
venerammo i gran numi; indi varcammo
del paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo di Pachino i sassi alpestri,
scoprimmo Camarina, e 'l fato udimmo,
che mal per lei fфra il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de' Geloi,
di cui Gela и la terra, e Gela il fiume.
Molto da lunge il gran monte Agragante
vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge
che di razze fur giа madri famose.
Col vento stesso indietro ne lasciammo
la palmosa Seline; e 'n su la punta
giunti di Lilibeo, tosto girammo
le sue cieche seccagne, e 'l porto alfine
del mal veduto Drepano afferrammo.
Qui, lasso me! da tanti affanni oppresso,
a tanti esposto, il mio diletto padre,
il mio padre perdei. Qui stanco e mesto,
padre, m'abbandonasti; e pur tu solo
m'eri in tante gravose mie fortune
quanto avea di conforto e di sostegno.
Ohimи! che indarno da sн gran perigli
salvo ne ti rendesti. Ah, che fra tanti
orrendi e miserabili infortuni,
ch'Eleno ci predisse e l'empia Arpia,
questo non era giа, ch'era il maggiore!
Oh fosse questo ancor l'ultimo affanno,
com'и l'ultimo corso! Chй partendo
da Drepano, se ben fera tempesta
qui m'ha gittato, certo amico nume
m'ha, benigna regina, a voi condotto».
Cosн da tutti con silenzio udito,
poich'ebbe Enea distesamente esposto
la ruina di Troia e i rischi e i fati
e gli error suoi, fece qui fine e tacque.

LIBRO QUARTO

Ma la regina d'amoroso strale
giа punta il core, e ne le vene accesa
d'occulto foco, intanto arde e si sface;
e de l'amato Enea fra sй volgendo
il legnaggio, il valore, il senno, l'opre,
e quel che piъ le sta ne l'alma impresso,
soave ragionar, dolce sembiante,
tutta notte ne pensa e mai non dorme.
Sorgea l'Aurora, quando surse anch'ella
cui le piume parean giа stecchi e spini;
e con la sua diletta e fida suora
si ristrinse e le disse: «Anna sorella,
che vigilie, che sogni, che spaventi
son questi miei? che peregrino и questo
che qui novellamente и capitato?
Vedestu mai sн grazioso aspetto?
Conoscesti unqua il piъ saggio, il piъ forte,
e 'l piъ guerriero? Io credo (e non и vana
la mia credenza) che dal ciel discenda
veracemente. L'alterezza и segno
d'animi generosi. E che fortune,
e che guerre ne conta! Io, se non fusse
che fermo e stabilito ho nel cor mio
che nodo marital piъ non mi stringa,
poichй 'l primo si ruppe, e se d'ognuno
schiva non fossi, solamente a lui
forse m'inchinerei. Chй, a dirti 'l vero,
Anna mia, da che morte e l'empio frate
mi privвr di Sichиo, sol questi ha mosso
i miei sensi e 'l mio core, e solo in lui
conosco i segni de l'antica fiamma.
Ma la terra m'ingoi, e 'l ciel mi fulmini,
e ne l'abisso mi trabocchi in prima
ch'io ti vпoli mai, pudico amore.
Col mio Sichиo, con chi pria mi giungesti,
giungimi sempre, e 'ntemerato e puro
entro al sepolcro suo seco ti serba».
E qui piangendo e sospirando tacque.
Anna rispose: «O piъ de la mia vita
stessa, amata sorella, adunque sola
vuoi tu vedova sempre e sconsolata
passar questi tuoi verdi e florid'anni?
Abbiti insino a qui fatto rifiuto
e del getъlo Iarba e di tant'altri
possenti, generosi e ricchi duci
peni e fenici; ch'io di ciт ti scuso,
com'allor dolorosa, e non amante.
Ma poich'ami, ad amor sarai rubella,
e ritrosa a te stessa? Ah! non sovvienti
qual cinga il tuo reame assedio intorno?
com'ha gl'insuperabili Getъli
da l'una parte, i Numidi da l'altra,
fera gente e sfrenata? indi le secche,
quinci i deserti, e piъ da lunge infesti
i feroci Barcиi? Taccio le guerre
che giа sorgon di Tiro, e le minacce
del fiero tuo fratello. Io penso certo
che la gran Giuno, e tutto 'l ciel benigno
ne si mostrasse allor che a' nostri liti
questi legni approdaro. O qual cittade,
qual imperio fia questo ! Quanto onore,
quanto pro, quanta gloria a questo regno
ne verrа, quando ei teco, e l'armi sue
saran giunte a le nostre! Or via, sorella,
porgi preci a gli dиi, fa' vezzi a lui,
assecuralo, onoralo, intrattienlo:
chй 'l crudo verno, il tempestoso mare,
il piovoso Orпone, i vиnti, il cielo,
le sconquassate navi in ciт ne dаnno
mille scuse di mora e di ritegno».
Con questo dir, che fu qual aura al foco
ond'era il cor de la regina acceso,
l'infiammт, l'incitт, speme le diede
e vergogna le tolse. Andaro in prima
a visitare i templi, a chieder pace
e favor de' celesti, a porger doni,
a far d'elette pecorelle offerta
a Cerere, ad Apollo, al padre Bacco,
e, pria che a tutti gli altri, a la gran Giuno,
cui son le nozze e i maritaggi a cura.
La regina ella stessa ornata e bella
tien d'oro un nappo, e fra le corna il versa
d'una candida vacca; o si ravvolge
intorno a' pingui altari, ed ogni giorno
rinnova i doni, e de le aperte vittime
le palpitanti fibre, i vivi moti,
e le spiranti viscere contempla,
e con lor si consiglia. O menti sciocche
de gl'indovini! E che ponno i delъbri,
e i vуti, esterni aiuti, a mal ch'и dentro?
Nel cor, ne le midolle e ne le vene
и la piaga e la fiamma, ond'arde e pиre.
Arde Dido infelice, e furпosa
per tutta la cittа s'aggira e smania:
qual ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidпoso arcier fugge lo strale
che l'ha giа colta; e seco, ovunque vada,
lo porta al fianco infisso. Or a diporto
va con Enea per la cittа, mostrando
le fabbriche, i disegni e le ricchezze
del suo novo reame; or disпosa
di scoprirgli il suo duol, prende consiglio:
poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va dechinando, a convivar ritorna,
e di nuovo a spпar de gli accidenti
e de' fati di Troia, e nuovamente
pende dal volto del facondo amante.
Tolti da mensa, allor che notte oscura
in disparte gli tragge, e che le stelle
sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente, in solitudine ridotta,
ritirata da gli altri, и sol con lui
che le sta lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta Ascanio, il pargoletto figlio
per sembianza del padre in grembo accolto,
tenta, se cosн puт, l'ardente amore
o spegnere, o scemare, o fargli inganno.
Le torri, i templi, ogn'edificio intanto
cessa di sormontar; cessa da l'arme
la gioventъ. Le porte, il porto, il molo
non sorgon piъ; dismesse ed interrotte
pendon l'opere tutte e la gran macchina
che fea dianzi ira a' monti e scorno al cielo.
Vide da l'alto la saturnia Giuno
il furor di Didone, e tal che fama
e rispetto d'onor piъ non l'affrena;
onde Venere assalse, e 'n cotal guisa
disdegnosa le disse: «Una gran loda
certo, un gran merto, un memorabil nome
tu col fanciullo tuo, Ciprigna, acquisti
d'aver due sн gran dii vinta una femina!
Io so ben che guardinga e sospettosa
di me ti rende e de la mia Cartago
il temer di tuo figlio. Ma fia mai
che questa tйma e questa gelosia
si finisca tra noi? Chй non piъ tosto
con una eterna pace e con un saldo
nodo di maritaggio unitamente
ne ristringemo? Ecco hai giа vinto; e vedi
quel che piъ desпavi. Ama, arde, infuria:
con ogni affetto и verso Enea tuo figlio
la mia Dido rivolta. Or lui si prenda;
e noi concordemente in pace abbiamo
ambedue questo popolo in tutela;
nй ti sdegnar che sн nobil regina
serva a frigio marito, e ch'ei le genti
n'aggia di Tiro e di Cartago in dote».
Venere, che ben vide ove mirava
il colpo di Giunone; e che l'occulto
suo bersaglio era sol con questo avviso
distor d'Italia il destinato impero
e trasportarlo in Libia, incontro a lei
cosн scaltra rispose: «E chi sн folle
sarebbe mai ch'un tal fesse rifiuto
di quel ch'ei piъ desia, per teco averne,
teco che tanto puoi, gara e tenzone,
quando ciт che tu di' possibil fosse?
Ma non so che si possa, nй che 'l fato,
nй che Giove il permetta, che due genti
diverse, come son Tiri e Troiani,
una sola divenga. Tu consorte
gli sei; tu ne 'l dimanda, e tu l'impetra,
ch'io, per me, me n'appago ». «Ed io, - soggiunse
Giuno - sopra di me l'incarco assumo,
ch'ei ne 'l consenta. Or odi brevemente
il modo che a ciт far giа ne si porge.
Tosto che 'l sol dimane uscirа fuori,
uscire ancor l'innamorata Dido
col troian duce a caccia s'apparecchia.
Ove opportunamente a la foresta,
mentre de' cacciatori e de' cavalli
andran le schiere in volta, io loro un nembo
spargerт sopra tempestoso e nero,
con un turbo di grandine e di pioggia,
e di sн fieri tuoni il cielo empiendo,
ch'indi percossi i lor seguaci tutti,
andran dispersi e d'atra nube involti.
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo accфrrassi.
Io vi sarт; saravvi anco Imeneo;
e se del tuo voler tu m'assecuri,
io farт sн ch'ivi ambidue saranno
di nodo indissolubile congiunti».
Venere in ciт non disdicendo, insieme
chinт la testa: e de la dolce froda
dolcemente sorrise. Uscio del mare
l'Aurora intanto; ed ecco fuori armati
di spiedi e di zagaglie, a suon di corni,
venirne i cacciatori, altri con reti,
altri con cani. Ha questi un gran molosso,
quegli un veltro a guinzaglio, e lunghe file
van di segugi incatenati avanti.
Scorrono intorno i cavalier Massнli:
e i maggior Peni, e' piъ chiari Fenici
stanno in sella aspettando anzi al palagio,
mentre ad uscir fa la regina indugio;
e presto intanto d'ostro e d'oro adorno
il suo ginnetto, e, vagamente fiero,
ringhia, e sparge la terra, e morde il freno.
Esce a la fine accompagnata intorno
da regio stuolo, e non con regio arnese,
ma leggiadro e ristretto. И la sua veste
di tirio drappo, e d'arabo lavoro
riccamente fregiata: и la sua chioma
con nastri d'oro in treccia al capo avvolta,
tutta di gemme come stelle aspersa;
e d'oro son le fibbie, onde sospeso
le sta d'intorno de la gonna il lembo.
Da gli omeri le pende una faretra,
dal fianco un arco. I Frigi, e 'l bello Iulo
le cavalcano avanti; e via piъ bello,
ma di beltа feroce e grazпosa,
le giva Enea con la sua schiera a lato.
Qual se ne va da Licia e da le rive
di Xanto, ove soggiorna il freddo inverno,
a la materna Delo il biondo Apollo,
allor che festeggiando accolti e misti
infra gli altari i Drпopi, i Cretesi,
e i dipinti Agatirsi in varie tresche
gli s'aggirano intorno; o quando spazia
per le piagge di Cinto, a l'aura sparsi
i bei crin d'oro, e de l'amata fronde
le tempie avvolto, e di faretra armato;
tal fra la gente si mostrava, e tale
era ne' gesti e nel sembiante Enea,
sovra d'ogni altro valoroso e vago.
Poscia che furo a' monti, e nel piъ folto
penetrвr de le selve, ecco da i balzi
de l'alte rupi uscir capri e camozze;
e cervi altronde, che, d'armenti in guisa,
quasi in un gruppo, spaventati a torme
fuggono al piano, e fan nubi di polve.
Di ciт gioioso il giovinetto Iulo
sul feroce destrier per la campagna
gridando e traversando, or questo arriva,
or quel trapassa: e nel suo core agogna
tra le timide belve o d'un cignale
aver rincontro, o che dal monte scenda
un velluto leone. In questa il cielo
mormorando turbossi, e pioggia e grandine
diluvпando, d'ogni parte in fuga
Ascanio, i Teucri, i Tiri ai piъ propinqui
tetti si ritiraro; e fiumi intanto
sceser da' monti, ed allagaro i piani.
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo s'accolse.
Diи, di quel che seguн, la terra segno
e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fыr de le nozze lor le faci e i canti;
testimoni assistenti e consapevoli
sol ne fыr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon le ninfe. Il primo giorno
fu questo, e questa fu la prima origine
di tutti i mali, e de la morte alfine
de la Regina; a cui poscia non calse
nй de l'indegnitа, nй de l'onore,
nй de la secretezza. Ella si fece
moglie chiamar d'Enea; con questo nome
ricoverse il suo fallo; e di ciт tosto
per le terre di Libia andт la Fama.
И questa Fama un mal, di cui null'altro
и piъ veloce; e com' piъ va, piъ cresce;
e maggior forza acquista. И da principio
picciola e debil cosa, e non s'arrischia
di palesarsi; poi di mano in mano
si discopre e s'avanza, e sopra terra
sen va movendo e sormontando a l'aura,
tanto che 'l capo infra le nubi asconde.
Dicon che giа la nostra madre antica,
per la ruina de' Giganti irata
contr'a' celesti, al mondo la produsse,
d'Encиlado e di Ceo minor sorella;
mostro orribile e grande, d'ali presta
e veloce de' piи; che quante ha piume,
tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante
(meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocche
per favellare, e per udire orecchi.
Vola di notte per l'oscure tenebre
de la terra e del ciel senza riposo,
stridendo sempre, e non chiude occhi mai.
Il giorno sopra tetti, e per le torri
sen va de le cittа, spпando tutto
che si vede e che s'ode: e seminando,
non men che 'l bene e 'l vero, il male e 'l falso
di rumor empie e di spavento i popoli.
Questa, gioiosa, bisbigliando in prima,
poscia crescendo, del seguнto caso
molte cose dicea vere e non vere.
Dicea, ch'un di troiana stirpe uscito,
venuto era in Cartago, a cui degnata
s'era la bella Dido esser congiunta.
Queste e cose altre assai, la sozza dea
per le bocche degli uomini spargendo,
tosto in Getulia al gran Iarba pervenne;
e con parole e con punture acerbe
sн de l'offeso re l'animo accese,
ch'arse d'ira e di sdegno. Era d'Ammone,
e de la garamantide Napea,
giа rapita da lui, questo re nato,
onde a Giove suo padre entro a' suoi regni
cento gran templi e cento pingui altari
avea sacrati, e di continui fochi
mantenendo agli dиi vigilie eterne
di vittime, di fiori e di ghirlande
gli tenea sempre riveriti e cуlti.
Ei sн com'era afflitto e conturbato
da l'amara novella, anzi agli altari
e fra gli dиi, le mani al cielo alzando,
cotali, umile insieme e disdegnoso,
porse prieghi e querele: «Onnipotente
padre, a cui tanti opimi e sontuosi
conviti, e di Lenиo sн larghi onori
offrisce oggi de' Mauri il gran paese,
vedi tu queste cose? o pure invano
tonando e folgorando ci spaventi?
Una femina errante, una che dianzi
ebbe a prezzo da me nel mio paese,
per fondar la sua terra un picciol sito:
una ch'arena ha per arare, ha vitto,
loco e leggi da me, me per marito
rifiuta; e di sй donno e del suo regno
ha fatto Enea. Questo or novello Pari
mitrato il mento e profumato il crine,
va del mio scorno e del suo furto altero:
ed io qui me ne sto vittime e doni
a te porgendo, e son tuo figlio indarno».
Cosн Iarba dicea; nй da l'altare
s'era ancor tolto, quando il padre udillo;
e gli occhi in vиr Cartagine torcendo
vide gli amanti ch'a gioire intesi
avean posti in oblio la fama e i regni.
Onde vтlto a Mercurio: «Va, figliuolo, -
gli disse, - chiama i vиnti, e ratto scendi
lа 've sн neghittoso il troian duce
bada in Cartago, e 'l destinato impero
non gradisce e non cura; e ciт gli annunzia
da parte mia, che Venere sua madre
non per tal lo mi diede, e ch'a tal fine
non и stato da lei da l'armi greche
giа due volte scampato. EIla promise
ch'ei sarebbe atto a sostener gl'imperi
e le guerre d'Italia, a trar qua suso
la progenie di Teucro, a porre il freno,
a dar le leggi al mondo. A ciт se 'l pregio
di sн gran cose e de la gloria stessa
non muove lui, perchй non guarda al figlio?
Perchй di tanta sua grandezza il froda,
di quanta fian Lavinio ed Alba e Roma
ne' secoli a venire? E con che speme,
con che disegno in Libia fa dimora,
e co' nemici suoi? Navighi in somma.
Questo dilli in mio nome». Udito ch'ebbe
Mercurio, ad eseguir tosto s'accinse
i precetti del padre; e prima a' piedi
i talari adattossi. Ali son queste
con penne d'oro, ond'ei l'aria trattando,
sostenuto da' vиnti, ovunque il corso
volga, o sopra la terra, o sopra al mare,
va per lo ciel rapidamente a volo.
Indi prende la verga, ond'ha possanza
fin ne l'inferno, onde richiama in vita
l'anime spente, onde le vive adduce
ne l'imo abisso, e dа sonno e vigilia
e vita e morte; aduna e sparge i vиnti,
e trapassa le nubi. Era volando
giunto lа 've d'Atlante il capo e 'l fianco
scorgea, de le cui spalle il cielo и soma;
d'Atlante la cui testa irta di pini,
di nubi involta, a piogge, a vиnti, a nembi
и sempre esposta; il cui mento, il cui dorso,
e per nevi e per gel canuto e gobbo,
и da fiumi rigato. In questo monte,
che fu padre di Maia, avo di lui,
primamente fermossi. Indi calando
si gittт sovra l'onde, e lungo al lito
di Libia se n'andт, l'aure secando
in quella guisa che marino augello
d'un'alta ripa, a nuova pesca inteso,
terra terra sen va tra rive e scogli
umilmente volando. A pena giunto
era in Cartago, che davanti Enea
si vide, intento a dar siti e disegni
ai superbi edifici. Avea dal manco
lato una storta, di dпaspro e d'oro
guarnita, e di stellate gemme adoma.
Dal tergo gli pendea di tiria ardente
porpora un ricco manto, arnesi e doni
de la sua Dido, ch'ella stessa intesta
avea la tela, e ricamati i fregi.
Nй 'l vide pria, che gli fu sopra, e disse:
«Tu te ne stai sн neghittosamente,
Enea, servo d'amor, ligio di donna,
a fondar l'altrui regno; e 'l tuo non curi?
A te mi manda il regnator celeste,
ch'io ti dica 'n sua vece: "Che pensiero,
che studio и il tuo? con che speranza indugi
in queste parti? Se 'l tuo proprio onore,
se la propria grandezza non ti spinge;
chй non miri a' tuoi posteri, al destino,
a la speranza del tuo figlio Iulo,
a cui si deve il glorпoso impero
de l'Italia e di Roma?"» E piъ non disse,
nй piъ risposta attese; anzi dicendo,
uscio d'umana forma, e dileguossi.
Stupн, si raggricciт, tremante e fioco
divenne il troian duce, il gran precetto,
e chi 'l portava, e chi 'l mandava udendo.
Giа pensa di ritrarsi. Ma che modo
terrа con Dido ad impetrar commiato?
Con quai parole assalirа, con quali
disporrа mai la furпosa amante?
Pensa, volge, rivolge: in un momento
or questo, or quel partito, or tutti insieme
va discorrendo; ed ora ad un s'appiglia,
ed ora a l'altro. Si risolve al fine:
e fatto a sй venir Memmo, Sergesto,
e l'ardito Cloanto: «Andate, - disse -
raunate i compagni; itene al porto,
e con bel modo chetamente l'arme
apprestate e l'armata; e non mostrate
segno di novitа, nй di partenza.
Intanto io troverт loco opportuno,
e tempo accomodato e destro modo
d'ottener da quest'ottima regina
che da lei con dolcezza mi diparta,
nulla sapendo ancor di mia partita,
nй sperando tal fine a tanto amore».
A l'ordine d'Enea lieti i compagni
obbedоr tutti; e prestamente in punto
fu ciт che impose. Ma Didon del tratto
tosto s'avvide: e che non vede amore?
Ella pria se n'accorse; ch'ogni cosa
temea, benchй secura. E giа la stessa
Fama importunamente le rapporta
armarsi i legni, esser i Teucri accinti
a navigare. Onde d'amore e d'ira
accesa, infurпata, e fuori uscita
di se medesma, imperversando scorre
per tutta la cittа. Quale a i notturni
gridi di Citeron Tпade, allora
che 'l trпennal di Bacco si rinnova,
nel suo moto maggior si scaglia e freme,
e scapigliata e fiera attraversando,
e mugolando al monte si conduce;
tal era Dido, e da tal furia spinta
Enea da sй con tai parole assalse:
«Ah perfido! Celar dunque sperasti
una tal tradigione, e di nascosto
partir de la mia terra? E del mio amore,
de la tua data fй, di quella morte
che ne farа la sfortunata Dido,
punto non ti sovviene, e non ti cale?
Forse che non t'arrischi in mezzo al verno
tra' piъ fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele! Or che faresti, se straniere
non ti fosser le terre, ignoti i lochi
che tu procuri? E che faresti, quando
fosse ancor Troia in piede? A Troia andresti
di questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh! per queste mie lagrime, per quello
che tu della tua fй pegno mi desti
(poichй a Dido infelice altro non resta
che a sй tolto non aggia), per lo nostro
marital nodo, per l'imprese nozze,
per quanti ti fei mai, se mai ti fei
commodo o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti unqua da me; ti priego ch'abbi
pietа del dolor mio, de la ruina
che di ciт m'avverrebbe; e (se piъ luogo
han le preci con te) che tu del tutto
lasci questo pensiero. Io per te sono
in odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
a' miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo a morte mi lasci, ospite mio?
ch'ospite sol mi resta di chiamarti,
di marito che m'eri. E perchй deggio,
lassa, viver io piъ? Per veder forse
che 'l mio fratel Pigmalпon distrugga
queste mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in servitъ m'adduca? Almeno avanti
la tua partita avess'io fatto acquisto
d'un pargoletto Enea che per le sale
mi scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser non mi parrebbe abbandonata,
nй delusa del tutto». A tai parole
Enea di Giove al gran precetto affisso
tenea il pensiero e gli occhi immoti e saldi;
e brevemente le rispose al fine:
«Regina, e' non fia mai ch'io non mi tenga
doverti quanto forse unqua potessi
rimproverarmi. E non fia mai ch'Elisa
non mi ricordi, infin che ricordanza
avrт di me medesmo, e che 'l mio spirto
reggerа queste membra. Ora in discarco
di me dirт sol questo, che sperato,
nй pensato ho pur mai d'allontanarmi
da te, come tu di'. Se 'l mio destino
fosse che la mia vita e i miei pensieri
a mia voglia reggessi, a Troia in prima
farei ritorno: raccфrrei le dolci
sue disperse reliquie: a la mia patria
di nuovo renderei la vita e i figli,
e la reggia e le torri e me con loro.
Ma ne l'Italia il mio fato mi chiama.
Italia Apollo in Delo, in Licia, ovunque
vado, o mando a spпarne, mi promette.
Quest'и l'amor, quest'и la patria mia.
Se tu, che di Fenicia sei venuta,
siedi in Cartago, e ti diletti e godi
del tuo libico regno; qual divieto,
qual invidia и la tua, che i miei Troiani
prendano Ausonia? Non lece anco a noi
cercar de' regni esterni? E non cuopre ombra
la terra mai, non mai sorgon le stelle,
che del mio padre una turbata imago
non veggia in sogno, e che di ciт ricordo
non mi porga e spavento. A tutte l'ore
del mio figlio sovviemmi e de l'ingiuria
che riceve da me sн caro pegno,
se del regno d'Italia io lo defraudo,
che gli son padre, quando il fato e Giove
ne 'l privilegia. E pur dianzi mi venne
dal ciel mandato il messaggier celeste
a portarmi di ciт nuova imbasciata
dal gran re degli dиi. Donna, io ti giuro
per la lor deitа, per la salute
d'ambedue noi, che con quest'occhi il vidi
qui dentro in chiaro lume; e la sua voce
con quest'orecchi udii. Rimanti adunque
di piъ dolerti; e con le tue querele
nй te, nй me piъ conturbare. Italia
non a mia voglia io seguo». E piъ non disse.
Ella, mentre dicea, crucciata e torva
lo rimirava, e volgea gli occhi intorno
senza far motto. Alfin, da sdegno vinta
cosн proruppe: «Tu, perfido, tu
sei di Venere nato? Tu del sangue
di Dardano? Non giа; chй l'aspre rupi
ti produsser di Caucaso, e l'Ircane
tigri ti fыr nutrici. A che tacere?
Il simular che giova? E che di meglio
ne ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti
ha mai questo crudel tratto un sospiro,
o gittata una lagrima, o pur mostro
atto o segno d'amore, o di pietade?
Di che prima mi dolgo? di che poi?
Ah! che nй Giuno omai, nй Giove stesso
cura di noi: nй con giust'occhi mira
piъ l'opre nostre. Ov'и qua giъ piъ fede?
E chi piъ la mantiene? Era costui
dianzi nel lito mio naufrago, errante,
mendнco. Io l'ho raccolto, io gli ho ridotti
i suoi compagni, e i suoi navili insieme,
ch'eran morti e dispersi; ed io l'ho messo
(folle!) a parte con me del regno mio,
e di me stessa. Ahi, da furor, da foco
rapir mi sento! Ora il profeta Apollo,
or le sorti di Licia, ora un araldo,
che dal ciel gli si manda, a gran faccende
quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo
di ciт gli dиi. D'un gran travaglio и questo
a lor quпete. Or va', che per innanzi
piъ non ti tegno, e piъ non ti contrasto.
Va' pur, segui l'Italia, acquista i regni
che ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi
son pietosi, e se ponno, io spero ancora
che da' vиnti e da l'onde e da gli scogli
n'avrai degno castigo; e che piъ volte
chiamerai Dido, che lontana ancora
co' neri fuochi suoi ti fia presente:
e tosto che di morte il freddo gelo
l'anima dal mio corpo avrа disgiunta,
passo non moverai che l'ombra mia
non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
ricompensa a' tuoi merti, e ne l'inferno
tosto me ne verrа lieta novella».
Qui 'l suo dire interruppe; e lui per tйma
confuso e molto a replicarle inteso
lasciando, con disdegno e con angoscia
gli si tolse davanti. Incontanente
le fыr l'ancelle intorno; e sн com'era
egra e dolente, entro al suo ricco albergo
le diкr sovra le piume agio e riposo.
Enea, quantunque pio, quantunque afflitto
e d'amore infiammato e di desire
di consolar la dolorosa amante,
nel suo core ostinossi. E fermo e saldo
d'obbedire a gli dиi fatto pensiero,
calossi al mare, e i suoi legni rivide.
Allor furo in un tempo unti e rispinti
e posti in acqua; e, per la fretta, i remi
diventarono i rami che dal bosco
si portavano allor frondosi e rozzi.
Era a veder da la cittade al porto
de' Teucri, de le ciurme, e de le robe
ch'al mar si conducean, pieno il sentiero:
qual и, quando le provvide formiche
de le lor vernaricce vettovaglie
pensose e procaccevoli, si dаnno
a depredar di biade un grande acervo;
che va dal monte ai ripostigli loro
la negra torma, e per angusta e lunga
sиmita le campagne attraversando,
altre al carreggio intese o lo s'addossano,
o traendo o spingendo lo conducono;
altre tengon le schiere unite, ed altre
castigan l'infingarde; e tutte insieme
fan che tutta la via brulica e ferve.
Che cor, misera Dido, che lamenti
erano allora i tuoi, quando da l'alto
un tal moto scorgevi, e tanti gridi
ne sentivi dal mare? Iniquo amore,
che non puoi tu ne' petti de' mortali?
Ella di nuovo al pianto, a le preghiere,
a sottoporsi a l'amoroso giogo
da la tua forza и suo malgrado astretta.
Ma per fare ogni schermo, anzi che muoia,
la sorella chiamando: «Anna, - le disse -
tu vedi che s'affrettano, e sen vanno.
Vedi giа loro in su la spiaggia accolti,
le vele in alto, e le corone in poppa.
Sorella mia, s'avessi un tal dolore
antiveder potuto, io potrei forse
anco soffrirlo. Or questo solo affanno
prendi per la tua misera sirocchia,
poichй te sola quel crudele ascolta,
e sol di te si fida, e i lochi e i tempi
sai d'esser seco e di trattar con lui;
truova questo superbo mio nimico,
e supplichevolmente gli favella.
Dilli che Dido io sono, e che non fui
in Aulide co' Greci a far congiura
contra a' Troiani; e che di Troia a' danni
nй i miei legni mandai, nй le mie genti.
Dilli che nй le ceneri, nй l'ombre
nй del suo padre mai, nй d'altri suoi
non vпolai. Qual dunque o mio demerto
o sua durezza fa ch'ei non ascolti
il mio dire, e me fugga, e sй precipiti?
Chiedili per mercй dell'amor mio,
per salvezza di lui, per la mia vita,
ch'indugi il suo partir tanto che 'l mare
sia piъ sicuro e piъ propizi i vиnti.
Nй piъ del maritaggio io lo richieggio,
c'ha giа tradito, nй vo' piъ che manchi
del suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un picciol tempo, e d'ogni obbligo sciolto
io gli dimando, e tanto o di quпete,
o d'intervallo al mio cieco furore,
ch'in parte il duol disacerbando, impari
a men dolermi. Questo и 'l dono estremo
che da lui per tuo mezzo agogna e brama
questa tua miserabile sorella:
e se tu lo m'impetri, altro che morte
forza non avrа mai ch'io me n'oblii».
Queste e tali altre cose ella piangendo
dicea con Anna, ed Anna al frigio duce
disse, ridisse, e riportт piъ volte
or da l'una or da l'altro, e tutte in vano;
chй nй pianti, nй preci, nй querele
punto lo muovon piъ. Gli ostano i fati,
e solo in ciт gli ha dio chiuse l'orecchie;
benchй dolce e trattabile e benigno
fusse nel resto. Come annosa e valida
quercia, che sia ne l'alpi esposta a Borea,
s'or da l'uno or da l'altro de' suoi turbini
и combattuta, si scontorce e tнtuba:
stridono i rami e 'l suol di frondi spargesi,
e 'l tronco al monte infisso immoto e solido
se ne sta sempre; e quanto sorge a l'aura
con la sua cima, tanto in giъ stendendosi
se ne va con le barbe infino agl'inferi:
cosн, da preci e da querele assidue
battuto, duolsi il gran Troiano ed angesi,
e con la mente in sй raccolta e rigida
gitta indarno per lei sospiri e lagrime.
La sfortunata Dido, poichй tronca
si vide ogni speranza, spaventata
dal suo fato, e di sй schiva e del sole,
disпт di morire; e gran portenti
di ciт presagio e fretta anco le fкro.
Ella, mentre a gli altari incensi e doni
offria devota (orribil cosa a dire!),
vide avanti di sй cogli occhi suoi
farsi lurido e negro ogni liquore,
e 'l puro vin cangiarsi in tetro sangue:
e 'l vide, e 'l tacque, e 'nfino a la sorella
lo tenne ascoso. Entro al suo regio albergo
avea di marmo un bel delъbro eretto,
e dedicato al suo marito antico.
Questo con molto studio, e molt'onore
fu mai sempre da lei di bianchi velli
e di festiva fronde ornato e cinto.
Quinci notturne voci udir le parve
del suo caro Sichиo che la chiamasse;
e nel suo tetto un solitario gufo
molte fпate con lugъbri accenti
fe' di pianto una lunga querimonia.
Oltre a ciт da l'antiche profezie,
da pronostici orrendi e spaventosi
de la vicina morte era ammonita.
Vedeasi Enea tutte le notti avanti
con fera imago, che turbata e mesta
la tenea sempre. Le parea da tutti
restare abbandonata, e per un lungo
e deserto cammino andar solinga
de' suoi Tiri cercando. In cotal guisa
le schiere de l'Eumиnidi vedea
Pиntлo forsennato, e doppio il sole
e doppia Tebe. In cotal guisa Oreste
per le scene imperversa, e furпoso
vede, fuggendo, la sua madre armata
di serpenti e di faci, e 'n su le porte
le Furie ultrici. Or poi che la meschina
fu da tanto furor, da tanto affanno
oppressa e vinta, e di morir disposta,
divisт fra se stessa il tempo e 'l modo:
ed Anna, sн com'era afflitta e mesta,
a sй chiamando, il suo fiero consiglio
celт nel core, e nel sereno volto
spiegт gioia e speranza: «Anna, - dicendo -
rallegrati con me, che al fin trovato
ho com'io debba o racquistar quell'empio,
o ritфrmi da lui. Nel lito estremo
de l'Oceаn, lа dove il sol si corca,
de l'Etпopia a l'ultimo confino,
e presso a dove Atlante il ciel sostiene,
giace un paese, ond'ora и qui venuta
una sacerdotessa incantatrice,
che, massнla di gente, и stata poi
del tempio de l'Espиridi ministra,
e del drago nudrice, e de le piante
del pomo d'oro guardпana un tempo.
Questa, d'umido mиle e d'oblпosi
papaveri composto un suo miscuglio,
promette con parole e con malнe
altri sciфr da l'amore, altri legare,
com'a lei piace; distornare i fiumi,
ritrar le stelle, e convocar per forza
le notturne fantasme. Udrai la terra
mugghiar sotto a' tuoi piи. Vedrai da' monti
calar gli orni e le querce. Io per gli dиi,
per te, per la tua vita a me sн cara,
ti giuro, suora mia, che mal mio grado
m'adduco a questi magici incantesmi;
ma gran forza mi spinge. Or va, sorella;
scegli per entro a le mie stanze un luogo
il piъ remoto e solo, a l'aura esposto.
Ivi ergi una gran pira, e vi conduci
l'armi che a la mia camera sospese
lasciт quel disleale, e quelle spoglie,
in somma ogni suo arnese. Chй la maga
cosн m'impone, e vuol ch'ogni memoria,
ogni segno di lui si spenga e pиra».
Cosн detto, si tacque, e di pallore
tutta si tinse. Non perт s'avvide
Anna che sotto a' nuovi sacrifici
si celasse di lei morte sн fera:
chй sн fero concetto non le venne,
e non temй che peggio le avvenisse
che in morte di Sichиo. Tosto fe' dunque
quel ch'imposto le fu. Fatta la pira,
e d'ilici e di tede aride e scisse
altamente composta, la regina
d'atre ghirlande e di funeste frondi
ornar la fece intorno: indi le spoglie
e la spada e l'effigie de l'amante
sopra a giacer vi pose, ben secura
di ciт che n'avverrebbe. Eran d'intorno
gli altari eretti; era tra lor la maga
scapigliata e discinta; e con un tuono
di voce formidabile invocava
trecento deitа, l'Erebo, il Cao,
Иcate con tre forme, e con tre facce
la vergine Dпana. Avea giа sparse
le finte acque d'Averno, e i suffumigi
fatti de le nocive erbe novelle
che per punti di luna, e con la falce
d'incantato metallo eran segate.
Si fe' venir la malпosa carne
che de la fronte al tenero pulledro
con l'amor de la madre si divelle.
Essa stessa regina il farro e 'l sale
con le man pie sovr'a gli altari impone,
e d'un piи scalza, e di tutt'altro sciolta,
solo accinta a morir, per testimoni
chiama li dиi. Protestasi a le stelle
del suo fato consorti: e s'alcun nume
mira a gli afflitti e sfortunati amanti,
questo prega e scongiura che ragione
e ricordo ne tenga, e ne gli caglia.
Era la notte; e giа di mezzo il corso
cadean le stelle; onde la terra e 'l mare,
le selve, i monti e le campagne tutte,
e tutti gli animali, i bruti, i pesci,
e i volanti e i serpenti e ciт che vive
avea da ciт che la lor vita affanna
tregua, silenzio, oblio, sonno e riposo.
Ma non Dido infelice, a cui la notte
nй gli occhi grava, nй 'l pensiero alleggia;
anzi maggior col tramontar del sole
in lei risorge l'amorosa cura:
e non men che d'amor, d'ira avvampando,
cosн fra sй farnetica e favella:
«E che farт cosн delusa poi?
Chi piъ mi seguirа de' primi amanti?
Proferirommi per consorte io stessa
d'un Zingaro, d'un Moro, o d'un Arаbo,
quando n'ho vilipesi e rifiutati
tanti e tai, tante volte? Andrт co' Teucri
in su l'armata? Mi farт soggetta,
di regina ch'io sono, e serva a loro?
Sн certo, che gran pro fin qui riporto
de le mie loro usate cortesie;
e grado me n'avranno, e grazia poi.
Ma ciт, dato ch'io voglia, chi permette
ch'io l'eseguisca? Chi cosн schernita
volentier mi raccoglie? Ahi sfortunata
Dido! ch'ancor non vedi a che sei giunta,
e le frodi non sai di questa iniqua
schiatta di Laomedonte. E poi, che fia
per questo? Deggio sola in compagnia
di marinari andar femina errante?
o condur meco i miei Fenici tutti
con altra armata? e trarli un'altra volta
d'un'altra patria in mare, in preda a' vиnti
senz'alcun pro, senza cagione alcuna,
quando anco a pena di Sidon gli trassi
per ritфrli da man d'empio tiranno?
Ah! muor piъ tosto, come degnamente
hai meritato; e pon col ferro fine
al tuo grave dolore. Ah, mia sorella!
tu sei prima cagion di tanto male;
tu, vinta dal mio pianto, in quest'angoscia
m'hai posta, e data ad un nemico in preda;
chй dovea vita solitaria e fera
menar piъ tosto, che commetter fallo
sн dannoso e sн grave, e romper fede
al cener di Sichиo». Questi lamenti
uscian del petto a l'affannata Dido;
quando giа di partir fermo e parato
Enea, per riposar pria che sciogliesse,
s'era a dormir sopra la poppa agiato.
Ed ecco un'altra volta in sogno, avanti
del medesmo celeste messaggiero
gli appar l'imago, con quel volto stesso,
con quel color, con quella chioma d'oro
con che lo vide pria giovane e bello;
e da la stessa voce udir gli parve:
«Tu corri, Enea, sн gran fortuna, e dormi?
Non senti qual ti spira aura seconda?
Dido cose nefande ordisce ed osa
certa giа di morire, e d'ira accesa
a dire imprese и vтlta; e tu non fuggi,
mentre fuggir ti lece? A mano a mano
di legni travagliar vedrassi il mare,
di fochi il lito, e di furor le genti
incontra a te, se tu qui 'l giorno aspetti.
Via di qua tosto: da' le vele a' vиnti.
Femina и cosa mobil per natura,
e per disdegno impetuosa e fera».
E qui tacendo entrт nel buio, e sparve.
Enea, preso da sъbito spavento,
destossi, e fe' destar la gente tutta:
«Via, compagni, - dicendo - a i banchi, e a i remi;
ch'or d'altro uopo ne fa che di riposo.
Fate vela, sciogliete: chй di nuovo
precetto ne si fa dal cielo e fretta.
Ecco, qual tu ti sia, messo celeste,
che 'l tuo detto seguiamo; e tu benigno
n'aнta e 'l cielo e 'l mar ne rendi amico».
Ciт detto, il ferro strinse, e fulminando
del suo legno la gуmona recise.
Cosн fкr gli altri, e col medesmo ardore
tutti insieme sciogliendo, travasando,
e spingendosi in alto, in un momento
lasciaro il lito; e 'l mar, da i legni ascoso,
si fe' per tanti remi e tante vele
spumoso e bianco. Era vermiglio e rancio
fatto giа de la notte il bruno ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto:
quando d'un'alta loggia la regina
tutto scoprendo, poi ch'a piene vele
vide le frige navi irne a dilungo,
e vтti i liti, e senza ciurma il porto;
contra sй fatta ingiurпosa e fera,
il delicato petto e l'auree chiome
si percotй, si lacerт piъ volte;
e 'ncontra al ciel rivolta: «Ah, Giove!, - disse -
dunque pur se n'andrа? Dunque son io
fatta d'un forestier ludibrio e scherno
nel regno mio? Nй fia chi prenda l'armi?
Nй chi lui segua, nй i suoi legni incenda?
Via tosto a le lor navi, a l'armi, al foco;
mano a le vele, a' remi; oltre, nel mare!
Che parlo? O dove sono? E che furore
и 'l tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
misera, ti persegue. Allor fu d'uopo
ciт che tu di', quando di te signore
e del tuo regno il festi. Ecco la destra,
ecco la fede sua. Questi и quel pio
che seco adduce i suoi patrii Penati,
e 'l vecchio padre a gli omeri s'impose.
Non potea farlo prendere e sbranarlo?
e gittarlo nel mare? ancider lui
con tutti i suoi? dilanпare il figlio,
e darlo in cibo al padre? Oh, perigliosa
fфra stata l'impresa! E di periglio
la si fosse, e di morte; in ogni guisa
morir dovendo, a che temere indarno?
Arsi avrei gli steccati, incesi i legni,
occiso il padre, il figlio, il seme in tutto
di questa gente, e me spenta con loro.
Sole, a cui de' mortali ogni opra и conta;
Иcate, che ne' trivi orribilmente
sei di notte invocata; ultrici Furie,
spiriti inferni, e dii de l'infelice
Dido ch'a morte и giunta, il mio non degno
caso riconoscete, e insieme udite
queste dolenti mie parole estreme.
Se forza, se destino, se decreto
и di Giove e del cielo, e fisso e saldo
и pur che questo iniquo in porto arrivi
e terra acquisti; almen da fiera gente
sia combattuto, e, de' suoi fini in bando,
da suo figlio divelto implori aiuto,
e perir veggia i suoi di morte indegna.
Nй leggi che riceva, o pace iniqua
che accetti, anco gli giovi; nй del regno,
nй de la vita lungamente goda:
ma caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena
giaccia insepolto. Questi prieghi estremi
col mio sangue consacro. E voi, miei Tiri,
coi discesi da voi, tenete seco
e co' posteri suoi guerra mai sempre.
Questi doni al mio cenere mandate,
morta ch'io sia. Nй mai tra queste genti
amor nasca, nй pace; anzi alcun sorga
de l'ossa mie, che di mia morte prenda
alta vendetta, e la dardania gente
con le fiamme e col ferro assalga e spenga
ora, in futuro e sempre; e sian le forze
a quest'animo eguali: i liti ai liti
contrari eternamente, l'onde a l'onde,
e l'armi incontro a l'armi, e i nostri ai loro
in ogni tempo». E ciт detto, imprecando,
schiva di piъ veder l'eterea luce,
affrettт di morire. E Barce in prima
vistasi intorno, una nutrice antica
del suo Sichиo (chй la sua propria in Tiro
era cenere giа): «Cara nutrice, -
le disse - va', mi chiama Anna mia suora,
e le di' che solleciti, e che l'onda
del fiume e l'ostie e i suffumigi adduca,
e ciт ch'и d'uopo, come pria le dissi,
a prepararmi: chй finire intendo
il sacrifizio che a Plutone inferno
solennemente ho di giа fare impreso,
per fine imporre a' miei gravi martiri,
e dar foco a la pira, ov'и l'imago
di quell'empio Troiano». A tal precetto
mossa la vecchiarella, a suo potere
lentamente affrettossi ad eseguirlo.
Dido nel suo pensiero immane e fiero
fieramente ostinata, in atto prima
di paventosa, poi di sangue infetta
le torve luci, di pallore il volto,
e tutta di color di morte aspersa,
se n'entrт furпosa ove secreto
era il suo rogo a l'aura apparecchiato.
Sopra vi salse; e la dardania spada,
ch'ebbe da lui non a tal uso in dono,
distrinse: e rimirando i frigi arnesi
e 'l noto letto, poich'in sй raccolta
lagrimando e pensando alquanto stette,
sopra vi s'inchinт col ferro al petto,
e mandт fuor quest'ultime parole:
«Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care
a voi rendo io quest'anima dolente.
Voi l'accogliete: e voi di questa angoscia
mi liberate. Ecco, io son giunta al fine
de la mia vita, e di mia sorte il corso
ho giа compito. Or la mia grande imago
n'andrа sotterra: e qui di me che lascio?
Fondata ho pur questa mia nobil terra;
viste ho pur le mie mura; ho vendicato
il mio consorte; ho castigato il fiero
mio nimico fratello. Ah, che felice,
felice assai morrei, se a questa spiaggia
giunte non fosser mai vele troiane!»
E qui su 'l letto abbandonossi, e 'l volto
vi tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque
morrт senza vendetta? Eh, che si muoia,
comunque sia. Cosн, cosн mi giova
girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre meco era, il mio foco non vide,
veggalo di lontano; e 'l tristo augurio
de la mia morte almen seco ne porte».
Avea ciт detto, quando le ministre
la vider sopra al ferro il petto infissa,
col ferro e con le man di sangue intrise
spumante e caldo. In pianti, in ululati
di donne in un momento si converse
la reggia tutta, e 'nsino al ciel n'andaro
voci alte e fioche, e suon di man con elle.
N'andт per la cittа grido e tumulto,
come se presa da' nemici a forza
fosse Tiro, o Cartago arsa e distrutta.
Anna, tosto ch'udillo, il volto e 'l petto
battessi e lacerossi; e fra la gente
verso la moribonda sua sorella,
stridendo, e 'l nome suo gridando corse:
«E per questo, - dicea - suora, son io
da te cosн tradita? Io t'ho per questo
la pira e l'are e 'l foco apparecchiato?
Deserta me! Di che dorrommi in prima?
Perchй, morir dovendo, una tua suora
per compagna rifiuti? E perchй teco,
lassa! non m'invitasti? Ch'un dolore,
un ferro, un'ora stessa ambe n'avrebbe
tolte d'affanno. Ohimй! con le mie mani
t'ho posto il rogo. Ohimй! con la mia voce
ho gli dиi de la patria a ciт chiamati.
Tutto, folle! ho fatt'io, perchй tu muoia,
perch'io nel tuo morir teco non sia.
Con te, me, questo popol, questa terra
e 'l sidonio senato hai, suora, estinto.
Or mi date che 'l corpo omai componga,
che lavi la ferita, che raccolga
con le mie labbia il suo spirito estremo,
se piъ spirto le resta». E, ciт dicendo,
giа de la pira era salita in cima.
Ivi lei che spirava in seno accolta,
la sanguinosa piaga, lagrimando,
con le sue vesti le rasciuga e terge.
Ella talor, le gravi luci alzando,
la mira a pena, che di nuovo a forza
morte le chiude; e la ferita intanto
sangue e fiato spargendo anela e stride.
Tre volte sopra il cubito risorse:
tre volte cadde, ed a la terza giacque:
e gli occhi vтlti al ciel, quasi cercando
veder la luce, poichй vista l'ebbe,
ne sospirт. De l'affannosa morte
fatta Giuno pietosa, Iri dal cielo
mandт, che 'l groppo disciogliesse tosto,
che la tenea, malgrado anco di morte,
col suo mortal sн strettamente avvinta;
ch'anzi tempo morendo, e non dal fato,
ma dal furore ancisa, non le avea
Prosиrpina divelto anco il fatale
suo dorato capello; nй dannata
era ancor la sua testa a l'Orco inferno.
Ratto spiegт la rugiadosa dea
le sue penne dorate, e 'ncontra al sole
di quei tanti suoi lucidi colori
lunga striscia traendo; indi sospesa
sopra al capo le stette, e d'oro un filo
ne svelse e disse: «Io qui dal ciel mandata
questo a Pluto consacro, e te disciolgo
da le tue membra». Ciт dicendo, sparve.
Ed ella, in aura il suo spirto converso,
restт senza calore e senza vita.

LIBRO QUINTO

Intanto Enea, spinto dal vento in alto,
veleggiava a dilungo; e pur con gli occhi,
da la forza d'amor rivolto indietro,
rimirava a Cartago. Ardea la pira
giа d'Elisa infelice; e le sue fiamme
raggiavan di lontan gran luce intorno.
La cagion non sapea; ma la temenza
lo rimordea del vпolato amore,
e 'l saper quel che puote e quel che ardisce
femina furпosa; e 'l tristo augurio
del foco, che lugъbre era e funesto,
lo tenea con lo stuol de' Teucri tutti
disanimato e mesto. Eran di vista
giа de la terra usciti, e cielo ed acqua
apparian solamente d'ogn'intorno,
allor ch'un denso e procelloso nembo
si fe' lor sopra; onde tempesta e notte
surse repente, e Palinuro stesso
da l'alta poppa il ciel mirando: «Oh! - disse -
che fia con tante intorno accolte nubi?
E che pensi e che fai, padre Nettuno?»
Indi cornanda: «Via, compagni, armiamci,
opriamo i remi, accomodiam le vele,
tegniamo al vento avverso obliquo il seno».
E rivolto ad Enea: «Con questo cielo,
signor, - diss'egli - ormai piъ non m'affido
prender Italia, ancor che Giove stesso
nel promettesse, ed ei nocchier ne fosse.
Vedi il vento mutato, vedi il mare
di vиr ponente, che s'annera e gonfia:
vedi nel ciel qual ne s'accampa stuolo
di folte nubi. Traversia di certo
n'assalirа sн che nй girle incontro,
nй durar la potremo. Or poi ch'a forza
cosн ne spinge, noi per nostro scampo
assecondiamla; chй giа presso i porti
ne son de la Sicilia e 'l fido ospizio
d'Иrice tuo fratello, s'abbastanza
de l'arte mi rammento e de le stelle».
Rispose Enea: «Ben conosch'io che duro
и 'l contrasto de' vиnti; e 'l nostro и vano.
Volgi le vele. E qual piъ grata altrove,
o piъ commoda riva, o piъ sicura
aver mai ponno le mie stanche navi,
di quella che ne serba il caro Aceste,
e l'ossa accoglie del buon padre mio?»
Cosн, vтlti a levante, e preso in poppa
il vento e 'l flutto, a tutta vela il golfo
correndo, fыr subitamente a proda
de l'amica riviera. Avea di cima
visto d'un monte il cacciatore Aceste
venir la frigia armata: onde in un tempo
fu con essi a la riva; e rincontrolli
allegramente, sн com'era incolto,
di dardi armato e d'irta pelle cinto
di libic'orso, umano insieme e rozzo,
de la troiana Egesta e di Criniso
fiume onorato figlio. Ei degli antichi
suoi parenti membrando, con gioioso
volto, se ben con rustico apparecchio,
gl'invita, gli riceve e gli consola.
Era de l'altro dн l'aurora e 'l sole
giа fuor de l'onde, allor che 'l frigio duce,
convocati i suoi tutti, alto in un greppo
posto in mezzo di lor cosн lor disse:
«Generosi e magnanimi Troiani,
degna prole di Dardano e del cielo,
questa и l'amica terra, ove oggi и l'anno
ch'a le sante ossa del mio padre Anchise
demmo requie e sepolcro, e i mesti altari
gli consecrammo. Oggi и, s'io non m'inganno,
quel sempre acerbo ed onorato giorno,
chй onorato ed acerbo mi fia sempre
(poi che sн piacque a dio), quantunque ovunque
questo esiglio infelice mi trasporti:
pongami ne l'arene e ne le secche
de la Getulia; spingami agli scogli
del mar di Grecia; ne la Grecia stessa
mi chiugga, e dentro al cerchio di Micene;
ch'io l'arт sempre per solenne, e vуti
farogli ogni anno e sacrifici e ludi.
Or poi che da' celesti, oltre ogni avviso
nostro, tra' nostri siamo in pruova addotti
per onorar le sue ceneri sante,
onoriamle, adoriamle, e dal suo nume
imploriamo devoti amici i vиnti,
e stabil seggio, ove gli s'erga un tempio,
in cui sian quest'esequie e questi onori
rinnovellati eternamente ogni anno.
Due pingui buoi per ciascun nostro legno
vi profferisce il buon troiano Aceste.
Voi d'Aceste e di Troia i patri numi
ne convitate; ed io, quando l'Aurora
tranquillo e queto il nono giorno adduca,
a' solenni spettacoli v'invito
di navi, di pedoni e di cavalli,
al corso, a la palestra, al cesto, a l'arco.
Ognun vi si prepari, ognun ne speri
degna del suo valor mercede e palma.
E voi datevi assenso, e tutti insieme
v'inghirlandate». E, ciт dicendo, il primo
del suo mirto materno il crin si cinse.
Иlimo lo seguн, seguillo Alete,
un di verd'anni e l'altro di maturi;
poscia il fanciullo Iulo; e dietro a loro
d'ogni etа gli altri tutti. Enea disceso
dal parlamento, in mezzo a quante intorno
avea schiere di genti, umile e mesto
al sepolcro d'Anchise appresentossi:
e con rito solenne in terra sparte
due gran coppe di vino e due di latte
e due di sangue, di purpurei fiori
vi nevigт di sopra un nembo, e disse:
«A voi sant'ossa, a voi ceneri amate
e famose e felici, anima ed ombra
del padre mio, torno di nuovo indarno
per onorarvi; poi che Italia e 'l Tebro
(se pur Tebro и per noi) ne si contende.
Or, quel ch'io posso con devoto affetto
v'adoro e 'nchino come cosa santa».
Mentre cosн dicea, di sotto al cavo
de l'alto avello un gran lubrico serpe
uscio placidamente; e sette volte
con sette giri al tumulo s'avvolse.
Indi, strisciando infra gli altari e i vasi,
le vivande lambendo, in dolce guisa,
con le cerulee sue squamose terga
sen gio divincolando, e quasi un'Iri
a sole avverso scintillт d'intorno
mille vari color di luce e d'oro.
Stupissi Enea di cotal vista; e l'angue
di lungo tratto infra le mense e l'are,
ond'era uscito alfin si ricondusse.
Rinnovellт gl'incominciati onori
il frigio duce, del serpente incerto,
se del loco era il genio, o pur del padre
sergente o messo. E com'era uso antico,
cinque pecore elette e cinque porci,
con cinque di morello il tergo aspersi
grassi giovenchi anzi a la tomba occise,
nuove tazze versando, e nuovamente
fin d'Acheronte richiamando il nome
e l'anima d'Anchise. Indi i compagni,
ciascun secondo la sua possa offrendo,
lieti colmвr di doni i santi altari:
altri di lor le vittime immolaro;
altri cibi ne fкro; e tutti insieme
sul verde prato a convivar si diкro.
Era giа 'l nono destinato giorno
sereno e lieto a l'orпente apparso,
e giа la vaga fama e 'l chiaro nome
avea d'Aceste convocati intorno
i vicin tutti, e pieni erano i liti
di gente, cui traea parte vaghezza
di vedere i Troiani, e parte ardire
di provarsi con loro. In prima esposti
con pompa riguardevole e solenne
furo in mezzo del circo armi indorate,
purpuree vesti, e tripodi e corone,
e piъ guise d'arnesi e di monete,
d'argento e d'oro, e palme ed altri premi
di vincitori. Indi sonora tromba
d'alto diи segno ai desпati ludi,
e dal mar cominciossi. Avean di tutta
la teucra armata quattro legni scelti
piъ di remi e di rйmigi guarniti,
e di tutti piъ destri. Un fu la Pistri,
e Memmo la reggea: Memmo che poi
l'Italo fu nomato, e diede il nome
a la stirpe de' Memmi. La Chimera
fu l'altro, a cui preposto era il gran Gнa,
un gran vascello che a tre palchi avea
disposti i remi; e i remiganti tutti
eran troiani e giovani e robusti.
Fu 'l gran Centauro il terzo; e di quest'era
Sergesto il capo, che a la Sergia prole
diede principio. L'ultimo, la Scilla
guidata da Cloanto, onde i Cluenti
trasser nome e legnaggio. И lunge incontra
a la spumosa riva un basso scoglio
che da' flutti percosso, и talor tutto
inondato e sommerso. Il verno i vиnti
vi tendon sopra un nubiloso velo
che ricuopre le stelle, e quando и il tempo
tranquillo, ha ne l'asciutto una pianura
ch'и di marini uccelli aprica stanza.
Qui d'un elce frondoso il segno pose
il padre Enea, fin dove il corso avanti
stender pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi, sortiti i luoghi, al suo ciascuno
si pose in fila. I capitani in poppa
addobbati di bisso e d'ostro e d'oro,
risplendean di lontano; e gli altri tutti
d'una livrea di pioppo incoronati
stavano con le terga ignudi ed unti,
sн che tra l'olio e 'l sol lumiere e specchi
parean da lunge. E giа ne' banchi assisi,
tese a' remi le braccia, al suon l'orecchie,
aspettavano il segno. I cori intanto
palpitando movea disio d'onore
e timor di vergogna. Avea la tromba
squillato appena, che in un tempo i remi
si tuffвr tutti, e tutti i legni insieme
si spiccвr da le mosse. I gridi al cielo
n'andвr de' marinari. Il mar di schiuma
s'asperse intorno; e 'n quattro solchi eguali
fu con molto stridor da' rostri aperto,
e da' remi stracciato. Impeto pari
non fкr nel Circo mai bighe o quadrighe
da le carceri uscendo, allor ch'a sciolte
ed ondeggianti redini gli aurighi
ai volanti destrier sferzan le terga.
Le grida, il plauso, il fremito e le voci,
in favore or di questi ed or di quelli,
tra i curvi liti avvolte, e da le selve
e da' colli riprese e ripercosse,
facean l'aria intonar fino a le stelle.
Nel primo uscire, il primo avanti a tutti
si vide Gнa, mentre la gente freme;
e dopo lui Cloanto, che de' remi
migliore assai, per la gravezza indietro
rimanea del suo legno. Indi del pari,
o di poco infra loro avean contesa
il Centauro e la Pistri; e quando questa,
quando quello era avanti; e quando entrambi
or le fronti avean giunte ed or le code.
Eran del sasso giа presso a la mиta
e di buon tratto vincitore avanti
Gнa se ne gнa, quand'ei sen vide in alto
da la ripa piъ lunge; onde rivolto
al suo nocchiero: «E dove - disse - andrai,
Menete? Attienti al lito e radi il sasso:
vadano gli altri in alto». Ei tuttavia
d'urtar temendo, in pelago si mise;
e Gнa di nuovo: «In qua, Menete, al sasso,
al sasso, a la sinistra, a la sinistra!»
dicea gridando; e vтlto indietro, vide
ch'avea Cloanto addosso. Era Cloanto
giа tra lo scoglio e la Chimera entrato;
e via radendo la sinistra riva,
tenne giro sн breve e sн propinquo,
che lui tosto e la mиta anco varcando,
si vide avanti il mare ampio e sicuro.
Grand'ira, gran dolore e gran vergogna
ne sentн 'l fiero giovine; e piangendo
di stizza, e non mirando il suo decoro,
nй che Menete del suo legno seco
fosse guida e salute, in mezzo il prese,
e da la poppa in mar lunge avventollo.
Poscia, ei nocchiero e capitano insieme
diи di piglio al timone e, rincorando
i suoi compagni, al sasso lo rivolse.
Menete, che di veste era gravato,
e via piъ d'anni, infino a l'imo fondo
ricevй 'l tuffo; e risorgendo a pena
rampicossi a lo scoglio, e sн com'era
molle e guazzoso, de la rupe in cima
qual bagnato mastino al sol si scosse.
Rise tutta la gente al suo cadere;
rise al notare: e piъ rise anco allora
che'a flutti vomitar gli vide il mare.
Memmo intanto e Sergesto, che del pari
erano addietro, parimente accesi,
su l'indugio di Gнa preser baldanza.
Sergesto in vиr lo scoglio avea 'l vantaggio
del primo loco; ma non tutto ancora
era il suo legno avanti, che la Pistri
premea col rostro del Centauro il fianco.
E Memmo, confortando i suoi compagni,
e 'n su e 'n giъ per la corsia gridando:
«Via fratelli, - dicea - via degni alunni
d'Ettore invitto, via! compagni eletti
al grand'uopo di Troia. Ora и mestiero
de' remi, de le forze e del coraggio,
ch'a le Sirti, a Cariddi, a la Malиa
mostraste giа. Non piъ vincer contendo,
che pur dovrei, se pur Memmo son io:
vinca cui ciт da te, Nettuno, и dato.
Ma ch'ultimi arriviamo, ah! non, fratelli,
questa vergogna; e ciт vincasi almeno
che di tanto rossor tinti non siamo».
A cotal dir tutti insorgendo, a gara
steser le braccia, ed inarcaro i dorsi,
e fкr per avanzarsi estremo sforzo.
Tremava a i colpi il ben ferrato legno;
fuggia di sotto il mare: ansando i rйmigi
aprian l'asciutte bocche; e spesso i fianchi
battendo, a gronde di sudor colavano.
Diи lor fortuna il desпato onore:
chй, mentre furпoso oltre si spinge
Sergesto, e con la prora arditamente
rade la ripa, ebbe il meschino intoppo,
urtando de lo scoglio in una roccia
che nel mar si sporgea. Scheggiossi il sasso:
fiaccвrsi i remi: si scoscese il rostro;
e d'un lato pendente e scossa tutta
tremт la nave, e scompigliossi, e stette.
I remiganti attoniti, con gridi,
con ferrate aste, con tridenti e pali
stavan pingendo e puntellando il legno,
e ripescando i remi. Intanto allegro,
e del successo coraggioso e baldo
Memmo ratto s'avanza, e vince il sasso;
e via vogando ed invocando i vиnti
fende a la china ed a l'aperto il mare.
Qual d'una grotta, ov'aggia i dolci figli
e 'l caro nido, spaventata in prima
da sъbito schiamazzo esce rombando
ed arrostando una colomba a l'aura;
che poi, giunta ne' campi, a l'aer queto
quetamente per via dritta e sicura
sen va con l'ali immobili e veloci;
cosн la Pistri pria travolta e vaga
venia da sezzo; indi affilata e stretta
passт prima Sergesto che nel sasso,
come da vischio rattenuto augello
e spennacchiato, i suoi spezzati remi
dibattendo, chiedea soccorso invano;
poscia, spingendo, la Chimera aggiunse
e trapassolla: chй la sua gran mole
e 'l perduto nocchier la fea piъ tarda.
Sol restava Cloanto: e verso lui
affilandosi, al fin quasi del corso
con ogni sforzo il segue, e giа l'incalza.
Levossi al cielo un'altra volta il grido
del favor che facea la gente tutta,
perchй i secondi divenisser primi.
Quelli caccia lo sdegno e la vergogna
di non tener il conseguito onore,
chй la gloria antepongono a la vita;
questi il successo inanima e la speme
di ciт poter; poich'altrui par che possano.
S'eran giа presso e, pareggiati i rostri,
del pari i premi avrian forse ottenuti,
se non ch'ambe le mani al cielo alzando,
cotal fece a gli dиi Cloanto un vуto:
«Santi numi del pelago ch'io corro,
se 'l corso agevolate al legno mio,
nel medesimo lito un bianco toro
lieto consacrerovvi e de l'opime
sue viscere, e di vin limpido e puro
l'arena spargerovvi e l'onde salse».
Furon da l'imo fondo i preghi uditi
del buon Cloanto da la schiera tutta
de le ninfe di Nerлo e di Forco,
e da la Panopиa vergine intatta:
e 'l gran padre Portunno di sua mano
gli spinse il legno; onde, qual vento o strale,
lanciossi a terra, e si scagliт nel porto.
Il padre Enea (com'и costume) avanti
convocati a sй tutti, a suon di tromba
dichiarт vincitor Cloanto il primo,
e le tempie di lauro incoronogli.
Poscia a ciascuna de le navi in dono
diи tre grassi giovenchi, e tre grand'urne
di prezпoso vino, e di contanti
un gran talento. Ornт di maggior doni
i primi condottieri. Al vincitore
presentт di broccato un ricco arnese,
che d'ostro a' groppi sopra l'oro avea
doppio un lavoro di ricamo e d'ago.
Nel mezzo entro al frondoso bosco idиo
un real giovinetto era tessuto,
ch'anelo e fiero con un dardo in mano
seguia per la foresta i cervi in caccia;
e poco indi lontano un'altra volta
era il medesmo da l'uccel di Giove
rapito in alto; e i suoi vecchi custodi
e i fidi cani lo miravan sotto,
quegli indarno le mani al cielo alzando,
e questi il muso, ed abbaiando a l'aura.
A l'altro poi, che, per valore il primo,
fu per sorte secondo, in premio diede
per ornamento e per difesa in arme
una lorica che d'antica maglia
e di lucente e rinterzato acciaro,
di massiccio oro avea le fibbie e gli orli.
Questa di Simoenta in su la riva
sotto l'alto Ilio, e di sua propria mano
tolse al vinto Demтleo. Era sн grave,
che da Fegиo e da Sаgari, due forti
e robusti sergenti, ivi condotta
era stata a gran pena; e pur indosso
l'avea Demтleo il dн che combattendo
mise in quella riviera i Teucri in volta.
I terzi doni due gran nappi fфro
di forbito metallo, e due gran coppe,
di puro argento figurate intorno
con mirabile intaglio. E giа donati,
e de' lor doni altieri e festeggianti
se ne gian tutti di purpuree bende
le tempie avvinti, e di lentischio adorni;
quando ecco da lo scoglio con grand'arte
e con molta fatica appena svelto
Sergesto, col suo legno infranto e monco
e tarpato de' remi, in vиr la terra
se ne venia disonorato e mesto.
Com'angue suol, ch'o sia da ruota oppresso
tra la ripa e 'l sentiero, o sia di sasso
dal vпator percosso o di randello,
procacciando fuggir, con lunghe spire
s'arrosta indarno, e inalberato e fiero
dal mezzo in suso arde negli occhi e fischia:
e d'altra parte dilombato e tardo
debilmente guizzando, in se medesmo
si ripiega, s'attorce e si raggroppa:
cosн co' remi la fiaccata nave
se ne gia lenta, e con le vele a volo,
ch'a piene vele alfine in porto aggiunse.
Ed a Sergesto anco i suoi doni assegna
il padre Enea, di ricovrar contento
il suo buon legno e i suoi fidi compagni,
e furo i doni una Cretese ancella,
Fтloe di nome, e di telaro e d'ago
maestra esperta e da Minerva instrutta,
giovine e bella, e con due figli al petto.
Questo primo spettacolo compito,
Enea per gli altri una pianura elegge
che di teatro in guisa d'ogn'intorno
ha selve e colli, ed un gran circo avanti,
ove in un palco alteramente estrutto
tra molti mila collocossi in mezzo.
Qui prima al corso i corridori invita
con prezпosi premi, e i premi espone;
e de' Teucri e de' Sicoli mostrвrsi
i piъ famosi. Appresentossi in prima
Eurпalo con Niso. Un giovinetto
di singolar bellezza Eurпalo era;
e Niso un di lui fido e casto amante.
dopo questi Dптro. Era costui
del legnaggio di Prпamo un rampollo,
giovine generoso; e Sаlio e Patro
vennero appresso: d'Acarnania l'uno,
d'Arcadia I'altro e del tegиo paese:
e due Sicilпani, Иlimo e Pаnope,
ambedue cacciatori, ambi seguaci
del vecchio Aceste; e con questi, altri assai
d'oscura nominanza. A cui nel mezzo
stando il gran padre Enea, cosн ragiona:
«Nissun da me di questa schiera eletta
andrа senza mie' doni, e parimente
una coppia di dardi avrа ciascuno
di rilucente acciaro, ed una d'oro
e d'argento commesso a l'arabesca
non piъ vista bipenne. I principali
tre vincitori i primi pregi avranno,
e fian tutti d'oliva incoronati.
E 'l primiero de' tre d'un buon destriero
sarа provvisto ben guarnito e bello.
L'altro avrа d'un'Amazzone un turcasso
pien di tracie saette, un arco d'osso,
ed un bel cinto, a cui sono ambi appesi,
c'han di gemme il fermaglio e d'тr la fibbia.
Il terzo d'un'argolica celata
se ne vada contento; e sarа questa».
Ciт detto, e presi i luoghi, e 'l segno dato
s'avventвr da la sbarra: e quasi un nembo
l'un da l'altro dispersi, insieme tutti
volвr, mirando al fine. Il primo avanti
si tragge Niso, e di gran lunga avanti:
chй va di vento e di saetta in guisa.
Prossimo a lui, ma prossimo d'un tratto
molto lontano, и Salio. A Salio, Eurпalo;
Eurпalo ha di poco Иlimo addietro;
ad Иlimo Dптro appresso tanto
che giа sopra gli anela e giа l'incalza;
e se 'l corso durava, anco l'arebbe
o prevenuto o pareggiato almeno.
Eran presso a la mиta, ed eran lassi,
quando ne l'erba, pria di sangue intrisa
degli occisi giovenchi, il piи fermando
sinistramente e sdrucciolando a terra
cadde Niso infelice, e 'l volto impresse
nel sacro loto, sн che gramo e sozzo
ne surse poi. Ma del suo amore intanto
non obliossi: chй sorgendo, intoppo
si fece a Salio; onde con esso avvolto
stramazzт ne l'arena: e mentre ei giacque,
Eurпalo del danno e del favore
s'avanzт de l'amico, e de le grida,
con che gli diкr le genti animo e forza:
ond'ei fu 'l primo, ed Иlimo il secondo;
Dптro il terzo. E tal fin ebbe il corso.
Ma di rumor se n'empie e di tenzone
il circo tutto; e Salio anzi il cospetto
de' giudici e de' padri or si protesta,
or detesta, or esclama; e del tradito
suo valor si rammarca, e ragion chiede.
In difesa d'Eurпalo a rincontro,
и il favor de la gente, e quel decoro
suo dolce lagrimare, e quell'invitta
forza c'ha la vertъ con beltа mista.
Grida Dптro anch'egli, e lui sovviene,
e se stesso difende, poi ch'il terzo
essere non puт quando sia Salio il primo.
Enea cosн decise: «Aggiate voi,
generosi garzoni, i pregi vostri;
e nulla in ciт de l'ordine si muti:
ch'io supplirт con degna ammenda al caso,
ond'ha fortuna indegnamente afflitto
l'amico mio». Ciт detto, una gran pelle
presenta a Salio d'un leon getъlo,
c'ha il tergo irto di velli e l'unghie d'oro.
E qui Niso: «O signor, - disse, - di tanto
guiderdonate i perditori, e tale
di chi cade pietа vi prende; ed io
di pietа non son degno nй di pregio,
io che son di fortuna a Salio eguale,
e di valore a tutti gli altri avanti?»
E ciт dicendo, sanguinoso il volto
e livido mostrossi e lordo tutto.
Rise il buon padre Enea, poscia un pregiato
e degno scudo, ch'a le porte appeso
era giа di Nettuno, ed ei riscosso
l'avea da' Greci, con mirabil arte
dal saggio Didimаone construtto,
venir tosto si fece, e Niso armonne.
Finiti i corsi e dispensati i doni,
«Or - disse Enea - qual sia che vaglia ed osi
di forza e d'ardimento, al cesto invito.
Chпunque accetta, col suo braccio in alto
si mostri accinto». E ciт dicendo, in mezzo
propon due pregi: al vincitore un toro
di bende il tergo adorno e d'тr le corna:
un elmo ed un cimiero ed una spada
per conforto del vinto. Incontinente
uscio Darete poderoso in campo,
e con gran plauso si mostrт del volgo.
Era Darete un, che, di forze estreme,
fu solo ardito a star con Pari a fronte,
e che a la tomba del famoso Ettorre
in su l'arena il gran Bute distese:
e fu Bute un atleta, anzi un colosso,
di corpo immane, che in Bebrizia nato,
d'Аmico si vantava esser disceso.
Per tal da tutti avuto, e tal comparso
in su la lizza, altero ed orgoglioso
squassт la testa: e, i grandi omeri ignudo,
le muscolose braccia e 'l corpo tutto
brandн piъ volte, e menт colpi a l'aura.
Cercossi un pari a lui, nй fu fra tanti
chi rispondesse, o che di cesto armato
s'appresentasse. Ond'ei lieto e sicuro,
come d'ogni tenzon libero fosse,
al toro avvicinossi, e 'l destro corno
con la sinistra sua gli prese, e disse:
«Signor, poichй non и chi meco ardisca
di stare a prova, a che piъ bado? e quanto
badar piъ deggio? Or di' che 'l pregio и mio
perch'io meco l'adduca». A ciт fremendo
assentirono i Teucri; e giа co' gridi
de l'onor lo facean degno e del dono;
quando verso d'Entello il vecchio Aceste,
sн com'egli era in un cespuglio a canto,
si volse: e rampognando: «Ah, - disse - Entello,
tu sei pur fra gli eroi de' nostri tempi
il piъ noto e 'l piъ forte; e come soffri
ch'un sн gradito pregio or ti si tolga
senza contesa? Adunque и stato invano
fin qui da noi rammemorato e cуlto
Иrice, in ciт nostro maestro e dio?
Ov'и la fama tua che ancor si spande
per la Trinacria tutta? Ove son tante
appese a i palchi tue famose spoglie?»
Rispose Entello: «Nй disio d'onore,
nй vaghezza di gloria unqua, signore,
mi lasciвr mai, nй mai viltа mi prese;
ma l'incarco de gli anni, il freddo sangue,
e la scemata mia destrezza e forza
mi ritraggono addietro. Io quando avessi
o men quei giorni, o non men quel vigore
onde costui di sй tanto presume,
giа per diletto mio seco a le mani
sarei venuto, e non dal premio indotto,
chй premio non ne chero. E pur qui sono».
Disse, e sorgendo, due gran cesti e gravi
gittт nel campo, e quelli stessi, ond'era
solito a le sue pugne Иrice armarsi.
Stupоr tutti a quell'armi che di sette
dorsi di sette buoi, di grave piombo
e di rigido ferro eran conserti.
Stupн Darete in prima, e ricusolle
a viso aperto: onde d'Anchise il figlio
le prese avanti, e i lor volumi e 'l pondo
stava mirando, quando il vecchio Entello
cosн soggiunse: «Or che diria costui
se visto avesse i cesti e l'armi stesse
d'Ercole invitto, e l'infelice pugna,
onde in su questo lito Иrice cadde?
D'Иrice tuo fratello eran quest'armi.
Vedi che sono ancor di sangue infette
e d'umane cervella. Il grande Alcide
con queste Иrice assalse: e con quest'io
m'esercitai, mentre le forze e gli anni
eran piъ verdi, e non canuti i crini.
Ma poscia che Darete or le rifiuta,
se piace a te, se mel consente Aceste
per cui son qui, di ciт, Troiano ardito,
non vo' che ti sgomenti. Io mi rimetto,
e cedo a queste; e tu cedi a le tue:
combattiam con altr'armi e siam del pari».
Cosн detto spogliossi; e sн com'era
de le braccia, de gli omeri e del collo
e di tutte le membra e d'ossa immane,
quasi un pilastro in su l'arena stette.
Allora Enea fece due cesti addurre
d'ugual peso e grandezza; ed egualmente
ne fыro armati. In prima su le punte
de' piи l'un contra l'altro si levaro:
brandоr le braccia; ritirвrsi in dietro
con le teste alte: in guardia si posaro
or questi, or quelli: al fine ambi ristretti
mischiвr le mani, ed a ferir si diкro.
Era giovine l'uno, agile e destro
in su le gambe: era membruto e vasto
l'altro, ma fiacco in su' ginocchi e lento,
e per lentezza (il fiato ansio scotendo
le gravi membra e l'affannata lena)
palpitando anelava. In molte guise
in van pria si tentaro, e molte volte
s'avvisвr, s'accennaro e s'investiro.
A le piene percosse un suon s'udia
de' cavi fianchi, un rintonar di petti,
un crosciar di mascelle orrendo e fiero.
Cadean le pugna a nembi, e vиr le tempie
miravan la piъ parte; e s'eran vтte,
rombi facean per l'aria e fischi e vento.
Stava Entello fondato; e quasi immoto,
poco de la persona, assai de gli occhi
si valea per suo schermo. A cui Darete
girava intorno, qual chi rтcca oppugna,
quantunque indarno, che per ogni via
con ogni arte la stringe e la combatte.
Alzт la destra Entello, ed in un colpo
tutto s'abbandonт contro Darete;
ed ei, che lo previde, accorto e presto
con un salto schivollo: onde ne l'aura
percosse a vфto, e dal suo pondo stesso
e da l'impeto tratto, a terra cadde.
Tal un alto, ramoso, antico pino
carco de' gravi suoi pomi si svelle
d'un cavo greppo, e con la sua ruina
d'Ida una parte, o d'Erimanto ingombra.
Allor gridт, gioн, temй la gente,
si com'eran de' Siculi e de' Teucri
gli animi e i vуti a i due compagni affetti.
Le grida al ciel ne giro. Aceste il primo
corse per sollevare il vecchio amico;
ma nй dal caso ritardato Entello,
nй da tйma sorpreso, in un baleno
risurse e piъ spedito e piъ feroce;
chй l'ira, la vergogna e la memoria
del passato valor forza gli accrebbe.
Tornт sopra a Darete, e per lo campo
tutto a forza di colpi orrendi e spessi
lo mise in volta, or con la destra in alto,
or con la manca, senza posa mai
dargli, nй spazio di fuggirlo almeno.
Non con sн folta grandine percuote
oscuro nembo de' villaggi i tetti,
come con infiniti colpi e fieri
sopra Darete riversossi Entello.
Allor il padre Enea, l'un ritogliendo
da maggior ira, e l'altro da stanchezza
e da periglio, entrт nel mezzo; e prima
fermato Entello, a consolar Darete
si rivolse dicendo: «E che follia
ti spinge a ciт? Non vedi a cui contrasti?
Non senti e le sue forze e i numi avversi?
Cedi a dio, cedi». E, cosн detto, impose
fine a l'assalto. I suoi fidi compagni
cosн com'era afflitto, infranto e lasso,
col capo spenzolato, e con la bocca
che sangue insieme vomitava e denti,
lo portaro a le navi; e fu lor dato
l'elmo, il cimiero e la promessa spada.
Rimase al vincitor la palma e 'l toro,
di che lieto e superbo: «O de la dea -
disse - famoso figlio, e voi Troiani,
quinci vedete qual ne' miei verd'anni
fu la mia possa, e da qual morte aggiate
liberato Darete». E, ciт dicendo,
recossi anzi al giovenco, e 'l duro cesto
gli vibrт fra le corna. Al fiero colpo
s'aperse il teschio, si schiacciaron l'ossa,
schizzт 'l cervello; e 'l bue tremante e chino
si scosse, barcollт, morto cadй.
Ed ei soggiunse: «Иrice, a te quest'alma
piъ degna di morire offrisco in vece
di quella di Darete, e vincitore
qui 'l cesto appendo, e qui l'arte ripongo».
Immantinente Enea l'altra contesa
propon de l'arco, e i suoi premi dichiara.
Ma l'albero condur pria de la nave
fa di Sergesto, e ne l'arena il pianta:
suvvi una fune, e ne la fune appende
una viva colomba, e per bersaglio
la pon de le saette e degli arcieri.
Fкrsi i piъ chiari avanti, e i nomi loro
del fondo si cavвr d'un elmo a sorte.
Uscio primiero Ippocoonte, il figlio
d'Irtaco generoso, a cui con lieto
grido la gente applause. A lui secondo
fu Memmo, che pur dianzi il pregio ottenne
del naval corso: e Memmo, sн com'era,
di verde oliva incoronato apparve.
Apparve Eurizio il terzo; ed era questi
minor, ma ben di te degno fratello,
Pаndaro glorпoso, che de' Teucri
rompesti i patti, e saettasti in mezzo
a l'oste greca il gran campione argivo.
Ultimo si restт de l'elmo in fondo
il vecchio Aceste, che sн vecchio anch'egli
ardн di porsi a giovenil contrasto.
Tesero gli archi, e trasser le quadrella
da le faretre. A tutti gli altri avanti
d'Irtaco il figlio a saettare accinto
col suon del nervo e del pennuto strale
l'aura percosse e sн dritto fendella
che l'albero investн. Tremonne il legno,
spaventossi l'augello; e d'alte grida
risonт 'l campo e la riviera tutta.
Memmo vien dopo, e pon la mira, e scocca:
e 'l misero fra' piи colpisce appunto
in su la corda, e ne recide il nodo.
Libera la colomba a volo alzossi,
e per lo ciel veloce a fuggir diessi.
Eurizio allor, ch'avea giа l'arco teso
e la cocca in sul nervo, al suo fratello
votossi, e trasse; e ne le nubi stesse
(sн come lieta se ne giva e sciolta)
la ferн sн che con lo strale a terra
cadde trafitta, e lasciт l'alma in cielo.
Sol vi restava Aceste, a cui la palma
era giа tolta: ond'ei scoccт ne l'alto
lo strale a vтto, e la destrezza e l'arte
mostrт nel gesto e nel sonar de l'arco.
Quinci subitamente un mostro apparve
di meraviglia e di portento orrendo;
come si vide, e come interpretato
fu poi da formidabili indovini.
Chй la saetta in su le nubi accesa
quanto volт, tanto di fiamma un solco
si trasse dietro, infin ch'ella nel foco,
e 'l foco in aura dileguossi e sparve.
Tal sovente dal ciel divelta cade
notturna stella, e trascorrendo lascia
dopo sй lungo e luminoso il crine.
A questo augurio attoniti i Sicani
e i Teucri tutti, umilemente a terra
gittвrsi, ed agli dii pace chiedero.
Solo Enea per sinistro e per infausto
non l'ebbe; e 'l vecchio Aceste, che gioioso
era di ciт, gioiosamente accolse,
e molti doni appresentogli, e disse:
«Prendi, padre, da me questi che scevri
dagli altri onori a te destina il cielo
con questi auspici, e questa coppa in prima,
un de' piъ cari a me paterni arredi,
e caro e prezпoso al padre mio,
e per l'intaglio, e per la rimembranza
del buon re Cisso, che fra gli altri doni
questo in Tracia gli diи pegno e ricordo
de l'amor suo». Cosн dicendo, il fronte
gli ornт di verde alloro, e dichiarollo
vincitor primo. Nй di ciт sentissi
il buon Eurizio offeso, ancor ch'ei solo
fosse de la colomba il feritore.
Di lui fu poscia il guiderdon secondo.
Chi recise la corda ottenne il terzo:
e l'ultim'ebbe chi confisse il legno.
Non era ancor questa contesa al fine,
quando in disparte Epнtide chiamando
un che di Iulo era custode e guida:
«Va, - gli disse a l'orecchio, - e fa che Ascanio
si spinga avanti, se le schiere in punto
ha de' fanciulli, e ch'armeggiando onori
la memaria de l'avo». Impone intanto
che la gente s'apparti, e il circo tutto
quanto и largo si sgombri e quant'и lungo.
Giа si mettono in via; giа nel cospetto
vengon de' padri i pargoletti eroi
su frenati destrier lucenti e vaghi.
Solo a veder gli abbigliamenti e i gesti,
ne sta di Troia e di Sicilia il volgo
meraviglioso, e ne gioisce e freme.
Parte ha di lor una ghirlanda in testa,
e sotto accolto e raccorciato il crine:
parte ha l'arco e 'l turcasso, e d'oro un fregio
che da le spalle attraversando il petto
sen va di serpe attorcigliato in guisa.
Eran tutti in tre schiere; avean tre duci,
e ciascun duce conducea di loro
tre volte quattro, e 'n tre luoghi spartiti,
facean pomposa ed ordinata mostra.
L'una de le tre schiere avea per capo
Priamo novello, di Polнte il figlio,
e di cui nome avea nipote illustre,
grand'acquisto d'Italia. Il suo destriero
era nato di Tracia d'un mantello
vario, balzаn d'un piи, stellato in fronte.
Ati fu l'altro, onde i Latini han dato
nome a l'Attia famiglia: un fanciul caro
al garzonetto Iulo. Iulo il terzo,
ma di bellezza e di valore il primo,
cavalcava un corsier che sorпano
era di razza, e de la bella Dido
l'avea per un ricardo e per un pegno
de l'amor suo. Gli altri fanciulli tutti
eran d'Aceste in su' cavalli assisi.
Con gran letizia, e con gran plauso i Teucri
gli ricevкr come che timidetti
fossero in prima, e le sembianze in loro
avvisaro e 'l valor de' padri stessi.
Poscia che passeggiando al circo intorno
girвrsi in lenta e grazпosa mostra,
si disposero al corso; e mentre accolti
se ne stavano a ciт schierati in fila
da l'un de' capi, Epнtide da l'altro
diи lor col suon de la sua sferza il cenno.
Corsero a tre per tre, pari e disgiunti
l'una schiera da l'altra, e rivolgendo
tornвr di dardi e di saette armati.
Indi a cacciarsi, a rincontrarsi, a porsi
in varie assise, ad uno ad uno, a molti,
a tutti insieme, a far volte, rivolte,
e giri e mischie in piъ modi si diкro;
or fuggendo, or seguendo; or come infesti
or come amici. In quante guise a zuffa
si viene in campo; in quante si discorre
per le molte intricate e cieche strade
del labirinto che si dice in Creta
esser costrutto; in tante s'aggiraro,
si confusero insieme, e si spartiro
de' Teucri i figli: e tali anco i delfini
per l'Iцnio scherzando o per l'Egeo
fan giravolte e scorribande e tresche.
Questi tornпamenti e queste giostre
rinnovт poscia Ascanio, allor ch'eresse
Alba la lunga; appresongli i Latini;
gli mantenner gli Albani; e d'Alba a Roma
fur trasportati, e vi son oggi; e come
e l'uso e Roma e i giuochi derivati
son da' Troiani, hanno or di Troia il nome.
Questi eran fino a qui del santo vecchio
celebrati al sepolcro onori e ludi,
allor che la fortuna ai Teucri infida
un nuovo storpio agl'infelici ordio:
chй mentre erano in ciт parte occupati,
e tutti intesi, la saturnia Giuno
da l'antico odio spinta, e de' lor danni
non ancor sazia, Iri coi vиnti in prima
venir si fece; e poichй instrutta l'ebbe
di ciт ch'er'uopo, a la troiana armata
le commise ch'andasse. Ella veloce
infra mille suoi lucidi colori
occulta ed invisibile calossi.
Vide sul lito una gran gente accolta
da l'un de' lati; il porto abbandonato
da l'altro, e vтti e senza guardia i legni.
Vide poi che da gli uomini in disparte
stavan le donne d'Ilio, il morto Anchise
piangendo anch'esse; e ne' lor pianti il mare
mirando: «Oh - dicean tutte - ancor di tanto,
e con tanti perigli e tanti affanni
ne resta a navigarlo, e siam giа vinte
da la stanchezza!», in ciт desio mostrando
di ricetto e di posa, e tйma e tedio
di rimbarcarsi. Ella, che a nuocer luogo
e tempo vide accomodato ed atto,
deposto de la dea l'abito e 'l volto,
tra lor si mise, e Bиrцe si fece,
una vecchia d'aspetto e d'anni grave,
che del tracio Dorнclo era giа moglie,
di famiglia, di nome e di figliuoli
matrona illustre; e, tal sembrando, disse:
«O meschinelle, a cui per man de' Greci
non fu sotto Ilio di morir concesso,
gente infelice, a che strazio, a che scempio
la fortuna vi serba! Ecco giа volge
il settim'anno, da che Troia cadde,
che 'l mar, la terra, il ciel, gli uomini, i sassi
avete incontro; e pur Lazio seguite
che vi fugge davanti? Or che vi toglie
di qui fermarvi? Non fыr questi liti
d'un giа frate d'Enea? Non son d'Aceste,
ospite nostro? E perchй qui non s'erge
la cittа che dal ciel ne si destina?
O patria! o da' nemici invan ritolti
santi numi Penati! Invano adunque
aspetterem de la novella Troia
le desпate mura! e non fia mai
che piъ Xanto veggiamo e Simoenta?
Su, figlie; mano al foco; e queste infauste
navi ardete con me: ch'io da Cassandra
di cosн far son ammonita in sogno.
Ella con un'ardente face in mano
questa notte m'apparve, e m'era avviso
d'esser, com'or son, vosco, e ch'ella vтlta
vкr noi: "Prendete, - ne dicesse - e Troia
cercate qui; chй qui posar v'и dato".
Or questa и nostra patria, e questo и 'l tempo
di compir l'opra che 'l prodigio accenna.
Piъ non s'indugi. Ecco Nettuno stesso
con questi quattro a lui sacrati altari
ne dа l'occasпon, l'animo e 'l foco».
Ciт disse; ed ella in prima un tizzo ardente
rapн da l'are; e 'l braccio alto vibrando
via piъ l'accese, e vиr le navi il trasse.
Confuse ne restaro e stupefatte
le donne d'Ilio; e Pirgo, una di loro
ch'era d'anni maggiore, e fu di molti
figli del gran re Prпamo nutrice:
«Donne, - disse - non и, non и costei
nй Troiana, nй Bиrцe, nй moglie
fu di Dorнclo: и dea. Notate i segni:
com'arde ne la vista, e quali spira
ne l'andar, ne la voce e nel sembiante
celesti onori. Io pur testй mi parto
da Bиrцe, che, di corpo egra, languendo
stassi, e sdegnando che a quest'atto sola
nosco non intervenga». E qui si tacque.
Le madri paventose e dubbie in prima
con gli occhi biechi rimirвr le navi,
sospese le meschine infra l'amore
di godersi la terra, e la speranza
che perdean de' reami, a cui chiamate
eran dal fato. Intanto alto in su l'ali
la dea levossi, e tra le opache nubi
per entro al suo grand'arco ascese, e sparve.
Allor dal mostro spaventate, e spinte
da cieca furia, s'avventвr gridando:
e di faci e di frondi e di virgulti
spogliaro altre gli altari, altre infocaro
i legni sн che in un momento appresi
i banchi, i remi e l'impeciate poppe
mandвr fiamme e scintille e fumo al cielo.
Portт di questo incendio Eumelo avviso
lа 've al sepolcro era la gente accolta,
e de l'incendio stesso un atro nembo
ne diи fumando e scintillando indizio.
Ascanio il primo (sн com'era avanti,
duce del corso) al mar si spinse in guisa
che i suoi maestri impallidоr per tйma,
e richiamando lo seguiro in vano.
Giunto che fu: «Che furor - disse - и questo?
Dove, dove ne gite? e che tentate,
misere cittadine? Ah! che non questi
de' Greci i legni o gli steccati sono.
Voi di voi stesse le speranze ardete.
Io sono il vostro Ascanio». E qui l'elmetto,
onde a la giostra era comparso armato,
gittossi a' piи. Cуrsevi intanto Enea:
vi corsero de' Teucri e de' Sicani
le schiere tutte. Allor per tйma sparse
le donne per lo lito e per le selve
se ne fuggiro, ed appiattвrsi ovunque
ebber di rupi o di spelonche incontro:
chй, pentite del fallo, odiвr la luce,
cangiвr pensieri, e con l'amor de' suoi
Iri del petto disgombrвrsi e Giuno.
Ma non perт l'indomito furore
cessт del foco; chй la secca stoppa,
e l'unta pece, e gli aridi fomenti
l'avean fin dentro a le giunture appreso;
onde nel molle, ancor vivo, esalava
un lento fumo, e penetrava i fondi
sн ch'ogni forza, ogni argomento umano,
e 'l mare stesso, che da tante genti
sopra gli si versava, erano in vano.
Squarciossi Enea da gli omeri la veste
ch'avea lugъbre, e da' celesti aнta
chiedendo, al ciel volse le palme, e disse:
«Onnipotente Giove, se de' Teucri
ancor non t'и, senza riservo, in ira
la gente tutta, e se, qual sei, pietoso
miri gli umani affanni, a tanto incendio
ritogli, padre, i male addotti legni;
ritogli a morte queste poche afflitte
reliquie de' Troiani; o quel che resta
tu col tuo proprio tиlo, e di tua mano
(se tale и il merto mio) folgora e spegni».
Ciт disse a pena, che da torbidi Austri,
e da nera tempesta il cielo involto
in disusata pioggia si converse.
Tremaro i campi, si crollaro i monti
al suon de' tuoni: a cateratte aperte
traboccвr da le nubi i nembi e i fiumi.
Cosн sotto dal mar, sovra dal cielo
le giа quasi arse navi in mezzo accolte
furon da l'acque: onde le fiamme in prima,
poscia il vapor s'estinse, e tutte spente,
se non se quattro, si salvaro al fine.
Di sн fero accidente Enea turbato,
molti e gravi pensier tra sй volgendo,
stava infra due, se per suo novo seggio
(posto il fato in non cale) ei s'eleggesse
de la Sicilia i campi, o pur di lungo
cercasse Italia. In ciт Naute, un vecchione,
ch'era (mercй di Pallade e degli anni)
di molta esperпenza e di gran senno,
o fosse ira di dio che lo movesse,
o pur ch'era cosн nel ciel prescritto,
in cotal guisa a suo conforto disse:
«Magnanimo signor, comunque il fato
ne tragga o ne ritragga, e che che sia,
vincasi col soffrire ogni fortuna.
Aceste и qui, ch'и del dardanio seme
e di stirpe celeste un ramo anch'egli.
Prendi lui per compagno al tuo consiglio,
e con lui ti confedera e t'aduna,
che in grado prenderallo; e tu de' tuoi
ciт che t'avanza per gli adusti legni,
o fastidito и di sн lungo esiglio,
o che langua o che tema, o che sia manco
per etate o per sesso, a lui si lasci,
ch'и pur troiano; ed ei lor patria assegni,
che dal nome di lui si nomi Acesta».
S'accese al detto del suo vecchio amico
il troian duce; e trapassando d'uno
in un altro pensiero, era giа notte,
quando l'imago del suo padre Anchise
veder gli parve, che dal ciel discesa
in tal guisa dicesse: «O figlio, amato
vie piъ de la mia vita infin ch'io vissi,
figlio, che segno sei de le fortune,
e del fato di Troia, io qui mandato
son dal gran Giove, che dal ciel pietoso
ti mirт dianzi, e i tuoi legni ritolse
da l'orribile incendio. Attendi al detto
del vecchio Naute, e ne l'Italia adduci
(sн come ei fedelmente ti consiglia)
de la tua gioventъ soli i piъ scelti,
i piъ sani, i piъ forti e i piъ famosi,
ch'ivi aspra gente e ruvida e feroce
domar convienti. Ma convienti in prima
per via d'Averno, ne l'inferno addurti,
e meco ritrovarti, ov'ora io sono,
figlio, non giа nel Tartaro, o fra l'ombre
de le perdute genti; ma felice
tra i felici e tra' pii, per quelli ameni
elisi campi mi diporto e godo.
A questi lochi, allor che molto sangue
avrai di negre pecorelle sparso,
ti condurrа la vergine Sibilla.
Ivi conto saratti il tuo legnaggio,
e 'l tuo seggio fatale: e qui ti lascio,
giа che varcato и de la notte il mezzo,
e del nimico sol dietro anelando
i veloci destrier venir mi sento».
E ciт dicendo, allontanossi e sparve.
«Dove, padre, ne vai, dove t'ascondi? -
dicendo Enea, - chi fuggi? o chi ti toglie
da le mie braccia?» al giа sopito foco
si trasse, e lo raccese; e incenso e farro
offrн devoto ai sacrosanti numi
de l'alma Vesta e de' suoi patrii Lari.
Indi i compagni, e pria di tutti Aceste,
de l'imperio di Giove e de' ricordi
del caro padre incontinente avvisa,
e 'l suo parer ne porge. In un momento
si propon, si consulta, e s'eseguisce.
Aceste non recusa; e giа descritti
i nomi de le madri, degl'infermi,
e de le genti che mestiero o cura
avean piъ di riposo che di lode,
essi pochi, ma scelti, e guerrier tutti,
rivolti a risarcir gli adusti legni,
rinnovaron le sarte, i remi, i banchi,
e ciт che 'l foco avea corroso ed arso.
Enea de la cittа le mura intanto
insolca, e i lochi assegna; e parte Troia,
e parte Ilio ne chiama, e re n'appella
il buon troiano Aceste. Ei lieto il carco
ne prende; indнce il fтro, elegge i padri,
ode, giudica e manda. Allora in cima
de l'Ericinio giogo il gran delъbro
surse a Venere idalia: e i sacerdoti
gli si addissero in prima. Allor s'aggiunse
al tumulo d'Anchise il sacro bosco.
Avea giа nove dн fatti solenni
sarifici e conviti; e 'l mare e i vиnti
eran placidi e queti. Austro sovente
spirando, in alto i lor legni invitava,
quando un pianto dirotto per lo lito
levossi, un condolersi, un abbracciarsi
che tutto il dн durт, tutta la notte.
Le meschinelle donne, e quegli stessi,
cui dianzi spaventosa era la faccia
e 'l nome intollerabile del mare,
voglion di nuovo ogni marin disagio
soffrire, e de l'esiglio ogni fatica.
Ma li racqueta e li consola Enea
con dolci modi, e lagrimando alfine
da lor si parte, ed al suo caro Aceste
quanto puт caramente gli accomanda.
Poscia, fatta al grand'Иrice in sul lito
di tre giovenchi offerta, e d'un'agnella
a le Tempeste, si rimbarca e scioglie.
Ed ei stesso altamente in su la proda,
cinto il capo d'oliva, una gran tazza
in man si reca, e di lenиo liquore
e di viscere sacre il mare asperge.
Sorgea da poppa il vento, e le sals'onde
ne gian solcando i remiganti a gara,
quando del figlio Citerea gelosa
Nettuno assalse, e seco querelossi
in cotal guisa: «La grav'ira e l'odio
di Giuno insazпabile m'inchina
ad ogni priego; poscia che nй 'l tempo,
nй la pietа, nй Giove, nй 'l destino
acquetar non la ponno. E non le basta
d'aver giа Troia desolata ed arsa,
che le reliquie, il nome e l'ossa e 'l cenere
ne perseguita ancora. Ella ne sappia,
ella ne dica la cagione. Io chiamo
te per mio testimon de l'improvisa
micidпal tempesta che pur dianzi
per mezzo de l'eolide procelle
mosse lor contra (tua mercede) invano.
Or ha l'iniqua per le mani stesse
de le teucre matrone i teucri legni
dati sн bruttamente al foco in preda,
perchй i meschini, arse le navi loro,
sian di lasciare i lor compagni astretti
per le terre straniere. Or quel che resta,
e ch'a te chieggo, и che il tuo regno omai
sia lor sicuro, e ch'una volta alfine
tocchin del Tebro e di Laurento i campi:
se perт quel ch'io chieggo и che dal cielo
al mio figlio si debba, e se quel seggio
ne dan le Parche e 'l Fato». A lei de l'onde
rispose il domatore: «Ogni fidanza
prender puoi, Citerea, ne' regni miei
onde tu pria nascesti. E non son pochi
ancor teco i miei merti; chй piъ volte
ho per Enea l'ira e il furore estinto
e del mare e del cielo. Ed anco in terra
non ebb'io (Xanto e Simoenta il sanno)
de la salute sua cura minore,
allor ch'Achille a le troiane schiere
sн parve amaro, e che fin sotto al muro
le cacciт d'Ilio, e tal di lor fe' strage,
che ne gоr gonfi e sanguinosi i fiumi:
e Xanto da' cadaveri impedito
sboccт ne' campi, e deviт dal mare.
Era quel giorno Enea d'Achille a fronte,
nй dii, nй forze avea ch'a lui del pari
stessero incontro. Io fui che ne la nube
allor l'ascosi; io che di man ne 'l trassi,
quando piъ d'atterrar avea desio
quelle mura odпose e disleali,
che pur de le mie mani eran fattura.
Or ti conforta che vиr lui son io
qual fui mai sempre, e come agogni, il porto
attingerа sicuramente; e 'l lago
vedrа d'Averno, e de' suoi tutti un solo
gli mancherа. Sol un convien che pиra
per condur gli altri suoi lieti e sicuri».
Poichй di Citerea la mente queta
ebbe de l'onde il padre, i suoi cavalli
giunti insieme e frenati, a lente briglie
sovra de l'alto suo ceruleo carro
abbandonossi, e lievemente scуrse
per lo mar tutto. S'adeguaron l'onde,
si dileguвr le nubi: ovunque apparve,
tutto sgombrossi, del suo corso al suono,
ch'avea di torbo il ciel, di gonfio il mare.
Cingean Nettuno allor da la man destra
torme di pistri e di balene immani,
di Glauco il vecchio coro, e d'Ino il figlio,
e i veloci Tritoni, e tutto insieme
lo stuol di Forco. Da sinistra intorno
gli era Teti, Melite e Panopиa,
Spпo, Nisea, Cimтdoce e Talнa.
Qui per l'amara dipartenza afflitto,
il padre Enea rasserenossi in parte,
e ciт che a navigar facea mestiero
gioiosamente a' suoi compagni impose.
Tirвr l'antenne, inalberвr le vele,
sciolsero, ammaпnвr, calaro, alzaro,
fкr le marinaresche lor bisogne
tutti in un tempo, ed in un tempo insieme
drizzвr le prore al mar, le poppe al vento.
Innanzi a tutti con piъ legni in frotta
gia Palinuro, il provvido nocchiero,
e gli altri dietro lui di mano in mano.
Era l'umida notte a mezzo il cerchio
del ciel salita, e giа languidi e stanchi
su i duri legni i naviganti agiati
prendean quпete; quando ecco da l'alte
stelle placido e lieve il Sonno sceso
si fece quanto avea d'aлre intorno
sereno e queto: e te, buon Palinuro,
senza tua colpa, insidпoso assalse,
portando a gli occhi tuoi tenebre eterne.
Ei di Forbante, marinaro esperto,
presa la forma, come noto, appresso
in su la poppa gli si pose, e disse:
«Tu vedi, Palinuro: il mar ne porta
con le stesse onde, e 'l vento ugual ne spira.
Temp'и che pтsi omai: china la testa,
e fura gli occhi a la fatica un poco,
poscia ch'io son qui teco, e per te veglio».
Cui Palinuro, giа gravato il ciglio,
cosн rispose: «Ah! tu non credi adunque
ch'io conosca del mar le perfid'onde,
e 'l falso aspetto? A tale infido mostro
ch'io fidi il mio signore e i legni suoi?
ch'al fallace sereno, a i vиnti instabili
presti fede io, che son da lor deluso
giа tante volte? E, ciт dicendo, avea
le man ferme al timon, gli occhi a le stelle.
Il Sonno allora di letиo liquore
e di stigio veleno un ramo asperso
sovra gli scosse, e l'una tempia e l'altra
gli spruzzт sн che gli occhi ancor rubelli
gli strinse, gli gravт, gli chiuse al fine.
A pena avean le prime gocce infusa
la lor virtъ, che 'l buon nocchier disteso
ne giacque: e 'l dio col suo mentito corpo
sopra gli si recт, pinse e sconfisse
un gheron de la poppa, e lui con esso
e col temon precipitт nel mare.
Nй gli valse a gridar, cadendo, aнta;
chй l'un qual pesce, e l'altro qual augello,
questi ne l'onda, e quei ne l'aura sparve.
Nй l'armata ne gio perт men ratta,
nй men sicura; chй Nettuno stesso,
come promesso avea, la resse e spinse.
Era delle Sirene omai solcando
giunta agli scogli, perigliosi un tempo
a' naviganti; onde di teschi e d'ossa
d'umana gente si vedean da lunge
biancheggiar tutti. Or sol, di canti in vece,
se n'ode un roco suon di sassi e d'onde.
Era, dico, qui giunta, allor ch'Enea
al vacillar del suo legno s'accorse
che di guida era scemo e di temone:
ond'egli stesso, infin che 'l giorno apparve,
se ne pose al governo, e 'l caso indegno
del caro amico in tal guisa ne pianse:
«Troppo al sereno, e troppo a la bonaccia
credesti, Palinuro. Or ne l'arena
dal mar gittato in qualche strano lito
ignudo e sconosciuto giacerai,
nй chi t'onori avrai, nй chi ti copra».

LIBRO SESTO

Cosн piangendo disse: e navigando
di Cuma in vиr l'euboпca riviera
si spinse a tutto corso, onde ben tosto
vi furon sopra, e v'approdaro alfine.
Volser le prue, gittвr l'ancore; e i legni,
sн come stкro un dopo l'altro in fila,
di lungo tratto ricovrоr la riva.
Lieta la gioventъ nel lito esperio
gittossi: ed in un tempo al vitto intesi,
chi qua, chi lа si diкro a picchiar selci,
a tagliar boschi, a cercar fiumi e fonti.
Intanto Enea verso la rтcca ascese,
ove in alto sorgea di Febo il tempio,
e lа dov'era la spelonca immane
de l'orrenda Sibilla, a cui fu dato
dal gran delio profeta animo e mente
d'aprir l'occulte e le future cose.
Avea di Trivia giа varcato il bosco,
quando avanti di marmo ornato e d'oro
il bel tempio si vide. И fama antica
che Dedalo, di Creta allor fuggendo
ch'ebbe ardimento di levarsi a volo
con piъ felici e con piъ destre penne
che 'l suo figlio non mosse, il freddo polo
vide piъ presso; e per sentier non dato
a l'uman seme, a questo monte alfine
del calcidico seno il corso volse.
Qui giunto e fermo, a te, Febo, de l'ali
l'ordigno appese, e 'l tuo gran tempio eresse,
ne le cui porte era da l'un de' lati
d'Andrтgлo la morte, e quella pena
che di Cиcrope i figli a dar costrinse
sette lor corpi a l'empio mostro ogn'anno:
miserabil tributo! e v'era l'urna,
onde a sorte eran tratti. Eravi Creta
da l'altro lato, alto dal mar levata,
ch'avea del tauro istorпata intorno
e di Pasнfe il bestпale amore,
e la bestia di lor nata biforme,
di sн nefando ardor memoria infame.
Eravi l'intricato laberinto:
eravi il filo, onde gl'intrighi suoi
e le sue cieche vie Dedalo stesso,
per pietа ch'ebbe a la regina, aperse.
E tu, se 'l pianto del tuo padre e 'l duolo
nol contendea, saresti, Icaro, a parte
di sн nobil lavoro. Ma due volte
tentт ritrarti in oro, ed altrettante
sн l'abborrн, che l'opera e lo stile
di man gli cadde. Era con gli altri Enea
tutto a mirar sospeso, quando Acate
tornт, ch'era precorso, e seco addusse
Deпfobe di Glauco, una ministra
di Dпana e d'Apollo. Ella rivolta
al frigio duce: «Non и tempo, - disse, -
ch'a ciт si badi. Or и d'offrir mestiero
sette non domi ancor giovenchi, e sette
negre pecore elette». E ciт spedito
tosto, come s'impose, ella nel tempio
seco i Teucri condusse. И da l'un canto
dell'euboпca rupe un antro immenso
che nel monte penиtra. Avvi d'intorno
cento vie, cento porte; e cento voci
n'escono insieme, allor che la Sibilla
le sue risposte intuona. Era a la soglia
il padre Enea, quando: «Ora и 'l tempo - disse
la vergine. - Di', di'; chiedi tue sorti:
ecco lo dio ch'и giа comparso e spira».
Ciт dicendo, de l'antro in su la bocca
in piъ volti cangiossi e in piъ colori;
sconmpigliossi le chionme; aprissi il petto;
le battй 'l fianco, e 'l cor di rabbia l'arse.
Parve in vista maggior; maggior il tuono
fu che d'umana voce; e poichй 'l nume
piъ le fu presso: «A che badi, - soggiunse -
figlio d'Anchise? Se non di', non s'apre
questa di Febo attonita cortina».
E qui si tacque. Orror per l'ossa e gelo
corse allor de' Troiani; e 'l teucro duce
infin de l'imo petto orт dicendo:
«Febo, la cui pietа mai sempre a Troia
fu propizia e benigna, onde di Pari
giа reggesti la man, drizzasti il tиlo
contro al corpo d'Achille, io, dal tuo lume
scтrto fin qui, tanto di mare ho corso,
tante terre ho girate, a tanti rischi
mi son esposto; insino a le remote
massнle genti, insin dentro a le Sirti
son penetrato; ed or, per tua mercede,
di questa fuggitiva Italia il lito
ecco giа tocco, e ci son giunto al fine.
Ah, che questo sia il fine, e qui rimanga
l'infortunio di Troia! И tempo omai,
dii tutti e dee, cui la dardania gente
unqua fece onta, che perdono e pace
le concediate. E tu, vergine santa,
del futuro presaga, or ne dimostra
il seggio e 'l regno che ne dаnno i fati
(se pur nel dаnno) ove i Troiani afflitti,
ove di Troia i travagliati numi,
e i dispersi Penati alberghi e posi;
ch'allor di saldo marmo a Trivia, a Febo
ergerт i templi, e del suo nome i ludi
consacrerolli, e i dн fиsti e solenni;
ed ancor tu nel nostro regno avrai
sacri luoghi reposti, ove serbati
per lumi e specchi a le future genti
da venerandi a ciт patrizi eletti
saranno i detti e i vaticini tuoi.
Quel che prima ti chieggio и che i tuoi carmi
s'odan per la tua lingua, e non che in foglie
sian da te scritti, onde ludibrio poi
sian di rapidi vиnti». E piъ non disse.
Ella giа presa, ma non doma ancуra
dal febиo nume, per di sotto trarsi
a sн gran salma, quasi poltra e fiera
scapestrata giumenta, per la grotta
imperversando e mugolando andava.
Ma com' piъ si scotea, piъ dal gran dio
era affrenata, e le rabbiose labbia
e l'efferato core al suo misterio
piъ mansueto e piъ vinto rendea.
Eran da lor giа della grotta aperte
le cento porte, allor ch'ella gridando
cosн mandт la sua risposta a l'aura:
«Compнti son del mar tutti i pericoli;
restan quei de la terra, che terribili
saran veracemente e formidabili.
Verranno i Teucri al regno di Lavinio:
di ciт t'affido. Ma ben tosto d'esservi
si pentiranno. Guerre, guerre orribili
sorger ne veggio, e pien di sangue il Tevere.
Saravvi un altro Xanto, un altro Simoi,
altri Greci, altro Achille, che progenie
ancor egli и di dea. Giuno implacabile
allor piъ ti sarа, che supplichevole
andrai d'Italia a quai non terre o popoli
d'aнta mendicando e di sussidii!
E fian di tanto mal di nuovo origine
d'esterna moglie esterne sponsalizie.
Ma 'l tuo cor non paventi, anzi con l'animo
supera le fatiche e gl'infortunii;
chй tua salute ancor da terra argolica
(quel che men credi) avrа lume e principio».
Questi intricati e spaventosi detti
dal piъ reposto loco alto mugghiando,
la cumиa profetessa empiea lo speco
d'orribil tuoni: e come il suo furore
era da Febo raffrenato o spinto,
o dal suo raggio avea barbaglio o lume,
cosн miste le tenebre col vero
sciogliea la lingua, e disgombrava il petto.
Poichй la furia e la rabbiosa bocca
quetossi, Enea ricominciando, disse:
«Vergine, a me nulla si mostra omai
faccia nй di fatica nй d'affanno,
che mi sia nuova, o non pensata in prima.
Tutto ho previsto, tutto ho presentito,
che da te m'и predetto; e tutto io sono
a soffrir preparato. Or sol ti chieggio
(poscia che qui si dice esser l'intrata
de' regni inferni, e d'Acheronte il lago)
che per te quinci nel cospetto io venga
del mio diletto padre; e tu la porta,
tu 'l sentier me ne mostra, e tu mi guida.
Io lui dal fuoco e da mill'armi infeste
tratto ho di mezzo a le nimiche schiere
su queste spalle; ed ei scorta e compagno
del mio viaggio e del mio esiglio, meco
i perigli, i disagi e le tempeste
del mar, del cielo e de l'etа soffrendo,
vиglio, debile e stanco ha me seguнto;
ed egli stesso m'ha nel sonno imposto
che a te ne venga, e per tuo mezzo a lui
mi riconduca. Abbi pietа, ti priego,
e del padre e del figlio; ed ambi insieme,
come puoi (che puoi tutto), or ne congiungi:
ch'Иcate non indarno a queste selve
t'ha d'Averno preposta. Il tracio Orfeo
(sola mercй de la sonora cetra)
scender potevvi, e richiamarne in vita
l'amata donna. Ne potй Polluce
ritrarre il frate, ed a vicenda seco
vita e morte cangiando, irvi e redirvi
tante fпate. Andovvi Tиseo; andovvi
il grande Alcide; ed ancor io dal cielo
traggo principio, e son da Giove anch'io».
Cosн pregando avea le braccia avvinte
al sacro altare, allor che la Sibilla
a dir riprese: Enea, germe del cielo,
lo scender ne l'Averno и cosa agevole
chй notte e dн ne sta l'entrata aperta;
ma tornar poscia a riveder le stelle,
qui la fatica e qui l'opra consiste.
Questo a pochi и concesso, ed a quei pochi
ch'a Dio son cari, o per uman valore
se ne poggiano al cielo. A questi и dato
come a' celesti. Il loco tutto in mezzo
и da selve intricato, e da negre acque
de l'infernal Cocнto intorno и cinto.
Ma se tanto disio, se tanto amore
t'invoglia di veder due volte Stige
e due volte l'abisso, e soffrir osi
un cosн grave affanno, odi che prima
oprar convienti. И ne la selva opaca,
tra valli oscure e dense ombre riposto
e ne l'arbore stesso un lento ramo
con foglie d'oro, il cui tronco и sacrato
a Giuno inferna: e chi seco divelto
questo non porta, ne' secreti regni
penetrar di Plutone unqua non pote.
Ciт la bella Prosиrpina comanda,
che per suo dono il chiede; e svиlto l'uno,
tosto l'altro risorge, e parimente
ha la sua verga e le sue chiome d'oro.
Entra nel bosco, e con le luci in alto
lo cerca, il trova, e di tua man lo sterpa;
ch'agevolmente sterperassi, quando
lo ti consenta il fato. In altra guisa
nй con man, nй con ferro, nй con altra
umana forza mai fia che si schianti,
o che si tronchi. Oltre di ciт, nel lito
(mentre qui badi e la risposta attendi)
giace, lasso! d'un tuo, che tu non sai,
disanimato e non sepolto un corpo,
che tutti rende i tuoi legni funesti.
A questo procurar seggio e sepolcro
pria converratti. Or per sua purga in prima
negre pecore adduci; e 'n cotal guisa
vedrai gli elisi campi, e i stigi regni
cui vedere a' mortali anzi a la morte
non и concesso». E qui la bocca chiuse.
Enea gli occhi abbassando, afflitto e mesto
de l'antro uscio, tra se stesso volgendo
l'oscure profezie. Giva con lui
il fido Acate, e con lui parimente
traea pensieri e passi. Erano entrambi
ragionando in pensar di qual amico,
di qual corpo insepolto ella parlasse,
che coprir si dovesse: allor che giunti
nel secco lito in su l'arena steso
vider Miseno indegnamente estinto;
Miseno il figlio d'Eolo, ch'araldo
era supremo e col suo fiato solo
possente a suscitar Marte e Bellona.
Era costui del grand'Ettтr compagno,
e de' piъ segnalati intorno a lui
combattendo, or la tromba ed or la lancia
adoperava: e poi che 'l fiero Achille
Ettore ancise, come ardito e fido,
seguн l'arme d'Enea: chй non fu punto
inferiore a lui. Stava sul mare
sonando il folle con Tritone a gara,
quando da lui, ch'astio sentinne e sdegno
(se creder dкssi), insidпosamente
tratto giъ da lo scoglio ov'era assiso,
fu ne l'onde sommerso. Al corpo intorno
convocati giа tutti, amaro pianto
ed alte strida insieme ne gittaro;
e piъ de gli altri Enea. Poscia seguendo
quel ch'era lor da la Sibilla imposto,
gli apprestaron l'esequie. Entrвr nel bosco,
di fere antico albergo; ed elci ed orni
e frassini atterrando, alzвr gli altari;
poser la tomba, fabbricвr la pira,
e la spinsero al cielo. Il frigio duce
fra le sue schiere di bipenne armato
a par degli altri, e piъ di tutti ardente,
di propria mano adoperando, a l'opra
esortava i compagni; e fra se stesso
pensoso, inverso il bosco il guardo inteso,
cosн pregava: «Oh se quel ramo d'oro
ne si scoprisse in questa selva intanto,
come n'ha la Sibilla, ahimи, pur troppo
di te, Miseno, annunzпato il vero!»
Ciт disse a pena, ed ecco da traverso
due colombe venir dal ciel volando,
ch'avanti a lui sul verde si posaro.
Conobbe il magno eroe le messaggiere
de la sua madre, e lieto orando: «O, - disse, -
siatemi guide voi, materni augelli,
s'a ciт sentier si truova; ite per l'aura
drizzando il nostro corso, ov'и de l'ombra
del prezпoso arbusto il bosco opaco.
E tu, madre benigna, in sн dubbioso
passo, del lume tuo ne porgi aнta».
E, ciт detto, fermossi. Elle pascendo,
andando, saltellando, a scosse, a volo,
quanto l'occhio scorgea, di mano in mano
giunsero ove d'Averno era la bocca:
e 'l tetro alito suo schivando, in alto
ratte l'ali spiegaro, e dal ciel puro
al desпato loco in giъ rivolte,
si posвr sopra a la gemella pianta;
indi tra frondi e frondi il color d'oro,
che diverso dal verde uscia raggiando,
di tremulo splendor l'aura percosse.
Come ne' boschi al brumal tempo suole
di vischio un cesto in altrui scorza nato
spiegar verdi le frondi e gialli i pomi,
e con le sue radici ai non suoi rami
abbarbicarsi intorno; cosн 'l bronco
era de l'oro avviticchiato a l'elce,
ond'era surto, e cosн lievi al vento
crepitando movea l'aurate foglie.
Tosto che 'l vide Enea, di piglio dielli,
e disпoso, ancor che duro e valido
gli sembrasse, a la fin lo svelse; e seco
a l'indovina vergine lo trasse.
Non s'intermise di Miseno in tanto
condur l'esequie al suo cenere estremo.
E primamente la gran pira estrutta,
di pingui tede e di squarciati roveri
v'alzвr cataste: di funeste frondi,
d'atri cipressi ornвr la fronte e i lati,
e piantвr ne la cima armi e trofei.
Parte di loro al foco, e parte a l'acque,
e parte intorno al freddo corpo intenti,
chi lo spogliт, chi lo lavт, chi l'unse.
Poichй fu pianto, in una ricca bara
lo collocaro, e di purpuree vesti
de' suoi piъ noti e piъ graditi arnesi
gli feron fregi e mostre e monti intorno.
Altri (pietoso e tristo ministero)
il gran feretro agli omeri addossвrsi;
altri, com'и de' piъ stretti congiunti
antica usanza, vтlti i volti indietro,
tenner le faci, e diкr foco a la pira;
e gran copia d'incenso e di liquori
e di cibi e di vasi ancor con essi,
sн come и l'uso antico, entro gittвrvi.
Poichй cessвr le fiamme, e 'ncenerissi
il rogo e 'l corpo; le reliquie e l'ossa
furon da Corinиo tra le faville
ricerche e scelte; e di vin puro asperse,
poi di sua mano acconciamente in una
di dorato metallo urna reposte.
Lo stesso Corinиo tre volte intorno
con un rampollo di felice oliva
spruzzando di chiar'onda i suoi compagni,
li purgт tutti, e 'l vale ultimo disse.
Oltre a ciт, fece Enea per suo sepolcro
ergere un'alta e sontuosa mole,
e l'armi e 'l remo e la sonora tuba
al monte appese, che d'Aлrio il nome
fino allor ebbe, ed or da lui nomato
Miseno и detto, e si dirа mai sempre.
Ciт finito, a finir quel che gl'impose
la profetessa, incontinente mosse.
Era un'atra spelonca, la cui bocca
fin dal baratro aperta, ampia vorago
facea di rozza e di scheggiosa roccia.
Da negro lago era difesa intorno,
e da selve ricinta annose e folte.
Uscia de la sua bocca a l'aura un fiato
anzi una peste, a cui volar di sopra
con la vita agli uccelli era interdetto;
onde da' Greci poi si disse Averno.
Qui pria quattro giovenchi Enea condotti
di negro tergo, la Sibilla in fronte
riversт lor di vin le tazze intere;
e da ciascun di mezzo le due corna
di setole maggiori il ciuffo svиlto,
diи per saggio primiero al santo foco,
Ecate ad alta voce in ciт chiamando,
de l'Erebo e del ciel nume possente.
Parte di lor con le coltella in mano
le vittime svenando, e parte in vasi
stava il sangue accogliendo. Egli a la Notte,
che de le Furie и madre, ed a la Terra
ch'и sua sorella, con la propria spada
di negro vello un'agna, ed una vacca
sterile a te, Proserpina, percosse.
Poscia a l'imperador de' regni inferni
notturni altari ergendo, i tauri interi
sopra a le fiamme impose, e di pingue olio
le bollenti lor viscere consperse.
Ed ecco a l'apparir del primo sole
mugghiт la terra, si crollaro i monti,
si sgominвr le selve, urlвr le Furie
al venir de la dea». «Via, via profani, -
gridт la profetessa, - itene lunge
dal bosco tutto; e tu meco te n'entra,
e la tua spada impugna. Or d'uopo, Enea,
fa d'animo e di cor costante e fermo».
Ciт disse, e da furor spinta, con lui,
ch'adeguava i suoi passi arditamente,
si mise dentro a le secrete cose.
O dii, che sopra l'alme imperio avete,
o tacit'ombre, o Flegetonte, o Cao,
o ne la notte e nel silenzio eterno
luoghi sepolti e bui, con pace vostra
siami di rivelar lecito a' vivi
quel ch'ho de' morti udito. Ivan per entro
le cieche grotte, per gli oscuri e vтti
regni di Dite; e sol d'errori e d'ombre
avean rincontri: come chi per selve
fa notturno viaggio, allor che scema
la nuova luna и da le nubi involta,
e la grand'ombra del terrestre globo
priva di luce e di color le cose.
Nel primo entrar del doloroso regno
stanno il Pianto, l'Angoscia, e le voraci
Cure, e i pallidi Morbi e 'l duro Affanno
con la debil Vecchiezza. Evvi la Tйma,
evvi la Fame: una ch'и freno al bene,
l'altra stimolo al male: orrendi tutti
e spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
la Povertа, la Morte, e, de la Morte
parente, il Sonno. Avvi de' cor non sani
le non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
de le genti omicida, e de le Furie
i ferrati covili, il Furor folle,
l'empia Discordia, che di serpi ha 'l crine,
e di sangue mai sempre il volto intriso.
Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
un olmo opaco e grande, ove si dice
che s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda
v'ha la sua vana imago e 'l suo fantasma.
Molte, oltre a ciт, vi son di varie fere
mostruose apparenze. In su le porte
i biformi Centauri, e le biformi
due Scille: Brпarиo di cento doppi;
la Chimera di tre, che con tre bocche
il fuoco avventa: il gran serpe di Lerna
con sette teste; e con tre corpi umani
Erilo e Gerпone; e con Medusa
le Gуrgoni sorelle; e l'empie Arpie,
che son vergini insieme, augelli e cagne.
Qui preso Enea da sъbita paura
strinse la spada, e la sua punta volse
incontro a l'ombre; e se non ch'ombre e vite
vтte de' corpi e nude forme e lievi
conoscer ne le fe' la saggia guida,
avrebbe impeto fatto, e vanamente
in vane cose ardir mostro e valore.
Quinci preser la via lа 've si varca
il tartareo Acheronte. Un fiume и questo
fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago,
che bolle e frange, e col suo negro loto
si devolve in Cocito. И guardiano
e passeggiero a questa riva imposto
Caron demonio spaventoso e sozzo,
a cui lunga dal mento incolta ed irta
pende canuta barba. Ha gli occhi accesi
come di bragia. Ha con un groppo al collo
appeso un lordo ammanto; e con un palo,
che gli fa remo, e con la vela regge
l'affumicato legno, onde tragitta
su l'altra riva ognor la gente morta.
Vecchio и d'aspetto e d'anni; ma di forze,
come dio, vigoroso e verde и sempre.
A questa riva d'ogn'intorno ognora
d'ogni etа, d'ogni sesso e d'ogni grado
a schiere si traean l'anime spente,
e de' figli anco innanzi a' padri estinti.
Non tante foglie ne l'estremo autunno
per le selve cader, non tanti augelli
si veggon d'alto mar calarsi a terra,
quando il freddo li caccia ai liti aprichi,
quanti eran questi. I primi avanti orando
chiedean passaggio, e con le sporte mani
mostravan il disio de l'altra ripa:
ma 'l severo nocchiero or questi or quelli
scegliendo o rifiutando, una gran parte
lunge tenea dal porto e da l'arena.
Enea la moltitudine, e 'l tumulto
meravigliando: «Ond'и, vergine, - disse -
questo concorso al fiume? e qual disio
mena quest'alme? e qual grazia o divieto
fa che queste dan volta, e quelle approdano?»
A ciт la profetessa brevemente
cosн rispose: «Enea, stirpe divina
veracemente (che di ciт n'accerta
il qui vederti), lа Cocito stagna;
quinci va Stige, la palude e 'l nume
per cui di spergiurar fino a gli dиi
del cielo и formidabile e tremendo.
Questi и Caronte, il suo tristo nocchiero:
quella turba che passa, и de' sepolti:
questa che torna, и de' meschini estinti
che nй tomba, nй lacrime, nй polve
ebber morendo. A lor non и concesso
traiettar queste ripe e questo fiume,
se pria l'ossa non han seggio e coverchio.
Erran cent'anni vagolando intorno
a questi liti, e 'l desпato stagno
visitando sovente, infin ch'al passo
non sono ammessi». Enea di ciт pensando,
mosso a pietа de la lor sorte iniqua,
fermossi; ed ecco incontro gli si fanno
mesti, d'esequie privi e di sepolcro,
Leucaspi, e 'l conduttor de' Lici Oronte,
ambi Troiani, ambi dal vento insieme
coi Lici tutti, e con l'intera nave
nel mar sommersi. Appresso Palinuro,
il gran nocchier de la troiana armata,
che dianzi nel tornar di Libia, il cielo
e le stelle mirando, in mar fu tratto.
A costui si rivolse, e poichй l'ebbe
per entro una grand'ombra a pena scorto,
cosн prima gli disse: «O Palinuro,
e qual fu de gli dиi ch'a noi ti tolse,
ed a l'onde ti diede? Or lo mi conta:
chй deluso da Febo unqua non fui,
se non se in te: Febo predisse pure
che tu nosco del mar securo e salvo
Italia attingeresti. Ah! dunque un dio,
e dio del vero, in tal guisa ne froda?»
Rispose Palinuro: «Inclito duce,
nй l'oracol d'Apollo ha te deluso,
nй l'ira ha me di dio nel mar sommerso;
chй 'l temone, ond'io mai non mi divelsi
per tua salute, ancor per man ritenni
allor ch'in mare io caddi. Io giuro, Enea,
per l'onde irate, che di me non tanto,
quanto del tuo periglio ebbi timore,
che non la nave tua, del mio governo
spogliata e del suo freno, al mar giа gonfio
restasse in preda. Austro tre notti intere
con la sua correntia per l'ampio mare
mi trasse a forza. Il quarto giorno a pena
discoverta l'Italia, a poco a poco
m'accostava a la terra; e giunto omai
cosн com'era ancor di veste grave,
e stanco e molle, con l'adunche mani
m'aggrappava a la ripa, e salvo fфra:
se non ch'ignara e fera gente incontro,
com'a preda marina, mi si fece,
e col ferro m'ancise. Or lungo ai liti
vassene il corpo mio ludibrio a' vиnti,
e scherzo a' flutti. Ed io, signore invitto,
per la superna luce, per quell'aura
onde si vive, per tuo padre Anchise,
per le speranze del tuo figlio Iulo,
priegoti a sovvenirmi; o che di terra
mi cuopra (come puoi) cercando il corpo
per la spiaggia di Velia, o in altra guisa,
s'altra ne ti sovviene, o ti si mostra
da la tua diva madre; chй non senza
nume divino un tal passaggio imprendi.
Porgimi la tua destra, e teco trammi
oltre a quell'acque, perchй morto almeno
pace truovi e riposo». Avea ciт detto,
quando cosн la vergine rispose:
«Ah, Palinuro, e qual dira follia
a ciт t'invoglia? Non sepolto adunque
l'acque di Stige e la severa foce
traiettar de l'Eumиnidi presumi?
Tu di qui tфrti a l'altra riva intendi
senza commiato? Indarno, indarno speri
che per nostro pregar fato si cangi.
Ma con questo t'acqueta, e ti conforta
de l'infortunio tuo: chй quelle terre
vicine al luogo, ove il tuo corpo giace,
da pestilenza e da prodigi astrette,
lo raccфrranno, e con solenne rito
gli faran sacrifici, esequie e tomba;
e da te per innanzi avrа quel loco
di Palinuro eternamente il nome».
Lieto d'un tanto onore, e consolato
da tale annunzio, il travagliato spirto
restт contento ed appagato in parte.
Indi il cammin seguendo, a la riviera
s'approssimaro; e il passeggier da lunge,
poichй senza far motto entro a la selva
passar gli vide e 'ndirizzarsi al vado:
«Olа, ferma costн, - disse gridando -
qual che tu sei, ch'al nostro fiume armato
ten vai sн baldanzoso; e di costinci
di' chi sei, quel che cerchi, e perchй vieni:
chй notte solamente e sonno ed ombre
han qui ricetto, e non le genti vive,
cui di varcare al mio legno non lece.
E s'Ercole e Tesиo e Piritтo
giа v'accettai, scorno e dolore n'ebbi;
chй l'un d'essi il tartarлo custode
incatenovvi, e, di sotto anco al seggio
del proprio re, tremante a l'aura il trasse;
e gli altri alfin dal maritale albergo
rapir di Dite la regina osaro».
«Nulla di queste insidie - gli rispose
la profetessa - a macchinar si viene.
Stanne sicuro; e quest'arme a difesa
si portan solamente, e non ad onta.
Spaventi il can trifauce a suo diletto
le pallid'ombre; eternamente latri
ne l'antro suo; col suo marito e zio
si stia casta Prosиrpina mai sempre,
chй di nulla cen cale. Enea troiano
и questi, di pietа famoso e d'armi,
che per disio del padre infino al fondo
de l'Иrebo discende; e se l'esempio
di tanta caritа non ti commove,
questo almen riconosci». E, fuor del seno
d'oro il tronco traendo, altro non disse.
Ei, rimirando il venerabil dono
de la verga fatal, giа di gran tempo
non veduto da lui, l'orgoglio e l'ira
tosto depose, e la sua negra cimba
a lor rivolse, e ne la ripa stette.
Indi i banchi sgombrando e 'l legno tutto,
l'anime, che giа dentro erano assise,
con sъbito scompiglio uscir ne fece,
e 'l grand'Enea v'accolse. Allor ben d'altro
parve che d'ombre carco; e sн com'era
mal contesto e scommesso, cigolando
chinossi al peso, e piъ d'una fissura
a la palude aperse. Alfin pur salvi
ne l'altra ripa, tra le canne e i giunchi,
sul palustre suo limo ambi gli espose.
Giunti che furo, il gran Cиrbero udiro
abbaiar con tre gole, e 'l buio regno
intonar tutto; indi in un antro immenso
sel vider pria giacer disteso avanti,
poi sorger, digrignar, rаbido farsi,
con tre colli arruffarsi, e mille serpi
squassarsi intorno. Allor la saggia maga,
tratta di mиle e d'incantate biade
una tal soporifera mistura,
la gittт dentro a le bramose canne.
Egli ingordo, famelico e rabbioso
tre bocche aprendo, per tre gole al ventre
trangugiando mandolla, e con sei lumi
chiusi dal sonno, anzi col corpo tutto
giacque ne l'antro abbandonato e vinto.
Cиrbero addormentato, occupa Enea
d'Иrebo il passo, e ratto s'allontana
dal fiume, cui chi varca unqua non riede.
Sentono al primo entrar voci e vagiti
di pargoletti infanti, che dal latte
e da le culle acerbamente svиlti,
vider ne' primi dн l'ultima sera.
Varcano appresso i condannati e morti
senza lor colpa, e non senza compenso
di giudizio e di sorti. Han quelle genti
cosн disposti e divisati i lochi.
Sta Minos ne l'entrata, e l'urna avanti
tien de' lor nomi, e le lor vite esamina,
e le lor colpe; e quale и questa o quella,
tal le dа sito, e le rauna e parte.
Passan di mano in mano a quei che feri
incontro a sй, la luce in odio avendo
e l'alme a vile, anzi al prescritto giorno
si son da loro indegnamente ancisi.
Ma quanto ora vorrebbono i meschini
esser di sopra, e povertа, vivendo,
soffrire e de la vita ogni disagio!
Ma 'l fato il niega, e nove volte intorno
Stige odпosa li ristringe e fascia.
Quinci non lunge si distende un'ampia
campagna che del Pianto и nominata;
per cui fra chiusi colli e fra solinghe
selve di mirti, occulte se ne vanno
l'alme, c'ha feramente arse e consunte
fiamma d'amor, ch'ancor ne' morti и viva.
Qui vider Fedra e Procri ed Erifнle,
infida moglie e sfortunata madre,
di cui fu parricida il proprio figlio;
vider Laodamнa, Pasнfe, Evadne,
e Cиnлo con esse, che di donna
in uomo, e d'uomo alfin cangiossi in donna.
Era con queste la fenissa Dido,
che, di piaga recente il petto aperta,
per la gran selva spazпando andava.
Tosto che le fu presso, Enea la scтrse
per entro a l'ombre, qual chi vede o crede
veder tal volta infra le nubi e 'l chiaro
la nova luna, allor che i primi giorni
del giovinetto mese appena spunta;
e di dolcezza intenerito il core,
dolcemente mirolla e pianse e disse:
«Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera
quell'empia che di te novella udii,
che col ferro finisti i giorni tuoi?
Ah, ch'io cagion ne fui! Ma per le stelle,
per gli superni dиi, per quanta fede
ha qua giъ, se pur v'ha, donna, ti giuro
che mal mio grado dal tuo lito sciolsi.
Fato, fato celeste, imperio espresso
fu del gran Giove, e quella stessa forza,
che da l'eteria luce a questi orrori
de la profonda notte or mi conduce,
che da te mi divelse; e mai creduto
ciт di me non avrei, che 'l partir mio
cagion ti fosse ond'a morir ne gissi.
Ma ferma il passo, e le mie luci appaga
de la tua vista. Ah, perchй fuggi? e cui?
Quest'и l'ultima volta, ohimи! che 'l fato
mi dа ch'io ti favelli, e teco sia».
Cosн dicendo e lagrimando intanto
placar tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una sol volta disdegnosa e torva
lo rimirт; poscia o con gli occhi in terra,
o con gli omeri vтlta, a i detti suoi
stette qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin, mentre dicea, come nimica
gli si tolse davanti, e ne la selva
al suo caro Sichиo, cui fiamma uguale
e par cura accendea, si ricondusse.
Nй perт men dolente, e men pietoso
restonne il teucro duce; anzi quant'oltre
potй con gli occhi, e lungo spazio poi
col pianto e coi sospiri accompagnolla.
Poscia tornando al suo fatal vпaggio
giunse lа 've accampata era in disparte
gente di ferro e di valore armata.
Qui 'l gran Tideo, qui 'l gran figlio di Marte
Partenopиo, qui del famoso Adrasto
la pallid'ombra incontro gli si fece.
Quinci de' suoi piъ nobili Troiani
un gran drappello avanti gli comparve.
Pianse a veder quei glorпosi eroi,
tanto di sopra disпati e pianti,
come Glauco, Tersнloco, Medonte,
i tre figli d'Antenore, il sacrato
a Cerere ministro Polibete,
e 'l chiaro Idиo con l'armi anco e col carro.
Fatto gli avean costor chi da man destra,
chi da sinistra una corona intorno.
Nй d'averlo veduto eran contenti,
chй ciascun desпava essergli appresso,
ragionar, passeggiar, far seco indugio,
e spпar come e d'onde e perchй venne.
Ma degli Argivi e le falangi e i duci,
quand'egli apparve, e che tra lor ne l'ombre
i lampi folgorвr de l'armi sue,
da gran timor furo assaliti; e parte
volser le terga, come giа fuggendo
verso le navi, e parte alzвr le voci
che per tйma sembrвr languide e fioche.
Deнfobo, di Prпamo il gran figlio,
vide ancor qui, che crudelmente anciso
in disonesta e miserabil guisa
avea le man, gli orecchi, il naso e 'l volto
lacerato, incischiato e monco tutto.
Per temenza il meschino e per vergogna
d'esser veduto, con le tronche braccia
un sн brutto spettacolo celando,
indarno si facea schermo e riparo;
ch'al fin lo riconobbe, e con l'usata
domestichezza incontro gli si fece,
cosн dicendo: «Poderoso eroe,
gran germoglio di Teucro, e chi sн crudo
fu mai, chi tanto osт, cui si permise
che facesse di te strazio sн fiero?
La notte che seguн l'orribil caso
de la nostra ruina, io di te seppi
ch'assaliti i nemici e di lor fatta
strage che memorabile fia sempre,
tra le caterve de' lor corpi estinti,
stanco via piъ che vinto, alfin cadesti;
ed allor io di Reto in su la riva
a l'ombra tua con le mie mani un vтto
sepolcro eressi, e te gridai tre volte:
e 'l nome e l'armi tue riserba ancora
il loco stesso. Io te, dolce signore,
nй veder, nй coprir di patria terra
avanti il mio partir mai non potei».
Deнfobo rispose: «Ogni pietoso,
ogni onorato officio, Enea mio caro,
ha l'amor tuo vиr me compito a pieno.
Ma l'empio fato mio, l'empia e malvagia
argiva donna a tal m'ha qui condotto;
e tal di sй lasciт memoria al mondo.
Ben ti ricorda (e ricordar ten dкi)
di quell'ultima notte che sн lieta
mostrossi in pria, poi ne si volse in pianto,
quando il fatal cavallo il salto fece
sopra le nostre mura, e 'l ventre pieno
d'armate schiere ne votт fin dentro
a l'alta rтcca. Allor ella di Bacco
fingendo il coro, e con le frigie donne
scorrendo in tresca, una gran face in mano
si prese, e diи con essa il cenno a' Greci.
Io dentro alla mia camera (infelice!)
mi ritrovai sol quella notte; e stanco
di tante che n'avea con tanti affanni
vegghiate avanti, un tal prendea riposo
che a morte piъ che a sonno era simнle.
Fece la buona moglie ogn'arme intanto
sgombrar di casa, e la mia fida spada
mi sottrasse dal capo. Indi la porta
aperse, e Menelao dentro v'accolse,
cosн sperando un prezпoso dono
fare al marito, e de' suoi falli antichi
riportar vиnia. Che piъ dico? Basta
ch'entrвr lа 'v'io dormia; e con essi era
per consultore Ulisse. O dii, se giusto
и 'l priego mio, ricompensate voi
di quest'opere i Greci. E tu, che vivo
sei qui, dimmi a rincontro, il caso o 'l fato
o l'errore o 'l precetto degli dиi,
o qual altra fortuna t'ha condotto,
ove il sol mai non entra e buio и sempre».
Cosн tra lor parlando e rispondendo,
avea giа 'l sol del suo cerchio dпurno
varcato il mezzo, e l'avria forse intero;
se non che la Sibilla rampognando
cosн li fe' del breve tempo accorti:
«Enea, giа notte fassi, e noi piangendo
consumiam l'ore. Ecco siam giunti al loco
dove la strada in due sentier si parte.
Questo a man dritta a la cittа ne porta
del gran Plutone e quindi ai campi Elisi;
quest'altro a la sinistra a l'empio abisso
ne guida, ov'hanno i rei supplizio eterno».
Il figlio a ciт di Prпamo soggiunse:
«Non ti crucciare, o del gran Delio amica,
ch'or da voi mi tolgo, e mi ritiro
ne le tenebre mie. Tu, nostro onore,
vatten felice, giа che scтrto sei
da miglior fato; e meglio te n'avvenga».
Tanto sol disse, e sparve. Enea si volse
prima a sinistra, e sotto un'alta rupe
vide un'ampia cittа che tre gironi
avea di mura, ed un di fiume intorno;
ed era il fiume il negro Flegetonte,
ch'al Tartaro con suono e con rapina
l'onde seco traea, le fiamme e i sassi.
Vede nel primo incontro una gran porta
c'ha la soglia, i pilastri e le colonne
d'un tal diamante, che le forze umane,
nй degli stessi dиi, romper nol ponno.
Quindi si spicca una gran torre in alto
tutta di ferro. A guardia de l'entrata
la notte e 'l giorno vigilando assisa
sta la fiera Tesнfone succinta,
col braccio ignudo, insanguinata e torva.
Quinci di lai, di pianti e di percosse
e di stridor di ferri e di catene
cotale un suono udissi, che spavento
Enea sentinne; e rattenuto il passo:
«Dimmi, vergine, - disse, - e che delitti
son qui puniti? e che pianti son questi?»
Ed ella: «Inclito sire, a nessun lece,
che buono e giusto sia, di portar oltre
da quella soglia scelerata il piede.
Ma me di ciт che dentro vi s'accoglie
Иcate instrusse allor ch'ai sacri boschi
mi prepose d'Averno; e d'ogni pena
e d'ogni colpa e d'ogni loco a pieno,
quando seco vi fui, notizia diemmi.
Questo и di Radamanto il tristo regno,
lа dov'egli ode, esamina, condanna
e discuopre i peccati che di sopra
son da le genti o vanamente ascosi
in vita, o non purgati anzi a la morte:
nй pria di Radamanto esce il precetto,
che Tesнfone и presta ad eseguirlo.
Ella con l'una man la sferza impugna,
ne l'altra ha serpi; ed ambe intorno arrosta,
e grida e fиre, e de le sue sorelle
le mostruose ed empie schiere tutte
al ministerio de' tormenti invita.
Apronsi l'esecrate orrende porte
stridendo intanto. Tu, che quinci vedi
che faccia и quella che di fuor le guarda,
pensa qual a veder sia dentro un'Idra
ancor piъ fiera aprir cinquanta ingorde
rabbiose bocche. Il Tartaro vien dopo;
una vorago che due volte tanto
ha di profondo, quanto in su guardando
и da la terra al cielo: e qui ne l'imo
suo baratro dal fulmine trafitti
son gli antichi Titani al ciel rubelli.
Qui vidi ambi d'Alтo gli orrendi figli,
che scinder con le mani il cielo osaro,
e tфr lo scettro del suo regno a Giove.
Vidivi l'orgoglioso Salmonиo
di sua temeritа pagare il fio;
chй temerario veramente ed empio
fu di voler, quale il Tonante in cielo,
tonar qua giuso e folgorare a pruova.
Questi su quattro suoi giunti destrieri,
la man di face armato alteramente
per la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
d'Иlide, ov'и di Giove il maggior tempio,
di Giove stesso il nume, e de gli dиi
s'attribuiva i sacrosanti onori.
Folle, che con le fiaccole e co' bronzi,
e con lo scalpitar de' suoi ronzoni
i tuoni, i nembi e i folgori imitava,
ch'imitar non si ponno: e ben fu degno
ch'ei provasse per man del padre eterno
d'altro fulmine il colpo e d'altro vampo
che di tede e di fumo, e degno ancora
che nel baratro andasse. Eravi Tizio,
quei de la terra smisurato alunno,
che tien disteso di campagna quanto
un giogo in nove giorni ara di buoi.
Questi ha sopra un famelico avoltore,
che con l'adunco rostro al cor d'intorno
gli picchia e rode; e perchй sempre il pasca,
non mai lo scema sн che 'l pasto eterno
ed eterna non sia la pena sua;
chй fatto a chi lo scempia esca e ricetto,
del suo proprio martir s'avanza e cresce;
e perchй sempre langua, unqua non more.
De' Lаpiti a che parlo? d'Issпуne
di Piritтo, e di quegli altri tutti
cui sopra al capo un'atra selce pende,
che grave e ruinosa ad ora ad ora
sembra che caggia? Avvi la mensa d'oro
con prezпosi cibi in regia guisa
apparecchiati e proibiti insieme:
chй la Fame, infernal furia maggiore,
gli siede accanto; e com' piъ 'l gusto incende
di lui, piъ dal gustarne indietro il tragge,
e sorge, e la sua face estolle e grida.
Quei che son vissi ai lor fratelli amari;
quei c'han battuti i padri; quei che frode
hanno ordito a' clienti; i ricchi avari,
e scarsi a' suoi, di cui la turba и grande:
gli occisi in adulterio; i vпolenti,
gl'infidi, i traditori in questo abisso
han tutti i lor ridotti e le lor pene.
E che pena e che forma e che fortuna
di ciascun sia, non и d'uopo ch'io dica:
ma chi sassi rivolgono, e chi vтlti
son da le ruote, ed altri in altra guisa
son tormentati. In un petron confitto
vi siede e sederavvi eternamente
Tиseo infelice; e Flegia infelicissimo
va tra l'ombre gridando ad alta voce:
"Imparate da me voi che mirate
la pena mia: non vпolate il giusto,
riverite gli dиi". Tra questi tali
и chi vendй la patria; chi la pose
al giogo de' tiranni; chi per prezzo
fece leggi e disfece; e cento lingue
e cento bocche, e voci anco di ferro,
non basterian per divisare i nomi
e le forme de' vizi e de le pene
ch'entro vi sono». Poi che la Sibilla
ebbe ciт detto: «Via - soggiunse, - attendi
a l'impreso viaggio, e studia il passo:
chй giа le mura da' Ciclopi estrutte
mi veggio avanti, e sotto a quel grand'arco
la sacra porta che 'l tuo dono aspetta».
Cosн mossi ambedue, lo spazio tutto,
ch'era nel mezzo, per sentiero opaco
tosto varcando, anzi a la porta furo.
Incontinente Enea l'intrata occъpa;
di viva acqua si spruzza: e 'l sacro ramo
a la regina de l'inferno affigge.
Ciт fatto, a i luoghi di letizia pieni,
a l'amene verdure, a le gioiose
contrade de' felici e de' beati
giunsero al fine. И questa una campagna
con un aлr piъ largo, e con la terra
che di un lume di purpura и vestita,
ed ha 'l suo sole e le sue stelle anch'ella.
Qui se ne stan le fortunate genti,
parte in su' prati e parte in su l'arena
scorrendo, lotteggiando, e vari giuochi
di piacevol contesa esercitando;
parte in musiche, in feste, in balli, in suoni
se ne van diportando, ed han con essi
il tracio Orfeo, ch'in lungo abito e sacro
or con le dita, ed or col plettro eburno,
sette nervi diversi insieme uniti,
tragge del muto legno umani accenti.
Qui di Teucro l'antica e bella razza
facea soggiorno; quei famosi eroi
che in quei tempi migliori al mondo furo,
Ilo, Assаraco, Dаrdano, quei primi
de la gran Troia fondatori e regi.
Veggon da lunge le vane arme e i carri
a lor d'intorno, e l'aste in terra fisse,
e gli sciolti destrier per la campagna
vagar pascendo; chй 'l diletto antico
e de l'armi e de' carri e de' cavalli
gli segue anco sotterra. Indi altri altrove
scorgono, che da destra e da sinistra
convivando e cantando, sopra l'erba
si stanno assisi, ed han di lauri intorno
un odorato bosco, onde il Po sorge
sopra la terra, e spazпoso inonda.
E questi eran color che combattendo
non fыr di sangue a la lor patria avari;
e quei che sacerdoti erano in vita
castamente vissuti, e quei veraci
e quei pii c'han di qua parlato o scritto
cose degne di Febo, e gl'inventori
de l'arti, ond'и gentile il mondo e bello;
e quei che ben oprando han tra' mortali
fatto di fama e di memoria acquisto;
cui tutti, in segno di celeste onore,
candida benda il fronte orna e colora.
A questi, ch'a la vergine Sibilla
fкr cerchio intorno, ed a Musиo tra loro,
che dagli omeri in su gli altri avanzava,
diss'ella: «Alme felici e tu, buon vate,
ditene in qual contrada, e 'n qual magione
qui tra voi si ripara il grande Anchise,
chй lui cerchiamo, e sol per lui varcati
d'Иrebo i fiumi e le caverne avemo».
A cui Musиo cosн breve rispose:
«Nullo и di noi che in alcun luogo alloggi
come in suo proprio; e tutti o per le sacre
opache selve, o per l'amene rive
de' chiari fiumi, o per gli erbosi prati
tra rivi e fonti i nostri alberghi avemo.
Ma se di ciт vi cale, itene meco
sovr'a quel giogo; e quindi agevolmente
il sentier ne vedrete». In ciт si mosse
come lor guida, e sopra al colle asceso,
mostrт lor d'alto i luminosi campi,
additт 'l calle, ed invпolli al piano.
Era per avventura in una valle
Anchise, che da poggi era ricinta,
e di verde coverta. Ivi in disparte
de' suoi nepoti avea l'anime accolte
ch'a la vita di sopra eran chiamate,
e facendo di lor rassegna e mostra
gli annoverava, esaminava i fati,
le fortune, il valor di mano in mano,
gli ordini e i tempi loro. Enea comparve
sul campo intanto; a cui tosto che 'l vide,
lieto Anchise avventossi e con le braccia
in atto d'accoglienza: «O figlio, - disse
dolcemente piangendo - io pur ti veggio.
Pur sei venuto, ha pur la tua pietade
superati i disagi e la durezza
di sн strano vпaggio. Ecco m'и dato
di veder, figlio, il tuo bramato aspetto,
e sentirti e parlarti. Io di ciт punto
non era in forse, e sol pensava al quando,
contando i giorni. Oh, dopo quanti affanni,
dopo quanti perigli, e quanti storpi
e di mare e di terra io ti riveggio!
E quanto ebbi timor che di Cartago
venisse al corso tuo sinistro intoppo!»
Ed egli a lui: «La sconsolata imago,
che m'и, padre, di te sovente apparsa,
per te, per te veder qua giъ m'ha tratto:
e di sopra fin qui salvo a la riva
del mar Tirreno il mio navile и sorto.
Or dammi, padre mio, dammi ch'io giunga
la mia con la tua destra, e grazia fammi
che di vederti e di parlarti io goda».
Mentre cosн dicea, di largo pianto
rigava il volto, e distendea le palme;
e tre volte abbracciandolo, altrettante
(come vento stringesse o fumo o sogno)
se ne tornт con le man vтte al petto.
Intanto Enea per entro a la gran valle
vide scevra da l'altre una foresta,
i cui rami sonar da lunge udiva.
A piи di questa era di Lete il rio
ch'ai dilettosi e fortunati campi
correa davanti; e piene avea le ripe
di genti innumerabili, ch'intorno
a caterve alпando ivano in guisa
che fan le pecchie a' chiari giorni estivi,
quando di fiore in fior, di giglio in giglio
si van posando, e per l'apriche piagge
dolcemente ronzando. Enea, che nulla
di ciт sapea, di sъbito stupore
fu sopraggiunto, e la cagion spiando:
«O - disse - padre, che riviera и quella?
e che gente, e che mischia, e che bisbiglio?» -
«L'anime - gli rispose - a cui dovuti
sono altri corpi, a questo fiume accolte
beon dimenticanze e lunghi oblii
de l'altra vita; e questi io desпava
che tu vedessi, e che da me n'udissi
i nomi e i gesti, onde contezza appieno
del nostro sangue, e piena gioia avessi
dell'acquisto d'Italia». «O padre, adunque -
soggiunse Enea - creder si dee che l'alme,
che son qui scarche e libere e felici,
cerchin di nuovo a la terrena salma,
di nuovo a la prigion tornar de' corpi?
E qual, misere loro! empio desire
del lume di lassъ tanto le invoglia?»
«Figlio, - rispose Anchise, - acciт sospeso
piъ non vacilli in questo dubbio, ascolta».
E 'n tal guisa per ordine gli narra:
«Primieramente il ciel, la terra e 'l mare,
l'aлr, la luna, il sol, quanto и nascosto,
quanto appare e quant'и, muove, nudrisce
e regge un, che v'и dentro, o spirto o mente
o anima che sia de l'universo;
che sparsa per lo tutto e per le parti
di sн gran mole, di sй l'empie, e seco
si volge, si rimescola e s'unisce.
Quinci l'uman legnaggio, i bruti, i pesci,
e ciт che vola, e ciт che serpe, han vita,
e dal foco e dal ciel vigore e seme
traggon, se non se quanto il pondo e 'l gelo
de' gravi corpi, e le caduche membra
le fan terrene e tarde. E quinci ancora
avvien che tйma e speme e duolo e gioia
vivendo le conturba, e che rinchiuse
nel tenebroso carcere, e ne l'ombra
del mortal velo, a le bellezze eterne
non ergon gli occhi. Ed oltre a ciт, morendo,
perchй sian fuor de la terrena vesta,
non del tutto si spoglian le meschine
de le sue macchie; chй 'l corporeo lezzo
sн l'ha per lungo suo contagio infette,
che scevre anco dal corpo, in nuova guisa
le tien contaminate, impure e sozze.
Perciт di purga han d'uopo, e per purgarle
son de l'antiche colpe in vari modi
punite e travagliate: altre ne l'aura
sospese al vento, altre ne l'acqua immerse,
ed altre al foco raffinate ed arse:
chй quale и di ciascuna il genio e 'l fallo,
tale и 'l castigo. Indi a venir n'и dato
negli ampi elisi campi; e poche siamo
cui sн lieto soggiorno si destini.
Qui stiamo infin che 'l tempo a ciт prescritto
d'ogni immondizia ne forbisca e terga,
sн ch'a nitida fiamma, a semplice aura,
a puro eterio senso ne riduca.
Quest'alme tutte, poichй di mill'anni
han vтlto il giro, alfin son qui chiamate
di Lete al fiume, e 'n quella riva fanno,
qual tu vedi colа, turba e concorso.
Dio le vi chiama, acciт ch'ivi deposto
ogni ricordo, men de' corpi schive,
e piъ vaghe di vita, un'altra volta
tornin di sopra a riveder le stelle».
Ciт detto, Anchise a quelle genti in mezzo
condusse il figlio, e la Sibilla insieme;
e prese un colle, ove le schiere tutte,
sн come ne venian di mano in mano,
avea d'incontro, e le scorgea nel volto.
«Or qui ti mostrerт, - soggiunse Anchise, -
quanta sarа ne' secoli futuri
la gloria nostra; quanti e quai nepoti
de la dardania prole a nascer hanno;
e quante del mio sangue anime illustri
sorgeranno in Italia. Indi a te conte
le tue fortune e i tuoi fati saranno.
Vedi colа quel giovinetto ardito
che su quell'asta pura il braccio appoggia?
Quegli a la luce и destinato in prima,
primo che di Lavinia in Lazio avrai
figlio postumo a te giа d'anni grave,
ch'alfin da lei fuor de le selve addutto,
re sarа d'Alba, e degli albani regi
autore e padre: e Silvi dal suo nome
fian tutti i nostri, che da lui discesi
ivi poscia gran tempo imperio avranno.
Proca и quei dopo lui, gloria e splendore
de la stirpe troiana: e quegli и Capi,
e quegli и Numitore: e l'altro appresso
и Silvio Enea, che 'l tuo nome rinnova;
e se fia mai che 'l suo regno ricovri,
non sarа men di te pietoso e forte.
Mira che gioventъ, mira che forze
mostran, solo a vederli. Appo costoro
quei che son lа di quercia inghirlandati,
di Gabi, di Nomento e di Fidene
parte propagheranti il picciol regno,
parte su' monti il tempio ti porranno
d'Inъo, e la terra che da lui dirassi,
e Collazia e Pomezia e Bola e Cora;
chй questi nomi allor quei luoghi avranno
ch'or ne son senza. In compagnia de l'avo
Romolo se ne vien, di Marte il figlio,
di Roma il padre. Al mondo Ilia darallo
de la stirpe d'Assаraco un rampollo.
Vedil colа, c'ha in su la testa un elmo
con due cimieri, e tal, che il padre stesso
giа par ch'in cielo e nel suo seggio il ponga.
Questi, figlio, sarа quel grand'eroe,
onde i suoi primi glorпosi auspici
avrа l'inclita Roma, quella Roma,
che, sette monti entro al suo cerchio accolti,
tanto si stenderа, che fia con l'armi
uguale al mondo, e con le menti al cielo;
Roma di cosн prodi e chiari figli
madre felice. Tal di Berecinto
la maggior madre infra i leoni assisa,
e di torri altamente incoronata,
va per la Frigia, glorпosa e lieta
che tanti ha figli in ciel, nepoti in seno,
tutti che dii giа sono o dii si fanno.
Or qui, figliuolo, ambe le luci affisa
a mirar la tua gente e i tuoi Romani.
Cesare и qui, qui la progenie и tutta
del grande Iulo, a cui giа s'apre il cielo.
Questi, questi, и colui che tante volte
t'и giа promesso, il gran Cesare Augusto,
di divo padre figlio, e divo anch'egli.
Per lui risorgerа quel secol d'oro,
quel del vecchio Saturno antico regno,
che fe' il Lazio sн bello e 'l mondo tutto.
Quest'oltre ai Garamanti ed oltre agl'Indi
impererа fin dove il sole e l'anno
non giunge, e piъ non va se non s'arretra;
trapasserа di lа dal mauro Atlante
che con gli omeri suoi folce le stelle.
Al venir di costui, sol de la voce
che ne dаnno i profeti, i Caspi regni,
la Meotica terra, e quanto inonda
il sette volte geminato Nilo,
tremar giа veggio, e star pensoso e mesto.
Tanto del mondo il glorпoso Alcide
non corse mai, se ben de' Cereniti,
di Lerna e d'Erimanto i mostri ancise:
nй tanto ne domт chi domт gl'Indi,
e nel trionfo suo di viti e pampini
a le tigri di Nisa il giogo impose.
E sarа poi che 'l valor nostro manchi
di gloria, e tu di speme e d'ardimento
di far d'Ausonia il desпato acquisto?
Ma chi fia questi che da lungi scorgo
sн venerando, il crin cinto d'olivo,
con quelle bende e con quei sacri arredi?
A la chioma, a la barba irta e canuta
mi sembra, ed и di Roma il santo rege,
che dal picciolo Curi a grande impero
sarа da lei chiamato, e sarа il primo
che cerimonie introdurravvi e leggi.
A lui Tullo vien dopo, il forte e saggio,
ch'ai dismessi trionfi rivocando
la gente giа per lunga pace imbelle,
la tornerа, di neghittosa e mite,
un'altra volta armigera e guerriera.
Anco и quell'altro che lo segue appresso,
che d'onor troppo e del favor del volgo
di giа si mostra ambizпoso e vago.
Or vedi lа, se di vederli agogni,
anco i Tarquini regi, e quel superbo
vendicator de la superbia loro,
Bruto, consol primiero, e quei suoi fasci
e quelle accette ond'ei, padre crudele,
de la patria buon figlio, i figli suoi
per l'altrui bella libertate ancide.
Infortunato lui! che che dipoi
de la posteritа se ne favelle.
Vince il publico amore, e 'l gran desio
d'umana lode in lui l'affetto interno
de la natura e del suo sangue stesso.
Mira poco in disparte i Deci, i Drusi,
il severo Torquato e 'l buon Camillo;
l'uno che tien giа la secure in mano,
e l'altro che da' Galli ne riporta
i perduti vessilli. I due, che vedi
sн risplender ne l'armi, e che rinchiusi
in questa notte, sembrano a la vista
gir di pari e d'accordo, oh se a la vita
vengon di sopra, quanta guerra e quale,
con che strage di genti e con che forze,
faran tra loro! Il suocero da l'Alpi
e da l'occaso, il genero da l'orto
verrа l'un contra l'altro. Ah figli, ah figli,
non cosн rio, non cosн fiero abuso
d'armar voi contr'a voi, contr'a le viscere
de la gran patria vostra! e tu che traggi
dal ciel legnaggio, tu, mio sangue, astienti
da tanta feritа; perdona il primo,
e gitta l'armi in terra. Ecco chi vince
Corinto e 'l popol greco, e 'n Campidoglio
trпonfando ne saglie. Ecco chi d'Argo
e di Micena ancor le torri abbatte,
e chi Pirro debella e 'l seme estingue
del bellicoso Achille; alta vendetta
che ben degli avi ricompensa i danni,
e 'l tempio vпolato di Minerva.
Dove lass'io te, gran Catone, e Cosso?
E i Gracchi, e i due gran folgori di guerra
ambedue Scipпoni, ambi Africani,
strage l'un di Cartago, e l'altro esizio?
Dove Fabrizio il povero, e potente,
con la sua povertа? Dove Serrano,
ch'e di bifolco, al grande imperio assunto?
Dove restano i Fabi? Eccone un solo,
Massimo veramente, che con arte
terrа il nemico tranquillando a bada.
Abbinsi gli altri de l'altre arti il vanto;
avvivino i colori e i bronzi e i marmi;
muovano con la lingua i tribunali,
mostrin con l'astrolabio e col quadrante
meglio del ciel le stelle e i moti loro:
chй ciт meglio sapran forse di voi:
ma voi, Romani miei, reggete il mondo
con l'imperio e con l'armi, e l'arti vostre
sien l'esser giusti in pace, invitti in guerra:
perdonare a' soggetti, accфr gli umнli,
debellare i superbi». In questa guisa
parlava il santo vиglio, ed essi attenti
stavan con maraviglia ad ascoltarlo,
quando soggiunse: «Ecco di qua Marcello;
mira come se n'entra adorno e carco
d'opime spoglie, e quanto a gli altri avanza.
Quest'и quel generoso, ch'a grand'uopo
vien di Roma a domare i Peni, i Galli,
e del gallico duce i fregi e l'armi
la terza volta al gran Quirino appende».
Qui vide Enea ch'un giovinetto a pari
gli si traea, ch'era d'arnesi e d'armi,
e via piъ di beltа, vago e lucente;
se non che poco lieta avea la fronte
e chino il viso. Onde rivolto al padre:
«E chi - disse - и costui che l'accompagna?
Saria de' figli, o de' nipoti alcuno
del gran nostro legnaggio? E che bisbiglio
e che mischia ha d'intorno? O quale e quanto
di giа mi sembra! Ma gli veggio al capo
d'atra notte girar di sopra un nembo».
Anchise lagrimando gli rispose:
«Amaro desiderio il cor ti tocca
a voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
udir de' tuoi. Questi a la luce a pena
verrа, che ne fia tolto. O dii superni,
troppo parravvi la romana stirpe
possente allor che in sul fiorir preciso
ne fia sн vago e sн gentile arbusto.
O che duolo, o che pianto, o che funиbre
pompa ne vedrа Roma e 'l Marzio campo!
Qual, Tiberino padre, a la tua riva
nuova se n'ergerа funesta mole!
Germe non sorgerа del seme d'Ilio
piъ di questo gradito, nй che tanto
de' latini avi suoi la speme estolla:
nй la terra di Romolo arа mai
figlio, onde piъ si pregi e piъ si vanti.
O pietа non piъ vista; o fede antica!
O virtъ senza pari! E qual ne l'armi
sarа? Chi sosterrа l'incontro suo
pedone o cavalier ch'armato in giostra,
o pur nel campo, il suo nemico assalga?
Miserabil fanciullo! Cosн morte
te non vincesse, come invitto fфra
il tuo valore, e come tu, Marcello,
non men de l'altro, eroica vertute,
e piъ splendore e piъ fortuna avesti!
Datemi a piene mani, ond'io di gigli
e di purpurei fiori un nembo sparga,
chй, se ben contro al giа fisso destino
m'adopro invano, almen con questi doni
l'ombra d'un tanto mio nipote onori».
Dopo ciт detto, per gli aerei campi
vagando, a parte a parte e l'ombre e i lochi
gli mostrт, l'invaghн, tutto d'amore
de la futura gloria il cor gli accese.
Indi le guerre e le fortune sue
d'Italia, di Laurento, e di Latino
la figlia, il regno, i popoli e lo stato
tutto gli rivelт. D'ogni suo affanno
(come a fuggir, come a soffrir l'avesse)
gli diи lume e compenso. Escono i Sogni
d'inferno per due porte; una и di corno,
l'altra и d'avorio: manda il corno i veri,
l'avorio i falsi; e per l'eburna Anchise
diede (quando lor diи commiato alfine)
a la Sibilla ed al suo figlio uscita.
Enea verso le navi a' suoi compagni
fece ritorno. Indi sciogliendo, dritto
lungo la riva il suo corso riprese;
e giunto ov'oggi и di Caieta il porto,
l'afferrт, gittт l'аncore, e fermossi.

LIBRO SETTIMO

Ed ancor tu, d'Enea fida nutrice
Caieta, ai nostri liti eterna fama
desti morendo; ed essi anco a te diкro
sede onorata, se d'onore a' morti
и d'aver l'ossa consecrate e 'l nome
ne la famosa Esperia. Ebbe Caieta
dal suo pietoso alunno esequie e lutto,
e sepoltura alteramente eretta.
lndi, giа fatto il mar tranquillo e queto,
spiegвr le vele a' vиnti, e i vиnti al corso
eran secondi; e 'n sul calar del sole,
la luna, che sorgea lucente e piena,
chiare l'onde facea tremole e crespe.
Uscоr del porto; e pria rasero i liti
ove Circe, del Sol la ricca figlia,
gode felice, e mai sempre cantando
soavemente al periglioso varco
de le sue selve i peregrini invita:
e de la reggia, ove tessendo stassi
le ricche tele, con l'arguto suono
che fan le spole e i pettini e i telari,
e co' fuochi de' cedri e de' ginepri
porge lunge la notte indicio e lume.
Quinci lа verso il dн, lontano udissi
ruggir lioni, urlar lupi, adirarsi,
e fremire e grugnire orsi e cignali,
ch'eran uomini in prima; e 'n queste forme
da lei con erbe e con malie cangiati
giacean di ferri e di ferrate sbarre
ne le sue stalle incatenati e chiusi;
e perchй ciт non avvenisse ai Teucri,
che buoni erano e pii, da cotal porto
e da spiaggia sн ria Nettuno stesso
spinse i lor legni, e diи lor vento e fuga,
tal che fuor d'ogni rischio li condusse.
Giа rosseggiava d'Oriente il balzo,
e nel suo carro d'ostro ornata e d'oro
l'Aurora si traea de l'onde fuori:
quando subitamente ogn'aura, ogn'alito
cessт del vento, e ne fu 'l mare in calma
sн ch'a forza ne gian de' remi a pena.
Qui la terra mirando, il padre Enea
vede un'ampia foresta, e dentro, un fiume
rapido, vorticoso e queto insieme,
che per l'amena selva, e per la bionda
sua molta arena si devolve al mare.
Questo era il Tebro, il tanto desпato,
il tanto cerco suo Tebro fatale:
a le cui ripe, a le cui selve intorno,
e di sopra volando, ivan le schiere
di piъ canori suoi palustri augelli.
Allor: «Via, - dice a suoi - volgete il corso
itene a riva». E tutti in un momento
rivolti e giunti, de l'opaco fiume
preser la foce, e lietamente entraro.
Porgimi, Иrato, aнta a dir quai regi,
quai tempi, e quale stato avesse allora
l'antico Lazio, quando prima i Teucri
con questa armata a' suoi liti approdaro;
ch'io dirт da principio le cagioni
e gli accidenti, onde con essi a l'arme
si venne in pria: dirт battaglie orrende,
dirт stragi d'eserciti, e duelli
di regi stessi, e la Toscana tutta,
e tutta anco l'Esperia in arme accolta.
Tu, d'Elicona dea, tu ciт mi detta;
ch'altr'ordine di cose, altro lavoro,
e maggior opra ordisco. Era signore,
quando ciт fu, di Lazio il re Latino,
un re che vиglio e placido gran tempo
avea 'l suo regno amministrato in pace.
Questi nacque di Fauno e di Marica,
ninfa di Laьrento, e Fauno a Pico
era figliuolo, e Pico, a te, Saturno,
del suo regio legnaggio ultimo autore.
Non avea questo re stirpe virile,
com'era il suo destino; e quella ch'ebbe,
gli fu nel fior de' suoi verd'anni ancisa.
Sola d'un sangue tal, d'un tanto regno
restava una sua figlia unica erede,
che giа d'anni matura, e di bellezza
piъ d'ogni altra famosa, era da molti
eroi del Lazio e de l'Ausonia tutta
desпata e ricerca. Avanti agli altri
la chiedea Turno, un giovine il piъ bello,
il piъ possente e di piъ chiara stirpe
che gli altri tutti; e piъ ch'a gli altri, a lui,
anzi a lui sol la sua regina madre
con mirabil affetto era inchinata.
Ma che sua sposa fosse, avverso fato,
vari portenti e spaventosi augъri
facean contesa. Era un cortile in mezzo
a le stanze reali, ove un gran lauro
giа di gran tempo consecrato e cуlto
con molta riverenza era serbato.
Si dicea che Latino esso re stesso
nel designare i suoi primi edifici,
lа 've trovollo, di sua mano a Febo
l'avea dicato; e ch'indi il nome diede
a' suoi Laurenti. A questo lauro in cima
meravigliosamente di lontano
romoreggiando a la sua vetta intorno
venne d'api una nugola a posarsi;
e con l'ali e co' piи l'una con l'altra,
e tutte insieme aggraticciate e strette
stiкr d'uva in guisa a le sue frondi appese.
Ciт l'indovino interpretando: «Io veggo -
disse - venir da lunge un duce esterno,
ed una gente che d'un loco uscita
in un loco medesmo si rauna,
ed altamente ivi s'alloga e regna».
Stando un giorno, oltre a ciт, Lavinia virgo
sacrificando col suo padre a canto,
ed a l'altar caste facelle offrendo,
parve (nefanda vista!) che dal foco
fossero i lunghi suoi capelli appresi,
e che stridendo, non pur l'oro ardesse
de le sue trecce, ma il suo regio arnese
e la corona stessa che di gemme
era fregiata. Indi con rogio vampo,
con nero fumo e con volumi attorti
s'avventasse d'intorno, e l'alta reggia
tutta di fiamme empiesse: orrendo mostro,
e di gran meraviglia a chiunque il vide.
Gli аuguri ne dicean che fama illustre
e gran fortuna a lei si portendea;
ma ruina a lo stato, e guerra a' popoli.
A questi mostri attonito e confuso
il re tosto a l'oracolo di Fauno
suo genitor ne l'alta Albъnea selva
per consiglio ricorse. И questa selva
immensa, opaca, ove mai sempre suona
un sacro fonte, onde mai sempre esala
una tetra vorago. Il Lazio tutto
e tutta Italia in ogni dubbio caso
quindi certezza, aнta e 'ndrizzo attende.
E l'oracolo и tale. Il sacerdote
nel profondo silenzio de la notte
si fa de l'immolate pecorelle
sotto un covile, ove s'adagia e dorme.
Nel sonno con mirabili apparenze
si vede intorno i simulacri e l'ombre
di ciт ch'ivi si chiede; e varie voci
ne sente, e con gli dиi parla e con gl'inferi.
In questa guisa il re Latino stesso
al vaticinio del suo padre intento
cento pecore ancide e i velli e i terghi
nel suol ne stende, e vi s'involve e corca:
ed ecco un'alta repentina voce
che, de la selva uscendo, intuona e dice:
«Invan, figlio, procuri, invan t'imagini
che tua figlia s'ammogli a sposo ausonio.
Vane e nulle saran le sponsalizie
ch'or le prepari. Di lontano un genero
venir ti veggio, per cui sopra a l'иtera
salirа 'l nostro nome; e i nostri posteri
ne vedran sotto i piи quanto l'Oceano
d'ambi i lati circonda, e 'l sole illumina».
Questa risposta e questi avvertimenti,
perchй di notte e di secreta parte
fosser da Fauno usciti, il re non tenne
in se stesso celati; anzi la Fama
per le terre d'Ausonia gli spargea,
quando la frigia armata al Tebro aggiunse.
Enea col figlio e co' suoi primi duci
a l'ombre d'un grand'albero in disparte
degli altri a prender cibo insieme unissi.
Eran su l'erba agiati; e, come avviso
creder si dee che del gran Giove fosse,
avean poche vivande; e quelle poche
gran forme di focacce e di farrate
in vece avean di tavole e di quadre,
e la terra medesma e i solchi suoi
ai pomi agresti eran fiscelle e nappi.
Altro per avventura allor non v'era
di che cibarsi. Onde, finiti i cibi,
volser per fame a quei lor deschi i denti,
e motteggiando allora: «O - disse Iulo -
fino a le mense ancor ne divoriamo?»
E rise e tacque. A questa voce Enea,
sн come a fin de le fatiche loro,
avvertн primamente, e stupefatto
del suo misterio, subito inchinando
disse: «O da' fati a me promessa terra,
io te devoto adoro: e voi ringrazio,
santi numi di Troia, amiche e fide
scorte degli error miei. Questa и la patria,
quest'и l'albergo nostro, e questo и 'l segno
che 'l mio padre lasciommi (or mi ricordo
de gli occulti miei fati): "Allor - dicendo -
che sarai, figlio, in peregrina terra
da fame a manducar le mense astretto,
fia 'l tuo riposo: allor fonda gli alberghi,
allor le mura. Or questa и quella fame,
ultimo rischio ad ultimar prescritto
tutti i nostri altri perigliosi affanni.
Or via, dimane a l'apparir del sole,
per diversi sentier lungi dal porto
tutti gioiosamente investighiamo
che paese sia questo, da che gente
sia cуlto, dove sien le terre loro.
Ora a Giove si bea; faccinsi preci
al padre Anchise; e sian le mense tutte
di vin piene e di tazze». E, ciт dicendo,
di frondi s'inghirlanda; e del paese
il genio, e de la Terra il primo nume
primieramente inchina, e le sue Ninfe,
e 'l fiume ancor non conto. Indi la Notte,
e de la Notte le sorgenti stelle,
e Giove idиo, e d'Ida la gran madre,
e la madre di lui dal cielo invoca,
e da l'Иrebo il padre. E qui di lampi
cinto, di luce e d'oro, e di sua mano
folgorando il gran Giove a ciel sereno
tonт tre volte. In ciт repente nacque
tra le squadre troiane un lieto grido,
ch'era giа 'l tempo di fondar venuto
le desпate mura. A tanto annunzio
tutti commossi, a rinnovar le mense,
ad invitarsi, a coronarsi, a bere
lietamente si diкro. Il dн seguente
nel sorger de l'aurora uscоr diversi
a spпar del paese, che contrade
e che liti eran quelli, e di che genti.
Trovвr che di Numнco era lo stagno,
e che 'l fiume era il Tebro, e la cittade
da' feroci Latini era abitata.
Allor d'Anchise il generoso figlio
cento fra tutti i piъ scelti oratori
d'oliva incoronati al re destina
con doni, con avvisi e con richieste
d'amicizia, di comodi e di pace.
Questi il vпaggio lor sollecitando
se ne van senza indugio. Ed egli intanto,
preso nel lito il primo alloggiamento,
di picciol fosso la muraglia insolca;
e 'n sembianza di campo e di fortezza
d'argini lo circonda e di steccato.
Seguon gl'imbasciatori, e giа da presso
la cittа, l'alte torri e i gran palagi
scoprendo de' Latini, anzi a le mura
veggono il fior de' giovinetti loro
su' cavalli e su' carri esercitarsi,
lotteggiar, tirar d'arco, avventar pali,
e cotali altre oprar contese e prove
di corso, d'attitudine e di forza.
Tosto che compariscono, un messaggio
quindi si spicca in fretta, e precorrendo
riporta al vecchio re, che nuova gente
di gran sembiante e d'abito straniero
vien dal mare a sua corte. Il re comanda
che siano ammessi; e ne l'antico seggio
per ascoltarli in maestа si reca.
Era la corte un ampio, antico, augusto
di piъ di cento colonnati estrutto
in cima a la cittа sublime albergo:
Pico di Laьrento il vecchio rege
l'avea fondata. Era d'oscure selve,
era de' numi de' primi avi suoi
sovra d'ogn'altra veneranda e sacra.
Qui de' lor scettri, qui de' primi fasci
s'investivano i regi. In questo tempio
era la curia, eran le sacre cene,
eran de' padri i pubblici conviti
de l'occiso arпete. Avea d'antico
cedro, nel primo entrar, un dietro a l' altro,
de' suoi grand'avi i simulacri eretti.
Italo v'era, e il buon padre Sabino,
Saturno con la vite e con la falce,
Giano con le due teste, e gli altri regi
tutti di mano in man, che combattendo
non fur di sangue a la lor patria avari.
Pendean da le pareti e da' pilastri
un gran numero d'armi e d'altre spoglie
prese in battaglia. Ai portici d'intorno
carri, trofei, catene, elmi e cimieri
e securi e corazze e scudi e lance
e rostri di navili e ferri e sbarre
di fracassate porte erano affisse.
In abito succinto e con la verga
che fu poi di Quirino, e con l'ancile
ne la sinistra esso re Pico assiso
v'era, pria cavaliero, e poscia augello:
ch'in augello il cangiт la maga Circe,
sdegnosa amante; e gli suoi regi fregi
gli converse in colori, e 'l manto in ali.
In questo tempio sovra il seggio agiato
de' suoi maggiori, a sй Latino i Teucri
chiamar si fece; e dolcemente in prima
cosн parlт: «Dite, Troiani amici,
a che venite? chй venite in luogo
c'ha di Troia e di voi contezza a pieno;
siatevi, o per errore o per tempesta
o per bisogno a questi liti addotti,
come a gente di mar sovente avviene;
ch'a buon fiume, a buon porto, a buon ospizio
siete arrivati. Da Saturno scesi
sono i Latini, ed ospitali e buoni,
non per forza o per leggi, ma per uso
e per natura; e del buon vecchio dio
seguitiam l'orme e de' suoi tempi d'oro.
Io mi ricordo (ancor che questa fama
sia per molt'anni omai debile e scura)
che per vanto soleano i vecchi Aurunci
dir che Dardano vostro in queste parti
ebbe il suo nascimento; e quinci in Ida
passт di Frigia, e ne la tracia Samo,
ch'or Samotracia и detta. Da' Tirreni,
e da Cтrito uscio Dardano vostro,
ch'or fatto и dio, e tra' celesti in cielo
d'oro ha la sua magion, di stelle il seggio,
e qua giъ tra' mortali, altari e vуti».
Avea ciт detto, quando a' detti suoi
il saggio Ilпoneo cosн rispose:
«Alto signor, di Fauno egregio figlio,
non tempesta di mar, non venti avversi,
non di stelle, o di liti o di nocchieri
error qui n'have, od ignoranza addotti.
Noi di nostro voler, di nostro avviso
ci siam venuti, discacciati e privi
d'un regno de' maggiori e de' piъ chiari,
ch'unqua vedesse d'orпente il sole.
Da Dardano e da Giove il suo legnaggio
ha quella gente, e quel troiano Enea
ch'a te ne manda. La tempesta, i fati,
e la ruina che ne' campi idиi
venne di Grecia, onde l'Europa e l'Asia
e 'l mondo tutto sottosopra andonne,
cui non и conta? chi sн lunge и posto
da noi, che non l'udisse? o che da l'acque
de l'estremo Oceаno, o che dal foco
de la torrida zona sia diviso
da la nostra notizia? Il nostro affanno
tal fece intorno a sй diluvio e moto,
che scosse ed allagт la terra tutta.
Da indi in qua dispersi e vagabondi
per tanti mari, un sol picciol ridotto
agli dиi nostri, un lito che n'accolga,
non da nemici, un poco d'acqua e d'aura,
lassi! quel ch'ogn'uom ha, cercando andiamo.
Non disutili, credo, e non indegni
sarem del regno vostro: a voi non lieve
ne verrа fama; e d'un tal merto tanto
vi sarem grati, che l'ausonia terra
non mai si pentirа d'aver i figli
de la misera Troia in grembo accolti.
Io ti giuro, signor, per le fatiche,
per gli fati d'Enea, per la possente
sua destra, giа per fede e per valore
famosa al mondo, che da molte genti
molte fпate (e ciт vil non ti sembri,
che da noi stessi a te ci proferiamo
e ti preghiamo) siam pregati noi,
e per compagni desпati e cerchi:
ma dai fati, signor, e dagli dиi
siam qui mandati. Dardano qui nacque,
qua Febo ne richiama. Febo stesso,
e quel di Delo, и ch'ai Tirreni, al Tebro,
al fonte di Numнco, a voi c'invia.
Queste, oltre a ciт, poche reliquie, e segni
de l'andata fortuna e del suo amore
il re nostro vi manda; che dal foco
son de la patria ricovrate a pena.
Con questa coppa il suo buon padre Anchise
sacrificava. Questo regno in testa,
quando era in solio, il gran Prпamo avea:
questo и lo scettro, questa и la tпara,
sacro suo portamento; e queste vesti
son de le donne d'Ilio opre e fatiche».
Al dir d'Ilпoneo stava Latino
fisso col volto a terra immoto e saldo
come in astratto, e solo avea le luci
degli occhi intese a rimirar, non tanto
il dipint'ostro e gli altri regi arnesi,
quanto in pensar de la diletta figlia
il maritaggio, e 'l vaticinio uscito
dal vecchio Fauno. E 'n se stesso raccolto,
"Questi и certo - dicea, - quei che da' fati
si denunzia venir di stran paese
genero a me, sposo a Lavinia mia,
del mio regno partecipe e consorte.
Questi и da cui verrа l'egregia stirpe,
che col valor farassi e con le forze
soggetto e tributario il mondo tutto".
Ed al fin lieto: «O - disse, - eterni dиi,
secondate voi stessi i vostri augъri
e i pensier miei. Da me, Troiani, arete
tutto che desiate; e i vostri doni
gradisco e pregio; e mentre re Latino
sarа, sarete voi nel regno suo
cortesemente accolti, e 'l seggio e i campi
e ciт ch'и d'uopo, come a Troia foste,
in copia arete. Or s'ei tanto desia
l'amistа nostra e 'l nostro ospizio, vegna
egli in persona, e non abborra omai
il nostro amico aspetto. Arra e certezza
ne fia di pace il convenir con lui,
e di lui stesso aver la fede in pegno.
Da l'altra parte, a mio nome gli dite
quel ch'io dirovvi. Io senza piъ mi trovo
una mia figlia. A questa il mio paterno
oracolo, e del ciel molti prodigi
vietan ch'io dia marito altro ch'esterno.
D'esterna parte, tal d'Italia и 'l fato,
un genero dal ciel mi si promette,
per la cui stirpe il mio nome e 'l mio sangue
ergerassi a le stelle. Or se del vero
punto и 'l mio cor presago, egli и quel desso
cred'io, che 'l fato accenna, e 'l credo, e 'l bramo».
Ciт detto, de' trecento, che mai sempre
a' suoi presepi avea, nitidi e pronti
destrier di fazпone e di rispetto,
per gli cento orator cento n'elegge,
ch'avean le lor coverte e i lor girelli,
le pettiere e le briglie in varie guise
d'ostro e di seta ricamati e d'oro,
e d'тr le ghiere, e d'тr le borchie e i freni.
Al troian duce assente un carro invia
con due corsier ch'eran di quei del Sole
generosi bastardi, e vampa e foco
sbruffavan per le nari. Al Sol suo padre
la razza ne furт la scaltra Circe
allor ch'a l'incantate sue giumente
Eto e Pirтo furtivamente impose.
Tali in su tai cavalli alteramente
tornando i Teucri al teucro duce, allegre
portвr novelle e parentela e pace.
Ed ecco che di Grecia uscendo e d'Argo,
l'empia moglie di Giove, alto da terra
sospesa, infin dal sicolo Pachino
vide i legni troiani; e vide Enea
con tutti i suoi, che lieto e fuor del mare
e secur de la terra, incominciava
d'alzar gli alberghi, e di fondar le mura
giа d'un altr'Ilio. E, punta il cor di doglia
squassando il capo: «Ah, - disse, - a me pur troppo
nimica razza! ah troppo a' fati miei
fati de' Frigi avversi! E forse estinti
fыr ne' campi sigиi? forse potuti
si son prender giа presi, ed arder arsi?
Per mezzo de le schiere e de gl'incendi
han trovata la via. Stanca fia dunque
questa mia deitа, quando ancor sazia
non и de l'odio? E giа s'и resa, quando
ha fin qui nulla oprato? E che mi giova
che sian del regno, e de la patria in bando?
Che mi val ch'io mi sia con tutto il mare
a loro opposta? Ah! che del mar giа tutte,
e del ciel contra lor le forze ho logre.
E che le Sirti, e che Scilla e Cariddi
a me con lor son valse? Ecco han del Tebro
la desпata foce; e non han tйma
del mar piъ, nй di me. Marte poteo
disfar la gente de' Lapнti immane;
potй Dпana aver da Giove in preda
del suo disegno i Calidуni antichi,
quando de' Calidуni e de' Lapнti,
vиr le pene, era il fallo o nullo o leve:
ed io consorte del gran Giove e suora,
misera, incontro a lor che non ho mosso?
Che di me non ho fatto? E pur son vinta.
Enea, Enea mi vince. Ah se con lui
il mio nume non puт, perchй d'ognuno,
chпunque sia, non ogni aнta imploro?
Se mover contra lui non posso il cielo,
moverт l'Acheronte. Oh non per questo
il fato si distorna; ed ei non meno
di Latino otterrа la figlia e 'l regno.
Che piъ? Lo tratterrт, gli darт briga:
porrт, s'altro non posso, in tanto affare
gara, indugio e scompiglio: a strage, a morte,
ad ogni strazio condurrт le genti
de l'un rege e de l'altro; e questi avanzi
faran primieramente i lor suggetti
de la lor amistа. Con questo in prima,
si sian suocero e genero. Di sangue
de' Troiani e de' Rutuli dotata
n'andrai, regia donzella, al tuo marito;
e del tuo maritaggio e del tuo letto
auspice fia Bellona in vece mia.
Cotal non partorн di face pregna
Ecuba a Troia incendio, qual Ciprigna
arа con questo suo novello Pari
partorito altro foco, altra ruina
a quest'altr'Ilio». Ciт dicendo, in terra
discese irata, e da l'inferne grotte
a sй chiamт la nequitosa Aletto.
De le tre dire Furie una e costei,
cui son l'ire, i dannaggi, i tradimenti,
le guerre, le discordie, le ruine,
ogn'empio officio, ogni mal'opra a core.
E tale un mostro in tanti e cosн fieri
sembianti si trasmuta, e de' serpenti
sн tetra copia le germoglia intorno,
che Pluto e le tartaree sorelle
sue stesse in odio ed in fastidio l'hanno.
Giunon le parla, e via piъ co' suoi detti
in tal guisa l'accende: «O de la Notte
possente figlia, io per mio proprio affetto,
per onor dei mio nume, per salvezza
de la mia fama un tuo servigio agogno.
Adoprati per me, che, mal mio grado,
questo troiano Enea del re Latino
genero non divenga, e nel suo regno
con gran mio pregiudicio non s'annidi.
Tu puoi, volendo, armar l'un contra l'altro
i concordi fratelli: odi e zizzanie
seminar tra' congiunti; e per le case
con mill'arti nocendo, in mille guise
infra' mortali indur morti e ruine.
Scuoti il fecondo petto, e le sue forze
tutt'a quest'opra accampa. Inferma, annulla
questa lor pace; infiamma i cori e l'armi,
arme ognun brami, ognun le gridi e prenda».
Di serpi e di gorgуnei veneni
guarnissi Aletto; e per lo Lazio in prima
scorrendo, e per Laurento, e per la corte,
de la regina Amata entro la soglia
insidiosamente si nascose.
Era allor la regina, come donna,
e come madre, dal materno affetto,
da lo scorno de' Teucri, dal disturbo
de le nozze di Turno in molte guise
afflitta e conturbata, quando Aletto,
per rivolgerla in furia, e co' suoi mostri
sossopra rivoltar la reggia tutta,
da' suoi cerulei crini un angue in seno
l'avventт sн, che l'entrт poscia al core.
Ei primamente infra la gonna e 'l petto
strisciando, e non mordendo, a poco a poco
col suo vipereo fiato non sentito
furor le spira. Or le si fa monile
attorcigliato al collo: or lunga benda
le pende da le tempie, or quasi un nastro
l'annoda il crine. Alfin lubrico errando,
per ogni membro le s'avvolge e serpe.
Ma fin che prima andт languido e molle
soli i sensi occupando il suo veleno,
fin che il suo foco penetrando a l'ossa
non avea tutto ancor l'animo acceso,
ella donnescamente lagrimando
sovra la figlia e sovra le sue nozze
con tal queto rammarco si dolea:
«Adunque si darа Lavinia mia
a Troiani? a banditi? E tu, suo padre,
tu cosн la collochi? E non t'incresce
di lei, di te, di sua madre infelice?
Ch'al primo vento ch'a' suoi legni spiri,
di cosн caro pegno orba rimasa
(come dir si potrа), da questo infido
fuggitivo ladrone abbandonata
del mar vedrolla e de' corsari in preda?
O non cosн di Sparta anco rapita
fu la figlia di Leda? E chi rapilla
non fu troiano anch'egli? Ah! dov'и, sire,
quella tua santa invпolabil fede?
quella cura de' tuoi? quella promessa
che s'и fatta da te giа tante volte
al nostro Turno? Se d'esterna gente
genero ne si dee; se fisso e saldo
и ciт nel tuo pensiero; se di Fauno
tuo padre il vaticinio a ciт si stringe;
io credo ch'ogni terra, ch'al tuo scettro
non и soggetta, sia straniera a noi.
Cosн ragion mi detta, e cosн penso
che l'oracolo intenda. Oltre che Turno
(se la sua prima origine si mira),
per suoi progenitori Inaco, Acrisio,
e per patria ha Micene». A questo dire
stava nel suo proposito Latino
ognor piъ duro. E la regina intanto
piъ dal veleno era del serpe infetta:
e giа tutta compresa, e da gran mostri
agitata, sospinta e forsennata,
senza ritegno a correre, a scagliarsi,
a gridar fra le genti e fuor d'ogni uso
a tempestar per la cittа si diede.
Qual per gli atri scorrendo e per le sale
infra la turba de' fanciulli a volo
va sferzato palиo ch'a salti, a scosse,
ed a suon di guinzagli roteando
e ronzando s'aggira e si travolve,
quando con meraviglia e con diletto
gli va lo stuol de' semplicetti intorno,
e gli dan co' flagelli animo e forza;
tal per mezzo del Lazio e de' feroci
suoi popoli vagando, insana andava
la regina infelice. E, quel che poscia
fu d'ardire e di scandalo maggiore,
di Bacco simulando il nume e 'l coro
per tфr la figlia ai Teucri, e le sue nozze
distornare, o 'ndugiare, a' monti ascesa
ne le selve l'ascose: «O Bacco, o Libero, -
gridando - Eьци; questa mia vergine
sola a te si convien, solo a te serbasi.
Ecco per te nel tuo coro s'esercita,
per te prende i tuoi tirsi, a te s'impampina,
a te la chioma sua nodrisce e dedica».
Divolgasi di ciт la fama intanto
fra le donne di Lazio, e tutte insieme
da furor tratte, e d'uno ardore accese
saltan fuor degli alberghi a la foresta.
Ed altre ignude i colli e sciolte i crini,
d'irsute pelli involte, e d'aste armate,
di tralci avviticchiate e di corimbi,
orrende voci e tremuli ululati
mandano a l'aura. E la regina in mezzo
a tutte l'altre una facella in mano
prende di pino ardente, e l'imeneo
de la figlia e di Turno imita e canta;
e con gli occhi di sangue e d'ira infetti
al cielo ad ora ad or la voce alzando:
«Uditemi, - dicea - madri di Lazio,
quante ne siete in ogni loco, uditemi.
Se puт pietade in voi, se puт la grazia
de la misera Amata, e la miseria
di lei, ch'ad ogni madre и d'infortunio,
disvelatevi tutte e scapigliatevi;
Eьци; a questo sacrificio
ne venite con me, meco ululatene».
Cosн da Bacco e da le Furie spinta
ne gia per selve e per deserti alpestri
la regina infelice, quando Aletto,
ch'assai giа disturbato avea il consiglio
di re Latino e la sua reggia tutta,
ratto su le fosc'ali a l'aura alzossi;
e lа 've giа d'Acrisio il seggio pose
l'avara figlia, ivi dal vento esposta,
a l'orgoglioso Turno si rivolse.
Ardea fu quella terra allor nomata,
e di Ardea il nome insino ad or le resta,
ma non giа la fortuna. In questo loco
entro al suo gran palagio a mezza notte
prendea Turno riposo. Allor ch'Aletto
vi giunse, e 'l torvo suo maligno aspetto
con ciт ch'avea di Furia, in senil forma
cangiando, raggruppossi, incanutissi,
e di bende e d'olivo il crin velossi:
Cаlibe in tutto fessi, una vecchiona
ch'era sacerdotessa e guardпana
del tempio di Giunone; e 'n cotal guisa
si pose a lui davanti, e cosн disse:
«Turno, adunque avrai tu sofferto indarno
tante fatiche, e questi Frigi avranno
la tua sposa e 'l tuo regno? Il re, la figlia
e la dote, ch'a te per gli tuoi merti,
per lo sparso tuo sangue era dovuta,
e giа da lui promessa, or ti ritoglie;
e de l'una e de l'altro erede e sposo
fassi un esterno. O va, cosн deluso,
e per ingrati la persona e l'alma
inutilmente a tanti rischi esponi.
Va, fa strage de' Toschi. Va, difendi
i tuoi Latini, e in pace li mantieni.
Questo mi manda apertamente a dirti
la gran saturnia Giuno. Arma, arma i tuoi;
preparati a la guerra; esci in campagna;
assagli i Frigi, e snidagli dal fiume
c'han di giа preso, e i lor navili incendi.
Dal ciel ti si comanda. E se Latino
a le promissпon non corrisponde,
se Turno non accetta e non gradisce
nй per suo difensor nй per suo genero,
provi qual sia ne l'armi, e quel ch'importi
averlo per nimico». Al cui parlare
il giovine con beffe e con rampogne
cosн rispose: «Io non son, vecchia, ancora,
come te, fuor de' sensi; e ben sentita
ho la nuova de' Teucri, e me ne cale
piъ che non credi. Non perт ne temo
quel che tu ne vaneggi; e non m'ha Giuno
(penso) in tanto dispregio e 'n tale oblio.
Ma tu dagli anni rimbambita e scema
entri, folle, in pensier d'armi e di stati,
ch'a te non tocca. Quel ch'и tuo mestiero,
governa i templi, attendi ai simulacri,
e di pace pensar lascia e di guerra
a chi di guerreggiar la cura и data».
Furia a la Furia questo dire accrebbe,
sн che d'ira avvampando, ella il suo volto
riprese e rincagnossi: ed ei, negli occhi
stupido ne rimase, e tremт tutto:
con tanti serpi s'arruffт l'Erinne,
con tanti ne fischiт, tale una faccia
le si scoverse. Indi le bieche luci
di foco accesa, la viperea sferza
gli girт sopra: e sн com'era immoto
per lo stupore, ed a piъ dire inteso,
lo risospinse; e i suoi detti e i suoi scherni
cosн rabbiosamente improverogli:
«Or vedrai ben se rimbambita e scema
sono entrata in pensier d'armi e di stati,
ch'a me non tocchi; e se son vecchia e folle:
guardami, e riconoscimi; ch'a questo
son dal Tartaro uscita, e guerra e morte
meco ne porto». E, ciт detto, avventogli
tale una face e con tal fumo un foco,
che fe' tenebre agli occhi e fiamme al core.
Lo spavento del giovine fu tale,
che rotto il sonno, di sudor bagnato
si trovт per angoscia il corpo tutto:
e stordito sorgendo, arme d'intorno
cercossi, armi gridт, d'ira s'accese,
d'empio disio, di scelerata insania,
di scompigli e di guerra: in quella guisa
che con alto bollor risuona e gonfia
un gran caldar, quand'ha di verghe a' fianchi
chi gli ministra ognor foco maggiore,
quando l'onda piъ ferve, e gorgogliando
piъ rompe, piъ si volve e spuma e versa,
e 'l suo negro vapore a l'aura esala.
Cosн Turno commosso a muover gli altri
si volge incontinente; e de' suoi primi,
altri al re manda con la rotta pace,
ad altri l'apparecchio impon de l'arme,
onde Italia difenda, onde i Troiani
sian d'Italia cacciati, ed ei si vanta
contra de' Teucri e contra de' Latini
aver forze a bastanza. E ciт commesso,
e ne' suoi vуti i suoi numi invocati,
i Rutuli infra loro a gara armando
s'esortavan l'un l'altro; e tutti insieme
eran tratti da lui, chi per lui stesso
(che giovin era amabile e gentile),
chi per la nobiltа de' suoi maggiori,
e chi per la virtude, e per le pruove
di lui viste altre volte in altre guerre.
Mentre cosн de' suoi Turno dispone
gli animi e l'armi, in altra parte Aletto
sen vola a' Teucri; e con nuov'arte apposta
in su la riva un loco, ove in campagna
correndo e 'nsidпando, il bello Iulo
seguia le fere fuggitive in caccia.
Qui di sъbita rabbia i cani accese
la virgo di Cocнto, e per la traccia
gli mise tutti; onde scopriro un cervo
che fu poi di tumulto, di rottura,
di guerra, e d'ogni mal prima cagione.
Questo era un cervo mansueto e vago,
giа grande e di gran corna, che divelto
da la sua madre, era nel gregge addotto
di Tirro e de' suoi figli: ed era Tirro
il custode maggior de' regi armenti
e de' regi poderi; ed egli stesso
l'avea nutrito e fatto umile e manso.
Silvia, una giovinetta sua figliuola,
l'avea per suo trastullo; e con gran cura
di fior l'inghirlandava, il pettinava,
lo lavava sovente. Era a la mensa
a lor d'intorno: e da lor tutti amava
esser pasciuto e vezzeggiato e tocco.
Errava per le selve a suo diletto,
e da se stesso poi la sera a casa,
come a proprio covil, se ne tornava.
Quel dн per avventura di lontano
lungo il fiume venia tra l'ombre e l'onde,
da la sete schermendosi e dal caldo;
quando d'Ascanio l'arrabbiate cagne
gli s'avventaro; ed esso a farsi inteso
d'un tale onore e di tal preda acquisto,
diede a l'arco di piglio, e saettollo.
La Furia stessa gli drizzт la mano,
e spinse il dardo sн ch'a pieno il colse
ne l'un de' fianchi, e penetrogli a l'epa.
Ferito, insanguinato, e con lo strale
il meschinello ne le coste infisso,
al consueto albergo entro ai presepi
mugghiando e lamentando si ritrasse;
ch'un lamentarsi, un dimandar aнta
d'uomo in guisa piъ tosto che di fera,
erano i mugghi onde la casa empiea.
Silvia lo vide in prima, e col suo pianto,
col batter de le mani, e con le strida
mosse i villani a far turbe e tumulto.
Sta questa peste per le macchie ascosa
di topi in guisa, a razzolar la terra
in ogni tempo, sн che d'ogni lato
n'usciron d'improvviso; altri con pali
e con forche, e con bronchi aguzzi al foco;
altri con mazze nodorose e gravi,
e tutti con quell'armi ch'a ciascuno
fecer l'ira e la fretta. Era per sorte
Tirro in quel punto ad una quercia intorno,
e per forza di cogni e di bipenne
l'avea tronca e squarciata: onde affannoso,
di sudor pieno, fieramente ansando
con la stessa ch'avea secure in mano
corse a le grida, e le masnade accolse.
L'infernal dea, ch'a la veletta stava
di tutto che seguia, veduto il tempo
accomodato al suo pensier malvagio,
tosto nel maggior colmo se ne salse
de la capanna, e con un corno a bocca
sonт de l'armi il pastorale accento.
La spaventosa voce che n'uscio
dal Tartaro spiccossi. E pria le selve
ne tremвr tutte; indi di mano in mano
di Nemo udilla e di Diana il lago,
udilla de la Nera il bianco fiume,
e di Velino i fonti, e tal l'udiro,
che ne strinser le madri i figli in seno.
A quella voce, e verso quella parte
onde sentissi, i contadini armati,
comunque ebber tra via d'armi rincontro,
subitamente insieme s'adunaro.
Da l'altro lato i giovani troiani
al soccorso d'Ascanio in campo usciro,
spiegвr le schiere, misersi in battaglia,
vennero a l'armi; sн che non piъ zuffa
sembrava di villani, e non piъ pali
avean per armi, ma forbiti ferri
serrati insieme, che dal sol percossi,
per le campagne e fin sotto a le nubi
ne mandavano i lampi; in quella guisa
che lieve al primo vento il mar s'increspa,
poscia biancheggia, ondeggia e gonfia e frange
e cresce in tanto, che da l'imo fondo
sorge fino a le stelle. Almone, il primo
figlio di Tirro, primamente cadde
in questa pugna. Ebbe di strale un colpo
in su la strozza, che la via col sangue
gli chiuse e de la voce e de la vita.
Caddero intorno a lui molt'altri corpi
di buona gente. Cadde tra' migliori,
mentre l'armi detesta, e per la pace
or con questi or con quelli si travaglia,
Galиso il vecchio, il piъ giusto e 'l piъ ricco
de la contrada. Cinque greggi avea
con cinque armenti; e con ben cento aratri
coltivava e pascea l'ausonia terra.
Mentre cosн ne' campi si combatte
con egual Marte, Aletto giа compita
la sua promessa, poi ch'a l'armi, al sangue
ed a le stragi era la guerra addotta,
uscн del Lazio, e baldanzosa a l'aura
levossi, ed a Giunon superba disse:
«Eccoti l'arme e la discordia in campo,
e la guerra giа rotta. Or di' ch'amici,
di' che confederati, e che parenti
si sieno omai, poichй d'ausonio sangue
giа sono i Teucri aspersi. Io, se piъ vuoi,
piъ farт. Di rumori e di sospetti
empierт questi popoli vicini;
condurrogli in aiuto; andrт per tutto
destando amor di guerra; andrт spargendo
per le campagne orror, furore ed armi».
«Assai, - Giuno rispose, - hai di terrore
e di frode commesso: ha giа la guerra
le sue cagioni; hanno (comunque in prima
la sorte le si regga) ambe le parti
le genti in campo, e l'armi in mano; e l'armi
son giа di sangue tinte, e 'l sangue и fresco.
Or queste sponsalizie e queste nozze
comincino a godersi il re Latino,
e questo di Ciprigna egregio figlio.
Tu, perchй non consente il padre eterno
ch'in questa eterea luce e sopra terra
cosн licenziosa te ne vada,
torna a' tuoi chiostri; ed io, s'altro in ciт resta
da finir, finirт». Ciт disse a pena
la figlia di Saturno, che d'Aletto
fischiвr le serpi, e dispiegвrsi l'ali
in vиr Cocнto. И de l'Italia in mezzo
e de' suoi monti una famosa valle,
che d'Amsanto si dice. Ha quinci e quindi
oscure selve, e tra le selve un fiume
che per gran sassi rumoreggia e cade,
e sн rode le ripe e le scoscende,
che fa spelonca orribile e vorago,
onde spira Acheronte, e Dite esala.
In questa buca l'odпoso nume
de la crudele e spaventosa Erinne
gittossi, e dismorbт l'aura di sopra.
Non perт Giuno di condur la guerra
rimansi intanto, ed ecco dal conflitto
venir ne la cittа la rozza turba
de' contadini, e riportare i corpi
del giovinetto Almone e di Galиso,
cosн com'eran sanguinosi e sozzi.
Gli mostrano, ne gridano, n'implorano
dagli dиi, da Latino e da le genti
testimonio, pietа, sdegno e vendetta.
Evvi Turno presente, che, con essi
tumultuando esclama, e 'l fatto aggrava,
e detesta e rimprovera e spaventa,
«Questi, questi, - dicendo, - son chiamati
a regnar ne l'Ausonia: ai Frigi, ai Frigi
dа Latino il suo sangue, e Turno esclude».
Sopravvengono intanto i furпosi,
che, con le donne attonite scorrendo,
gian con Amata per le selve in tresca;
chй grande era d'Amata in tutto il regno
la stima e 'l nome; e d'ogni parte accolti
tutti contra gli annunzi, contra i fati
l'armi chiedendo e la non giusta guerra,
van di Latino a la magione intorno.
Egli di rupe in guisa immoto stassi,
di rupe che, nel mar fondata e salda,
nй per venti si crolla, nй per onde
che le fremano intorno, e gli suoi scogli
son di spuma coverti e d'alga invano.
Ma poichй superar non puote il cieco
lor malvagio consiglio, e che le cose
givan di Turno e di Giunone a vуto,
molto pria con gli dиi, con le van'aure
si protestт; poscia: «Dal fato, - disse, -
son vinto, e la tempesta mi trasporta.
Ma voi per questo sacrilegio vostro
il fio ne pagherete. E tu fra gli altri,
Turno, tu pria n'avrai supplizio e morte;
e preci e vуti a tempo ne farai,
ch'a tempo non saranno. Io, quanto a me,
giа de' miei giorni e de la mia quпete
son quasi in porto: e da voi sol m'e tolto
morir felicemente». E qui si tacque,
e 'l governo depose e ritirossi.
Era in Lazio un costume, che venuto
и poi di mano in man di Lazio in Alba,
e d'Alba in Roma, ch'or del mondo и capo,
che nel muover de l'armi ai Geti, agl'Indi,
agli Arabi, agl'Ircani, a qual sia gente
ch'elle sian mosse, sн com'ora a' Parti
per ricovrar le mal perdute insegne,
s'apron le porte de la guerra in prima.
Queste son due, che per la riverenza,
per la religпone e per la tйma
del fiero Marte, orribili e tremende
sono a le genti; e con ben cento sbarre
di rovere, di ferro e di metallo
stan sempre chiuse; e lor custode и Giano.
Ma quando per consiglio e per decreto
de' padri si determina e s'appruova
che si guerreggi, il consolo egli stesso,
sн come и l'uso, in abito e con pompa
c'ha da' Gabini origine e da' regi,
solennemente le disferra e l'apre:
ed egli stesso al suon de le catene
e de la rugginosa orrida soglia
la guerra intuona: guerra dopo lui
grida la gioventъ: guerra e battaglia
suonan le trombe; ed и la guerra inditta.
In questa guisa era Latino astretto
d'annunzпarla ai Teucri; a lui quest'atto
d'aprir le triste e spaventose porte
si dovea come a rege. Ma 'l buon padre,
schivo di sн nefando ministero,
s'astenne di toccarle, e gli occhi indietro
volse per non vederle, e si nascose.
Ma per tфrre ogni indugio un'altra volta,
ella stessa regina de' celesti
dal ciel discese, e di sua propria mano
pinse, disgangherт, ruppe e sconfisse
de le sbarrate porte ogni ritegno,
sн che l'aperse. Allor l'Ausonia tutta,
ch'era dianzi pacifica e quпeta,
s'accese in ogni parte. E qua pedoni,
lа cavalieri; a la campagna ognuno,
ognuno a l'arme, a maneggiar destrieri,
a fornirsi di scudi, a provar elmi,
a far, chi con la cote, e chi con l'unto,
ciascuno i ferri suoi lucidi e tersi.
Altri s'addestra a sventolar l'insegne,
altri a spiegar le schiere, e con diletto
s'ode annitrir cavalli e sonar tube.
Cinque grosse cittа con mille incudi
a fabbricare, a risarcir si dаnno
d'ogni sorte armi: la possente Atina,
Ardea l'antica, Tivoli il superbo,
e Crustumerio, e la torrita Antenna.
Qui si vede cavar elmi e celate;
lа torcere e covrir targhe e pavesi:
per tutto riforbire, aьzzar ferri,
annestar maglie, rinterzar corazze,
e per fregiar piъ nobili armature,
tirar lame d'acciar, fila d'argento.
Ogni bosco fa lance, ogni fucina
disfа vomeri e marre, e spiedi e spade
si forman dai bidenti e da le falci.
Suonan le trombe, dassi il contrassegno,
gridasi a l'armi: e chi cavalli accoppia,
e chi prende elmo, e chi picca, e chi scudo.
Questi ha la piastra, e quei la maglia indosso,
e la sua fida spada ognuno a canto.
Or m'aprite Elicona, e di conserto
meco il canto movete, alme sorelle,
a dir qual regi e quai genti e qual'armi
militassero allora, e di che forze,
e di quanto valore era in quei tempi
la milizia d'Italia. A voi conviensi
di raccontarlo, a cui conto e ricordo
de le cose e de' tempi и dato eterno:
a noi per tanti secoli rimasa
n'и di picciola fama un'aura a pena.
Il primo, che le genti a questa guerra
ponesse in campo, fu Mezenzio, il fiero
del ciel dispregiatore e degli dиi.
D'Etruria era signore, e di Tirreni
conducea molte squadre. Avea suo figlio
Lauso con esso, un giovine il piъ bello,
da Turno in fuori, che l'Ausonia avesse.
Gran cavaliero, egregio cacciatore
fino allor si mostrava; e mille armati
avea la schiera sua, che seco uscita
fuor d'Agillina, ne l'esiglio ancora
indarno lo seguia; degno che fosse
ne l'imperio del padre. A questi dopo
segue Aventino, de l'invitto Alcide
leggiadro figlio. Questi col suo carro
di palme adorno, e co' vittorпosi
suoi corridori in campo appresentossi.
Eran di mazzafrusti, di spuntoni,
di chiavarine, e di savelli spiedi
armate le sue schiere. Ed egli, a piedi,
d'un cuoio di leon velluto ed irto
vestia gli omeri e 'l dorso, e del suo ceffo,
che quasi digrignando ignudi e bianchi
mostrava i denti e l'una e l'altra gota,
si copria 'l capo. E con tal fiera mostra
d'Ercole in guisa, a corte si condusse.
Vennero appresso i suoi fratelli argivi
Catillo e Cora, e di Tiburte il terzo
guidвr le genti, che da lui nomate
fыr Tiburtine. Dai lor colli entrambi
calando avanti a l'ordinate schiere,
due Centauri sembravano a vedergli,
che giъ correndo da' nevosi gioghi
d'Omole e d'Otri, risonando fansi
dar la via da' virgulti e da le selve.
Cиcolo, di Preneste il fondatore,
comparve anch'egli: un re che da bambino
fu tra l'agresti belve appo d'un foco
trovato esposto; onde di foco nato
si credй poscia, e di Volcano figlio.
Avea costui di rustici d'intorno
una gran compagnia, ch'eran de l'alta
Preneste, de' sassosi Ernici monti,
de la gabina Giuno e d'Anпene,
e d'Amasиno e de la ricca Anagni
abitanti e cultori: e come gli altri,
non eran in su' carri, o d'aste armati
o di scudi coverti. Una gran parte
eran frombolatori, e spargean ghiande
di grave piombo, e parte avean due dardi
ne la sinistra, e cappelletti in testa
d'orridi lupi: il manco piи discalzo
il destro o d'uosa o di corteccia involto.
Messapo venne poscia, de' cavalli
il domatore e di Nettuno il figlio,
contro al ferro fatato e contro al foco.
Questi subitamente armando spinse
le genti sue per lunga pace imbelli;
deviт dalle nozze i Fescennini,
da le leggi i Falisci: armт Soratte,
armт Flavinio, e tutti che d'intorno
ha di Cimini e la montagna e 'l lago,
e di Capena i boschi. Ivan del pari
in ordinanza, e del suo re cantando,
come soglion talor da la pastura
tornarsi in vиr le rive al ciel sereno
i bianchi cigni, e le distese gole
disnodar gorgheggiando, e far di tutti
tale una melodia, che di Caпstro
ne suona il fiume e d'Asia la palude.
Nй pur un si movea di tanta schiera
da la sua fila, in ciт lo stuol sembrando
de' rochi augelli allor che di passaggio
vien d'alto mare, e come intera nube
a terra unitamente se ne cala.
Ecco di poi venir Clauso il sabino,
di quel vero sabino antico sangue;
ch'avea gran gente, e la sua gente tutta
pareggiava sol egli. Il nome suo
fece Claudia nomare e la famiglia
e la tribъ Romana allor che Roma
diessi a' Sabini in parte. Era con lui
la schiera d'Amiterno e de' Quiriti
di quegli antichi. Eravi il popol tutto
d'Ereto, di Mutisca, di Nomento
e di Velino e quei che da l'alpestra
Tиtrica, da Severo, da Caspиria,
da Fтruli e d'Imella eran venuti:
quei che bevean del Fаbari e del Tebro,
che da la fredda Norcia eran mandati;
le squadre degli Ortini, il Lazio tutto,
e tutti alfin che nel calarsi al mare
bagna d'ambe le sponde Allia infelice.
Tanti flutti non fa di Libia il golfo
quando cade Orпon ne l'onde, il verno:
nй tante spiche hanno dal sole aduste
la state, o d'Ermo o de la Licia i campi,
quante eran genti. Arme sonare e scudi
s'udian per tutto, e tutta al suon de' piedi
trepidar si vedea l'ausonia terra.
Quindi ne vien l'agamennonio auriga
Aleso, del troian nome nimico;
che di mille feroci nazпoni,
in aнta di Turno, un gran miscuglio
dietro al suo carro avea di montanari.
Parte de' pampinosi a Bacco amici
Mаssici colli, e parte degli Aurunci,
de' Sidicini liti, di Volturno,
di Cale, de' Satнcoli e degli Osci.
Questi per armi avean mazze e lanciotti
irti di molte punte, e di soatto
scudisci al braccio, onde erano i lor colpi,
traendo e ritraendo, in molti modi
continьati e doppi. E pur con essi
aveano e per ferire e per coprirsi
targhe ne la sinistra, e storte al fianco.
Nй tu senza il tuo nome a questa impresa,
Иbalo, te n'andrai, del gran Telone
e de la bella Ninfa di Sebeto
figlio onorato. Di costui si dice
che, non contento del paterno regno,
Capri al vecchio lasciando e i Teleboi,
fe' d'esterni paesi ampio conquisto,
e fu re de' Sarrasti e de le genti
che Sarno irriga. Insignorissi appresso
di Bаtulo, di Rufra, di Celenne
e de' campi fruttiferi d'Avella.
Mezze picche avean questi a la tedesca
per avventarle, e per celate in capo
sъveri scortecciati, e di metallo
brocchieri a la sinistra, e stocchi a lato.
Calт di Nersa e de' suoi monti alpestri
Ufente, un condottier ch'era in quei tempi
di molta fama e fortunato in arme.
Equнcoli, avea seco, la piъ parte
orrida gente, per le selve avvezza
cacciar le fere, adoperar la marra,
arar con l'armi in dosso, e tutti insieme
viver di cacciagioni e di rapine.
De la gente Marrubia un sacerdote
venne fra gli altri; sacerdote insieme
e capitan di genti ardito e forte:
Umbrone era il suo nome; Archippo il rege
che lo mandava. Di felice oliva
avea il cimiero e l'elmo intorno avvolto.
Era gran ciurmatore, e con gl'incanti
e col tatto ogni serpe addormentava:
degl'idri, de le vipere, e degli aspi
placava l'ira, raddolciva il tтsco,
e risanava i morsi. E non per tanto
potй, nй con incanti nй con erbe
de' Marsi monti, risanare il colpo
de la dardania spada; onde il meschino
ne fu da le foreste de l'Anguizia,
dal cristallino Fъcino e dagli altri
laghi d'intorno disпato e pianto.
Mandт la madre Aricia a questa guerra
Virbio, del casto Ippolito un figliuolo
gentile e bello; e da le selve il trasse
d'Egиria, ove d'Imeto in su la riva
piъ cуlta e piъ placabile и Dпana;
chй, per fama, d'Ippolito si dice,
poscia che fu per froda o per disdegno
de l'iniqua madrigna al padre in ira,
e che gli spaventati suoi cavalli
strazio e scempio ne fкro, egli di nuovo,
per virtъ d'erbe e per pietа che n'ebbe
la casta dea, fu rivocato in vita.
Sdegnossi il padre eterno ch'un mortale
fosse a morte ritolto; e l'inventore
di cotal arte, che d'Apollo nacque,
fulminando mandт ne' regni bui.
Ippolito da Trivia in parte occulta,
scevro da tutti, a cura fu mandato
d'Egиria ninfa, e ne la selva ascoso,
lа 've solingo, e col cangiato nome
di Virbio, sconosciuto i giorni mena
d'un'altra vita. E quinci и che dal tempio
e da le selve a Trivia consecrate
i cavalli han divieto: chй, lor colpa,
fu 'l suo carro e 'l suo corpo al marin mostro,
e poscia a morte indegnamente esposto.
Il figlio, che pur Virbio era nomato,
non men di lui feroce, i suoi destrieri
esercitava, e 'n su 'l paterno carro
arditamente a questa guerra uscio.
Turno infra' primi, di persona e d'armi
riguardevole e fiero, e sopra tutti
con tutto 'l capo, in campo appresentossi.
Un elmo avea con tre cimieri in testa
e suvvi una Chimera, che con tante
bocche foco anelava quante a pena
non apria Mongibello; e con piъ fremito
spargea le fiamme, come piъ crudele
era la zuffa, e piъ di sangue avea.
Lo scudo era d'acciaio, e d'oro intorno
tutto commesso, e d'тr nel mezzo un'Io
era scolpita, che giа 'l manto e 'l ceffo,
le setole e le corna avea di bue;
memorabil soggetto! Eravi appresso
Argo che la guardava; eravi il padre
Inaco che, chiamandola, versava,
non men de gli occhi che de l'urna, un fiume.
Dopo Turno venia di fanti un nembo,
un'ordinanza, una campagna piena
tutta di scudi. Eran le genti sue
Argivi, Aurunci, Rutuli, Sicani
e Sacrani e Labici, che dipinti
portan gli scudi. Avea del tiberino,
avea del sacro lito di Numнco
e de' rutuli colli e del Circиo,
d'Аnsure a Giove sacro, di Feronia
diletta a Giuno, de la paludosa
Sаtura, e del gelato e scemo Ufente
gran turba di villani e d'aratori.
L'ultima a la rassegna vien Camilla
ch'era di volsca gente una donzella,
non di conocchia o di ricami esperta,
ma d'armi e di cavalli, e benchй virgo,
di cavalieri e di caterve armate
gran condottiera, e ne le guerre avvezza.
Era fiera in battaglia, e lieve al corso
tanto che, quasi un vento sopra l'erba
correndo, non avrebbe anco de' fiori
tocco, nй de l'ariste il sommo a pena;
non avrebbe per l'onde e per gli flutti
del gonfio mar, non che le piante immerse,
ma nй pur tinte. Per veder costei
uscian de' tetti, empiean le strade e i campi
le genti tutte; e i giovini e le donne
stavan con meraviglia e con diletto
mirando e vagheggiando quale andava,
e qual sembrava; come regiamente
d'ostro ornato avea 'l tergo, e 'l capo d'oro;
e con che disprezzata leggiadria
portava un pastoral nodoso mirto
con picciol ferro in punta; e con che grazia
se ne gia d'arco e di faretra armata.

LIBRO OTTAVO

Poscia che di Laurento in su la rтcca
fe' Turno inalberar di guerra il segno,
e che guerra sonвr le roche trombe,
spinti i carri e i destrieri, e l'armi scosse
di Marte al tempio, incontinente i cuori
si turbвr tutti, e tutto il Lazio insieme
con sъbito tumulto si ristrinse.
Fremessi, congiurossi, rassettossi
ognun ne l'arme. I tre gran condottieri
Messаpo, Ufente, e l'empio de' celesti
dispregiator Mezenzio, usciro in prima.
Accolsero i sussidi; armвr gli agresti;
spogliвr d'agricoltor le ville e i campi.
In Arpi a Dпomede si destina
Vиnulo imbasciatore, e gli s'impone
che soccorso gli chiegga, e che gli esponga
quanto ciт de l'Italia e del suo stato
torni a grand'uopo: con che gente Enea,
con quale armata v'ha giа posto il piede,
e fermo il seggio, e rintegrato il culto
a' suoi vinti Penati; come aspira
a questo regno, e come anco per fato,
e per retaggio del dardanio seme,
lo si promette. Che perciт da molti
и giа seguito, e ch'ogni giorno avanza
e di forze e di nome. Indi soggiunga:
«Quel che 'l duce de' Teucri in ciт disegni
e che miri e che tenti (se fortuna
gli va seconda) a te via piъ ch'a Turno
esser puт manifesto, e ch'a Latino».
Questi andamenti e queste trame allora
correan per Lazio, e lo scaltrito eroe
le sapea tutte, onde in un mare entrato
di gran pensieri, or la sua mente a questo,
or a quel rivolgendo in varie parti,
d'ogni cosa avea tйma e speme e cura.
Cosн di chiaro umor pieno un gran vaso,
dal sol percosso, un tremulo splendore
vibra ondeggiando, e rinfrangendo a volo
manda i suoi raggi, e le pareti e i palchi
e l'aura d'ogni intorno empie di luce.
Era la notte, e giа per ogni parte
del mondo ogni animal d'aria e di terra
altamente giacea nel sonno immerso,
allor che 'l padre Enea, cosн com'era
dal pensier de la guerra in ripa al Tebro
giа stanco e travagliato, addormentossi.
Ed ecco Tiberino, il dio del loco
veder gli parve, un che giа vecchio al volto
sembrava. Avea di pioppe ombra d'intorno
di sottil velo e trasparente in dosso
ceruleo ammanto, e i crini e 'l fronte avvolto
d'ombrosa canna. E de l'ameno fiume
placido uscendo a consolar lo prese
in cotal guisa: «Enea, stirpe divina,
che Troia da' nemici ne riporti
e la ravvivi e la conservi eterna;
o da me, da' Laurenti e da' Latini
giа tanto tempo a tanta speme atteso,
questa и la casa tua, questo и secura-
mente, non t'arrestare, il fatal seggio
che t'и promesso. Le minacce e 'l grido
non temer de la guerra. Ogn'odio, ogn'ira
cessa giа de' celesti. E perchй 'l sonno
credenza non ti scemi, ecco a la riva
sei giа del fiume, u' sotto a l'elce accolta
sta la candida troia con quei trenta
candidi figli a le sue poppe intorno.
Questo fia dunque il segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la tua sede. E questo и 'l fine
de' tuoi travagli: onde il tuo figlio Ascanio
dopo trent'anni il memorabil regno
fonderа d'Alba, che cosн nomata
fia dal candore e dal felice incontro
di questa fera. E tutto adempirassi
ch'io ti predнco, e t'и predetto avanti.
Or brevemente quel ch'oprar convienti,
per uscir glorпoso e vincitore
di questa guerra, ascolta. И di qui lunge
non molto Evandro, un re che de l'Arcadia
и qua venuto; e sopra a questi monti
ha degli Arcadi suoi locato il seggio.
Il loco, da Pallante suo bisavo,
и stato Pallantиo da lui nomato:
ed essi, perchй son nel Lazio esterni,
son nemici a' Latini, ed han con loro
perpetua guerra. A te fa di mestiero
con lor confederarti, e per compagni
a questa impresa avergli. Io, fra le ripe
mie stesse, incontro a l'acqua a la magione
d'Evandro agevolmente condurrotti.
Dиstati, de la dea pregiato figlio;
e come pria vedrai cader le stelle,
porgi solennemente a la gran Giuno
preghiere e vуti; e supplicando vinci
de l'inimica dea l'ira e l'orgoglio;
ed a me, poi che vincitor sarai,
paga il dovuto onore. Io sono il Tebro
cerco da te, che, qual tu vedi, ondoso
rado queste mie rive, e fendo i campi
de la fertile Ausonia, al cielo amico
sovr'ogni fiume. Quel che qui m'и dato,
и 'l mio seggio maggiore: e fia che poscia
sovr'ogni altra cittade il capo estolla».
Cosн disse, e tuffossi. Enea dal sonno
si scosse; il giorno aprissi, ed ei col sole
sorgendo insieme, al suo nascente raggio
si volse umнle, e con le cave palme
de l'onda si spruzzт del fiume, e disse:
«Ninfe lauremti, ninfe, ond'hanno i fiumi
l'umore e 'l corso; e tu con l'onde tue,
padre Tebro sacrato, al vostro Enea
date ricetto, e da' perigli omai
lo liberate. Ed io da qual sia fonte
che sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce
(poichй tanta di me pietа ti stringe)
sempre t'onorerт, sempre di doni
ti sarт largo. O de l'esperid'onde
superbo regnatore, amico e mite
ne sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani».
Cosн dicendo, de' suoi legni elegge
i due migliori, e gli correda e gli arma
di tutto punto. Ed ecco d'improvviso
(mirabil mostro!) de la selva uscita
una candida scrofa, col suo parto
di candor pari, sopra l'erba verde
ne la riva accosciata gli si mostra.
Tosto il pietoso eroe col gregge tutto
a l'altar la condusse, e poichй sacra
l'ebbe al gran nume tuo, massima Giuno,
a te l'uccise. Il Tebro quella notte
quanto fu lunga, di turbato e gonfio
ch'egli era, si rendй tranquillo e queto,
sн che, senza rumore e quasi in dietro
tornando, come stagno o come piana
palude adeguт l'onde, e tolse a' remi
ogni contesa. Accelerando adunque
il cammin preso, i ben unti e spalmati
lor legni se ne vanno incontro al fiume
com'a seconda; sн che l'onde stesse
stavan meravigliose, e i boschi intorno,
non soliti a veder l'armi e gli scudi
e i dipinti navili, che da lunge
facean novella e peregrina mostra.
Se ne van notte e giorno remigando
di tutta forza, e i seni e le rivolte
varcan di mano in mano, or a l'aperto,
or tra le macchie occulti, e via volando
segan l'onde e le selve. Era il sol giunto
a mezzo il giorno, quando incominciaro
da lunge a discovrir la rтcca e 'l cerchio
e i rari allor del poverello Evandro
umili alberghi, ch'ora al cielo adegua
la romana potenza. Immantinente
volser le prore a terra, ed appressвrsi
lа 've per avventura il re quel giorno
solennemente in un sacrato bosco
avanti a la cittа stava onorando
il grande Alcide. Avea Pallante seco
suo figlio, e del suo povero senato
e de' suoi primi giovini un drappello
che d'incensi, di vittime e di fumo
di caldo sangue empiean l'are e gli altari.
Tosto che di lontan vider le gaggie,
e per entro de' boschi occulte e chete
gir navi esterne, insospettiti in prima
si levвr da le mense. Ma Pallante
arditamente: «Non movete, - disse, -
seguite il sacrificio». E tosto a l'armi
dato di piglio, incontro a lor si spinse.
Giunto, gridт da l'argine: «O compagni,
qual fin v'adduce, o qual v'intrica errore
per cosн torta e disusata via?
Ov'andate? chi siete? onde venite?
che ne recate voi? la pace, o l'armi?
Enea di su la poppa un ramo alzando
di pacifera oliva: «Amici - disse -
vi siamo, e siam Troiani, e coi Latini
vostri nimici inimicizia avemo.
Questi superbamente il nostro esiglio
perseguitando ne fan guerra ed onta.
Ricorremo ad Evandro. A lui porgete
da nostra parte, che de' Teucri alcuni
son qui venuti condottieri eletti
per sussidi impetrarne e lega d'arme».
Stupн primieramente a sн gran nome
Pallante, indi vиr lui rivolto umнle:
«Signor, qual che tu sii, scendi e tu stesso
parla, - disse, - al mio padre, e nosco alloggia».
E lo prese per mano ed abbracciollo.
Lasciato il fiume e ne la selva entrati,
Enea dinanzi al re comparve e disse:
«Signor, che di bontа sovr'ogni Greco,
e di fortuna sovr'a me ten vai
tanto che supplichevole, e co' rami
di benda avvolti a tua magion ne vengo;
io, perchй sia Troiano e tu di Troia
per nazпon nimico e per legnaggio
agli Atridi congiunto, or non pavento
venirti avanti, chй 'l mio puro affetto,
gli oracoli divini, il sangue antico
de' maggior nostri, il tuo famoso grido,
e 'l fato e 'l mio voler m'han teco unito.
Dardano, de' Troiani il primo autore,
nacque d'Elettra, come i Greci han detto;
e d'Elettra fu padre il grande Atlante,
che con gli omeri suoi folce le stelle.
Vostro progenitor Mercurio fue,
che nel gelido monte di Cillene
de la candida Maia al mondo nacque;
e Maia ancor, se questa fama и vera,
venne d'Atlante, e da lo stesso Atlante
che fa con le sue spalle al ciel sostegno.
Cosн d'un fonte lo tuo sangue e 'l mio
traggon principio. E quinci и che securo
senza opra di messaggi e senza scritti,
pria ch'io ti tenti, e pria che tu m'affidi,
posto ho me stesso e la mia vita a rischio,
e supplichevolmente a la tua casa
ne son venuto. I Rutuli ch'infesti
sono anche a te, se de l'Italia fuori
cacceran noi, giа de l'Italia tutta
l'imperio si promettono, e di quanto
bagna l'un mare e l'altro. Or la tua fede
mi porgi, e la mia prendi; ch'ancor noi
siamo usi a guerra, e cor ne' petti avemo».
Il re, mentre ch'Enea parlando stette,
il volto e gli occhi e la persona tutta
gli andт squadrando; e brevemente al fine
cosн rispose: «Valoroso eroe,
come lieto io t'accolgo, e come certo
raffigurar mi sembra il volto e i gesti
e la favella di quel grande Anchise
tuo genitore! Io mi ricordo quando
Priamo per riveder la sua sorella
Esпone e 'l suo regno, in un passaggio
che perciт fe' da Troia a Salamina,
toccт d'Arcadia i gelidi confini.
De le prime lanugini fiorito
era il mio mento a pena allor ch'io vidi
quei gran duci di Troia, e de' Troiani
lo stesso re. Con molto mio diletto
gli mirai, gli ammirai, notai di tutti
gli abiti e le fattezze, e sopra tutti
leggiadro, riguardevole ed altero
sembrommi Anchise. Un desiderio ardente
mi prese allor d'offrirmi, e d'esser conto
a quel signore. Il visitai, gli porsi
la destra, ospite il fei, nel mio Fenиo
meco l'addussi. Ond'ei poscia partendo,
un arco, una faretra e molti strali
di Licia presentommi, e d'oro appresso
una ricca intessuta sopravesta
con due freni indorati ch'ancor oggi
son di Pallante mio: sн che giа ferma
и tra noi quella fede e quella lega
ch'or ne chiedete. E non fia il sol dimane
dal balcon d'orпente uscito a pena,
che le mie genti e i miei sussidi arete.
Intanto a questa festa, che solenne
facciamo ogni anno, e tralasciar non lece
(giа che venuti siete amici nostri),
nosco restate, e come di compagni
queste mense onorate». Avea ciт detto,
allor che nuovi cibi e nuove tazze
ripor vi fece, e lor tutti nel prato
a seder pose; e sopra tutti Enea,
di villoso leon disteso un tergo,
seco al suo desco ed al suo seggio accolse.
Per man de' sacerdoti e de' ministri
del sacrificio, d'arrostite carni
de' tori, di vin puro, di focacce,
gran piatti, gran canestri e gran tazzoni
n'andaro a torno; e co' suoi Teucri tutti
Enea fu de le viscere pasciuto
del saginato, a dio devoto, bue.
Tolte le mense, e 'l desiderio estinto
de le vivande, a ragionar rivolti,
Evandro incominciт: «Troiano amico,
questo convito e questo sacrificio
cosн solenne, e questo a tanto nume
sacrato altare, instituiti e posti
non sono a caso; chй del vero culto
e de gli antichi dиi notizia avemo.
Per memoria, per merito e per vуto
d'un gran periglio sua mercй scampato,
son questi onori a questo dio dovuti.
Mira colа quella scoscesa rupe,
e que' rotti macigni, e di quel colle
quell'alpestra ruina, e quel deserto.
Ivi era giа remota e dentro al monte
cavata una spelonca, ov'unqua il sole
non penetrava. Abitatore un ladro
n'era, Caco chiamato, un mostro orrendo
mezzo fera e mezz'uomo, e d'uman sangue
avido sн, che 'l suol n'avea mai sempre
tiepido. Ne grommavan le pareti,
ne pendevano i teschi intorno affissi,
di pallor, di squallor luridi e marci.
Volcano era suo padre; e de' suoi fochi
per la bocca spirando atri vapori,
gia d'un colosso, e d'una torre in guisa.
Contra sн diro mostro, dopo molti
dannaggi e molte morti, il tempo al fine
ne diede e questo dio soccorso e scampo.
Egli di Spagna vincitor ne venne
in queste parti, de le spoglie altero
di Gerпone, in cui tre volte estinse
in tre corpi una vita, e ne condusse
tal qui d'Ibиro un copпoso armento,
ch'avea pien questo fiume e questa valle.
Caco ladron feroce e furпoso,
d'ogni misfatto e d'ogni sceleranza
ardito e frodolente esecutore,
quattro tori involonne e quattro vacche,
ch'eran fior de l'armento. E perchй l'orme
indicio non ne dessero, a rovescio
per la coda gli trasse; e ne la grotta
gli condusse e celogli. Eran l'impronte
de' lor piи volte al campo, e verso l'antro
segno non si vedea ch'a la spelonca
il cercator drizzasse. Avea giа molti
giorni d'Anfitrпon tenuto il figlio
qui le sue mandre, e ben pasciuto e grasso
era il suo armento, sн che nel partire
tutte queste foreste e questi colli
di querimonia e di muggiti empiero.
Mugghiт da l'altro canto, e 'l vasto speco
da lunge rintonar fece una vacca
de le rinchiuse: onde schernita e vana
restт di Caco la custodia e 'l furto;
ch'udilla Alcide, e d'ira e di furore
in un sъbito acceso, a la sua mazza,
ch'era di quercia nodorosa e grave,
diи di piglio, e correndo al monte ascese.
Quel dн da' nostri primamente Caco
temer fu visto. Si smarrн negli occhi,
si mise in fuga, e fu la fuga un volo:
tal gli aggiunse un timor le penne a' piedi.
Tosto che ne la grotta si rinchiuse,
allentт le catene, e di quel monte
una gran falda a la sua bocca oppose;
ch'a la bocca de l'antro un sasso immane
avea con ferri e con paterni ordigni
di cataratta accomodato in guisa
con puntelli per entro e stanghe e sbarre.
Ecco Tirinzio arriva, e come и spinto
da la sua furia, va per tutto in volta
fremendo, ora ai vestigi, ora ai muggiti,
ora a l'entrata de la grotta intento.
E portato da l'impeto, tre volte
scуrse de l'Aventino ogni pendice:
tre volte al sasso de la soglia intorno
si mise indarno; e tre volte affannato
ritornт ne la valle a riposarsi.
Era de la spelonca al dorso in cima
di selce d'ogn'intorno dirupata
un cucuzzolo altissimo ed alpestro
ch'ai nidi d'avvoltoi e di tali altri
augelli di rapina e di carogna
era opportuno albergo. A questo intorno
alfin si mise; e siccom'era al fiume
da sinistra inchinato, egli a rincontro
lo spinse da la destra, lo divelse,
col calce de la mazza a leva il pose,
e gli diи volta. A quel fracasso il cielo
rintonт tutto, si crollвr le ripe,
e 'l fiume impaurito si ritrasse.
Allor di Caco fu lo speco aperto:
scoprissi la sua reggia, e le sue dentro
ombrose e formidabili caverne.
Come chi de la terra il globo aprisse
a viva forza, e de l'inferno il centro
discovrisse in un tempo, e che di sopra
de l'abisso vedesse quelle oscure
del cielo abbominate orride bolge;
vedesse Pluto a l'improvviso lume
restar del sole attonito e confuso:
cotal Caco da sъbito splendore
ne la sua tomba abbarbagliato e chiuso
digrignar qual mastino Ercole vide;
e non piъ tosto il vide, che di sopra
sassi, travi, tronconi, ogn'arme addosso
fulgurando avventogli. Ei che nй fuga
avea nй schermo al suo periglio altronde,
da le sue fauci (meraviglia a dirlo!)
vapori e nubi a vomitar si diede
di fumo, di caligine e di vampa,
tal che miste le tenebre col foco
togliean la vista agli occhi e 'l lume a l'antro.
Non perт si contenne il forte Alcide,
che d'un salto in quel baratro gittossi
per lo spiraglio, e lа 'v'era del fumo
la nebbia e l'ondeggiar piъ denso, e 'l foco
piъ roggio, a lui che 'l vaporava indarno,
s'addusse, e lo ghermн; gli fece un nodo
de le sue braccia, e sн la gola e 'l fianco
gli strinse che scoppiar gli fece il petto,
e schizzar gli occhi; e 'l foco e 'l fiato e l'alma
in un tempo gli estinse. Indi la bocca
aprн de l'antro, e la frodata preda,
e del suo frodatore il sozzo corpo
fuor per un piи ne trasse, a cui d'intorno
corser le genti a meraviglia ingorde
di veder gli occhi biechi, il volto atroce,
l'ispido petto e l'ammorzato foco.
Da indi in qua questo dн santo ogni anno
da' nostri и lietamente celebrato:
e ne sono i Potizi i primi autori,
e i Pinari ministri. Allor quest'ara,
che Massima si disse, e che mai sempre
massima ne sarа, fu consecrata
in questo bosco. Or via dunque, figliuoli,
per celebrar tant'onorata festa,
coi rami in fronte e con le tazze in mano
il comun dio chiamate, e lietamente
l'un con l'altro invitatevi, e beete».
Ciт detto, il divisato erculeo pioppo
tessero altri in ghirlande, altri in festoni,
altri i mai ne piantaro. E di giа pieno
di sacrato liquore il gran catino,
tutti a mensa gioiosi s'adagiaro,
e spargendo e beendo, ai santi numi
porser preghiere e vуti. Espero intanto
era a l'occidental lito vicino
giа per tuffarsi, quando i sacerdoti
un'altra volta, e 'l buon Potizio avanti
con pelli indosso e con facelle in mano,
com'и costume, a convivar tornaro,
e le seconde mense e l'are sante
di grati doni e di gran piatti empiero.
I Salii intorno ai luminosi altari
givano in tresca, e di populea fronde
cingean le tempie. I vecchi da l'un coro
le prodezze cantavano e le lodi
del grande Alcide; i giovini da l'altro
n'atteggiavano i fatti: come prima
fanciul da la matrigna insidпato
i due serpenti strangolasse in culla;
come al suolo adeguasse Ecalia e Troia,
cittа famose; come superasse
mill'altre insuperabili fatiche
sotto al duro tiranno, e contr'ai fati
de l'empia dea. «Tu sei, - dicean cantando, -
invitto iddio, che de le nubi i figli
Nilиo e Folo uccidi; tu che 'l mostro
domi di Creta: tu che vinci il fiero
nemиo leone; te gl'inferni laghi,
te l'inferno custode ebbe in orrore
ne l'orrendo suo stesso e diro speco,
lа, 've tra 'l sangue e le corrose membra
ha de la morta gente il suo covile.
Cosa non и sн spaventosa al mondo,
che te spaventi, non lo stesso armato
incontr'al ciel Tifиo; nй quel di Lerna
con tanti e tanti capi orribil angue
senza avviso ti vide o senza ardire.
A te vera di Giove inclita prole,
umilmente inchiniamo, a te del cielo
nuovo aggiunto ornamento. E tu benigno
mira i cor nostri e i sacrifici tuoi».
Cosн pregando e celebrando in versi
cantavan le sue pruove. E sopra tutto
dicean di Caco e de la sua spelonca
e de' suoi fochi: e i boschi e i colli intorno
rispondean rintonando. Eran finiti
i sacrifici, quando il vecchio Evandro
mosse vиr la cittade; e seco a pari
da l'un de' lati Enea, da l'altro il figlio
avea, cui s'appoggiava; e ragionando
di varie cose, agevolava il calle.
Enea, meravigliando, in ogni parte
volgea le luci, desпoso e lieto
di veder quel paese e di saperne
i siti, i luoghi e le memorie antiche.
Di che spпando, il primo fondatore
de la romana rтcca in cotal guisa
a dir gli cominciт: «Questi contorni
eran pria selve; e gli abitanti loro
eran qui nati, ed eran fauni e ninfe,
e genti che di roveri e di tronchi
nate, nй di costumi, nй di culto,
nй di tori accoppiar, nй di por viti,
nй d'altr'arti, o d'acquisto, o di risparmio
avean notizia o cura: e 'l vitto loro
era di cacciagion, d'erbe e di pomi,
e la lor vita, aspra, innocente e pura.
Saturno il primo fu che in queste parti
venne, dal ciel cacciato, e vi s'ascose.
E quelle rozze genti, che disperse
eran per questi monti, insieme accolse
e diи lor leggi: onde il paese poi
da le latиbre sue Lazio nomossi.
Dicon che sotto il suo placido impero
con giustizia, con pace e con amore
si visse un secol d'oro, in fin che poscia
l'etа, degenerando, a poco a poco
si fe' d'altro colore e d'altra lega.
Quinci di guerreggiar venne il furore,
l'ingordigia d'avere, e le mischianze
de l'altre genti. L'assalоr gli Ausoni;
l'inondaro i Sicani; onde piъ volte
questa, che pria Saturnia era nomata,
ha con la signoria cangiato il nome,
e co' signori. E quinci и che da Tebro,
che ne fu re terribile ed immane,
Tebro fu detto questo fiume ancуra,
ch'Аlbula si dicea ne' tempi antichi.
Ed ancor me de la mia patria in bando,
dopo molti perigli e molti affanni
del mar sofferti, ha qui l'onnipotente
fortuna e l'invincibil mio destino
portato alfine; e qui posar mi fкro
gli oracoli tremendi e spaventosi
di Carmenta mia madre, e Febo stesso
che mia madre inspirava». E fin qui detto,
si spinse avanti; e quell'ara mostrogli,
e quella porta che fu poi di Roma,
Carmental detta, onore e ricordanza
de la ninfa indovina, ch'anzi a tutti
del Pallantиo predisse e de' Romani
la futura grandezza. Indi seguendo,
un gran bosco gli mostra, ove l'Asilo
Romolo contraffece; e 'l Lupercale,
che, quale era in Arcadia a Pan Liceo,
sotto una fredda rupe era dicato.
Poscia de l'Argileto gli dimostra
la sacra selva; e d'Argo ospite il caso
gli conta, e se ne purga e se ne scusa.
A la Tarpeia rupe, al Campidoglio
poscia l'addusse; al Campidoglio or d'oro,
che di spini in quel tempo era coverto:
un ermo colle dai vicini agresti
per la religпon del loco stesso
insino allor temuto e riverito:
ch'a veder sol quel sasso e quella selva
si paventava. E qui soggiunse Evandro:
«In questo bosco, e lа 've questo monte
и piъ frondoso, un dio, non si sa quale,
ma certo abita un dio. Queste mie genti
d'Arcadia han ferma fede aver veduto
qui Giove stesso balenar sovente,
e far di nembi accolta. Oltre a ciт vedi
qui su, quelle ruine e quei vestigi
di quei due cerchi antichi. Una di queste
cittа fondт Saturno, e l'altra Giano,
che Saturnia e Gianicolo fыr dette».
In cotal guisa ragionando Evandro,
se ne gian verso il suo picciolo ostello.
E ne l'andar, lа 'v'or di Roma и il Foro,
ov'и quella piъ florida contrada
de le Carine, ad ogni passo intorno
udian greggi belar, mugghiare armenti.
Giunti che furo: «In questo umile albergo
alloggiт - disse - il vincitore Alcide.
Questa fu la sua reggia. E tu v'alloggia,
e tu 'l gradisci, e le delizie e gli agi
spregiando, imita in ciт Tirinzio e dio,
e del tugurio mio meco t'appaga».
Cosн dicendo, il grand'ospite accolse
ne l'angusta magione, e collocollo
lа dove era di frondi e d'irta pelle
di libic'orsa attappezzato un seggio.
Venne la notte, e le fosc'ali stese
avea di giа sovra la terra, quando
Venere come madre, e non in vano
del suo figlio gelosa, il gran tumulto
veggendo e le minacce de' Laurenti,
con Volcan suo marito si ristrinse
con gran dolcezza; in tal guisa gli disse:
«Caro consorte, infinchй i regi Argivi
furo a' danni di Troia, e che per fato
cader dovea, nullo da te soccorso
volsi, o da l'arte tua; nй ti richiesi
d'armi allor, nй di macchine, nй d'altro
per iscampo de' miseri Troiani.
Le man, l'ingegno tuo, le tue fatiche
oprar non volli indarno, ancor che molto
con Prпamo e co' figli obbligo avessi,
e molto mi premesse il duro affanno
d'Enea mio figlio. Or per imperio espresso
e de' fati e di Giove egli nel Lazio
e tra' Rutuli и fermo. A te, mio sposo,
ricorro, a te, mio venerando nume;
e, madre, per un figlio arme ti chieggio;
quel che da te di Nиrлo la figlia,
e di Titon la moglie hanno impetrato.
Mira in quant'uopo io le ti chieggio, e quanti
e che popoli sono, a mia ruina
e de' miei, congregati; e qual fan d'armi
a porte chiuse orribile apparecchio».
E 'l buon marito, che d'eterno amore
avea il cor punto, le si volse, e disse:
«A che sн lungo esordio? Ov'и, consorte,
vиr me la tua fidanza? Io fin d'allora,
se t'era grado, avrei d'arme provvisti
i Teucri tuoi; nй 'l padre onnipotente,
nй i fati ci vietavano che Troia
non si tenesse, e Prпamo non fosse
restato ancor per diece altr'anni in vita.
Ed or s'a guerra t'apparecchi, e questo
и tuo consiglio, quel che l'arte puote
o di ferro o di liquido metallo,
quanto i mantici han fiato, e forza il foco,
io ti prometto. E tu con questi preghi
cessa di rivocar la possa in forse
del tuo volere, e 'l mio desir ch'и sempre
di far le voglie tue paghe e contente».
Finito il primo sonno, e de la notte
giа corso il mezzo, come femminella
che col fuso, con l'ago e con la spola
la sua vita sostenta e de' suoi figli;
che la notte aggiungendo al suo lavoro,
e dal suo focolar pria che dal sole
procacciandosi 'l lume, a la conocchia,
a l'aspo, a l'arcolaio esercitando
sta le povere ancelle, onde mantenga
il casto letto e i pargoletti suoi;
tale in tal tempo, e con tal cura a l'opra
surse il gran fabbro, e la fucina aperse.
Giace tra la Sicania da l'un canto,
e Lipari da l'altro un'Isoletta
ch'alpestra ed alta esce de l'onde, e fuma.
Ha sotto una spelonca, e grotte intorno,
che di feri Ciclopi antri e fucine
son, da' lor fochi affumicati e rosi.
Il picchiar de l'incudi e de' martelli
ch'entro si sente, lo stridor de' ferri,
il fremere e 'l bollir de le sue fiamme
e de le sue fornaci, d'Etna in guisa
intonar s'ode ed anelar si vede.
Questa и la casa, ove qua giъ s'adopra
Volcano, onde da lui Volcania и detta;
e qui per l'armi fabbricar discese
del grand'Enea. Stavan ne l'antro allora
Stиrope e Bronte e Piracmуne ignudi
a rinfrescar l'aspre saette a Giove.
Ed una allor n'avean parte polita,
parte abbozzata, con tre raggi attorti
di grandinoso nembo, tre di nube
pregna di pioggia, tre d'acceso foco,
e tre di vento impetuoso e fiero.
I tuoni v'aggiungevano e i baleni,
e di fiamme e di furia e di spavento
un cotal misto. Altrove erano intorno
di Marte al carro, e le veloci ruote
accozzavano insieme, ond'egli armato
le genti e le cittа scuote e commuove.
Lo scudo, la corazza e l'elmo e l'asta
avean da l'altra parte incominciati
de l'armigera Palla, e di commesso
la fregiavano a gara. Erano i fregi
nel petto de la dea gruppi di serpi
che d'oro avean le scaglie, e cento intrichi
facean guizzando di Medusa intorno
al fiero teschio, che cosн com'era
disanimato e tronco, le sue luci
volgea d'intorno minacciose e torve.
Tosto che giunse: «Via, - disse a' Ciclopi -
sgombratevi davanti ogni lavoro,
e qui meco guarnir d'arme attendete
un gran campione. E s'unqua fu mestiero
d'arte, di sperпenza e di prestezza,
и questa volta. Or v'accingete a l'opra
senz'altro indugio». E fu ciт detto a pena,
che, divise le veci e i magisteri,
a fondere, a bollire, a martellare
chi qua chi lа si diede. Il bronzo e l'oro
corrono a rivi; s'ammassiccia il ferro,
si raffina l'acciaio; e tempre e leghe
in piъ guise si fan d'ogni metallo.
Di sette falde in sette doppi unite,
ricotte al foco e ribattute e salde,
si forma un saldo e smisurato scudo,
da poter solo incontro a l'armi tutte
star de' Latini. Il fremito del vento
che spira da' gran mantici, e le strida
che ne' laghi attuffati, e ne l'incudi
battuti, fanno i ferri, in un sol tuono
ne l'antro uniti, di tenore in guisa
corrispondono a' colpi de' Ciclopi,
ch'al moto de le braccia or alte or basse
con le tenaglie e co' martelli a tempo
fan concerto, armonia, numero e metro.
Mentre in Eolia era a quest'opra intento
di Lenno il padre, ecco, sorgendo il sole,
surse al cantar de' mattutini augelli
il vecchio Evandro; e fuori uscio vestito
di giubba con le guigge a' piedi avvolte,
com'и tirrena usanza. Avea dal destro
omero a la Tegиa nel manco lato
una sua greca scimitarra appesa.
Avea da la sinistra di pantera
una picchiata pelle, che d'un tergo
gli si volgea su l'altro; e da la rтcca
scendendo, gli venian due cani avanti,
come custodi i suoi passi osservando.
In questa guisa il generoso eroe,
come quei che tenea memoria e cura
di compir quanto avea la sera avanti
ragionato e promesso, a le secrete
stanze del padre Enea si ricondusse.
Enea da l'altra parte assai per tempo
s'era levato: e solo in compagnia
l'un seco avea Pallante, e l'altro Acate.
Poscia che rincontrati e 'nsieme accolti
si salutaro, alfin, tra loro assisi,
a ragionar si diкro. E prima Evandro
cosн parlт: «Signor, cui vivo, in vita
dir si puт che sia Troia, e che del tutto
non sia caduta e vinta; in questa guerra
quel che poss'io per tuo sussidio и poco
a tanto affare. Il mio paese и chiuso
quinci dal tosco fiume, e quindi ha l'armi
che gli suonan de' Rutuli d'intorno
fin sulle porte. Avviso e pensier mio
и per confederati e per compagni
darti una gente numerosa e grande
con molti regni. In tal qui tempo a punto
sei capitato, e tal felice incontro
ti porge amica e non pensata sorte.
И non lunge di qui, su questi monti
d'Etruria, una famosa e nobil terra
ch'и sopra un sasso anticamente estrutta;
Agillina si dice, ove lor seggio
posero (и giа gran tempo) i bellicosi
e chiari Lidi: e floridi e felici
vi fыr gran tempo ancora. Or sotto il giogo
son di Mezenzio capitati al fine.
A che di lui contar le sceleranze?
A che la feritа? Dio le riservi
per suo castigo e de' seguaci suoi.
Questo crudele insino a' corpi morti
mescolava co' vivi (odi tormento)
che giunte mani a mani, e bocca a bocca
in cosн miserando abbracciamento
gli facea di putredine e di lezzo,
vivi, di lunga morte alfin morire.
I cittadini afflitti, disperati,
e fatti per paura alfin securi,
tesero insidie a lui, fecero strage
de' suoi, posero assedio, avventвr foco
a le sue case. Ei de le mani uscito
degli uccisori, ebbe rifugio a Turno
ch'or l'accoglie e 'l difende. Onde commossa
e per giusta cagione in furia volta
l'Etruria tutta in contra al suo tiranno
grida che muoia, e giа con l'armi in mano
a morte lo persegue. A questa gente
di molte mila condottiero e capo
aggiungerotti. E giа d'armate navi
son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede
che si spieghin l'insegne. Un vecchio solo
aruspice e 'ndovino и, che sospesi
gli tiene infino a qui: "Gente meonia, -
dicendo, - fior di gente antica e nobile,
benchй giusto dolor contra a Mezenzio,
e degn'ira v'incenda, incontro a Lazio
non movete voi giа; ch'a nessun Italo
domar d'Italia una tal gente и lecito,
s'esterno duce a tant'uopo non prendesi".
Cosн parato, e per timor confuso
del vaticinio stassi il campo etrusco.
E giа Tarconte stesso a questa impresa
m'invita, e giа mandato a presentarmi
ha la sedia e lo scettro e l'altre insegne
del tosco regno, perch'io re ne sia,
ed a l'oste ne vada. Ma la tarda
e fredda mia vecchiezza, e le mie forze
debili, smunte e diseguali al peso
fan ch'io rifiuti. Esorterei Pallante
mio figlio a questo impero, se non fosse
che nato di Sabella, Italo anch'egli
и per materna razza. Or questo incarco
dagli anni, da la gente, dal destino,
dal tuo stesso valore a te si deve.
E tu il prendi, signor, ch'abile e forte
sei piъ d'ogni Troian, d'ogni Latino
a sostenerlo. Ed io Pallante mio,
la mia speranza e 'l mio sommo conforto,
manderт teco; che 'l mestier de l'arme,
che le fatiche del gravoso Marte
ne la tua scuola a tollerare impari:
e te da' suoi prim'anni, e i gesti tuoi
meravigliando ad imitar s'avvezze.
Dugento cavalieri, il nervo e 'l fiore
de' miei d'Arcadia, spedirт con lui,
e dugento altri il mio Pallante stesso
in suo nome daratti». Avea ciт detto
Evandro a pena, che d'Anchise il figlio
e 'l fido Acate stкr co' volti a terra
chinati. E da pensier gravi e molesti
fфran oppressi, se dal ciel sereno
la madre Citerea segno non dava,
sн come diи. Chй tal per l'aria un lume
vibrossi d'improvviso e con tal suono,
che parve di repente il mondo tutto
come scoppiando e ruinando ardesse;
ed in un tempo di tirrene tube
squillar ne l'aura alto concento udissi.
Alzaron gli occhi: e la seconda volta,
e la terza iterar sentiro il tuono;
e vider lа 've il cielo era piъ scarco
e piъ tranquillo, una dorata nube
e d'armi un nembo che tra lor percosse,
scintillando, facean fremiti e lampi.
Stupiron gli altri. Ma il troiano eroe
che 'l cenno riconobbe e la promessa
de la diva sua madre: «Ospite, - disse, -
di saver non ti caglia quel ch'importi
questo prodigio; basta ch'ammonito
son io dal cielo, e questo и 'l segno e 'l tempo,
che la mia genitrice mi predisse:
che quandunque di guerra incontro avessi,
allora ella dal ciel presta sarebbe
con l'armi di Volcano a darmi aнta.
Oh quanta di voi strage mi prometto,
infelici Laurenti! e qual castigo
Turno, da me n'avrai! quant'armi, quanti
corpi volgere al mar, Tebro, ti veggio!
Via, patto e guerra mi si rompa omai».
Cosн detto, dal soglio alto levossi:
e con Evandro e co' suoi Teucri in prima
d'Ercole visitando i santi altari,
il sopito carbon del giorno avanti
lieto desta e raccende; i Lari inchina;
i pargoletti suoi Penati adora,
e di piъ scelte agnelle il sangue offrisce.
Indi torna a le navi, e de' compagni
fatte due parti, la piъ forte elegge
per seco addurre a preparar la guerra:
l'altra a seconda per lo fiume invia,
che pianamente e senz'alcun contrasto
si rivolga ad Ascanio, e dia novelle
de le cose e del padre. A quei che seco
in Etruria adducea, tosto provvisti
furo i cavalli. A lui venne in disparte
da tutti gli altri un palafreno eletto,
di pelle di leon tutto coverto,
ch'i velli avea di seta e l'ugna d'oro.
Per la piccola terra in un momento
si sparge il grido ch'ai tirreni liti
ne va lo stuol de' cavalieri in fretta.
Le madri, paventose, ai templi intorno
rinnovellano i vуti; e giа per tйma
piъ vicino il periglio, e piъ l'aspetto
sembra di Marte atroce. Evandro il figlio
nel dipartir teneramente abbraccia;
nй divelto da lui, nй sazio ancora
di lagrimar, gli dice: «O se da Giove
mi fosse, figlio, di tornar concesso
ora in quegli anni e 'n quelle forze, ond'io
sotto Preneste il primo incontro fei
co' miei nemici, e vincitore i monti
arsi de' scudi, allor ch'Иrilo stesso,
lo stesso re con queste mani ancisi,
a cui nascendo avea Feronia madre
date tre vite e tre corpi, e tre volte
(meraviglia a contarlo!) era mestiero
combatterlo e domarlo; ed io tre volte
lo combattei, lo vinsi, e lo spogliai
d'armi e di vita; se tal, dico, io fossi,
mai non sarei da te, figlio, diviso;
mai non fфra Mezenzio oso d'opporsi
a questa barba; nй per tal vicino
vedova resterebbe or la mia terra
di tanti cittadini. O dii superni,
o de' superni dii nume maggiore,
pietа d'un re servo e devoto a voi,
e d'un padre che padre и sol d'un figlio
unicamente amato. E se da' fati,
se da voi m'и Pallante preservato,
e s'io vivo or per rivederlo mai,
questa mia vita preservate ancora
con quanti unqua soffrir potessi affanni.
Ma se fortuna ad infortunio il tragge,
ch'io dir non oso, or or, prego, rompete
questa misera vita, or ch'и la tйma,
or ch'и la speme del futuro incerta,
e che te, figlio mio, mio sol diletto
e da me desпato in braccio io tengo,
anzi ch'altra novella me ne venga,
che 'l cor pria che gli orecchi mi percuota».
Cosн 'l padre ne l'ultima partita
disse al suo figlio; e da l'ambascia vinto,
fu da' sergenti riportato a braccio.
A la campagna i cavalieri intanto
erano usciti. Enea col fido Acate,
e co' suoi primi era nel primo stuolo;
Pallante in mezzo risplendea ne l'armi
commesse d'oro, risplendea ne l'ostro
che l'arme avean per sopravesta intorno;
ma via piъ risplendea ne' suoi sembianti
ch'eran di fiero e di leggiadro insieme.
Tale и quando Lucifero, il piъ caro
lume di Citerea, da l'Oceаno,
quasi da l'onde riforbito, estolle
il sacro volto, e l'aura fosca inalba.
Stan le timide madri in su le mura
pallide attentamente rimirando
quanto puon lunge il polveroso nembo
de l'armate caterve, e i lustri e i lampi
che facean l'armi tra i virgulti e i dumi
lungo le vie. Va per la schiera il grido
che si cavalchi; e lo squadron giа mosso
al calpitar de la ferrata torma
fa 'l campo risonar tremante e trito.
И di Cere vicino, appo il gelato
suo fiume un sacro bosco antico e grande
d'ombrosi abeti, che da cavi colli
intorno и cinto, venerabil molto
e di gran lunge. И fama che i Pelasgi,
primi del Lazio occupatori esterni,
a Silvan, dio de' campi e degli armenti,
consecrвr questa selva, e con solenne
rito gli dedicвr la festa e 'l giorno.
Quinci poco lontano era Tarconte
co' Tirreni accampato; e qui del campo
giunti a la vista, lа 've un alto colle
lo scopria tutto. Enea, co' primi suoi
fermossi, ove i cavalli e i corpi loro
giа stanchi ebbero alfin posa e ristoro.
Era Venere in ciel candida e bella
sovr'un etereo nembo apparsa intanto
con l'armi di Volcano; e visto il figlio
ch'oltre al gelido rio per erma valle
sen gia da gli altri solitario e scevro,
apertamente gli s'offerse, e disse:
«Eccoti 'l don che da me, figlio, attendi,
di man del mio consorte. Or francamente
gli orgogliosi Laurenti e 'l fiero Turno
sfida a battaglia, e gli combatti e vinci».
E, ciт detto, l'abbraccia. Indi gli addita
d'armi quasi un trofeo, ch'appo una quercia
dianzi da lei diposte, incontro agli occhi
facean barbaglio, e, contro al sol, piъ soli.
D'un tanto dono Enea, d'un tale onore
lieto, e non sazio di vederlo, il mira,
l'ammira e 'l tratta. Or l'elmo in man si prende
e l'orribil cimier contempla e 'l foco
che d'ogni parte avventa: or vibra il brando
fatale; or ponsi la corazza avanti
di fino acciaio e di gravoso pondo,
che di sanguigna luce e di colori
diversamente accesi era splendente:
qual sembra di lontan cerulea nube,
arder col sole e varпar col moto.
Brandisce l'asta; gli stinier vagheggia
nitidi e lievi, che fregiati e fusi
son di fin oro e di forbito elettro.
Meravigliando alfin sopra lo scudo
si ferma, e l'incredibile artificio
ond'era intesto, e l'argomento esplora.
In questo di commesso e di rilievo
avea fatto de' fochi il gran maestro
(come de' vaticini e del futuro
presago anch'egli) con mirabil arte
le battaglie, i trionfi e i fatti egregi
d'Italia, de' Romani e de la stirpe
che poi scese da lui; dal figlio Ascanio
incominciando, i discendenti tutti
e le guerre che fкr di mano in mano.
V'avea del Tebro in su la verde riva
finta la marzпal nudrice lupa
in un antro accosciata, e i due gemelli
che da le poppe di sн fiera madre
lascivetti pendean, senza paura
seco scherzando. Ed ella umнle e blanda
stava col collo in giro, or l'uno or l'altro
con la lingua forbendo e con la coda.
V'era poco lontan Roma novella
con una pompa, e con un circo avanti
pien di tumulto, ov'era un'insolente
rapina di donzelle, un darsi a l'arme
infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi.
E poscia infra gli stessi regi armati,
di Giove anzi a l'altare un tener tazze
invece d'armi in mano, un ferir d'ambe
le parti un porco, e far connubi e pace.
Nй di qui lunge, erano a quattro a quattro
giunti a due carri otto destrier feroci,
che, qual Tullo imponea (stato non fossi
tu sн mendace e traditore, Albano!)
in due parti traean di Mezio il corpo;
e sн com'era tratto, i brani e 'l sangue
ne mostravan le siepi, i carri e 'l suolo.
V'era, oltre a ciт, Porsenna, il tosco rege,
ch'imperiosamente da l'esiglio
rivocava i Tarquini, e 'n duro assedio
ne tenea Roma, che del giogo schiva
s'avventava nel ferro. Avea nel volto
scolpito questo re sdegno e minacce,
e meraviglia, che sol Cocle osasse
tener il ponte; e Clelia, una donzella,
varcar il Tebro e sciфr la patria e lei.
In cima dello scudo il Campidoglio
era formato e la Tarpeia rupe,
e Manlio che del tempio e de la rтcca
stava a difesa; e la romulea reggia
che 'l comignolo avea di stoppia ancora.
Tra' portici dorati iva d'argento
l'ali sbattendo e schiamazzando un'oca,
ch'apria de' Galli il periglioso agguato:
e i Galli per le macchie e per le balze
de l'erta ripa, da la buia notte
difesi, quatti quatti erano in cima
giа de la rтcca ascesi. Avean le chiome,
avean le barbe d'oro: aveano i sai
di lucid'ostri divisati a liste,
e d'тr monili ai bianchi colli avvolti.
Di forti alpini dardi avea ciascuno
da la destra una coppia, e ne' pavesi
stavan coi corpi rannicchiati e chiusi.
Quinci de' Salii e de' Luperci ignudi,
e de' greggi de' Flаmini scolpito
v'avea le tresche e i cantici e i tripudi,
ed essi tutti o coi lor fiocchi in testa,
o con gli ancili e con le tibie in mano:
cui le sacre carrette ivano appresso
coi santi simulacri e con gli arredi,
che traean per le vie le madri in pompa.
E piъ lunge nel fondo era la bocca
de la tartarea tomba, e del gran Dite
la reggia aperta: ov'anco eran le pene
e i castighi degli empi. E quivi appresso
stavi tu, scellerato Catilina,
sopra d'un ruinoso acuto scoglio
agli spaventi de le Furie esposto.
E scevri eran da questi i fortunati
luoghi de' buoni, a cui 'l buon Cato и duce.
Gonfiava in mezzo una marina d'oro
con la spuma d'argento, e con delfini
d'argentino color, che con le code
givan guizzando, e con le schiene in arco
gli aurati flutti a loco a loco aprendo.
E i liti e 'l mare e 'l promontorio tutto
si vedea di Leucаte a l'azia pugna
star preparati; e d'una parte Augusto
sovra d'un'alta poppa aver d'intorno
Europa, Italia, Roma e i suoi Quiriti,
e 'l senato e i Penati e i grandi iddii.
Di tre stelle il suo volto era lucente.
Due ne facea con gli occhi, ed una sempre
del divo padre ne portava in fronte.
Ne l'altro corno Agrippa era con lui
del marittimo stuolo invitto duce,
ch'altero, e 'l capo alteramente adorno
de la rostrata sua naval corona,
i vиnti e i numi avea fausti e secondi.
Da l'altra parte vincitore Antonio,
di vиr l'aurora e di vиr l'onde rubre
barbari aiuti, esterne nazпoni
e diverse armi dal Cataio al Nilo
tutto avea seco l'Orпente addotto:
e la zingara moglie era con lui,
milizia infame. Ambe le parti mosse
se ne gian per urtarsi, e d'ambe il mare
scisso da' remi e da' stridenti rostri
lacero si vedea, spumoso e gonfio.
Prendean de l'alto i legni in tanta altezza,
che Cicladi con Cicladi divelte
parean nel mar gir a 'ncontrarsi, o 'n terra
monti con monti: da sн fatte moli
avventavan le genti e foco e ferro,
onde il mar tutto era sanguigno e roggio.
Stava qual Isi la regina in mezzo
col patrio sistro, e co' suoi cenni il moto
dava alla pugna; e non vedea (meschina!)
quai due colъbri le venian da tergo.
L'abbaiatore Anъbi e i mostri tutti,
ch'eran suoi dii, contra Nettuno e contra
Venere e Palla armati eran con lei,
e Marte in mezzo, che nel campo d'oro
di ferro era scolpito, or questi or quelli
a la zuffa infiammava: e l'empie Furie
co' lor serpenti, la Discordia pazza
col suo squarciato ammanto, con la sferza
di sangue tinta la crudel Bellona
sgominavan le genti; e l'azio Apollo
saettava di sopra: agli cui strali
l'Egitto e gl'Indi e gli Arabi e i Sabei
davan le spalle. E giа chiamare i vиnti,
scioglier le funi, inalberar le vele
si vedea la regina a fuggir vтlta;
giа del pallor de la futura morte,
ond'era dal gran fabbro il volto aspersa,
in abbandono a l'onde, e de la Puglia
ne giva al vento. Avea d'incontro il Nilo,
un vasto corpo, che, smarrito e mesto,
a' vinti aperto il seno e steso il manto,
i latebrosi suoi ridotti offriva.
Cesare v'era alfin che trпonfando
tre volte in Roma entrava; e per trecento
gran templi a' nostri dii vуti immortali
si vedean consecrati. Eran le strade
piene tutte di plauso, di letizia,
e di feste e di giuochi. Ad ogni tempio
concorso di matrone; ad ogni altare
vittime, incensi e fiori. Egli di Febo
anzi al delъbro in maestade assiso
riconoscea de' popoli i tributi,
e la candida soglia e le superbe
sue porte ne fregiava. Iva la pompa
de le genti da lui domate intanto
varie di gonne, d'idпomi e d'armi.
Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera
in abito discinta; ivi un drappello
di Lиlegi, di Cari e di Geloni
con archi e strali. Infin dai liti estremi
i Mтrini condotti erano al giogo,
e gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio
giva l'Eufrate: ambe le corna fiacche
portava il Reno: disdegnoso il ponte
nel dorso si scotea l'Armenio Arasse.
A tal, da tanta madre avuto dono,
e d'un tanto maestro, Enea mirando,
benchй il velame del futuro occulte
gli tenesse le cose, ardire e speme
prese e gioia a vederle; e de' nepoti
la gloria e i fati agli omeri s'impose.

LIBRO NONO

Mentre cosн de' suoi scevro e lontano,
Enea fa d'armi e di sussidi acquisto,
Giuno di concitar la furia e l'ira
di Turno unqua non resta. Erasi Turno
col pensier della guerra al sacro bosco
di Pilunno suo padre allor ridotto,
che mandata da lei di Taьmante
gli fu la figlia in cotal guisa a dire:
«Ecco, quel che tu mai chiedere a lingua,
o 'mpetrar dagli dиi, Turno, potessi,
per sй l'occasпon ti porge e 'l tempo.
Enea, mentre dagli altri implora aнta,
le sue mura, i suoi legni e le sue genti
lascia ora a te, se tu 'l conosci, in preda.
Ei coi migliori al palatino Evandro
se n'и passato, e quindi и ne l'estremo
penetrato d'Etruria. Ora и nel campo
de' Toschi, e favvi indugio, ed arma agresti.
E tu qui badi or che di carri e d'armi
e di prestezza и d'uopo? E che non prendi
i suoi steccati che son or di tanto
per l'assenza di lui turbati e scemi?»
Poscia che cosн disse, alto su l'ali
la dea levossi; e tra l'opache nubi
per entro al suo grand'arco ascese e sparve.
Turno, che la conobbe, ambe a le stelle
alza le palme; e nel fuggir con gli occhi
seguilla e con la voce: «Iri, - dicendo, -
lume e fregio del cielo, e chi ti spiega
or da le nubi? E chi quaggiъ ti manda?
Ond'и l'aлr sн chiaro e sн tranquillo
cosн repente? Io veggio aprirsi il cielo,
vagar le stelle. O qual tu de' celesti
sii, ch'a l'armi m'inviti, io lieto accetto
un tanto augurio, e lo gradisco e 'l seguo».
Cosн dicendo al fiume si rivolse;
n'attinse; se ne sparse; e preci e vуti
molte fпate al ciel porse e riporse.
Eran giа le sue genti a la campagna,
e de' cavalli il condottier Messаpo
di ricca sopraveste ornato e d'oro
movea davanti. I giovini di Tirro
tenean l'ultime squadre, e Turno in mezzo
con tutto il capo a tutta la battaglia
sopravanzando, armato cavalcava
per l'ordinanza. In cotal guisa i campi
primieramente inonda il Gange o 'l Nilo
con sette fiumi; indi ristretto e queto
correndo, entro al suo letto si raccoglie.
Qui d'improvviso d'un oscuro nembo
di polve il ciel ravvilupparsi i Teucri
scorgon da lunge, e 'ntorbidarsi i campi.
Caнco il primo da l'avversa mole
gridando: «O, - disse, - cittadini, un gruppo
vиr noi di polverio ne l'aura ondeggia.
Ognuno a l'armi; ognun a la muraglia:
ecco i nemici». Di ciт corre il grido
per tutta la cittа; chiuggon le porte:
empion le mura. Tale avea, partendo,
dato il sagace Enea precetto e norma,
ch'in caso di rottura, a campo aperto
senza lui non s'ardisse o spiegar schiere
o far conflitto; e solo a la difesa
s'attendesse del cerchio. Ira e vergogna
gli animava a la zuffa: editto e tйma
gli ritenea del duce. Ond'entro armati
ne le torri, in su' merli e ne' ripari
aspettaro i nemici. A lento passo
procedea l'ordinanza; e Turno a volo
con venti eletti cavalieri avanti
si spinse e d'improvviso appresentossi.
Cavalcava di Tracia un gran corsiero,
di bianche macchie il vario tergo asperso,
e 'l suo dorato e luminoso elmetto
d'alto cimier copria cresta vermiglia.
Qui fermo: «Chi di voi, giovini, - disse, -
meco sarа, contr'a' nemici il primo?»
E quel ch'era di pugna indizio e segno,
l'asta a l'aura avventando, alteramente
trascorse il campo, ed ingaggiт battaglia.
Con alte grida e con orribil voci
fremendo lo seguiro i suoi compagni,
non senza meraviglia che sн vili
fossero i Teucri a non osar del pari
uscirgli a fronte, non mostrarsi in campo,
ferir da lunge, e di muraglia armarsi.
Turno di qua di lа turbato e fiero
si spinge e scorre il piano, e cerchia il muro,
e d'entrar s'argomenta ov'anche и chiuso.
Come rabbioso ed affamato lupo
al pieno ovile insidпando, freme
la notte, al vento ed a la pioggia esposto;
quando sotto le madri i puri agnelli
belan securi, ed ei la fame e l'ira
incontro a lor che gli son lunge, accoglie;
cosн gli occhi di foco e 'l cor di sdegno
il Rutulo infiammato, anelo e fiero
va de' nimici agli steccati intorno,
ogni loco, ogni astuzia, ogni sentiero
lnvestigando, onde o co' suoi vi salga
o lor ne sbuchi, e ne gli tiri al piano.
Alfin l'armata assaglie, ch'a' ripari
da l'un canto congiunta, entro un canale
d'onde e d'argini cinta, era nascosta.
Qui foco esclama, e foco di sua mano
con un ardente pino a' suoi seguaci
dispensa, e lor con la presenza accende:
onde tosto e le faci e i legni appresi,
fumo, fiamme, faville e vampi e nubi
e volumi di pece al ciel n'andaro.
Muse, ditene or voi qual nume allora
scampт de' Teucri i legni, e come un tanto
de la novella Troia incendio estinse.
Fama di tempo in tempo e prisca fede
n'avvera il fatto, e voi conto ne 'l fate.
Dicon che quando a navigar costretto
Enea primieramente i suoi navili
a formar cominciт nel bosco idиo:
d'Ida, di Berecinto e degli dиi
la madre, al sommo Giove orando, disse:
«Figlio, che sei per me de l'universo
monarca eterno, a me tua cara madre
fa quel ch'io chieggio, e tu mi devi, onore.
И nel Gаrgaro giogo un bosco in cima
da me diletto, ed al mio nume additto
giа di gran tempo. Era d'abeti e d'aceri
e di pini e di peci ombroso e denso;
ma quando de l'armata ebbe uopo in prima
il giovine troiano, al magistero
volentier de' suoi legni il concedei.
Quinci uscоr le sue navi; e come figlie
di quella selva, a me son sacre e care
sн ch'or ne temo; e del timor che n'aggio
priego che m'assicuri: e 'l priego mio
questo possa appo te, che tanto puoi,
che nй da corso mai, nй da fortuna
sian di vиnti, o di flutti, o di tempeste
squassate o vinte: e lor vaglia che nate
son ne' miei monti». A cui Giove rispose:
«Madre, a che stringi i fati? E qual, per cui
cerchi tu privilegio? A mortal cosa
farт dono immortale? E mortal uomo
non sarа sottoposto a' rischi umani?
Ed a qual degli dиi tanto и permesso?
Piъ tosto allor che saran giunte al fine,
e che in porto saranno, a quelle tutte
che, scampate da l'onde il teucro duce
avran ne' campi di Laurento esposto,
torrт la mortal forma, e dee farolle,
che qual di Nиreo, e Doto, e Galatea
fendan coi petti e con le braccia il mare».
Cosн detto, il torrente e la vorago
e la squallida ripa e l'atra pece
d'Acheronte giurando, abbassт 'l ciglio,
e fe' tutto tremar col cenno il mondo.
Or questo era quel dн, quest'era il fine
da le Parche dovuto ai teucri legni:
onde la madre idиa contra l'oltraggio
si fe' di Turno, e gli sottrasse al foco.
Primieramente inusitata luce
balenando rifulse; indi un gran nembo
di coribanti per lo ciel trascorse
di vиr l'aurora; ed una voce udissi
ch'empiй di meraviglia e di spavento
l'un esercito e l'altro: «O miei Troiani, -
dicendo, - non vi caglia a' miei navili
porger soccorso; nй perciт nel campo
uscite a rischio. Arderа Turno il mare
pria che le sacre a me dilette navi,
e voi, mie navi, itene sciolte: e dee
siate del mare. Io genitrice vostra
lo vi comando». A questa voce, in quanto
udissi a pena, s'allentвr le funi
de' lor ritegni; e di delfini in guisa
coi rostri si tuffaro. Indi sorgendo
(mirabil mostro!), quante a riva in prima
eran le navi, tanti di donzelle
si vider per lo mar sereni aspetti.
Sgomentaronsi i Rutuli; e Messapo
co' suoi cavalli attonito fermossi.
Il padre Tiberin roco mugghiando
dal mar fuggissi. Nй perciт di Turno
cessт l'audacia, anzi via piъ feroce,
gli altri esortando e riprendendo: «Ah, - disse, -
di che temete? Incontro ai Teucri stessi
vengon questi prodigi; e loro ha Giove
de le lor forze esausti. Il ferro e 'l fuoco
non aspettan de' Rutuli: han del mare
perduta e de la fuga ogni speranza.
Essi del mare infino a qui son privi;
e la terra и per noi: tante son genti
d'Italia in arme. Nи tem'io de' vanti
che de' lor vaticini e de' lor fati
da lor si dаnno. Assai de' fati, assai
и l'intento di Venere adempito,
che son nel Lazio. E 'ncontro ai fati loro
son anco i miei, che tфr del Lazio io deggia,
anzi del mondo, questi scellerati
de l'altrui donne usurpatori e drudi:
chй non soli gli Atridi, e non sola Argo
n'han duolo e sdegno. Oh! basta ch'una volta
ne son periti. Sн, se lor bastasse
d'aver in ciт sol una volta errato.
Nuovo error; nuova pena. Or non aranno
omai quest'infelici in odio affatto
le donne tutte, a tal di giа condotti,
che non han de la vita altra fidanza,
che questo poco e debile steccato
che da lor ne divide? e tanto a pena
son lunge dal morir, quanto s'indugia
a varcar questa fossa. In ciт riposto
han la speme e l'ardire. O non han visto
le mura anco di Troia, che costrutte
fыr per man di Nettuno, a terra sparse
e 'n cenere converse? Ma chi meco
di voi, guerrieri eletti, и che s'accinga
d'assalir queste mura e queste genti
giа di paura offese? A me lor contra
d'uopo non son nй l'armi di Volcano,
nй mille navi. E vengane pur tutta
l'Etruria insieme. E non furtivamente
e non di notte, come fanno i vili,
il Palladio involando, e de la rтcca
i custodi occidendo, assalirogli;
nй del cavallo ne l'oscuro ventre
m'appiatterт. Di giorno apertamente
d'armi e di fuoco cingerogli in guisa,
ch'altro lor sembri che garzoni e cerne
aver di Greci e di Pelasgi intorno,
di cui l'assedio infino al decim'anno
Ettor sostenne. Or poscia che del giorno
s'и buona parte insino a qui passata
felicemente, il resto che n'avanza
attendete a posarvi, a ristorarvi,
a disporvi a l'assalto; e ne sperate
lieto successo». Indi a Messapo incarco
si dа, che sentinelle e guardie e fochi
disponga anzi a le porte e 'ntorno al muro.
Ei sette e sette capitani egregi,
Rutuli tutti, a quest'impresa elesse,
con cento che n'avea ciascuno appresso
di purpurei cimieri ornati e d'oro.
Questi, le mute varпando e l'ore,
scorrevano a vicenda; e 'ntorno a' fochi
desti in su l'erba, infra le tazze e l'urne
traean la notte in gozzoviglie e 'n giuochi.
Stavano i Teucri il campo rimirando
da la muraglia; e per timore, armati
visitavan le porte, e 'n su' ripari
facean bertesche e sferratoie e ponti.
Era Memmo lor sopra e 'l buon Sergesto,
che fыr dal padre Enea nel suo partire
a guerreggiar, se guerra si rompesse,
per condottieri e per maestri eletti.
Giа su le mura, ovunque o da periglio
o da la vece eran disposti, ognuno
tenea il suo luogo. Un de' piъ fieri in arme
Niso, d'Irtaco il figlio, ad una porta
era preposto. Da le cacce d'Ida
venne costui mandato al troian duce,
gran feritor di dardo e di saette.
Eurпalo era seco, un giovinetto
il piъ bello, il piъ gaio e 'l piъ leggiadro
che nel campo troiano arme vestisse;
ch'a pena avea la rugiadosa guancia
del primo fior di gioventute aspersa.
Era tra questi due solo un amore
ed un volere; e nel mestier de l'armi
l'un sempre era con l'altro, ed ambi insieme
stavano allor vegghiando a la difesa
di quella porta. Disse Niso in prima:
«Eurпalo, io non so se dio mi sforza
a seguir quel ch'io penso, o se 'l pensiero
stesso di noi fassi a noi forza e dio.
Un desiderio ardente il cor m'invoglia
d'uscire a campo, e far contr'a' nemici
un qualche degno e memorabil fatto:
sн di star pigro e neghittoso aborro.
Tu vedi lа come securi ed ebri
e sonnacchiosi i Rutuli si stanno
con rari fochi e gran silenzio intorno.
L'occasione и bella, ed io son fermo
di porla in uso: or in qual modo, ascolta.
Ascanio, i consiglieri e 'l popol tutto,
per richiamare Enea, per avvisarlo,
e per avvisi riportar da lui,
cercan messaggi. Io, quando a te promesso
premio ne sia (ch'a me la fama sola
basta del fatto), di poter m'affido
lungo a quel colle investigar sentiero,
onde a Pallanto a ritrovarlo io vada
securamente». Eurпalo a tal dire
stupissi in prima; indi d'amore acceso
di tanta lode, al suo diletto amico
cosн rispose: «Adunque ne l'imprese
di momento e d'onore io da te, Niso,
son cosн rifiutato? E te poss'io
lassar sн solo a sн gran rischio andare?
A me non diи questa creanza Ofelte
mio genitore, il cui valor mostrossi
ne gli affanni di Troia, e nel terrore
de l'argolica guerra. Ed io tal saggio
non t'ho dato di me, teco seguendo
il duro fato e la fortuna avversa
del magnanimo Enea. Questo mio core
и spregiatore, и spregiatore anch'egli
di questa vita, e degnamente spesa
la tiene allor che gloria se ne merchi,
e quel che cerchi, ed a me nieghi, onore».
Soggiunse Niso: «Altro di te concetto
non ebbi io mai, nй tal sei tu ch'io deggia
averlo in altra guisa. Cosн Giove
vittorпoso mi ti renda e lieto
da questa impresa, o qual altro sia nume
che propizio e benigno ne si mostri.
Ma se per caso o per destino avverso
(come sovente in questi rischi avvиne)
io vi perissi, il mio contento in questo
и che tu viva, sн perchй di vita
son piъ degni i tuoi giorni, e sн perch'io
aggia chi dopo me, se non con l'arme,
almen con l'oro il mio corpo ricovre,
e lo ricuopra. E s'ancor ciт m'и tolto,
alfin sia chi d'esequie e di sepolcro
lontan m'onori. Oltre di ciт cagione
esser non deggio a tua madre infelice
d'un dolor tanto: a tua madre che sola
di tante donne ha di seguirti osato,
i comodi spregiando e la quпete
de la cittа d'Aceste». A ciт di nuovo
Eurпalo rispose: «Indarno adduci
sн vane scuse; ed io giа fermo e saldo
nel proposito mio pensier non muto.
Affrettiamoci a l'impresa». E, cosн detto,
destт le sentinelle, e le ripose
in vece loro; e l'uno e l'altro insieme
se ne partiro, e ne la reggia andaro.
Tutti gli altri animali avean, dormendo,
sovra la terra oblio, tregua e riposo
da le fatiche e dagli affanni loro.
I Teucri condottieri e gli altri eletti,
che de la guerra avean l'imperio e 'l carco,
s'erano e de la guerra e de la somma
di tutto 'l regno a consigliar ristretti:
e nel mezzo del campo altri agli scudi,
altri a l'aste appoggiati, avean consulta
di che far si dovesse, e chi per messo
ad Enea si mandasse. I due compagni
d'essere ammessi e 'ncontinente uditi
fecer gran ressa e di portar sembiante
cosa di gran momento e di gran danno
se s'indugiasse. A questa fretta, il primo
si fece Ascanio avanti, e, vтlto a Niso,
comandт che dicesse. Egli altamente
parlando incominciт: «Troiani, udite
discretamente, e quel che si propone
e si dice da noi, non misurate
da gli anni nostri. I Rutuli sepolti
se ne stan da la crapula e dal sonno;
e noi stessi appostato avemo un loco
da quella porta che riguarda al mare,
atto a le nostre insidie, ove la strada
piъ larga in due si parte. Intorno al campo
sono i fochi interrotti; il fumo oscuro
sorge a le stelle. Se da voi n'и dato
d'usar questa fortuna, e quest'onore
ne si fa di mandarne al nostro duce,
al Pallantиo n'andremo, e ne vedrete
assai tosto tornar carchi di spoglie
de gli avversari nostri, e tutti aspersi
del sangue loro. E non fia che la strada
ne gabbi, chй piъ volte qui d'intorno
cacciando, avemo e tutta questa valle
e tutto il fiume attraversato e scуrso».
Qui d'anni grave e di pensier maturo
Alete, al ciel rivolto: «O patrii dii, -
disse esclamando - il cui nome fu sempre
propizio a Troia, pur del tutto spenta
non volete che sia mercй di voi,
poscia che questo ardire e questi cori
ne' petti a' nostri giovini ponete».
E stringendo le man, gli omeri e 'l collo
or de l'uno or de l'altro, ambi onorava,
di dolcezza piangendo. «E qual, - dicea -
qual, generosi figli, a voi darassi
di voi degna mercede? Iddio, ch'и primo
degli uomini e supremo guiderdone,
e la vostra virtъ premio a se stessa
sia primamente. Enea poscia useravvi
sua largitate, e questo giovinetto
che d'un tal vostro merto avrа mai sempre
dolce ricordo». - «Anzi io, - soggiunse Iulo -
che senza il padre mio la mia salute
veggio in periglio, per gli dиi Penati,
per la casa d'Assaraco, per quanto
dovete al sacro e venerabil nume
de la gran Vesta, ogni fortuna mia
ponendo, ogni mio affare in grembo a voi,
vi prego a rivocare il padre mio.
Fate ch'io lo riveggia, e nulla poi
sarа di ch'io piъ tema. E giа vi dono
due gran vasi d'argento, che scolpiti
sono a figure; un de' piъ ricchi arnesi
che del sacco d'Arisba in preda avesse
il padre mio; due tripodi, due d'oro
maggior talenti, ed un tazzone antico
de la sidonia Dido. E se n'и dato
tener d'Italia il desпato regno,
e che preda sortirne unqua mi tocchi,
quello stesso destrier, quelle stesse armi
guarnite d'oro, onde va Turno altero,
e quel suo scudo, e quel cimier sanguigno
sottrarrт dalla sorte, e di giа, Niso,
gli ti consegno; e ti prometto in nome
del padre mio che largiratti ancora
dodici fra mill'altri eletti corpi
di bellissime donne e dodici altri
di giovini prigioni, e l'armi loro
con essi insieme, e di Latino stesso
la regia villa. Or te, mio venerando
fanciullo, abbraccio, a gli cui giorni i miei
van piъ vicini. Io te con tutto il core
accetto per compagno e per fratello
in ogni caso; e nulla o gloria o gioia
procurerommi in pace unqua od in guerra,
che non sii meco d'ogni mio pensiero,
e d'ogni ben partecipe e consorte;
e ne le tue parole e ne' tuoi fatti
somma speme avrт sempre e somma fede».
Eurпalo rispose: «O fera o mite
che fortuna mi sia, non sarа mai
ch'io discordi da me: mai non uguale
lo mio cor non vedrassi a questa impresa:
ma sopra agli altri tuoi promessi doni
questo solo bram'io: la madre mia
che dal ceppo di Prпamo и discesa,
e che per me seguire ha, la meschina
non pur di Troia abbandonato il nido,
ma 'l ricovro d'Aceste, e la sua vita
stessa (a tanti per me l'ha rischi esposta),
di questo mio periglio, qual che e' sia,
nulla ha notizia; ed io da lei mi parto
senza che la saluti e che la veggia.
Per questa man, per questa notte io giuro,
signor, che nй vederla, nй la pieta
soffrir de le sue lagrime non posso.
Tu questa derelitta poverella
consola, te ne priego, e la sovvieni
in vece mia. Se tu di ciт m'affidi,
andrт, con questa speme, ad ogni rischio
con piъ baldanza». Si commosser tutti
a tai parole, e lagrimaro i Teucri;
e piъ di tutti Ascanio, a cui sovvenne
de la pietа ch'ebbe suo padre al padre;
e disse al giovinetto: «Io mi ti lego
per fede a tutto ciт che la grandezza
di questa impresa e 'l tuo valor richiede.
E perchй mia sia la tua madre, il nome
sol di Creusa, e null'altro, le manca.
Nй di picciolo merto и ch'un tal figlio
n'aggia prodotto; segua che che sia
di questo fatto. Ed io per lo mio capo
ti giuro, per lo qual solea pur dianzi
giurar mio padre, ch'a la madre tua,
a tutta la tua stirpe si daranno
i doni stessi che serbar mi giova
pur a te nel felice tuo ritorno».
Cosн disse piangendo; e la sua spada,
che di man di Licаone guarnito
avea d'avorio il fodro, e l'else d'oro,
distaccossi dal fianco, e lui ne cinse.
Memmo al tergo di Niso un tergo impose
di villoso leone; e 'l fido Alete
gli scambiт l'elmo. Cosн tosto armati
se n'uscоr da la reggia; e i primi tutti,
giovini e vecchi, in vece d'onoranza
fino a la porta con preconi e vуti
gli accompagnaro. Il giovinetto Iulo
con viril cura e con pensier maturi
innanzi agli anni, ragionando in mezzo
giva d'entrambi: ed or l'uno ed or l'altro
molto avvertendo, molte cose a dire
mandava al padre: le quai tutte al vento
furon commesse, e dissipate a l'aura.
Escono alfine. E giа varcato il fosso,
da le notturne tenebre coverti,
si metton per la via che gli conduce
al campo de' nemici, anzi a la morte.
Ma non morranno, che macello e strage
faran di molti in prima. Ovunque vanno
veggion corpi di genti, che sepolti
son dal sonno e dal vino. In carri vтti
con ruote e briglie intorno, uomini ed otri
e tazze e scudi in un miscuglio avvolti.
Disse d'Irtaco il figlio: «Or qui bisogna,
Eurпalo, aver core, oprar le mani,
e conoscere il tempo. Il cammin nostro
и per di qua. Tu qui ti ferma, e l'occhio
gira per tutto, che non sia da tergo
chi n'impedisca; ed io tosto col ferro
sgombrerт 'l passo, e t'aprirт 'l sentiero».
Ciт cheto disse. Indi Rannete assalse,
il superbo Rannete, che per sorte
entro una sua trabacca avanti a lui
in su' tappeti a grand'agio dormia
e russava altamente. Era costui
al re Turno gratissimo, ed anch'egli
rege e 'ndovino; ma non seppe il folle
indovinar quel ch'a lui stesso avvenne.
Tre suoi famigli, che dormendo appresso
giacean fra l'armi rovesciati a caso,
tutti in un mucchio uccise, ed un valletto
ch'era di Remo, e sotto i suoi cavalli
lo stesso auriga. A costui trasse un colpo
che gli mandт giъ ciondoloni il collo:
indi al padron di netto lo recise
sн, che 'l sangue spicciando d'ogni vena,
la terra, lo stramazzo e 'l desco intrise.
Tаmiro estinse dopo questi e Lamo,
e 'l giovine Serrano. Un bel garzone
era costui, gran giocatore, e 'n gioco
insino ad ora avea sempre vegliato.
Felice lui per lo suo vizio stesso,
se giocato e perduto ancora avesse
tutta la notte! Era a veder tra loro
il fiero Niso, qual da fame spinto
non pasciuto leone un pieno ovile
imbelle e per timor giа muto assaglie,
che d'unghie armato, e sanguinoso il dente
traendo e divorando ancide e rugge.
Nй fe' strage minor da l'altro canto
Eurпalo, ch'acceso e furпoso
tra molta plebe molti senza nome
e quasi senza vita a morte trasse;
sн dal sonno eran vinti: e de' nomati
occise Ebиso, Fabo, Аbari e Reto.
Questo Reto era desto: onde veggendo
con la morte degli altri il suo periglio,
per la paura appo d'un'urna ascoso
quatto e queto si stava. Indi sorgendo
gli fu 'l giovine sopra, e 'l ferro tutto
entro al petto gl'immerse, e con gran parte
de la sua vita indietro lo ritrasse;
sн che tra 'l vino e 'l sangue ond'era involta,
gli uscн l'alma di purpura vestita.
Con questa occisпon di buia notte
e di furtivo agguato il buon garzone
fervidamente instava. E giа rivolto
s'era contro a la schiera di Messapo
lа 've 'l foco vedea del tutto estinto,
e lа 've i suoi cavalli a la campagna
pascean legati, allor che Niso il vide
che da l'occisпone e da l'ardore
trasportar si lasciava. E brevemente:
«Non piъ, - gli disse - chй 'l nimico sole
ne sorge incontra. Assai di sangue ostile
fin qui s'и sparso: assai di largo avemo».
Molt'armi, molt'argenti e molt'arnesi
lasciaro indietro. I guarnimenti soli
del caval di Rannete e le sue borchie
Eurпalo si prese, con un cinto
bollato d'oro, un prezпoso dono
che Cиdico, un ricchissimo tiranno,
a Rиmolo tiburte ospite assente
fece in quel tempo. Rиmolo al nipote
lo lasciт per retaggio e questi in guerra
ne fu poscia da' Rutuli spogliato;
quinci gli ebbe Rannete, e quinci preda
fыr d'Eurпalo al fine. Egli gravonne
i forti omeri indarno. Appresso in campo
s'adattт di Messapo un lucid'elmo
d'alto cimiero adorno: e 'n questa guisa
se ne partian vittorпosi e salvi.
Intanto di Laurento eran le schiere
uscite a campo, e i lor cavalli avanti
precorrean l'ordinanza, ed al re Turno
ne portavano avviso. Eran trecento
tutti di scudo armati; e capo e guida
n'era Volscente. Giа vicini al campo
scorgean le mura; quando fuor di strada
videro da man manca i due compagni
tener sentiero obliquo. Era un barlume
lа 'v'era l'ombra; e lа 'v'era la luna,
a gli avversi suoi raggi la celata
del male accorto Eurпalo rifulse.
Di cotal vista insospettн Volscente,
e gridт da la squadra: «Olа, fermate.
chi viva? A che venite? Ove n'andate?
Chi siete voi?» La lor risposta incontro
fu sol di porsi in fuga, e prevalersi
de la selva e del buio. I cavalieri
ratto chi qua chi lа corsero a' passi,
circondarono il bosco; ad ogni uscita
posero assedio. Era la selva un'ampia
macchia d'elci e di pruni orrida e folta,
ch'avea rari i sentieri, occulti e stretti.
E gl'intrichi de' rami e de la preda
ch'era pur grave, e 'l dubbio de la strada
tenean sovente Eurпalo impedito.
Niso disciolto e lieve, e del compagno
non s'accorgendo ch'era indietro assai,
oltre si spinse. E giа fuor de' nemici
era ne' campi che dal nome d'Alba
si son poi detti Albani. Allor le razze
e le stalle v'avea de' suoi cavalli
il re Latino. E qui poscia ch'un poco
ebbe il suo caro amico indarno atteso,
gridando: «Ah! - disse - Eurпalo infelice,
u' sei rimaso? U' piъ (lasso!) ti trovo
per questo labirinto?» E tosto indietro
rivolto, per le vie, per l'orme stesse
di tornar ricercando, si rimbosca.
Erra pria lungamente, e nulla sente;
poscia sente di trombe e di cavalli
e di voci un tumulto; e vede appresso
Eurпalo fra mezzo a quelle genti,
qual cacciato leone. E giа dal loco
e da la notte oppresso si travaglia,
e si difende il poverello invano.
Che farа? Con che forze, e con qual armi
fia che lo scampi? Avventerassi in mezzo
de' nimici a morir morte onorata?
Cosн risolve, e prestamente un dardo
s'adatta in mano; e vтlto in vиr la luna,
ch'allora alto splendea, cosн la prega:
«Tu, dea, tu de la notte eterno lume,
tu, regina de' boschi, in tanto rischio
ne porgi aнta. E s'Irtaco mio padre
per me de le sue cacce, io de le mie
il dritto unqua t'offrimmo; e se t'appesi,
e se t'affissi mai teschio nй spoglia
di fera belva, or mi concedi ch'io
questa gente scompigli, e la mia mano
reggi e i miei colpi». E ciт dicendo, il dardo
vibrт di tutta forza. Egli volando
fendй la notte, e giunse ove a rincontro
era Sulmone, e l'investн nel tergo
lа 've pendea la targa; e 'l ferro e l'asta
passogli al petto, e gli trafisse il core.
Cadde freddo il meschino; e, con un caldo
fiume di sangue, che gli uscio davanti,
finн la vita, e con singhiozzo il fiato.
Guardansi l'uno a l'altro; e tutti insieme
miran d'intorno di stupor confusi
e di timor d'insidie. E Niso intanto
via piъ si studia; ed ecco un altro fiero
colpo, ch'avea di giа librato, e dritto
di sopra gli si spicca da l'orecchio,
e per l'aura ronzando in una tempia
si conficca di Tago, e passa a l'altra.
Volscente, acceso d'ira, non veggendo
con chi sfogarla, al giovine rivolto:
«Tu me ne pagherai per ambi il fio» -
disse, e strinse la spada, e vиr lui corse.
Niso a tal vista spaventato, e fuori
uscito de l'agguato e di se stesso
(che soffrir non poteo tanto dolore):
«Me, me, - gridт - me, Rutuli, uccidete.
io son che 'l feci, io son che questa froda
ho prima ordito. In me l'armi volgete;
chй nulla ha contro a voi questo meschino
osato, nй potuto. Io lo vi giuro
per lo ciel che n'и conscio e per le stelle,
questo tanto di mal solo ha commesso,
che troppo amato ha l'infelice amico».
Mentre cosн dicea, Volscente il colpo
giа con gran forza spinto, il bianco petto
del giovine trafisse. E giа morendo
Eurпalo cadea, di sangue asperso
le belle membra, e rovesciato il collo,
qual reciso dal vomero languisce
purpureo fiore, o di rugiada pregno
papavero ch'a terra il capo inchina.
In mezzo de lo stuol Niso si scaglia
solo a Volscente, solo contra lui
pon la sua mira. I cavalier che intorno
stavano a sua difesa, or quinci or quindi
lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre
addosso a lui la sua fulminea spada
rotava a cerco. E si fe' largo in tanto
ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,
cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.
Cosн non morse, che si vide avanti
morto il nimico. Indi da cento lance
trafitto addosso a lui, per cui moriva,
gittossi; e sopra lui contento giacque.
Fortunati ambidue! Se i versi miei
tanto han di forza, nй per morte mai,
nй per tempo sarа che 'l valor vostro
glorпoso non sia, finchй la stirpe
d'Enea possederа del Campidoglio
l'immobil sasso, e finchй impero e lingua
avrа l'invitta e fortunata Roma.
I Rutuli con l'armi e con le spoglie
dei due compagni uccisi, il morto corpo
al campo ne portвr del duce loro.
Lagrimosa vittoria! E non meno anco
fu nel campo di lagrime e di lutto,
allor che di Rannete e di Serrano
e di Numa la strage si scoverse,
e di tant'altri ch'eran morti in prima.
Corse ognuno a veder; chй parte spenti,
parte eran mezzi vivi; e caldo e pieno
e spumante di sangue era anco il suolo
ove giacean quegl'infelici estinti.
Riconobber tra lor le spoglie e l'elmo
e 'l cimier di Messapo, e i guarnimenti
che con tanto sudor ricoverati
s'erano a pena. Era vermiglio e rancio
fatto giа de la notte il nero ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto;
e comparso era il sole, e discoverto
giа 'l mondo tutto, allor che Turno armato
a l'arme, a l'ordinanza, a la battaglia
concitт 'l campo; e diede ordine e loco
ciascuno a' suoi. Vendetta, ira e disio
d'assalir, di combatter, di far sangue
vedeansi in tutti. A due grand'aste in cima
conficcaron le teste (orribil mostra!)
d'Eurпalo e di Niso, e con le grida
ne fкro onta e spettacolo a' nemici.
I Teucri arditamente in su le mura
da la sinistra incontra si mostraro;
chй la destra dal fiume era difesa.
E chi da le trincee, chi da le torri
stavan dolenti rimirando i teschi
ne l'aste affissi, polverosi e lordi,
ch'ancor sangue gocciando eran pur troppo
cosн lunge da' miseri compagni
raffigurati a le fattezze conte.
Spiegт la Fama le sue penne intanto,
e la trista novella in ogni parte
sparse per la cittа, sн ch'agli orecchi
de la madre d'Eurпalo pervenne.
Corse subitamente un gel per l'ossa
a la meschina; e da le man le usciro
le sue tele e i suoi fili. Indi, rapita
dal duolo e da la furia, forsennata
e scapigliata ne la strada uscio;
e per mezzo de l'armi e de le genti
correndo, e mugolando, senza tйma
di periglio e di biasmo, andт gridando,
e di questi lamenti il cielo empiendo:
«Ahi, cosн concio, Eurпalo, mi torni?
Eurпalo, sei tu? Tu sei 'l mio figlio,
ch'eri la mia speranza e 'l mio riposo
ne l'estreme giornate di mia vita?
Ahi! come cosн sola mi lasciasti,
crudele? E come a cosн gran periglio
n'andasti, anzi a la morte, che tua madre
non ti parlasse, ohimи! l'ultima volta,
nй che pur ti vedesse? Ah! ch'or ti veggio
in peregrina terra esca di cani,
d'avoltoi e di corvi. Ed io tua madre,
io cui l'esequie eran dovute e 'l duolo
d'un cotal figlio, non t'ho chiusi gli occhi,
nй lavate le piaghe, nй coperte
con quella veste che con tanto studio
t'ho per trastullo de la mia vecchiezza
tessuta io stessa e ricamata invano.
Figlio, dove ti cerco? ove ti trovo
sн diviso da te? come raccozzo
le tue cosн sbranate e sparse membra?
Sol questa parte del tuo corpo rendi
a la tua madre, che per esser teco
t'ha per terra e per mar tanto seguito,
e seguiratti dopo morte ancora?
In me, Rutuli, in me tutti volgete
i vostri ferri, se pur regna in voi
pietade alcuna. A me la morte date
pria ch'a null'altro. O tu, padre celeste,
miserere di me. Tu col tuo tиlo
mi trabocca nel Tartaro e m'ancidi,
poichй romper non posso in altra guisa
questa crudele e disperata vita».
Da questo pianto una mestizia, un duolo
nacque ne' Teucri, e tale anco ne l'armi
un languore, un timore, una desidia,
che grami, addolorati e di giа vinti
sembravan tutti. Onde Аttore ed ldиo
con quel di lei togliendo il pianto altrui,
per consiglio del saggio Ilпonиo
e per compassпon del buono Iulo
che molto amaramente ne piangea,
tosto a braccia prendendola, ambedue
la portaro a l'albergo. Ed ecco intanto
squillar s'ode da lunge un suon di trombe,
un dare a l'arme ed un gridar di genti
tal, che ne tuona e ne rimugghia il cielo.
E veggonsi in un tempo i Volsci tutti,
sotto pavesi consertati e stretti
in guisa di testuggine, appressarsi,
empier le fosse, dirupare il vallo,
e tentar la salita, e por le scale
lа dove la muraglia era di sopra
con minor guardia, e lа 've raro il cerchio
tralucea de la gente. Incontro a loro
i Teucri i sassi, i travi ed ogni tиlo
avventaron dal muro; e con le picche
risospingendo, come il lungo assedio
insegnт lor di Troia, a la difesa
si fermвr de' ripari; e le pareti
e i pilastri e le torri addosso a loro
e sopra la testuggine gittando,
gli scudi dissiparono e le genti,
sн che piъ di combattere al coverto
non si curaro. Ma d'ogni arme un nembo
lanciando a la scoperta, i bastпoni
offendean de' Troiani. E d'una parte
Mezenzio, formidabile a vedere,
sen gia con un gran pino acceso in mano
lo steccato infocando. Iva da l'altro
il fier Messapo di Nettuno il figlio,
domator de' corsieri; e scisso il vallo:
- «Scale, scale!» - gridava, e per lo muro
rampicando saliva. Or qui m'и d'uopo,
Callпope, il tuo canto a dir le pruove,
a dir l'occisпon che di sua mano
fece Turno in quel dн; chi, quali e quanti
a l'Orco ne mandasse. Ogni successo
spiega di questa guerra in queste carte.
Tutto a voi, Muse, и conto; e voi la possa
e l'arte avete di contarlo altrui.
Era una torre di sublime altezza
con bertesche e con ponti un sopra l'altro,
loco opportuno. A questa eran d'intorno
di fuor gl'Italпani, e dentro i Teucri;
e quei facean per espugnarla ogni opra,
e questi per tenerla. Avanti a tutti
si spinse Turno; ed una face ardente
lanciovvi da l'un fianco, ove s'apprese
con molta fiamma; cosн fiero il vento,
cosн secchi e disposti erano i legni.
Ardea la torre da quel canto, e dentro
la gente per timor cercava indarno
di ritrarsi dal foco: onde a la parte
da l'incendio remota in un sol mucchio
si ristrinsero insieme; e da quel peso
da quel lato in un sъbito la torre
quasi spinta inchinossi, aprissi e cadde.
Il ciel ne rintonт; la gente infranta,
storpiata, sfracellata, infra i suoi legni
da l'armi proprie infissa, e fin ne l'aura
morta e sepolta a terra se ne venne.
Soli due vivi e per ventura intatti
dal nembo de la polvere, e dal fumo
uscоr nel campo: Elиnore fu l'uno,
Lico fu l'altro; Elиnore, un garzone
di prima barba, a militar mandato
furtivamente. E' si trovт com'era
pria ne la terra lievemente armato
col brando ignudo e con la targa al collo
bianca del tutto, come non dipinta
d'alcun suo fatto glorпoso ancora.
Questi, vistosi in mezzo a tante genti
di Turno e de' Latini, come fera
ch'aggia di cacciatori un cerchio intorno,
muove contra agli spiedi, incontr'a l'armi;
mosse lа 've piъ folte eran le schiere,
e certo di morire a morte corse.
Ma Lico in su le gambe assai piъ destro
infra l'armi e i nimici a fuggir vтlto,
giunse a le mura ed aggrappossi in guisa
che stendea giа le mani a' suoi compagni;
quando Turno e co' piedi e con la spada
lo sopraggiunse, e come vincitore
rampognando gli disse: «E che? pensasti,
folle, uscirmi di mano?» E le man tosto
gli pose addosso, e sн come dal muro
pendea, col muro insieme a terra il trasse.
In quella guisa che gli adunchi ugnoni
contra una lepre, o contra un bianco cigno
stende l'augel di Giove, o 'l marzio lupo
da le reti rapisce un agnelletto,
che da la madre sia belato invano.
Si rinnovвr le grida, e tutti insieme
o le faci avventando, o 'l fosso empiendo,
rinforzavan l'assalto. Ilпonиo
con un pezzo di monte, a cui la pinta
diи giъ da' merli, sopra al ponte infranse
Lutezio ch'a la porta era col foco.
Ligero occise Emazпone; Asila
uccise Corinиo, buon feritori
l'uno di dardo, e l'altro di saette.
Ortigio da Cenиo trafitto giacque:
Cenиo da Turno: ammazzт Turno ancora
Iti e Prтmolo e Clтnio e Dпosippo,
e Sаgari con Ida: Ida che in alto
stava d'un torrпone a la difesa.
Capi ancise Priverno. Avea costui
pria nel fianco una picciola ferita,
anzi una graffiatura, che passando
fe' l'asta di Temilla: e il male accorto,
per su porvi la mano, abbandonato
avea lo scudo; quando ecco volando
venne una freccia che la mano e 'l fianco
insieme gli confisse; e via passando
penetrogli al polmone. Il mortal colpo
sн lo spirar de l'anima gli tolse,
che non mai piъ spirт. Stavasi Arcente,
d'Arcente il figlio, in su' ripari ardito
egregiamente armato, e sopra l'arme
d'una purpurea cotta era addobbato
di ferrigno color, di drappo ibиro;
un giovine leggiadro, che dal padre
fu nel bosco di Marte a l'armi avvezzo
lungo al Simeto, u' l'ara di Palico
tinta non come pria di sangue umano,
piъ pingue e piъ placabile si mostra.
Mezenzio il vide: e l'altre armi deposte,
prese la fromba, e con tre giri intorno
se l'avvolse a la testa. Indi scoppiando
allentт 'l piombo, che dal moto acceso
squagliossi, e con gran rombo in una tempia
il garzon percotendo, ne l'arena
morto, quanto era lungo, lo distese.
Ascanio che fin qui solo a la caccia
avea l'arco adoprato, or primamente
oprollo in guerra, e col primiero colpo
il feroce Numano a terra stese.
Rиmolo era costui per soprannome
chiamato; e poco avanti avea per moglie
presa di Turno una minor sorella.
Ei di questo favor, di questo nuovo
suo regno insuperbito, altero e gonfio
stava ne l'antiguardia, e con le grida
si ringrandiva: e di lontano i Teucri
schernendo, in cotal guisa alto dicea:
«Questo и l'onor che voi, Frigi, vi fate
d'un altro assedio? un'altra volta in gabbia
vi riponete; e pur col vostro muro,
e coi vostri ripari or da la morte
vi riparate? E voi, voi fate guerra
per usurpare a noi le donne nostre?
Qual dio, qual infortunio, qual follia
v'ha condotti in Italia? e chi pensaste
di trovar qui? quei profumati Atridi,
o 'l ben parlante Ulisse? In una gente
avete dato che da stirpe и dura.
I nostri figli non son nati a pena,
che si tuffan ne' fiumi. A l'onde al gelo
noi gl'induriamo e gl'incallimo in prima;
poscia per le montagne e per le selve
fanciulli se ne van la notte e 'l giorno.
Il lor studio и la caccia; e 'l lor diletto
и 'l cavalcare, e 'l trar di fromba e d'arco.
La gioventъ ne le fatiche avvezza,
e contenta del poco, o col bidente
doma la terra, o con l'aratro i buoi,
o col ferro i nemici. Il ferro sempre
avemo per le mani. Una sol'asta
ne fa picca e pungetto. A noi vecchiezza
non toglie ardire, e de le forze ancora
non ci fa, come voi, debili e scemi.
Per canute che sian le nostre teste,
veston celate, e nuove prede ognora,
quando da' boschi e quando da' nemici,
addur ne giova, e viver di rapina.
Voi con l'ostro e co' fregi e co' ricami,
con le cotte a divisa e con le giubbe
immanicate e coi fiocchetti in testa,
a che valete? A gir cosн dipinti
e cosн neghittosi? A far balletti
da donnicciuole? O Frigi, o Frigпesse
piъ tosto! In questa guisa si guerreggia?
Via ne' Dindimi monti, ove la piva
vi chiama e 'l tamburino e 'l zufoletto;
e con quei vostri galli, anzi galline
di Berecinto, ite saltando in tresca;
e l'armi e 'l ferro, che non fan per voi,
lasciate a quei che son prodi e guerrieri».
Non potй tanto orgoglio e tanto oltraggio
soffrir d'un folle il generoso Iulo,
e teso l'arco con la cocca al nervo,
rimirт 'l cielo e disse: «Onnipotente
Giove, tu l'ardir mio, tu la mia mano
fomenta e reggi, ed io sacri e solenni
ti farт doni: io condurrotti a l'ara
un candido giovenco che la fronte
aggia indorata, e de la madre al pari
erga la testa, e giа scherzi e giа cozzi
con le corna, e co' piи sparga l'arena».
Giove, mentre dicea, tonт dal manco
sereno lato: e col suo tuono insieme
scoccт l'arco mortifero di Iulo.
Volт l'orribil tиlo, e per le tempie
di Rиmolo passando, le trafisse.
«Or va', t'insuperbisci: or va', deridi,
scempio, l'altrui virtъ. Queste risposte
mandano i Frigi che son chiusi in gabbia
ai Rutuli signor de la campagna».
Questo sol disse Ascanio; ed al suo colpo
le grida i Teucri e gli animi in un tempo
al cielo alzaro. Era il crinito Apollo,
quando ciт fu, ne la celeste piaggia
sovra una nube assiso; e d'alto il campo
scorgendo de' Troiani e degli Ausoni,
come vede ogni cosa, visto il colpo
del vincitore arciero, in vиr lui disse:
«Ahi, buon fanciullo, in cui vertъ s'avanza!
cosн vassi a le stelle. Or ben tu mostri
che dagli dii sei nato, e ch'altri dii
nasceranno da te. Tu sei ben degno
ch'ogni guerra, che 'l fato ancor minacci
a la casa d'Assaraco, s'acqueti
per tua grandezza, a cui Troia и minore,
sн che giа non ti cape». E, cosн detto,
si fendй l'aura avanti e vиr la terra
calossi, trasmutossi, e come fusse
il vecchio Bute, al giovine accostossi.
Fu Bute in prima del dardanio Anchise
valletto d'arme e cameriero e paggio,
e poscia per custode e per compagno
l'ebbe Ascanio dal padre. A questo vecchio
mostrossi Apollo di color, di voce,
d'andar, di canutezza e d'armatura
simile in tutto; ed a l'ardente Iulo
fatto vicino, in tal guisa gli disse:
«Bаstiti aver, d'Enea preclaro figlio,
senza alcun rischio tuo Numano ucciso.
Di questa prima lode il grande Apollo
ti privilegia, e non t'invidia il colpo,
nй 'l paraggio de l'arco. Or da la pugna
ritraggiti». E, ciт detto, da la vista
de' circostanti si ritrasse anch'egli,
e sormontando dissipossi e sparve.
Rassembrarono in Bute i Teucri Apollo
e riconobber la faretra e l'arco,
che fuggendo sonar anco s'udiro.
E fкr sн con le preci e col precetto
d'un tanto iddio, ch'Ascanio, ancor che vago
fosse di pugna, se ne tolse alfine;
ed essi apertamente a ripentaglio
misero in vece sua le vite loro.
Spargesi un grido per le mura intanto,
per tutte le difese; e tutti agli archi,
tutti a tirar, tutti a lanciar si diкro
d'ogni sorte arme, e d'ogni parte il suolo
n'era coverto; quando altro conflitto
cominciossi di scudi e di celate;
una mischia di picche, una battaglia
che crescea, tuttavolta, rinforzando
con quella furia che di pioggia un nembo
vien da l'occaso, allor che d'orпente
fan sorgendo i Capretti a noi tempesta:
o quando orrido e torbo e d'austri cinto
e 'n grandine converso irato Giove,
d'alto precipitando, si devolve
sopra la terra, e 'l ciel rompendo intuona.
Pаndaro e Bizia d'Alcanтro idиo,
e d'Iлra salvatica sua moglie
figli, in Ida acquistati, e d'Ida usciti
l'uno a l'altro simнle, ed ambidue
a quegli abeti ed a quei monti uguali
ond'eran nati, avean dal teucro duce
una porta in custodia. E confidati
ne le forze e ne l'armi, a bello studio
la lasciarono aperta, ed a' nemici
fкr da le mura marzпale invito:
essi armati di ferro, un da la destra,
l'altro da la sinistra, a due pilastri
sembianti, anzi a due torri che nel mezzo
tengan la porta, con le teste in alto
e co' raggi degli elmi i campi intorno
folgorando, squassavano i cimieri
fin sovr'a' merli. In cotal guisa nate
ne le ripe si veggon di Liquezio,
de l'Adige, o del Po due querce altiere
sorgere al cielo e sventolarsi a l'aura.
Visto l'adito aperto, incontinente
vi si spinsero i Rutuli. E Quercente
ed Equнcolo, i primi armati e fieri,
l'ardito Omаro e 'l bellicoso Emone
tutti co' lor compagni impeto fкro;
e tutti o fыr da' Teucri in fuga vтlti,
o ne l'entrar di quella porta ancisi.
Giunto agli animi infesti il sangue sparso,
s'accrebber l'ire e de' Troiani intanto
tale un numero altronde vi concorse,
che prender zuffa e tener campo osaro.
Turno sfogava il suo furore altrove
contr'a nemici; quando un messo avanti
gli comparve dicendo, che di Troia
erano usciti, e stavan con le porte,
quanto eran larghe, a far strage e macello,
de le sue genti. Ei tosto da quel canto
lasciт l'impresa; e contra i due fratelli
a la dardania porta irato accorse.
E primamente Antнfate, che primo
gli venne avanti, un giovine bastardo
di Sarpedonte e di tebana madre,
con un colpo di dardo a terra stese.
Colpillo ne lo stomaco, e passolli
oltre al polmone, onde di caldo sangue,
quasi d'un antro, dilagossi un fonte.
Mиrope, Afidno ed Erimanto appresso
uccise con la spada, un dopo l'altro
come a caso incontrogli. Atterrт Bizia
dopo costoro, ma non giа col dardo,
e men col brando; ch'altro colpo er'uopo
a sн gran corpo. A costui, mentre infuria,
mentre stizza per gli occhi avventa e foco,
infuocato, impiombato e grave un tиlo
scaricт di falarica, che in guisa
di fulmine stridendo e percotendo
lo giunse sн che nй lo scudo avvolto
di due bovine terga, nй la fida
lorica di due squame e d'or contesta
non lo sostenne. Barcollando cadde
la smisurata mole, e tal diи crollo
che 'l terren se ne scosse, e 'l gran suo scudo
gli tonт sopra. In tal guisa di Baia
su l'eьboica riva il grave sasso,
ch'и sopra l'onde a fermar l'opre eretto,
da l'alto ordigno ov'era dianzi appreso,
si spicca e piomba, e fin ne l'imo fondo
ruinando si tuffa, e frange il mare,
e disperge l'arena: onde ne trema
Procida ed Ischia, e il gran Tifиo se n'ange,
cui sн duro covile ha Giove imposto.
Qui Marte il suo potere e 'l suo favore
volse verso i Latini. Animi e forze
aggiunse loro, gl'incitт, gli accese;
e di tйma e di fuga e di scompiglio
diи cagione a' Troiani. E giа ch'a pugna
s'era venuto, e de la pugna il nume
era con loro; accolti d'ogni parte
si ristringono i Rutuli, e fan testa.
Pаndaro, poi che 'l suo fratello estinto
si vide avanti, e la fortuna avversa,
a la porta con gli omeri appuntossi;
e sн com'era poderoso e grande,
con molta forza la rispinse e chiuse,
molti esclusi de' suoi, che per la fretta
rimaser ne le peste; e molti inclusi
ch'eran nimici: e non s'avvide il folle,
che de' nimici in quella calca ancora
era lo stesso re da lui raccolto
a far de' suoi, qual tra le greggi imbelli
ircana tigre immane. Ei non piъ tosto
fu dentro, che raggiт dagli occhi un lume
spaventevole e fiero; e l'armi sue
fieramente sonaro. Il suo cimiero
ne l'aura ondeggiт sangue, e dal suo scudo
uscоr folgori e lampi. Incontinente
la sua faccia odпata e 'l suo gran fusto
raffigurando i Teucri si turbaro.
Pаndaro allor de la fraterna morte
fervidamente irato, avanti a tutti
gli si fe' incontro e disse: «E' non и, Turno,
questa la reggia che t'assegna in dote
la tua regina; e non hai d'Ardea intorno
le patrie mura. Ne le forze entrato
sei de' nemici onde scampar non puoi».
«Or via, - Turno ghignando gli rispose
placidamente, - via, se tanto ardisci,
meco ti prova; chй ben tostamente
a Prпamo dirai ch'in questa Troia,
come ancor ne la sua, trovossi Achille».
Ciт detto, gli avventт Pаndaro un dardo
di tutta forza nodoroso e grave,
e di ruvida ancor corteccia involto.
L'aura lo prese, e la Saturnia Giuno
deviт 'l colpo sн che da la mira
si torse e ne la porta si confisse.
«Non sн cadrа questa mia spada in fallo, -
disse allor Turno; - tale и chi la vibra,
e tal fa colpo». Ed a ferire alzato
l'investн ne la fronte, e gli divise
le tempie, le mascelle e 'l mento ignudo
ancor di barba, infin lа 've s'appicca
il collo al petto. Al suon de la percossa,
al fracasso de l'armi, a la ruina,
che fкr cadendo quelle membra immani,
tremт la terra e ne fu d'atro sangue
e di cervella aspersa. Egli morendo
giacque rovescio, e dechinт la testa
parte a l'omero destro e parte al manco.
Al cader di costui tal prese i Teucri
tйma e spavento, che dispersi in fuga
sen gоro. E s'era il vincitore accorto
d'aprir la porta e di por dentro i suoi,
fфra stato quel giorno e de la guerra
e de' Troiani il fine. Ma la furia
e l'ardor di combattere e l'insana
ingordigia di sangue ne 'l distolse.
Onde seguendo, in Falari ed in Gige
s'abbattй prima. A l'uno il petto aperse;
sgherrettт l'altro. A quei ch'erano in fuga
con l'aste di color ch'eran caduti
feria le terga: e nuova occisпone
gli ponea tuttavia nuov'armi in mano:
sн come ancor Giunon nuovo ardimento
gli dava e nuove forze. Ali tra questi
mandт per terra, e Fиgлa confisse
con lo suo scudo. Occise in su le mura,
mentre a' nemici eran di fuori intenti,
Alio ed Alcandro e Prнtane e Nomone.
A Lнncлo, ch'osт di starli a fronte
e chiamare i compagni, con un colpo,
che di rovescio con gran forza dielli,
recise il capo, e l'avventт con l'elmo
lunge dal busto. Dopo questi ancise
Аmico, un cacciator ch'era in campagna
gran distruttor di fere, e gran maestro
d'armar di tтsco le saette e 'l ferro:
e Clizio ancise, d'Eцlo il buon figlio,
e Cretиo, de le Muse il caro amico
e 'l diletto compagno, che di versi
e di cetre e di numeri e di corde
era sol vago, e di cantar mai sempre
o d'armi o di cavalli o di battaglie.
I condottier de' Teucri udita alfine
de' suoi la strage, insieme s'adunaro,
Memmo e Seresto. E visti i lor compagni
dispersi, e giа 'l nemico in salvo addursi,
gridando: «Oh, - disse Memmo, - ove fuggite?
Ove n'andate? e qual ridotto avete
o di mura o di sito altro che questo?
Dunque un sol uomo, e d'ogni parte chiuso
in poter vostro, avrа, miei cittadini,
senza alcun danno suo fatto di noi
ne la nostra cittа sн gran macello?
Tanti de' nostri giovini sotterra
avrа mandati? E noi, noi non avremo
(sн codardi saremo) o de la nostra
infortunata patria, o degli antichi
nostri Penati, o del gran nostro Enea
nй pietа, nй rispetto, nй vergogna?»
Da questo dire accesi e rincorati
si ristrinsero insieme. E Turno intanto
da la pugna allentando in vиr la parte
che dal fiume era cinta, a poco a poco
appressossi a la riva: onde i Troiani
con impeto maggior, con maggior grida
gli furon sopra. E qual fiero leone
che da la moltitudine e da l'armi
si vede oppresso, tra fierezza e tйma
torvamente mirando si ritira;
chй nй 'l valor, nй l'ira gli consente
volgere il tergo, nй de' cacciatori,
nй di spiedi spuntar puote il rincontro;
cosн Turno dubbioso o di ritrarsi
o di spingersi avanti, irato e lento,
guardingo e minaccioso se n'andava:
e due volte avventandosi nel mezzo
si cacciт de' nemici; ed altrettante
gli ruppe e salvo indietro si ritrasse.
Alfine in un drappello insieme accolte
le teucre genti incontro gli si fкro,
e di Saturno non osт la figlia
di piъ forza prestargli; chй dal cielo
Giove a la sua sorella avea mandato
Iri a farne richiamo, e minacciarlo,
se Turno immantinente da le mura
non uscia de' Troiani. Or non potendo
piъ 'l giovine supplire o con la destra,
ch'era a ferir giа stanca, o con lo scudo,
che di dardi e di frecce era coverto;
l'elmo giа spennacchiato, e l'armi tutte
smagliate e fesse, con un nembo addosso
di sassi per le tempie e d'aste a' fianchi
giа da Memmo incalzato, alfin cedette.
E come di sudor colava, ansava,
e quasi rifiatar piъ non potea,
con tutte l'armi indosso un salto prese,
e nel Tebro avventossi. Il biondo Tebro
placido lo raccolse e salvo e lieto,
e da l'occisпon purgato e mondo,
su l'altra riva a' suoi lo ricondusse.

LIBRO DECIMO

Aprissi la magion celeste intanto,
e del cielo il gran padre in cima ascese
del suo cerchio stellato. Indi mirando
la terra, e de' Troiani e de' Latini
visto il conflitto, a sй degli altri dиi
chiamт 'l consiglio. E com'era da l'orto
e da l'occaso la sua reggia aperta,
ratto tutti adunati, assisi e cheti,
disse egli in prima: «Cittadini eterni,
qual v'ha cagione a distornar rivolti
quel ch'и giа stabilito? A che tra voi
con tanta iniquitа tanto contrasto?
Non s'и da me giа proibito e fermo
che non deggian gli Ausoni incontro a' Teucri
sorgere a l'armi? Che discordia и questa
contro al divieto mio? Qual ha timore
a la guerra incitati o questi o quelli?
Tempo vi si darа ben degno allora
di guerreggiar (non l'affrettate or voi)
che la fera Cartago aprirа l'Alpi,
grave a Roma portando esizio e strage.
Allora agli odi, al sangue, a le rapine
larga vi si darа licenza e campo.
Or lietamente la tenzone e l'armi
fermate, e sia tra voi concordia e pace».
Tal fece ragionando il gran monarca
breve proposta. Ma non brevemente
Venere in questa guisa gli rispose:
«Padre e re de' celesti, e de' mortali
eterna possa (e qual altra maggiore
s'implora altronde?), ecco tu stesso vedi
l'arroganza de' Rutuli, e quel fasto
con che Turno cavalca; e vedi il vampo
e la ruina che si mena avanti,
da la sua tracotanza e dal successo
di questa pugna insuperbito e gonfio.
Vedi i Teucri infelici, ch'ancor chiusi
non son securi; e 'n fin dentro a le porte
e 'n su' ripari e 'n su le lor difese
son combattuti: e la lor propria fossa
и di lor sangue un lago. Di ciт nulla
il mio figlio non sa; tanto n'и lunge.
Or non fia ch'una volta esca d'assedio
questa misera gente? Ecco han le mura
de l'altra Troia altri nimici a torno;
altro esercito in campo; un'altra volta
d'Arpi vien Dпomede a' danni suoi.
Resta cred'io ch'un'altra volta ancora
io sia da lui ferita, e che di nuovo
sia la tua figlia a mortal ferro esposta.
Signor, se contra la tua voglia i Teucri
son venuti in Italia, и ben ragione
che sian puniti, e del tuo aiuto indegni:
ma se tratti vi sono, e s'и lor dato
dagli oracoli tutti e de' celesti
e degl'inferni, qual puт senno o forza
a Giove opporsi, e far nuovo destino?
Ch'io non vo' dir de le combuste navi
su la spiaggia ericina, nй de' vиnti
che 'l re spinse d'Eolia a tempestarlo,
nй d'Iri che di qui fu giа mandata
per darle al foco. Infin da l'Acheronte
tratte ha le Furie (questa sol mancava
parte de l'universo non tentata
a loro offesa); d'Acheronte, dico,
ha tratto Aletto a suscitar l'Italia
incontr'a loro. Or, Signor mio, non curo
piъ d'altro imperio. Io lo sperava allora
ch'era piъ fortunata. Imperi e vinca
or chi t'aggrada. E s'anco non и loco
nel mondo, ove a la tua dura consorte
piaccia che sian quest'infelici accolti,
per l'incendio, signor, per la ruina,
e per la solitudine ti prego
de la mia Troia che ritrar mi lasci
salvo da questa guerra Ascanio almeno.
Lasciami, padre mio, questo nipote
mantener vivo; e se ne vada Enea
ramingo ovunque il mare o la fortuna
lo si tramandi. Io lo terrт da l'armi
remoto ne' miei lochi o d'Amatunta
o d'Idalio o di Pafo o di Citиra
a menar vita ignobile e privata,
pur che sicura. E tu, come a te piace,
comanda ch'a l'Ausonia il giogo imposto
sia da Cartago, sн che piъ non l'osti
in alcun tempo. Or che, padre, ne giova
che da l'occisпoni e dagl'incendi
de la lor patria e da tant'altri rischi
sian giа del mare e de la terra usciti?
E che val che da te sia lor promessa,
da lor tanto ricerca, e giа trovata
questa Troia novella, se di nuovo
convien che caggia? Assai meglio sarebbe
che fosser tra le ceneri e nel guasto,
dove fu l'altra. A Xanto, a Simoenta
fa, ti prego, signor, che si radduca
questa gente infelice, e che ritorni
a passar d'Ilio i guai». Giunone allora
infurпata: «A che, - disse - mi tenti,
perch'io rompa il silenzio, e mostri il duolo
c'ho portato nel cor gran tempo ascoso?
Qual и mai per tua fй stato uomo o dio
ch'Enea sforzasse a cercar briga, e farsi
nemico il re Latino? Oh 'l fato addotto
l'ha ne l'Italia! Sн, ma da le furie
c'и spinto di Cassandra. E chi gli ha dato
consiglio, io forse? Ch'abbandoni i suoi?
Io, che dia la sua vita in preda a' vиnti?
Io, che la cura e 'l carco de la guerra
lasci in man d'un fanciullo? e che sollevi
i popoli d'Etruria, e l'altre genti
che si stavano in pace? E quale dio,
qual mia durezza de' lor danni и rea?
Qui che rileva o di Giuno lo sdegno,
o d'Iri il ministero? Indegna cosa
и certo che dagl'Itali s'infesti
questa tua nuova Troia; e degno e giusto
sarа che Turno non si stia sicuro
ne la sua patria terra? un tal nipote
di Pilunno ch'и divo, un tanto figlio
di Venilia ch'и ninfa? E degna cosa
ti par che muova Enea la guerra a Lazio?
ch'assalga, che soggioghi, che deprede
le terre altrui? che l'altrui donne usurpi?
ch'in man porti la pace, e che per mare
e per terra armi? Tu potrai tuo figlio
scampar da' Greci; tu riporre invece
di lui la nebbia e 'l vento; tu la forma
cangiar de le sue navi in altrettante
ninfe di mare; ed io cosa nefanda
farт, se porgo a' Rutuli un aiuto,
per minimo che sia? Non v'и tuo figlio
presente; non vi sia: non sa; non sappia.
Sei regina di Pafo, d'Amatunta,
di Citиra e d'Idаlio: e che vai dunque
provocando con l'armi una contrada
non tua, pregna di guerra? e stuzzicando
sн bellicosa gente? Ed io son quella,
io, che l'afflitte lor fortune agogno
di porre al fondo? E perchй non piъ tosto
chi de' Greci a le man gli pose in prima?
Chi prima fu cagion ch'a guerra addusse
l'Europa e l'Asia? chi commise il furto
che fu de la rottura il primo seme?
Io condussi l'adultero pastore
a l'impresa di Sparta? Io fui ch'a l'armi,
io ch'a l'amor l'accesi? Allora il tempo
fu d'aver tйma e gelosia de' tuoi,
non or che le querele e le rampogne
che ne fai, sono ingiuste e tarde e vane».
Cosн Giuno dicea; quando fremendo
gli dиi tutti mostrвr che chi con questa
consentian, chi con quella. In guisa tale
s'odono i primi vиnti entro una selva
mormorar lunge, e non veduti ancora
porgere a' marinari indicio e tйma
di propinqua tempesta. Allor del cielo
il sommo, eterno, onnipotente padre
riprese a dire. Al suo parlar chetossi
la celeste magion; chetвrsi i vиnti,
e l'aria e l'onde; e sola infino al centro
tremт la terra. Ei disse: «Or che gli Ausoni
confederar co' Teucri ne si toglie,
e voi tra voi non v'accordate, udite
quel ch'io vi dico, e i miei detti avvertite.
Quella stessa fortuna e quella speme,
qual ch'ella sia, ch'i Rutuli o i Troiani
oggi da lor faransi, io vi prometto
aver per rata, e non punto inchinarmi
piъ da quei che da questi: e sia l'assedio
de' Teucri o per destino, o per errore,
o per false risposte. E ciт dico anco
de' Rutuli. Il successo e buono e rio
fia d'una parte e d'altra qual ciascuna
per sй lo s'ordirа. Giove con ambi
si starа parimente, e 'l fato in mezzo».
Cosн detto, il torrente e la vorago
e la squallida ripa e l'atra pece
d'Acheronte giurando, abbassт 'l ciglio,
e tremar fe' col cenno il mondo tutto.
Finito il ragionar, suso levossi
del seggio d'oro; e gli fкr tutti intorno
corona e compagnia fino a l'albergo.
L'esercito de' Rutuli stringendo
l'assedio intanto, in su le porte e 'ntorno
facea de la muraglia incendi e stragi;
e i Teucri assedпati, entro ai ripari
e sopr ai torrпoni a la difesa
stavan, miseri! indarno; e senza speme
di fuga un raro cerchio avean disteso
su per le mura. Era de' primi Iaso
d'Imbrasio il figlio, e 'l figlio d'Icetone
detto Timete, e 'l buon Cаstore insieme
col vecchio Timbri, ed ambi dopo questi
di Sarpedonte i frati: e Chiaro, ed Emo
onor di Licia, e di Lirnesso Ammone.
Questi con un gran sasso era venuto
su la muraglia, che 'l maggior catollo
era d'un monte; ed egli era non punto
minor del padre Clizio e di Menesto
suo famoso fratello. Altri con sassi,
altri con dardi, e chi con le saette,
e chi col foco a guardia eran del muro.
In mezzo de le schiere il vago Iulo,
gran nipote di Dardano e gran cura
de la bella Ciprigna, il volto e 'l capo
ignudo, risplendea qual chiara gemma
che in тr legata altrui raggi dal petto
o da la fronte; o qual da dotta mano
in ebano commesso, o in terebinto
candido avorio agli occhi s'appresenta.
Sovra al collo di latte il biondo crine
avea disteso, e d'oro un lento nastro
gli facea sotto e fregio insieme e nodo.
Ismaro, e tu fra sн famosa gente
con l'arco saettar ferite e tтsco
fosti veduto, generosa pianta
del meonio paese, ove fecondi
sono i campi di biade, e i fiumi d'oro.
Memmo v'era ancor egli, a cui la fuga
dianzi di Turno avea gloria acquistata,
ond'era fino al ciel sublime e chiaro.
Eravi Capi, onde poi Capua il nome
e l'origine ha presa. Avean costoro
tra lor diviso il carico e 'l periglio
di sн dura battaglia. E 'n questo mentre
solcava Enea di mezza notte il mare.
Egli, poi che d'Evandro ebbe lasciato
l'amico albergo e che nel campo giunse
de' Toschi, al tosco rege appresentossi;
e con lui ristringendosi, il suo nome
il suo lignaggio, la sua patria, in somma
chi fosse, che chiedesse, che portasse
gli espose; e qual Mezenzio appoggio avesse,
e l'orgoglio di Turno, e l'apparecchio
e l'incostanza de l'umane cose
gli pose avanti. A le ragioni aggiunse
esempi e preci sн, ch'immantinente
Tarconte acconsentн. Strinser la lega,
unоr le Јorze ed apprestвr le genti
in un momento. Di straniero duce
provvisti i Lidi, e giа dal fato sciolti,
salоr sovra l'armata. E pria di tutti
uscio d'Enea la capitana avanti.
Questa avea sotto al suo rostro dipinti,
quai sotto al carro de la madre idиa,
due che 'l legno traean frigi leoni,
e d'Ida gli pendea di sopra il monte,
amaro suo disio, dolce ricordo
del patrio nido. In su la poppa assiso
stava il duce troiano; e da sinistra
avea d'Evandro il figlio, che tra via
l'interrogava or del vпaggio stesso
e de le stelle, ed or degli altri suoi
o per terra o per mar passati affanni.
Apritemi Elicona, alme sorelle,
e cantate con me che gente e quanta
d'Etruria Enea seguisse, e di che parte,
e con qual'armi e come il mar solcasse.
Mаssico il primo in su la Tigre imposto
avea di mille giovini un drappello,
che di Chiusi e di Cosa eran venuti
con l'arco in mano e con saette a' fianchi.
Appresso a lui, seguendo, il torvo Abante
sotto l'insegna del dorato Apollo
seicento n'imbarcт di Populonia,
trecento d'Elba, in cui ferrigna vena
abbonda sн, che n'erano ancor essi
dal capo ai piи tutti di ferro armati.
Asнla il terzo, sacerdote e mago
che di fibre e di fulmini e d'uccelli
e di stelle era interprete e 'ndovino,
mille ne conducea, ch'un'ordinanza
facean tutta di picche: e tutti a Pisa
eran soggetti, a la novella Pisa,
che, giа figlia d'Alfeo, d'Arno ora и sposa.
Asture, ardito cavaliero e bello,
e con bell'armi di color diverse,
vien dopo questi con trecento appresso
di vari lochi, ma d'un solo amore
accesi a seguitarlo. Eran mandati
da Cerиte e dai campi di Mignone,
dai Pirgi antichi e da l'aperte spiagge
de la non salutifera Gravisca.
Di te non tacerт, Cigno gentile,
di Cupаvo dicendo, ancor che poche
fosser le genti sue. Questi di Cigno
era figliuol, onde ne l'elmo avea
de le sue penne un candido cimiero
in memoria del padre, e de la nuova
forma in ch'ei si cangiт, tua colpa, Amore.
Chй de l'amor di Faetonte acceso,
come si dice, mentre che piangendo
stava la morte sua, mentre ch'a l'ombra
de le pioppe, che pria gli eran sorelle,
sfogava con la musa il suo dolore,
fatto cantando giа canuto e vиglio
in augel si converse, e con la voce
e con l'ali da terra al cielo alzossi.
Il suo figlio co' suoi portava un legno
a cui sotto la prora e sopra l'onde
stava un centauro minaccioso e torvo,
che con le braccia e con un sasso in atto
sembrava di ferirle, e via correndo
col petto le facea spumose e bianche.
Ocno poscia venia, del tosco fiume
e di Manto indovina il chiaro figlio,
che te, mia patria, eresse e che dal nome
de la gran madre sua Mantua ti disse:
Mantua d'alto legnaggio, illustre e ricca,
e non d'un sangue. Tre le genti sono,
e de le tre ciascuna a quattro impera,
di cui tutte ella и capo, e tutte insieme
son con le forze de l'Etruria unite.
Quinci ne fыr contra Mezenzio armati
cinquecento altri; e Mincio, un figlio altero
del gran Benаco, fu che gli condusse,
di verdi canne inghirlandato il fronte.
Giva il superbo Aulete con un legno
di cento travi il mar solcando in guisa
che spumante il facea, sonoro e crespo.
Premea le spalle d'un Tritone immane
che con la cava sua cerulea conca
tremar si facea l'acqua e i liti intorno.
Dal mezzo in su, la fronte ispido e 'l mento
sembra d'umana forma; e 'l ventre in pesce
gli si ristringe, e col ferino petto
fende il mar sн che rumoreggia e spuma.
Da questi eletti eroi, con queste genti
eran l'onde tirrene allor solcate
in sussidio di Troia. E giа dal cielo
caduto il giorno, era de l'erta in cima
la vaga luna, quando il frigio duce,
or al timone, or a la vela intento,
co' suoi pensier vegliava. Ed ecco avanti
nuotando gli si fa di ninfe un coro,
di lui prima compagne, e quelle stesse
che, giа sue navi, da Cibele in ninfe
furon converse, e dee fatte del mare.
Tante in frotta ne gian per l'onde a nuoto
quante eran navi in prima. E di lontano
riconosciuto il re, danzando in cerchio
gli si strinsero intorno. Una fra l'altre,
la piъ di tutte accorta parlatrice,
Cimodocиa, la sua nave seguendo,
con la destra a la poppa, e con la manca
tacita remigando, il capo e 'l dorso
solo a galla tenendo, d'improvviso
cosн gli disse: «Enea, stirpe divina,
vegli tu? Veglia: il fune allenta, e 'l seno
apri a le vele tue. De la tua classe
noi fummo i legni e de la selva idиa,
e siamo or ninfe. I Rutuli col foco
n'hanno e col ferro dipartite e spinte
da' tuoi nostro malgrado. Or te cercando
siam qui venute. Per pietа di noi
la berecinzia madre in questa forma
n'ha del mar fatte abitatrici e dee.
Ma 'l tuo fanciullo Iulo in mezzo a l'armi
si sta cinto di fossa e di muraglia
da' feroci Latini assedпato.
I tuoi cavalli e gli Arcadi e gli Etruschi
unitamente han di giа preso il loco
comandato da te. Turno disegna
co' suoi d'attraversarli e porsi in mezzo
tra 'l campo e loro. Or via, naviga, approda;
sorgi tu pria che 'l sole, e sii tu 'l primo
ad ordinar le tue genti a battaglia.
Prendi l'invitto e luminoso scudo
da Volcan fabbricato, e d'тr commesso;
chй diman, se mi credi, alta e famosa
farai tu strage de' nemici tuoi».
Ciт disse, e, come esperta, al legno in poppa
tal diи pinta al partir, che piъ veloce
corse che dardo o stral che 'l vento adegui.
Dietro gli altri affrettвr, sн che stupore
n'ebbe d'Anchise il figlio. E rincorato
da sн felice annunzio, al cielo orando
divotamente si rivolse, e disse:
«Alma dea, degli dиi gran genitrice,
di Dнndimo regina, che di torri
vai coronata e 'n su leoni assisa,
te per mia duce a questa pugna invoco.
Tu rendi questo augurio e questo giorno,
ti priego, a i Frigi tuoi propizio e lieto».
Questo sol disse; e luminoso intanto
si fece il mondo. Ei primamente impose
che ratto al segno suo ciascun ne gisse,
ch'ognun s'armasse, ognuno a la battaglia
si disponesse. E giа venuto a vista
de' Rutuli e de' Teucri, alto levossi
in su la poppa; s'imbracciт lo scudo,
e lo vibrт sн ch'ambedue raggiando
empiй di luce e di baleni i campi.
Di su le mura la dardania gente
gioiosa infino al ciel le grida alzaro,
e sopraggiunta la speranza a l'ira,
a trar di nuovo e saettar si diкro
con un rumor, qual sotto l'atre nubi
nel dar segno di nembi e nel fuggirli
fan le strimonie gru schiamazzo e rombo.
Mentre ciт Turno e gli altri ausoni duci
stavan meravigliando, ecco a la riva
si fa pien d'armi e di navili il mare.
Enea di cima al capo e da la cresta
del fin elmo spargea lampi e scintille
d'ardente fiamma; e gran lustri e gran fochi
raggiava de lo scudo il colmo e l'oro,
come ne la serena umida notte
la lugubre e mortifera cometa
sembra che sangue avventi, o 'l sirio Cane
quando nascendo a' miseri mortali
ardore e sete e pestilenza apporta,
e col funesto lume il ciel contrista.
Non men per questo ha Turno ardire e speme
d'occupar prima il lito, e da la terra
ributtare i nemici. Egli, animando
e riprendendo la sua gente, avanti
si spinge a tutti, e griada: «Ecco adempito
vostro maggior disio. Piъ non vi sono
le mura in mezzo. In voi, ne le man vostre
la pugna e Marte e la vittoria и posta.
Or qui de la sua donna, de' suoi figli,
de la sua casa si rammenti ognuno;
ognun davanti si proponga i fatti
e le lodi de' padri. Andiam noi prima
a rincontrargli, infin che l'onde e 'l moto
ce gli rende del mar non fermi ancora.
Via, ch'agli arditi и la fortuna amica».
Detto cosн, va divisando come
parte lor contra ne conduca, e parte
a l'assedio ne lasci. Intanto Enea
per disbarcare i suoi, le scafe e i ponti
avea giа presti. E di lor molti attenti
al ritorno de' flutti con un salto
si lanciarono in secco; e chi co' remi,
chi con le travi ne l'arena usciro.
Tarconte, poi ch'ebbe la riva tutta
ben adocchiata, non lа dove il vado
disperava del tutto, o dove l'onda
mormorando frangea, ma dove cheta
e senza intoppo avea corso e ricorso,
voltт le prore; e: «Via, - disse - compagni,
via, gente eletta, ite con tutti i remi,
di tutta forza, e sн pingete i legni,
che si faccian da lor canale e stazzo.
Dividete co' rostri e con le prore
questa nemica terra: in questa terra
mi gittate una volta, e che che sia
segua poi del navile. A questo pregio
non curo del suo danno: afferri, e pиra».
Al detto di Tarconte alto in su' remi
levвrsi e sн co' rostri a' liti urtaro,
ch'empiкr di spuma il mar, di sabbia i campi;
e i legni tutti ne l'asciutto infissi
fermвrsi interi. Ma non giа, Tarconte,
il legno tuo, che d'una ascosa falda
ebbe di sasso in approdando intoppo;
dal cui dorso inchinato, e dal mareggio
lungamente battuto, alfin del tutto
aperto e sconquassato, in mezzo a l'onde
le genti espose; e 'l peso e l'imbarazzo
de l'armi, e gli armamenti infranti e sparsi
del rotto legno, e 'l flutto che rediva
le tennero impedite e risospinte.
Turno le schiere sue rapidamente
al mar condusse, e tutte in ordinanza
su 'l lito incontra a' Teucri le dispose.
Diкron le trombe il segno. Il troian duce
fu che prima assalн le torme agresti,
e si fe' con la strage de' Latini
e con la morte di Terone in prima
augurio a la vittoria. Era Terone
un di corpo maggior degli altri tutti;
e tanto ebbe d'ardir che da se stesso
incontr'Enea si mosse. Enea col brando
tal un colpo gli trasse, che lo scudo,
benchй ferrato, e la corazza e 'l fianco
forogli insieme. Indi avventossi a Lica
che da l'aperte viscere fu tratto
de la giа morta madre, e pargoletto,
preservato dal ferro, a te fu sacro,
Febo, padre di luce; ed or morendo
vittima cadde a Marte. Occise appresso
Cisso feroce, e Gнa di corpo immane,
ch'ambi di mazze armati ivan le schiere
de' suoi Teucri atterrando. E lor non valse
nй d'Ercole aver l'armi nй le braccia
d'erculea forza, nй che giа Melampo
lor padre in compagnia d'Ercole fosse
allor che de la terra a soffrir ebbe
i duri affanni. A Faro un dardo trasse,
mentre gridando e millantando incontra
gli si facea. Colpillo in bocca a punto,
sн che la chiuse e l'acchetт per sempre.
E tu, Cidon, per le sue mani estinto
misero! giaceresti a Clizio appresso,
tuo novo amore, a cui de' primi fiori
eran le guance colorite a pena;
se non che de' fratelli ebbe una schiera
subitamente a dosso. Eran costoro
sette figli di Forco, e sette dardi
gli avventaro in un tempo. Altri de' quali
da l'elmo e da lo scudo risospinti,
altri furon da Venere sbattuti
sн, ch'o vani, o leggieri il corpo a pena
leccвr passando. In questa, Enea rivolto:
«Dammi, - disse ad Acate, - degl'intrisi
nel sangue greco, e sotto Ilio provati;
e non fia colpo in fallo». Una grand'asta
gli porse Acate in prima, ed ei la trasse
sн, che volando ne lo scudo aggiunse
di Mиone, e la piastra ond'era cinto
e la corazza e 'l petto gli trafisse.
Alcanor suo fratello nel cadere,
mentre le braccia al tergo gli puntella,
l'asta nel trapassare, il suo tenore
continьando, insanguinata e calda
la destra gli confisse: e da le spalle
pendй del frate, infin che l'un giа morto,
e l'altro moribondo a terra stesi
giacquero entrambi. Numitore il terzo
da questo sconficcandola e da quello,
lanciolla incontro Enea. Di ferir lui
non gli successe, ma del grande Acate
graffiт la coscia lievemente, e scуrse.
Clauso, il Sabino, ardito e poderoso
qui si mostrт con una picca in mano,
e Drпope investн nel primo incontro.
Glie n'appuntт nel gorgozzule, e pinse
tanto, che la parola e 'l fiato e l'alma
in un gli tolse. Ed ei cadde boccone,
e per bocca gittт di sangue un fiume.
Cacciossi avanti, e tre di Tracia appresso
de la gente di Borea, e tre de' figli
d'Idante, alunni d'Ismara e di Troia,
in varпate guise a terra stese.
Venne a rincontro Aleso, e degli Aurunci
un'ordinanza. Di Nettuno il figlio
Messapo i suoi cavalli avanti spinse,
ed or questi sforzandosi, ed or quelli
di cacciare i nemici, in su l'entrata
si combattea d'Italia. E quai tra loro
s'azzuffano a le volte avversi, e pari
di contesa e di forza in aria i vиnti,
che nй lor, nй le nugole, nй 'l mare
ceder si vede, e lungamente incerta
sн la mischia travaglia, ch'ogni cosa
d'ogni parte tumultьa e contrasta;
tale appunto de' Rutuli e de' Teucri
era la pugna e sн fiera e sн stretta,
che giunte si vedean l'armi con l'armi,
e le man con le mani, e i piи co' piedi.
D'altra parte ove rapido e torrente
avea 'l fiume travolti arbori e sassi,
da loco malagevole impediti
gli Arcadi cavalieri a piи smontaro;
e ne' pedestri assalti ancor non usi,
da' Latini incalzati, avean le terga
giа volte a Lazio, quando (quel che s'usa
in sн duri partiti) a lor rivolto
Pallante, or con preghiere, or con rampogne:
«Ah, compagni, ah, fratelli, - iva gridando, -
dove fuggite? Per onor di voi,
per la memoria di tant'altri vostri
egregi fatti, per l'egregia fama,
per le vittorie del gran duce Evandro,
e per la speme che di me concetta
a la paterna lode emula avete,
non ponete ne' piи vostra fidanza.
Col ferro aprir la strada ne conviene
per mezzo di color che lа vedete,
che piъ folti n'incalzano e piъ feri.
Per lа comanda l'alta patria nostra
che voi meco n'andiate. E di lor nullo
и che sia dio: son uomini ancor essi
come siam noi: e noi com'essi avemo
il cor, le mani e l'armi. E dove, dove
vi salverete? Non vedete il mare
che v'и davanti, e che la terra manca
al fuggir vostro? E se per l'onde ancora
fuggiste, alfin dove n'andrete? a Troia?»
E, cosн detto, in mezzo de' piъ densi
e de' piъ formidabili nemici
anzi a tutti avventossi. E Lago il primo
per sua disavventura gli s'oppose.
Stava costui chinato, e per ferirlo
divelto avea di terra un gran macigno,
quando lo sopraggiunse, e nella schiena
tra costa e costa il suo dardo piantogli;
sн che tirando e dimenando a pena
ne lo ritrasse. Isbon, di Lago amico,
mentr'egli in ciт s'occъpa, ebbe speranza
di vendicarlo, e 'ncontra gli si mosse.
Ma non gli riuscн: chй mentre, incauto,
dal dolor trasportato e da lo sdegno
del suo morto compagno, infurпava,
ne la spada del giovine infilzossi
da l'un de' fianchi: onde trafitto e smunto
ne fu di sangue il cor, d'ira il polmone.
Poscia Stиnelo occise; occise appresso
Anchиmolo. Costui fu de l'antica
stirpe di Reto. E voi, Laride e Timbro,
figli di Dauco, ambi d'un parto nati,
per le sue man cadeste. Eran costoro
sн l'un del tutto a l'altro somigliante,
che dal padre indistinti e da la madre
facean lor grato errore e dolce inganno.
Sol or Pallante (ahi! troppo duramente)
vi fe' diversi: ch'a te 'l capo netto,
Timbro, recise; a te, Laride, in terra
mandт la destra. E questa anche guizzando
te per suo riconobbe, e con le dita
strinse il tuo ferro, e 'l brancicт piъ volte.
Gli Arcadi da' conforti e da le prove
accesi di Pallante; e per dolore
e per vergogna di furor s'armaro
contr'a' nimici. Seguitт Pallante;
ed a Retиo ch'era fuggendo in volta
sopra una biga, nel passargli a canto,
trasse d'un'asta; e tanto Ilo d'indugio
ebbe a la morte sua, ch'ad Ilo indritto
era quel colpo in prima. Ma Retиo
venne di mezzo, e ricevello in vece
d'altri colpi che dietro minacciando
gli venian Teutro e Tiro, i due buon frati
che gli eran sopra. Traboccт dal carro
mezzo tra vivo e morto, e calcitrando
de' Rutuli battй l'amica terra.
Come il pastor ne' dolci estivi giorni
a lo spirar de' vиnti il foco accende
in qualche selva: che diversamente
lo sparge in prima; e con diversi incendi
sъbito di Volcan ne va la schiera
ciт ch'и di mezzo divorando in guisa
ch'un sol diventa; ed ei stassi in disparte
del fatto altero, e di veder gioioso
la vincitrice fiamma, e l'arso bosco;
cosн 'l valor degli Arcadi ristretto
per soccorrer Pallante insieme unissi.
Ma 'l bellicoso Aleso incontro a loro
si ristrinse ancor ei con l'armi sue,
e Ladone e Demтdoco e Fereto
occise in prima. Indi a Strimonio un colpo
trasse di spada, che la destra mano,
mentre con un pugnal gli era a la gola,
gli recise di netto. E sн d'un sasso
ferн Toante in volto, che gl'infranse
il teschio tutto, e ne schizzвr col sangue
l'ossa e 'l cervello. Era d'Aleso il padre
mago e 'ndovino; e del suo figlio il fato
avea previsto; onde gran tempo ascoso
in una selva il tenne. E non per questo
franse il destino; chй giа vиglio a pena
chiusi ebbe gli occhi, che le Parche addosso
gli diкr di mano: onde a morir devoto
fu per l'armi d'Evandro. Incontro a lui
mosse Pallante in cotal guisa orando:
«Da', padre Tebro, a questo dardo indrizzo,
fortuna e strada; ond'io nel petto il pianti
del duro Aleso; e 'l dardo e le sue spoglie,
a te fian poscia in questa quercia appese».
Udillo il Tebro: e mentre Aleso, aнta
porgendo ad Imaon, lo scudo stende
per coprir lui, se stesso discoverse
al colpo di Pallante, e morto cadde.
Lauso che de la pugna era gran parte,
visto al cader d'un sн degno campione
caduta la contesa e l'ardimento
de le schiere latine, egli in sua vece
tosto avanti si spinse e rinfrancolle.
E prima di sua mano Abante ancise,
ch'era di quella zuffa un duro intoppo,
e de' nemici il piъ saldo sostegno.
Or qui strage si fa d'Arcadi insieme,
e di Toschi e di voi, Troiani, intatti
ancor da' Greci. E qui d'ambe le parti
tutti con tutti ad affrontar si vanno.
Pari le forze e pari i capitani
son d'ambi i lati; e quinci e quindi ardenti
si ristringono in guisa che gli estremi
fanno ancor calca e 'mpedimento a' primi.
Da questa parte sta Pallante, e Lauso
da quella, i suoi ciascuno inanimando,
spingendo e combattendo. E l'un diverso
non и molto da l'altro nй d'etate
nй di bellezza; e parimente il fato
a ciascuno ha di lor tolto il ritorno
ne la sua patria. E non perт tra loro
s'affrontвr mai; chй 'l regnator celeste
riserbava la morte d'ambedue
a nemici maggiori. In questo mezzo
la ninfa, che di Turno era sorella,
il suo frate avvertisce che soccorso
procuri a Lauso. Ond'ei tosto col carro
le schiere attraversando, a' suoi compagni
giunto che fu: «Via, - disse - or non и tempo
che voi piъ combattiate. Io sol ne vado
contra Pallante; a me solo и dovuta
la morte sua: cosн 'l suo padre stesso
v'intervenisse, e spettator ne fosse».
Detto ch'egli ebbe, incontinente i suoi,
siccome imposto avea, del campo usciro.
Pallante, visti i Rutuli ritrarsi,
e lui sentendo che con tanto orgoglio
lor comandava, poscia che 'l conobbe,
lo squadrт tutto, e stupido fermossi
a veder sн gran corpo. Indi feroce
gli occhi intorno girando, a i detti suoi
cosн rispose: «Oggi o d'opime spoglie
o di morte onorata il pregio acquisto.
E 'l padre mio (tal и d'animo invitto
incontr'ogni fortuna, o buona o rea
che sia la mia) ne porrа 'l core in pace.
Via, che d'altro и mestier che di minacce».
E, ciт detto, si mosse, e fiero in mezzo
presentossi del campo. Un gel per l'ossa
e per le vene agli Arcadi ne corse.
E Turno dalla biga con un salto
lanciossi a terra; ch'assalirlo a piedi
prese consiglio. E qual fiero leone
che, veduto nel pian da lunge un toro
con le corna a battaglia esercitarsi,
dal monte si dirupa e rugge e vola,
tal fu di Turno la sembianza a punto
nel girgli incontro. Il giovine, che meno
avea di forze, s'avvisт di tempo
prender vantaggio, e di provare osando
s'aver potesse in alcun modo amica
almen fortuna; e giа ch'a tiro d'asta
s'eran vicini, al ciel rivolto disse:
«Ercole, se ti fu del padre mio
l'ospizio accetto, e la sua mensa a grado,
allor che peregrin seco albergasti,
dammi, ti priego, a tanta impresa aнta,
sн che Turno egli stesso in chiuder gli occhi
veggia e senta, morendo, ch'a me tocca
vincere e spogliar lui d'armi e di vita».
Udillo Alcide, e per pietа che n'ebbe
nel suo cor se ne dolse e lacrimonne,
quantunque indarno. E Giove, per conforto
del figlio suo, cosн seco ne disse:
«Destinato a ciascuno и 'l giorno suo;
e breve in tutti e lubrica e fugace
e non mai reparabile sen vola
l'umana vita. Sol per fama и dato
agli uomini che sian vivaci e chiari
piъ lungamente. Ma virtute и quella
che gli fa tali. E non per questo alcuno
и che non muoia. E quanti ne moriro
sotto il grand'Ilio, ch'eran nati in terra
di voi celesti? E Sarpedonte и morto
ch'era mio figlio, e Turno anco morrа;
e giа de la sua vita и giunto al fine».
Cosн disse, e da' rutuli confini
torse la vista. Allor Pallante trasse
con gran forza il suo dardo, e 'l brando strinse
incontro a Turno. Investн 'l dardo a punto
lа 've 'l braccial su l'omero s'affibbia,
e tra 'l suo groppo e l'orlo de lo scudo
come strisciando, di sн vasto corpo
lievemente afferrт la pelle a pena.
Turno, poi che 'l nodoso e ben ferrato
suo frassino brandito e bilanciato
ebbe piъ volte: «Or prova tu - gli disse -
se 'l mio va dritto, e se colpisce e fуra
piъ del tuo ferro». E trasse. Andт ronzando
per l'aura, e con la punta a punto in mezzo
si piantт de lo scudo. E tante piastre
di metallo e d'acciaio, e tante cuoia
ond'era cinto, e la corazza e 'l petto
passogli insieme. Il giovine ferito
tosto fuor si cavт di corpo il tиlo;
ma non gli valse, chй con esso il sangue
e la vita n'uscio. Cadde boccone
in su la piaga, e tal diи d'armi un crollo,
che, ancor morendo, la nimica terra
trepida ne divenne e sanguinosa.
Turno sopra il cadavere fermossi
alteramente e disse: «Arcadi, udite,
e per me riportate al vostro Evandro,
che qual di rivedere ha meritato
il suo Pallante, tal glie ne rimando;
e gli fo grazia che d'esequie ancora
e di sepolcro e di qual altro fregio
che conforto gli sia, l'orni e l'onori;
ch'assai ben caro infino a qui gli costa
l'amicizia d'Enea». Cosн dicendo,
col manco piи calcт l'estinto corpo;
e d'oro un cinto ne rapн di pondo,
d'artificio e di pregio, ove per mano
era del buon Eurizio istorпata
la fiera notte e i sanguinosi letti
di quell'empie fanciulle, in grembo a cui
fыr giа tanti in un tempo e frati e sposi,
sotto fй d'Imeneo, giovani ancisi.
Di questa spoglia altero e baldanzoso
vassene or Turno. O cieche umane menti,
come siete de' fati e del futuro
poco avvedute! E come oltra ogni modo
ne' felici successi insuperbite!
Tempo a Turno verrа ch'ogni gran cosa
ricompreria di non aver pur tocco
Pallante; e le sue spoglie e 'l dн che l'ebbe
in odio gli cadranno. Il morto corpo,
nel suo scudo composto, i suoi compagni
levвr dal campo, e con solenne pompa
e con molti lamenti, e molto pianto
lo riportaro al padre. Oh, qual, Pallante,
tornasti al padre tuo gloria e dolore!
Ch'una stessa giornata, ch'a la guerra
ti diede, a lui ti tolse. Oh pur gran monti
lasciasti pria di tuoi nemici estinti!
Corse la fama, anzi il verace avviso
a l'orecchie d'Enea d'un danno tale
e d'un tanto periglio, che giа vтlto
era il suo campo in fuga. Incontinente
si fa col ferro una spianata intorno;
poscia s'apre una via, di te cercando,
Turno, e 'l tuo rintuzzar cresciuto orgoglio
per la vittoria di Pallante occiso.
Pallante, Evandro e l'accoglienze loro
e le lor mense ove con tanto amore
forestier fu raccolto, e la contratta
giа tra loro amistа davanti agli occhi
si vedea sempre. E per onore a l'ombra
de l'amico, e per vittima al grand'Orco,
molti giovini avea giа destinati
vivi sacrificar sopra il suo rogo;
e di giа ne facea quattro d'Ufente
addur legati, e quattro di Sulmona.
E tra via combattendo, incontr'a Mago
tirт d'un'asta, a cui sotto chinossi
l'astuto a tempo sн che sopra al capo
gli trapassт divincolando il colpo;
e ratto risorgendo umilemente
gli abbracciт le ginocchia, e cosн disse:
«Per tuo padre e tuo figlio, Enea, ti prego,
a mio padre, a mio figlio mi conserva.
Di gran legnaggio io sono: gran tesori
tengo d'argento sotterrati e d'oro
in massa e 'n conio. La vittoria vostra
solo in me non consiste. Una sol'alma
in cosн grave e grande affar che monta?»
Rispose Enea: «Le tue conserve d'oro
e d'argento conserva a' figli tuoi.
Questi mercati ha Turno primamente
tolti fra noi, poi c'ha Pallante occiso:
ed al mio padre ed al mio figlio in grado
fia la tua morte. Ciт dicendo, a l'elmo
la man gli stese: e poichй gli ebbe il collo
chinato al colpo, insino a l'else il ferro
ne la gola gl'immerse. Indi non lunge
Emтnide incontrando, un sacerdote
di Febo e di Dпana, il fronte adorno
di sacra benda, e tutto rilucente
di vesti e d'armi, addosso gli si scaglia.
Fugge Emтnide, e cade. Enea gli и sopra,
lo sacrifica a l'ombra e d'ombra il cuopre.
Poscia de l'armi, che 'l meschino a pompa
portт piъ ch'a difesa, il buon Seresto
lo spoglia, e per trofeo le appende in campo
a te, gran Marte. Ecco di nuovo intanto
Cиcolo, di Vulcan l'ardente figlio,
e 'l marso Ombron ne la battaglia entrando,
e rimettendo le lor genti insieme,
spingonsi avanti. Enea da l'altra parte
infurпava. Ad Аnsure avventossi,
e 'l manco braccio con la spada in terra
gittogli e de lo scudo il cerchio intero.
Gran cose avea costui cianciate in prima
e concepute; e d'adempirle ancora
s'era promesso. Avea forse anco in cielo
riposti i suoi pensieri, e s'augurava
lunga vita e felice. E pur qui cadde.
Poscia Tаrquito ardente, e d'armi cinto
fulgenti e ricche, incontro gli si fece.
Era costui di Fauno montanaro
e de la ninfa Drпope creato,
giovine fiero. Enea parossi avanti
a la sua furia, e pinse l'asta in guisa
che lo scudo impedigli e la corazza.
Allora indarno il misero a pregarlo
si diede. E mentre a dir molto s'affanna
per lo suo scampo, ei con un colpo a terra
gittogli il capo; e travolgendo il tronco
tiepido ancor, sopra gli stette e disse:
«Qui con la tua bravura te ne stai,
tremendo e formidabile guerriero:
nй di terra tua madre ti ricuopra,
nй di tomba t'onori. Ai lupi, ai corvi
ti lascio, o che la piena in alcun fosso
ti tragga, o che nel fiume, o che nel mare
ai famelici pesci esca ti mandi».
Indi muove in un tempo incontro a Lica.
E segue Anteo, che ne le prime schiere
era di Turno. Assaglie il forte Numa,
fere il biondo Camerte. Era Camerte
figlio a Volscente, generoso germe
del magnanimo padre, e de' piъ ricchi
d'Ausonia tutta: in quel tempo reggea
la taciturna Amicla. In quella guisa
che si dice Egeon con cento braccia
e cento mani, da cinquanta bocche
fiamme spirando e da cinquanta petti,
esser giа stato col gran Giove a fronte
quando contra i suoi folgori e i suoi tuoni
con altrettante spade ed altrettanti
scudi tonava e folgorava anch'egli;
in quella stessa Enea per tutto 'l campo,
poi ch'una volta il suo ferro fu caldo,
contra tutti vincendo infurпossi.
Ecco Nifeo su quattro corridori
si vede avanti; e contra gli si spinge
sн ruпnoso, e tal fa lor fremendo
tйma e spavento, che i destrier rivolti
lui dal carro traboccano, e disciolti
sen vanno e vтti imperversando al mare.
Lъcago intanto e Lнgeri, due frati
con due giunti cavalli ambi in un tempo
gli si fan sopra. Lнgeri a le briglie
sedea per guida, Lъcago rotava
la spada a cerco. Enea, non sofferendo
la tracotanza, a la giа mossa biga
piantossi avanti; e Lнgeri gli disse:
«Enea, tu non sei giа con Dпomede,
nй con Achille questa volta a fronte;
nй son questi i cavalli e 'l carro loro:
di Lazio и questo e non de' Frigi il campo:
qui finir ti convien la guerra e i giorni».
Queste vane minacce e questo vento
soffiava il folle. Enea d'altro risposta
non gli diи che de l'asta. E mentre avanti
spinge l'uno i destrieri, e l'altro al colpo
si sta chinato e col piи manco in atto
di ferir lui, la sua lancia a lo scudo
entrт sotto di Lъcago, e nel manco
lato ne l'anguinaia il colse a punto,
e giъ del carro moribondo il trasse.
Indi ancor egli motteggiollo e disse:
«A te nй paventosi nй restii
son giа, Lъcago, stati i tuoi cavalli.
Tu da te stesso un sн bel salto hai preso
fuor del tuo carro». E, ciт detto, ai destrieri
diи di piglio. Il suo frate uscito intanto
dal carro stesso, umнle e disarmato
stendea le palme in tal guisa pregando:
«Deh, per lo tuo valore e per coloro
che ti fкr tale, abbi di me, signore,
pietа, che supplicando in don ti chieggio
questa misera vita». E seguitando
la sua preghiera, a lui rispose Enea:
«Tu non hai giа cosн dianzi abbaiato.
Muori; e morendo il tuo frate accompagna».
E con queste parole il ferro spinse,
e gli aprн 'l petto, e l'alma ne disciolse.
Mentre cosн per la campagna Enea
strage facendo, e di torrente in guisa
e di tempesta infurпando scorre,
Ascanio e la troiana gioventute,
indarno entro a le mura assedпata,
saltano in campo. Ed a Giunone intanto
cosн Giove favella: «O mia diletta
sorella e sposa, ecco testй si vede
com'ha la tua credenza e 'l tuo pensiero
verace incontro, e come Citerea
sostenta i Teucri suoi. Vedi com'essi
non son nй valorosi nй guerrieri,
e i cor non hanno ai lor perigli eguali».
A cui Giunon tutta rimessa: «Ah, - disse -
caro consorte, a che mi strazi e pugni,
quando и pur troppo il mio dolor pungente
e pur troppo tem'io le tue punture?
Ma se qual era e qual esser potrebbe,
fosse or teco il poter de l'amor mio,
teco che tanto puoi, da te negato
non mi fфra, signor, ch'oggi il mio Turno
fosse da la battaglia e da la morte
per me sottratto e conservato al vecchio
Dauno suo padre. Or pиra, e col suo sangue,
che pure и pio, la cupidigia estingua
de' suoi nemici. E pur anch'egli и nato
dal nostro sangue; e pur Pilunno и quarto
padre di lui: da lui pur largamente
gli altar molte fпate e i templi tuoi
son de' suoi molti doni ornati e carchi».
Cui del ciel brevemente il gran motore
cosн rispose: «Se indugiar la morte,
ch'и giа presente, e prolungare i giorni
al giа caduco giovine t'aggrada
per alcun tempo, e tu con questo inteso
l'accetti, va tu stessa, e da la pugna
sottrallo e dal destino. A tuo contento
fin qui mi lece. Ma se in ciт presumi
anco piъ di sua vita, o de la guerra,
che del tutto si mute o si distorni,
invan lo speri». A cui Giuno piangendo
soggiunse: «E che saria, se quel ch'in voce
ti gravi a darmi, almen nel tuo secreto
mi concedessi? e questa vita a Turno
si stabilisse? giа ch'indegna e cruda
morte gli s'avvicina, o ch'io del vero
mi gabbo. Tu che puoi, signor, rivolgi
la mia paura e i tuoi pensieri in meglio».
Poscia che cosн disse, incontinente
dal ciel discese, e con un nembo avanti
e nubi intorno, occulta infra i due campi
sopra terra calossi. Ivi di nebbia,
di colori e di vento una figura
formт (cosa mirabile a vedere!)
in sembianza d'Enea; d'Enea lo scudo,
la corazza, il cimiero e l'armi tutte
gli finse intorno, e gli diи 'l suono e 'l moto
propri di lui, ma vani, e senza forze
e senza mente; in quella stessa guisa
che si dice di notte ir vagabonde
l'ombre de' morti, e che i sopiti sensi
son da' sogni delusi e da fantasme.
Questa mentita imago anzi a le schiere
lieta insultando, a Turno s'appresenta,
lo provoca e lo sfida. E Turno incontra
le si spinge e l'affronta; e pria da lunge
il suo dardo le avventa, al cui stridore
volg'ella il tergo e fugge. Ed ei sospinto
da la vana credenza e da la folle
sua speme insuperbito, la persegue
con la spada impugnata «E dove, e dove, -
dicendo, - Enea, ten fuggi? ove abbandoni
la tua sposa novella? Io di mia mano
de la terra fatale or or t'investo,
che tanto per lo mar cercando andavi».
E gridando l'incalza, e non s'avvede
che quel che segue e di ferir agogna,
non и che nebbia che dal vento и spinta.
Era per sorte in su la riva un sasso
di molo in guisa; ed un navile a canto
gli era legato, che la scala e 'l ponte
avea su 'l lito, onde ne fu pur dianzi
Osinio, il re di Chiusi, in terra esposto.
In questo legno, di fuggir mostrando,
ricovrossi d'Enea la finta imago,
e vi s'ascose. A cui dietro correndo
Turno senza dimora, infurпato
il ponte ascese. Era a la prora a pena
che Giunon ruppe il fune, e diede al legno
per lo travolto mare impeto e fuga.
Intanto Enea, di Turno ricercando,
a battaglia il chiamava. Ed or di questo
ed or di quello e di molti anco insieme
facea strage e scompiglio; e la sua larva,
poichй di piъ celarsi uopo non ebbe,
fuor de la nave uscendo alto levossi,
e con l'atra sua nube unissi e sparve.
Turno, cosн schernito, e giа nel mezzo
del mar sospinto, indietro rimirando
come del fatto ignaro, e del suo scampo
sconoscente e superbo, al ciel gridando
alzт le palme, e disse: «Ah, dunque io sono
d'un tanto scorno, onnipotente padre,
da te degno tenuto? a tanta pena
m'hai riservato? ove son io rapito?
onde mi parto? chi cosн mi caccia?
chi mi rimena? e fia ch'un'altra volta
io ritorni a Laurento? e ch'io riveggia
l'oste piъ con quest'occhi? e che diranno
i miei seguaci, e quei che m'han per capo
di questa guerra, che da me son tutti
ahi vitupиro!) abbandonati a morte?
E giа rotti li veggio, e giа gli sento
gridar cadendo. O me lasso! che faccio?
Qual и del mar la piъ profonda terra
che mi s'apra e m'ingoi? A voi piuttosto,
vиnti, incresca di me. Voi questo legno
fiaccate in qualche scoglio, in qualche rupe,
ch'io stesso lo vi chieggio; o ne le sirti
mi seppellite, ove mai piъ non giunga
Rutulo che mi veggia, o mi rinfacci
questa vergogna e quest'infamia, ond'io
sono a me consapevole e nimico».
Cosн dicendo, un tanto disonore
in sй sdegnando, e di se stesso fuori,
strani, diversi e torbidi pensieri
si volgea per la mente, o con la spada
passarsi il petto, o traboccarsi in mezzo,
sн com'era, del mare, e far, notando,
pruova o di ricondursi ond'era tolto,
o d'affogarsi. E l'una e l'altra via
tentт tre volte; e tre volte la dea,
di lui mossa a pietа, ne lo distolse.
Dal turbine e dal mar cacciato intanto
si scуrse il legno, che del padre Dauno
a l'antica magion per forza il trasse.
Mezenzio in questo mentre che da l'ira
era spinto di Giove, ardente e fiero
entrт ne la battaglia; e i Teucri assalse
che giа 'l campo tenean superbi e lieti.
Da l'altro canto le tirrene schiere
mossero incontro a lui. Contra lui solo
s'unоr tutti de' Toschi e gli odi e l'armi;
ed egli, a tutti opposto, alpestro scoglio
sembrava, che nel mar si sporga, e i flutti,
e i vиnti minacciar si senta intorno,
e non punto si crolli. Ognun ch'avanti
o l'ardir gli mandava o la fortuna,
a' piи si distendea. Nel primo incontro
Ebro di Dolicаo, Lаtago e Palmo
tolse di mezzo. Ebro passт fuor fuori
con un colpo di lancia: il volto e 'l teschio,
un gran macigno a Lаtago avventando,
infranse tutto; ambi i garretti a Palmo
ch'avanti gli fuggia, tronchi di netto,
lasciт che rampicando a morir lunge
a suo bell'agio andasse; ma de l'armi
spogliollo in prima, e la corazza in collo
e l'elmo in testa al suo Lauso ne pose.
Occise dopo questi il frigio Evante:
poscia Mimante ch'era pari a Pari
di nascimento, e d'amor seco unito.
D'Аmico nacque, e ne la stessa notte
Teаna la sua madre in luce il diede,
che diи Paride al mondo Ecuba pregna
di fatal fiamma. E pur l'un d'essi occiso
fu ne la patria, e l'altro sconosciuto
qui cadde. Era a veder Mezenzio in campo
qual orrido, sannuto, irto cignale
in mezzo a' cani allor che da' pineti
di Vиsolo, o da' boschi o da' pantani
di Laurento и cacciato, ove molt'anni
si sia difeso; ch'a le reti aggiunto
si ferma, arruffa gli omeri e fremisce
co' denti in guisa che non и chi presso
osi affrontarlo, ma co' dardi solo,
e con le grida a man salva d'intorno
gli fan tempesta. Cosн contra a lui
non s'arrischiando le nemiche squadre
stringere i ferri, le minacce e l'armi
gli avventavan da lunge; ed ei fremendo
stava intrepido e saldo, e con lo scudo
sbattea de l'aste il tempestoso nembo.
Di Cтrito venuto a questa guerra
era un Greco bandito, Acron chiamato,
novello sposo che, non giunto ancora
con la sua donna, a le sue nozze il folle
avea l'armi anteposte. E in quella mischia
d'ostro e d'тr riguardevole e di penne,
sponsali arnesi e doni, ovunque andava,
per le schiere facea strage e baruffa.
Mezenzio il vide; e qual digiuno e fiero
leon da fame stimolato, errando
si sta talor sotto la mandra, e rugge:
se poi fugace damma, o di ramose
corna gli si discopre un cervo avanti,
s'allegra, apre le canne, arruffa il dorso,
si scaglia, ancide e sbrana, e 'l ceffo e l'ugne
d'atro sangue s'intride; in tal sembiante
per mezzo de lo stuol Mezenzio altero
s'avventa. Acron per terra al primo incontro
ne va rovescio; e l'armi e 'l petto infranto,
sangue versando, e calcitrando, spira.
Morto Acrone, ecco Orode, che davanti
gli si tolle. Ei lo segue; e non degnando
ferirlo in fuga, o che fuggendo occulto
gli fosse il feritor, lo giunge e 'l passa,
l'incontra, lo provтca, a corpo a corpo
con lui s'azzuffa, che di forze e d'armi
piъ valea che di furto. Alfin l'atterra
e l'asta e 'l piи sopra gl'imprime e dice:
«Ecco, Orode и caduto: una gran parte
giace de la battaglia». A questa voce
lieti alzaro i compagni al ciel le grida;
ed ei mentre spirava: «Oh, - disse a lui, -
qual che tu sii, non fia senza vendetta
la morte mia: nй lungamente altero
n'andrai: chй dietro a me nel campo stesso
cader convienti». A cui Mezenzio un riso
tratto con ira: «Or sii tu morto intanto, -
rispose, - e quel che puт Giove disponga
poscia di me». Cosн dicendo il tиlo
gli divelse dal corpo, ed ei le luci
chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
Cиdico occise Alcato, Socratуre
occise Idaspe; a due la vita tolse
Rapo, a Partenio ed al gagliardo Orsone;
Messapo anch'egli a due la morte diede:
a Clтnio da cavallo, ad Ericate,
ch'era pedone, a piede. Agi di Licia
movendo incontro a lui, fu da Valero
valoroso, e de' suoi degno campione,
a terra steso; Atron da Salio anciso;
e Salio da Nealce, che di dardo
era gran feritore e grande arciero.
D'ambe le parti erano Morte e Marte
del pari; e parimente i vincitori
e i vinti ora cadendo, ora incalzando,
seguian la zuffa; nй viltа, nй fuga
nй di qua nй di lа vedeasi ancora.
L'ira, la pertinacia e le fatiche
erano e quinci e quindi ardenti e vane.
E di questi e di quelli avean gli dиi
che dal ciel gli vedean, pietа e cordoglio.
Stava di qua Ciprigna e di lа Giuno
a rimirarli; e pallida fra mezzo
di molte mila infurпando andava
la nequitosa Erinni. Una grand'asta
prese Mezenzio un'altra volta in mano
e turbato squassandola, del campo
piantossi in mezzo, ad Orпon simнle
quando co' piи calca di Nereo i flutti,
e sega l'onde, con le spalle sopra
a l'onde tutte; o qual da' monti a l'aura
si spicca annoso cerro, e 'l capo asconde
infra le nubi. In tal sembianza armato
stava Mezenzio. Enea tosto che 'l vede
ratto incontro gli muove. Ed egli immoto
di coraggio e di corpo ad aspettarlo
sta qual pilastro in sй fondato e saldo.
Poscia ch'a tiro d'asta avvicinato
gli fu d'avanti: «O mia destra, o mio dardo,
disse, - che dii mi siete, il vostro nume
a questo colpo imploro: ed a te, Lauso,
giа di questo ladron le spoglie e l'armi
per mio trofeo consacro». E, cosн detto,
trasse. Stridendo andт per l'aura il tиlo:
ma giunto, e da lo scudo in altra parte
sbattuto, di lontan percosse Antтre
fra le costole e 'l fianco, Antor d'Alcide
onorato compagno. Era venuto
d'Argo ad Evandro; e qui cadde il meschino
d'altrui ferita. Nel cader, le luci
al ciel rivolse e, d'Argo il dolce nome
sospirando, le chiuse. Enea con l'asta
ben tosto a lui rispose. E lo suo scudo
percosse anch'egli, e l'interzate piastre
di ferro e le tre cuoia e le tre falde
di tela, ond'era cinto, infino al vivo
gli passт de la coscia. Ivi fermossi,
chй piъ forza non ebbe. Ma ben tosto
ricovrт con la spada, e fiero e lieto,
visto giа del nemico il sangue in terra
e 'l terror ne la fronte, a lui si strinse.
Lauso, che in tanto rischio il caro padre
si vide avanti, amor, tйma e dolore
se ne sentн, ne sospirт, ne pianse.
E qui, giovine illustre, il caso indegno
de la tua morte e 'l tuo zelo e 'l tuo fato
non tacerт; se pur tanta pietate
fia chi creda de' posteri, e d'un figlio
d'un empio padre. Il padre a sн gran colpo
si trasse indietro; chй di giа ferito,
benchй non gravemente, e da l'intrico
de l'asta imbarazzato, era a la pugna
fatto inutile e tardo. Or mentre cede,
mentre che de lo scudo il dardo ostile
di sferrar s'argomenta, il buon garzone
succede ne la pugna, e del giа mosso
braccio e del brando che stridente e grave
calava per ferirlo, il mortal colpo
ricevй con lo scudo e lo sostenne.
E perch'agio a ritrarsi il padre avesse
riparato dal figlio, i suoi compagni
secondвr con le grida; e con un nembo
d'armi, che gli avventвr tutti in un tempo,
lo ributtaro. Enea via piъ feroce
infurпando, sotto al gran pavese
si tenea ricoverto. E qual, cadendo
grandine a nembi, il vпator talora,
ch'in sicuro a l'albergo и giа ridotto,
ogni agricola vede, ogni aratore
fuggir da la campagna; o qual d'un greppo,
d'una ripa, o d'un antro il zappatore,
piovendo, si fa schermo, e 'l sole aspetta
per compir l'opra; in quella stessa guisa,
tempestato da l'armi, Enea la nube
sostenea de la pugna; e Lauso intanto
minacciando garria: «Dove ne vai,
meschinello, a la morte? A che pur osi
piъ che non puoi? La tua pietа t'inganna,
e sei giovane e soro». Ei non per questo,
folle, meno insultava; onde piъ crebbe
l'ira del teucro duce. E giа la Parca,
vтta la rуcca e non pien anco il fuso,
il suo nitido filo avea reciso.
Trasse Enea de la spada, e ne lo scudo,
che liev'era e non pari a tanta forza,
lo colpн, lo passт, passogli insieme
la veste che di seta e d'тr contesta
gli avea la stessa madre; e lui per mezzo
trafisse, e moribondo a terra il trasse.
Ma poscia che di sangue e di pallore
lo vide asperso e della morte in preda,
ne gl'increbbe e ne pianse; e di paterna
pietа quasi un'imago avanti agli occhi
veder gli parve, e 'ntenerito il core,
stese la destra e sollevollo e disse:
«Miserabil fanciullo! e quale aнta,
quale il pietoso Enea puт farti onore
degno de le tue lodi e del presagio
che n'hai dato di te? L'armi, che tanto
ti son piaciute, a te lascio, e 'l tuo corpo
a la cura de' tuoi, se di ciт cura
ha pur l'empio tuo padre, acciт di tomba
e d'esequie t'onori. E tu, meschino,
poi che dal grand'Enea morte ricevi,
di morir ti consola». Indi assecura,
sollecita, riprende, e de l'indugio
garrisce i suoi compagni; e di sua mano
l'alza, il sostiene, il terge e de la gora
del suo sangue lo tragge, ove rovescio
giace languido il volto e lordo il crine,
che di rose eran prima e d'ostro e d'oro.
Stava del Tebro in su la riva intanto
lo sfortunato padre, e la ferita
giа lavata ne l'onde, afflitto e stanco
s'era con la persona appo d'un tronco
per posarsi appoggiato; e l'elmo a canto
da' rami gli pendea. L'armi piъ gravi
su 'l verde prato avean posa con lui.
Stavagli intorno de' piъ scelti un cerchio
e de' piъ fidi. Ed egli anelo ed egro,
chino il collo al troncone e 'l mento al petto,
molto di Lauso interrogava, e molti
gli mandava or con preci or con precetti,
ch'al mesto padre omai si ritraesse.
Ma giа vinto, giа morto e giа disteso
sopra al suo scudo, a braccia riportato
da' suoi con molto pianto era il meschino.
Udн Mezenzio il pianto, e di lontano
(come del mal sovente и l'uom presago)
morto il figlio conobbe. Onde di polve
sparso il canuto crine, ambe le mani
al ciel alzando, al suo corpo accostossi:
«Ah! mio figlio, - dicendo - ah! come tanto
fui di vivere ingordo, che soffrissi
te, di me nato, andar per me di morte
a sн gran rischio, a tal nimica destra
succedendo in mia vece? Adunque io salvo
son per le tue ferite? Adunque io vivo
per la tua morte? Oh miserabil vita!
Oh, sconsolato esiglio! Or questo и 'l colpo
ch'al cor m'и giunto. Ed io, mio figlio, io sono
c'ho macchiato il tuo nome, c'ho sommerso
la tua fortuna e 'l mio stato felice
co' demeriti miei. Dal mio furore
son dal seggio deposto. Io son che debbo
ogni grave supplizio ed ogni morte
a la mia patria, al grand'odio de' miei.
E pur son vivo, e gli uomini non fuggo?
E non fuggo la luce? Ah! fuggirolla
pur una volta». E, cosн detto, alzossi
su la ferita coscia. E, benchй tardo
per la piaga ne fosse e per l'angoscia,
non per questo avvilito, un suo cavallo,
ch'era quanto diletto e quanta speme
avea ne l'armi, e quel che in ogni guerra
salvo mai sempre e vincitor lo rese,
addur si fece. E poi che addolorato
sel vide avanti, in tal guisa gli disse:
«Rebo, noi siam fin qui vissuti assai,
se pur assai di vita ha mortal cosa.
Oggi и quel dн che o vincitori il capo
riporterem d'Enea con quelle spoglie
che son de l'armi del mio figlio infette,
e che tu del mio duolo e de la morte
di lui vendicator meco sarai;
o che meco, se vano и 'l poter nostro,
finirai parimente i giorni tuoi;
chй la tua fй, cred'io, la tua fortezza
sdegnoso ti farа d'esser soggetto
a' miei nemici, e di servire altrui».
Cosн dicendo, il consueto dorso
per se medesmo il buon Rebo gli offerse,
ed ei, l'elmo ripreso, il cui cimiero
era pur di cavallo un'irta coda,
suvvi, come potй, comodamente
vi s'adagiт. Poscia d'acuti strali
ambe carche le mani, infra le schiere
lanciossi. Amor, vergogna, insania e lutto
e dolore e furore e coscпenza
del suo stesso valore, accolti in uno,
gli arsero il core e gli avvamparo il volto.
Qui tre volte a gran voce Enea sfidando
chiamт; che tosto udillo, e baldanzoso:
«Cosн piaccia al gran padre, - gli rispose -
cosн t'inspiri Apollo. Or vien pur via»
soggiunge; e ratto incontro gli si mosse.
Ed egli: «Ah dispietato! a che minacci,
giа che morto и 'l mio figlio? In ciт potevi
darmi tu morte. Or nй la morte io temo,
nй gli tuoi dиi. Non piъ spaventi. Io vengo
di morir desпoso: e questi doni
ti porto in prima». E 'l primo dardo trasse,
poi l'altro e l'altro appresso, e via traendo
gli discorrea d'intorno. Ai colpi tutti
resse il dorato scudo. E giа tre volte
l'un girato il cavallo, e l'altro il bosco
avea de' dardi nel suo scudo infissi,
quando il figlio d'Anchise, impazпente
di tanto indugio e di sferrar tant'aste,
visto 'l suo disvantaggio, a molte cose
andт pensando. Alfin di guardia uscito
addosso gli si spinse, e trasse il tиlo
sн che del corridore il teschio infisse
in mezzo de la fronte. Inalberossi
a quel colpo il feroce, e calci a l'aura
traendo, scalpitando, e 'l collo e 'l tиlo
scotendo, s'intricт: cadde con l'asta,
con l'armi, col campione, a capo chino,
tutti in un mucchio. Andвr le grida al cielo
de' Latini e de' Teucri. E tosto Enea
col brando ignudo gli fu sopra e disse:
«Or dov'и quel sн fiero e sн tremendo
Mezenzio? Ov'и la sua tanta bravura?»
E 'l Tosco a lui, poichй l'afflitte luci
al ciel rivolse, e seco si ristrinse:
«Crudele, a che m'insulti? A me di biasmo
non и ch'io muoia, nй per vincer, teco
venni a battaglia. Il mio Lauso morendo
fe' con te patto che morissi anch'io.
Solo ti prego (se di grazia alcuna
son degni i vinti) che 'l mio corpo lasci
coprir di terra. Io so gli odi immortali
che mi portano i miei. Dal furor loro
ti supplico a sottrarmi, e col mio figlio
consentir ch'io mi giaccia». E ciт dicendo
la gola per se stesso al ferro offerse;
e con un fiume che di sangue sparse
sopra l'armi, versт l'anima e 'l fiato.

LIBRO DECIMOPRIMO

Passт la notte intanto, e giа dal mare
sorgea l'Aurora. Enea, quantunque il tempo,
l'officio e la pietа piъ lo stringesse
a seppellire i suoi, quantunque offeso
da tante morti il cor funesto avesse;
tosto che 'l sole apparve, il vуto sciolse
de la vittoria. E sovra un picciol colle
tronca de' rami una gran quercia eresse;
de l'armi la rinvolse, e de le spoglie
l'adornт di Mezenzio, e per trofeo
a te, gran Marte, dedicolla. In cima
l'elmo vi pose, e 'n su l'elmo il cimiero,
ancor di polve e d'atro sangue asperso.
L'aste d'intorno attraversate e rotte
stavan quai secchi rami; e 'l tronco in mezzo
sostenea la corazza che smagliata
e da dodici colpi era trafitta.
Dal manco lato gli pendea lo scudo:
al destr'omero il brando era attaccato,
che 'l fodro avea d'avorio e l'else d'oro.
Indi i suoi duci e le sue genti accolte,
che liete gli gridвr vittoria intorno,
in cotal guisa a confortar si diede:
«Compagni, il piъ s'и fatto. A quel che resta
nulla temete. Ecco Mezenzio и morto
per le mie mani, e queste che vedete,
l'opime spoglie e le primizie sono
del superbo tiranno. Ora a le mura
ce n'andrem di Latino. Ognuno a l'armi
s'accinga: ognun s'affidi, e si prometta
guerra e vittoria. In punto vi mettete,
chй quando dagli augъri ne s'accenne
di muover campo, e che mestier ne sia
d'inalberar l'insegne, indugio alcuno
non c'impedisca, o 'l dubbio o la paura
non ci ritardi. In questo mezzo a' morti
diam sepoltura, e quel che lor dovuto
и sol dopo la morte, eterno onore.
Itene adunque, e quell'anime chiare
che n'han col proprio sangue e con la vita
questa patria acquistata e questo impero,
d'ultimi doni ornate. E primamente
al mesto Evandro il figlio si rimandi,
che, di virtъ maturo e d'anni acerbo,
cosн n'ha morte indegnamente estinto».
Ciт detto, lagrimando il passo volse
vиr la magione, u' di Pallante il corpo
dal vecchierello Acete era guardato.
Era costui giа del parrasio Evandro
donzello d'armi; e poscia per compagno
fu (ma non giа con sн lieta fortuna)
dato al suo caro alunno. Avea con lui
d'Arcadi suoi vassalli e di Troiani
una gran turba. Scapigliate e meste
le donne d'Ilio, sн com'era usanza,
gli piangevano intorno; e non fu prima
Enea comparso che le strida e i pianti
si rinnovaro. Il batter de le mani,
il suon de' petti, e de l'albergo i mugghi
n'andвr fino a le stelle. Ei poi che vide
il suo corpo disteso, e 'l bianco volto,
e l'aperta ferita che nel petto
di man di Turno avea larga e profonda,
lagrimando proruppe: «O miserando
fanciullo, e che mi val s'amica e destra
mi si mostra fortuna? E che m'ha dato,
se te m'ha tolto? Or che, vincendo, ho fatto?
Che, regnando, farт, se tu non godi
de la vittoria mia, nй del mio regno?
Ah! non fec'io queste promesse allora
al buon Evandro, ch'a l'acquisto venni
di questo impero. E ben temette il saggio,
e ben ne ricordт che duro intoppo,
e d'aspra gente, avremmo. E forse ancora
il meschino or fa vуti e preci e doni
per la nostra salute, e vanamente
vittoria s'impromette. E noi con vana
pompa gli riportiam questo infelice
giovine di giа morto, e di giа nulla
piъ tenuto a' celesti. Ahi, sconsolato
padre! vedrai tu dunque una sн cruda
morte del figlio tuo? Questo ritorno,
questo trionfo ohimи! d'ambi aspettavi?
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no 'l vedrai giа di vergognose piaghe
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(se con infamia a te vivo tornasse)
a desпar la morte. Ahi, quanto manca
al sussidio d'Italia, e quanto perdi,
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,
ordine diи che 'l miserabil corpo
via si togliesse; e del suo campo tutto
scelse di mille una pregiata schiera
che scorta gli facesse e pompa intorno,
e d'Evandro a le lagrime assistesse,
e le sue gli mostrasse, a tanto lutto
assai debil conforto, e pur dovuto
al suo misero padre. Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
d'аrbuto e di tali altri agresti rami
fatto un ferиtro di virgulti intesto
e di frondi coperto, ove altamente
del giovinetto il delicato busto
composto si giacea qual di vпola,
o di giacinto un languidetto fiore
cтlto per man di vergine, e serbato
tra le sue stesse foglie, allor che scemo
non и del tutto il suo natio colore
nй la sua forma; e pur da la sua madre
punto di cibo o di vigor non ave.
Enea due prezпose vesti intanto,
l'una d'тr fino e l'altra di scarlatto,
addur si fece, ambe ornamenti e doni
de la sidonia Dido, e da lei stessa
con dolce studio e con mirabil arte
ricamate e distinte. E l'una indosso
gli pose, e l'altra in capo, ultimo onore
con che dolente la dorata chioma
allor velogli, ch'era additta al foco.
De le prede oltre a ciт di Laьrento
gli fa gran parte. Fagli in ordinanza
spiegar l'armi, i cavalli e l'altre spoglie
tolte a' nimici. Gli fa gir legati
con le man dietro i destinati a morte
per ordinanza del funereo rogo.
Portar gli fa davanti a' duci loro
l'armi ai tronchi sospese, e i nomi scritti
degli occisi e de' vinti. Il vecchio Acete
che, sн com'era afflitto e d'anni grave,
gli era appresso condotto, or con le pugna
si battea 'l petto, ed or con l'ugna il volto
si lacerava, e tra la polve e 'l fango
si volgea tutto. Ivano i carri aspersi
del sangue de' Latini, iva lugъbre,
e d'ornamenti ignudo, Eto, il piъ fido
suo caval da battaglia, che gemendo
in guisa umana e lagrimando andava.
Seguian le meste squadre i Teucri, i Toschi
e gli Arcadi, con l'armi e con l'insegne
rivolte a terra. Or poi ch'oltrepassata
con quest'ordine fu la pompa tutta,
Enea fermossi, e verso il morto amico
ad alta voce sospirando disse:
«Noi quinci ad altre lagrime chiamati
dal medesimo fato, altre battaglie
imprenderemo. E tu, magno Pallante,
vattene in pace, e con eterna gloria
godi eterno riposo». Indi partendo
vиr l'alte mura, al campo si ritrasse.
Eran nel campo giа co' rami avanti
di pacifera oliva ambasciatori
de la cittа latina a lui venuti,
che tregua a' vivi e sepoltura a' morti,
pregando, gli mostrвr che piъ co' vinti
nй co' morti и contrasto, e che Latino
gli era d'ospizio amico, e che chiamato
l'avea genero in prima. Il buon Troiano
a le giuste preghiere, ai lor quesiti,
che di grazia eran degni, incontinente
grazпoso mostrossi; e da vantaggio
cosн lor disse: «E qual indegna sorte
contra me, miei Latini, in tanta guerra
cosн v'intrica? Che pur vostro amico
son qui venuto: nй venuto ancora
vi sarei, se da' fati e dagli dиi
mandato io non vi fossi. E non pur pace,
siccome voi chiedete, io vi concedo
per color che son morti, ma co' vivi
ve l'offro, e la vi chieggo. E la mia guerra
non и con voi; ma 'l vostro re s'и tolto
da l'amicizia mia: s'и confidato
piъ ne l'armi di Turno, e Turno ancora
meglio e piъ giustamente in ciт farebbe,
s'a questa guerra sol con suo periglio
ponesse fine. E poichй si dispose
di cacciarmi d'Italia, il suo dovere
fфra stato che meco, e con quest'armi
difinita l'avesse. E saria visso
cui la sua propria destra, e dio concesso
piъ vita avesse; e i vostri cittadini
non sarian morti. Or poichй morti sono,
io me ne dolgo, e voi gli seppellite».
Restaro al dir d'Enea stupidi e cheti
i latini oratori, e l'un con l'altro
si guardarono in volto. Indi il piъ vecchio,
Drance nomato, a cui Turno fu sempre
per sua natura e per sua colpa in ira,
rotto il silenzio, in tal guisa rispose:
«O di fama e piъ d'arme eccelso e grande
troiano eroe, qual mai fia nostra lode
che 'l tuo gran merto agguagli? e di che prima
ti loderemo? ch'io non veggio quale
in te maggior si mostri, o la giustizia,
o la gloria de l'armi. A questa tanta
grazia che tu ne fai, grati saremo:
rapporto ne faremo; e s'al consiglio
nostro и fortuna amica, amico ancora
ti fia Latino. E cerchisi d'altronde
Turno altra lega. A noi co' sassi in collo
gioverа di trovarne a fondar vosco
questa vostra fatal novella Troia».
Poi che Drance ebbe detto, ai detti suoi
tutti gli altri fremendo acconsentiro,
e per dodici dн commercio e pace
fur tra l'un oste e l'altro. E senza offesa
entrambi si mischiaro, e per gli monti
e per le selve a lor diletto andaro.
Allor sonare accette e strider carri
per tutto udissi. In ogni parte a terra
ne gоro i cerri e gli orni e gli alti pini
e gli odorati cedri al funebre uso
svиlti, squarciati e tronchi. E giа la Fama,
che di Pallante a Pallantиo volata
dicea pria le sue prove, e vincitore
l'avea gridato, or d'ogni parte grida
che morto si riporta. In ciт commossa
la cittа tutta in vedovile aspetto
di funeste facelle e d'atri panni
si vide piena; e vиr le porte ognuno
gli usciro incontro. Si vedea di lumi
e di genti una fila che le strade
e i campi in lunga pompa attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo ne venian da l'altra parte,
e con pianto incontrвrsi. Indi rivolti
tutti vиr la cittа, non pria fыr giunti,
che di pianti di donne e d'ululati
risonar d'ogn'intorno il cielo udissi.
Nй forza, nй consiglio, nй decoro
fu ch'Evandro tenesse. Uscн nel mezzo
di tutta gente; e la funerea bara
fermando, addosso al figlio in abbandono
si gittт, l'abbracciт, stretto lo tenne
lunga fпata, e da l'angoscia oppresso
pria lagrimando, e sospirando, tacque.
Poscia, la strada al gran dolore aperta,
cosн proruppe: «O mio Pallante, e queste
fыr le promesse tue, quando partendo
il tuo padre lasciasti? In questa guisa
d'esser guardingo e cauto mi dicesti
ne' perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
ben sapev'io quanto ne l'armi prime
fosse, in cor generoso, ardente e dolce
il desio de la gloria e de l'onore.
Primizie infauste, infausti fondamenti
de la tua gioventъ! vane preghiere,
vуti miei non accetti e non intesi
da nпun dio! Santissima consorte,
che morendo fuggisti un dolor tale,
quanto sei tu di tua morte felice!
Quanto infelice e misero son io,
che vecchio e padre al mio diletto figlio
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
prolungo a mio tormento! Ah! foss'io stesso
uscito co' Troiani a questa guerra!
ch'io sarei morto! e questa pompa avrebbe
me cosн riportato, e non Pallante.
Nй per questo di voi, nй de la lega,
nй de l'ospizio vostro io mi rammarco,
Troiani amici. Era a la mia vecchiezza
questa sorte dovuta. E se dovea
cader mio figlio, perchй tanta strage
io vedessi de' Volsci, e perchй Lazio
fosse a' Teucri soggetto, in pace io soffro
che sia caduto. E piъ compнto onore
non aresti da me, Pallante mio,
di questo che 'l pietoso e magno Enea
e i suoi magni Troiani e i toschi duci
e tutte insieme le toscane genti
t'han procurato. Con sн gran trofei
del tuo valor sн chiara mostra han fatto,
e de' vinti da te. Nй fфra meno
tra questi il tuo gran tronco, s'a te fosse,
Turno, stato d'etа pari il mio figlio,
e par de la persona e de le forze
che ne dan gli anni. Ma che piъ trattengo
quest'armi a' Teucri? Andate, e da mia parte
riferite ad Enea che, quel ch'io vivo
dopo Pallante, и sol perchй l'invitta
sua destra, come vede, al figlio mio
ed a me deve Turno. E questo solo
gli manca per colmar la sua fortuna
e 'l suo gran merto; chй per mio contento
no 'l curo; e contentezza altra non deggio
sperare io piъ che di portare io stesso
questa novella di Pallante a l'ombra».
Avea l'Aurora col suo lume intanto
il giorno e l'opre e le fatiche insieme
ricondotte a' mortali. Il padre Enea
e 'l buon Tarconte, ambi, in su 'l curvo lito
i cadaveri addotti, a' suoi ciascuno
com'era l'uso, un'alta pira eresse,
la compose e l'incese. E mentre il foco
di fumo e di caligine coverto
tenea l'aлre intorno, in ordinanza
tre volte, armati, a piи la circondaro,
e tre volte a cavallo, in mesta guisa
ululando, piangendo, e l'armi e 'l suolo
di lagrime spargendo. Infino al cielo
penetrвr de le genti e de le tube
i dolorosi accenti. Altri gridando
le pire intorno, elmi, corazze e dardi
e ben guernite spade e freni e ruote
avventaron nel foco, e de' nemici
armi d'ogni maniera, arnesi e spoglie;
altri i lor propri doni, e degli occisi
medesmi vi gittвr l'aste infelici,
e gl'infelici scudi, ond'essi invano
s'eran difesi. A le cataste intorno
molti gran buoi, molti setosi porci,
molte fыr pecorelle occise ed arse.
A sн mesto spettacolo in sul lito
stavan altri piangendo, altri osservando
ciascuno i suoi piъ cari, infin che 'l foco
gli consumasse. E questi l'ossa, e quelli
le ceneri accogliendo, il giorno tutto
in sн pietoso officio trapassaro:
nй se ne tolser finchй, spenti i fochi,
non s'acceser le stelle. In altra parte
i miseri Latini ai corpi loro
fкr cataste infinite. Altri sotterra
ne seppelliro; altri a le ville intorno,
ed altri a la cittа ne trasportaro.
E quei che senza numero confusi
giacean nel campo, senza onore a mucchi
furon combusti: onde i villaggi insieme
e le campagne di funesti incendi
lucean per tutto. E tre luci e tre notti
durвr gli afflitti amici e i dolorosi
parenti a ricercar le tiepid'ossa,
e ne l'urne riporle e ne' sepolcri.
Ma la confusпone e 'l pianto e 'l duolo
era ne la cittа per la piъ parte,
e ne la reggia al re Latino avanti.
Qui le madri, le nuore, le sorelle
e i miseri pupilli, che de' padri,
de' figli, de' mariti e de' fratelli
erano in questa guerra orbi rimasi,
la guerra abbominavano e le nozze
detestavan di Turno. «Ei da se stesso, -
dicendo, - ei che d'Italia al regno aspira,
e le grandezze e i primi onori agogna,
con l'armi e col suo sangue le s'acquisti,
e non col nostro». In ciт Drance aggravando
vie piъ le cose, come a Turno infesto,
attestando dicea che sol con Turno
volea briga il Troiano, e che sol esso
era a pugna con lui cerco e chiamato.
Altri d'altro parere, altre ragioni
dicean per Turno: e 'l gran nome d'Amata
e 'l suo favore e di lui stesso il merto
con la fama de' suoi tanti trofei
sostenean la sua causa. Ed ecco, intanto
che cosн si tumultua e si travaglia,
mesti sopravvenir gl'imbasciadori
ch'in Arpi a Dпomede avean mandati;
e riportar, che le fatiche e i passi
avean perduti: che nй dono alcuno,
nй promesse, nй preci, nй ragioni
furon bastanti ad impetrar soccorso
nй da lui nй da' suoi: ch'era d'altronde
di mestiero a' Latini avere altr'armi,
o trattar co' nemici accordo e pace.
Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco
ne fece il re Latino. E ben conobbe
che manifestamente Enea da' fati
era portato; e via piъ manifesta
si vedea degli dиi l'ira davanti
in tanta che de' suoi negli occhi avea
strage recente. Il gran consiglio adunque,
e de' suoi primi, ne la regia corte
chiamar si fece. In un momento piene
ne fыr le strade; e di giа tutti accolti
ne la gran sala, il re, di grado e d'anni
il primo, a tutti in mezzo, in non sereno
sembiante, comandт che primamente
i legati che d'Arpi eran tornati,
fossero uditi; ed a lor vтlto disse:
«Esponete per ordine il seguнto
de la vostra ambasciata, e la risposta
che ritratta n'avete». A tal precetto
tacquero tutti; e Vиnolo sorgendo,
cosн pria incominciт: «Noi dopo molti
superati pericoli e fatiche,
egregi cittadini, al campo argivo
ne la Puglia arrivammo; e Dпomede
vedemmo alfine; e quell'invitta destra
toccammo, ond'и 'l grand'Ilio arso e distrutto.
In Iapigia il trovammo a le radici
del gran monte Gargаno, ove fondava,
giа vincitore, Argнripa, una terra
che dal patrio Argirippo ha nominata.
Intromessi che fummo, il presentammo;
gli esponemmo la patria, il nome e 'l fatto
de la nostra imbasciata, e la cagione,
onde a lui venivamo. Il tutto udito,
cosн benignamente ne rispose:
"O fortunate genti, o di Saturno
felice regno, o degli antichi Ausoni
famosa terra! E quale iniqua sorte
da la vostra quпete or vi sottragge?
Qual consiglio, qual forza vi costringe
di nemicarvi e guerreggiar con gente
che non v'и nota? Noi quanti giа fummo
col ferro a vпolar di Troia i campi
(non parlo degli strazi e de le stragi
di quei che vi rimasero, chй pieni
ne sono i fossi e i fiumi); ma quanti anco
n'uscimmo con la vita, in ogni parte
siam poi giti del mondo tapinando,
con nefandi supplнci, e con atroci
morti pagando il fio, come d'un grave
e scellerato eccesso. E non ch'altrui,
Prпamo stesso a pietа mosso avrebbe
il fiero, che di noi s'и fatto, scempio.
Di Palla il sa la sfortunata stella;
sallo il vendicator Cafаreo monte
e gli euboпci scogli: il san di Proteo
le longinque colonne, insino a dove,
dopo quella milizia, andт ramingo
l'un de' figli d'Atreo. D'Etna i Ciclopi
ne vide Ulisse. Il suo regno a' suoi servi
ne lasciт Pirro. Idomeneo cacciato
ne fu dal patrio seggio. Esso re stesso,
condottier degli Argivi, il piede a pena
nel suo regno ripose, che del regno,
del letto e de la vita anco privato
fu da la scellerata sua consorte.
Nй gli giovт che doma l'Asia e spento
l'uno adultero avesse; chй de l'altro
scherno e preda rimase. A me l'invidia
ha degli dиi di piъ veder disdetto
la mia bella cittа di Calidуna,
e la mia cara e desпata donna.
Nй di ciт sazi, orribili spaventi
mi dаnno ancora. E pur dianzi in augelli
conversi i miei compagni (o miseranda
lor pena!) van per l'aura e per gli scogli
di lacrimosi accenti il cielo empiendo.
Questi sono i profitti e le speranze
ch'io fin qui ne ritraggo, da che, folle!
stringer contro a' celesti il ferro osai,
e che di Citerea la destra offesi.
Or ch'io di nuovo una tal pugna imprenda
testй con voi? No, no, ch'io co' Troiani,
dopo Troia espugnata, altra cagione
non ho di guerra; e de' passati mali
volentier mi dimentico, e dolore
ancor ne sento. E, quanto a' doni, andate,
riportateli vosco, e 'l magno Enea
ne presentate. E solo a me credete
del valor suo, che fui con esso a fronte
con l'armi in mano; e so di scudo e d'asta
qual mi rese buon conto, e quanto vaglia.
Se due tali altri avea la terra idиa,
d'Ida fфra piuttosto ita la gente
ai danni de la Grecia; e 'l troian fato
piangerebb'ella. Enea sol con Ettorre
fu la cagion che tanto s'indugiasse
la ruina di Troia, e che diece anni
durammo a conquistarla. Ambedue questi
eran di cor, di forze e d'arme uguali,
ma ben fu di pietate Enea maggiore.
Io vi consiglio che, comunque sia,
lega seco, amicizia e pace aggiate,
e l'incontro fuggiate e l'armi sue".
Questa и la sua risposta; e quinci avete,
ottimo re, qual sia di questa guerra
il suo parere e 'l nostro». A pena uditi
furo i legati, che bisbiglio e fremito
infra i turbati Ausoni udissi, in guisa
che di rapido fiume un chiuso gorgo
mormora allor che fra gli opposti sassi
s'apre la strada, e gorgogliando cade,
e frange e rugghia, e le vicine ripe
ne risuonan d'intorno. Or poichй un poco
restт 'l tumulto, e gli animi acquetвrsi,
gli dиi prima invocando, un'altra volta
il re da l'alto seggio a dir riprese:
«Latini miei, lo mio parere e 'l meglio
sarebbe stato, che d'un tanto affare
si fosse prima consultato, e fermo
il nostro avviso; e non chiamar consiglio,
quando il nimico in su le porte avemo.
Una importuna e perigliosa guerra
s'и, cittadini, impresa, e per nimica
tolta una gente, che dal ciel discesa,
da' celesti e da' fati и qui mandata;
feroce, insuperabile, indefessa,
ne l'armi invitta, che nй vinta ancora
cessa dal ferro. Se speranza alcuna
negli esterni soccorsi e ne l'aнta
aveste degli Etтli, ora del tutto
la deponete: e sia speme a se stesso
ciascun per sй. Ma noi per noi, che speme
e che possanza avemo? Ecco davanti
agli occhi vostri, e fra le vostre mani
vedete la strettezza e la ruina
in che noi siamo. Nй perт ne 'ncolpo
alcun di voi. Tutto 'l valor s'и mostro
che mostrar si potea: con tutto 'l corpo,
e con quanto ha di forza il nostro regno
s'и combattuto. Or quale in tanto dubbio
sia la mia mente, udite. И nel mio stato
vicino al Tebro un territorio antico,
che in vиr l'occaso per lunghezza attinge
fin dove de' Sicani era il confine.
Dagli Rutuli и cуlto e dagli Aurunci,
che i duri colli e i piъ deserti paschi
ne tengon da l'un canto: a questo aggiungo
quella piaggia di pini e quella costa
de la montagna; e tutto и mio disegno
che si ceda a' Troiani e ch'amicizia,
accordo e patti e lega e leggi eguali
abbiam con essi; e qui, s'a qui fermarsi
sono o da' fati o dal desire indotti,
ferminsi; e i loro alberghi e le lor mura
fondino a lor diletto. E s'altra parte
cercano e d'altre genti (se pur ponno
tфrsi da noi) quando di venti navi,
o di piъ sovvenir ne gli bisogni,
su la stessa marina apparecchiata
и la materia. Essi de' legni il modo
e 'l numero diranno: e noi le selve,
la maestranza, i ferramenti e tutto
che fia lor di mestiero appresteremo.
Con questa offerta io manderei de' primi
de la nostra cittа cento oratori
co' rami de la pace, col mandato
di contrattarla, co' presenti appresso
d'avorio e d'oro e col seggio e col manto
del nostro regno. Consultate or voi,
ed a l'afflitte e mal condotte cose
d'aнta provvedete e di soccorso».
Surse allor Drance, quei che giа s'и detto
avversario di Turno. Era costui
del regno de' Latini un de' piъ ricchi
e de' piъ reputati cittadini:
di fazпon, di sиguito e di lingua
possente assai; ne le consulte avuto
di qualche stima; nel mestier de l'armi
codardo, anzi che no. La sua chiarezza
e 'l suo fasto venia da la sua madre
ch'era d'alto legnaggio. Il padre a pena
era noto a le genti. Or questo, infesto
a la gloria di Turno, asperso il core
d'amarezza e d'invidia, in questa guisa
il suo fatto aggravando, e l'ire altrui
irritando, parlт: «Chiaro, evidente
e necessario, ottimo re, n'и tanto
quel che tu ne consigli, che bisogno
d'altro non ha che di comune assenso.
Ognun vede, ognun sa quel che conviene
in sн dura fortuna: e nullo ardisce
pur d'aprir bocca. Libertate almeno
di parlar ne si dia. Scemi una volta
tanta sua tracotanza e tanto orgoglio
chi co' suoi male avventurosi auspнci,
co' sinistri suoi modi (io pur dirollo,
benchй d'armi e di morte mi minacci)
n'ha qui condotti, e per cui tanti duci,
tanta gente и perita, e tutta in pianto
questa cittade e questo regno и vтlto;
mentre ne la sua furia, o ne la fuga
confidando piuttosto, il troian campo
ha d'assalire osato, e fin nel cielo
posto ha con l'armi sue tйma e scompiglio.
Solo un dono, signor, fra tanti doni
che si mandano a' Teucri, un sol n'aggiungi;
nй consentir che vпolenza altrui
tel proibisca. Da', buon padre, ancora
questa tua figlia a genero sн degno
e con sн degno maritaggio eterna
fa questa pace. E se 'l terrore и tanto
che s'ha di lui, da lui stesso impetriamo
grazia e licenza che la patria sua,
che 'l suo re prevaler si possa almeno
del suo sangue a suo modo. E tu cagione,
tu di tanta ruina autore e capo,
a che pur tante volte, a tanti strazi,
a tanti rischi, a manifesta morte
questi tuoi meschinelli cittadini
esponi indarno? e qual и ne la guerra
piъ salute e speranza? A te noi tutti
pace, Turno, chiedemo, e de la pace
quel ch'и sol fermo e 'nviolabil pegno;
ed io prima di tutti, io cui tu fingi
che nimico ti sia (nй tal mi curo
che tu mi tenga) a supplicar ti vegno
umilemente. Abbi pietа de' tuoi;
pon giъ la stizza; e poi che sei cacciato,
vattene. Assai di strage, assai di morti
s'и visto: assai ne son le genti afflitte;
vedovi i tetti e desolati i campi;
ma se l'onor ti muove, e se concepi
di te tanto in te stesso, e tanto agogni
o la donna o la dote, a che non osi
contro a chi te ne priva? A Turno adunque
regno col nostro sangue e regia moglie
procureremo: e noi vili alme, e turba
non sepolta e non pianta, a' cani in preda
giaceremo in su' campi? Or tu, tu stesso,
se tanto hai d'ardimento e di valore
dal paterno legnaggio, a lui rispondi,
a lui ti volgi, che ti sfida e chiama».
Turno, ch'impetuoso e vпolento
era da sй, questo parlare udito,
alto un gemito trasse, e d'ira acceso
cosн proruppe: «Usanza tua fu sempre,
Drance, allor che di mani и piъ bisogno,
oprar la lingua; essere in corte il primo,
l'ultimo in campo. Ma non piъ parole
in questo loco, chй giа pieno troppo
ne l'hai; pur troppo grandi e troppo gonfie
l'avventi, e senza rischio or ch'i nemici
son lunge, e buone fosse e buone mura
ci son di mezzo, e non c'inonda il sangue.
Apri qui bocca al solito, e rintuona
con la facondia tua. Tu, che se' Drance,
me, che son Turno, imbelle e vile appella;
tu la cui dianzi sanguinosa destra
pieni i campi di morti, e pieni i colli
ha di trofei. Ma che non pruovi ancora
questa tua gran virtъ? Forse, ch'avemo
a cercar de' nemici? Ecco d'intorno
ci sono, e 'n su le porte. Andrem lor contra?
Che badi? Ov'и la tua tanta prodezza?
sempre и nel vento, sempre и ne la fuga
de la lingua e de' piи? tu mi rinfacci
ch'io sia cacciato? tu, vituperoso,
di dirlo osasti? e chi meritamente
sarа che 'l dica? Oh! non s'и visto il Tebro
fatto gonfio da me del frigio sangue?
non s'и vista la casa e 'l seme tutto
spento d'Evandro, e gli Arcadi spogliati
d'armi e di vita? Io non fui giа da Pandaro
cacciato, nй da Bizia, nй da mille
che in un dн vincitore a morte io diedi,
circondato da loro e cinto e chiuso
da le lor mura. Nulla и ne la guerra
piъ salute o speranza: al teucro duce,
a te, folle, al tuo capo, a le tue cose
fa' questo annunzio. E non tutto in soqquadro
por con tanta paura, e tanta stima
che fai de la prodezza e de le forze
d'una gente che giа due volte и vinta;
e non tanto avvilir da l'altro canto
l'armi del re Latino. Ai Mirmidуni
son ora, al gran Dпomede, al grande Achille
i Teucri formidabili e tremendi;
e dal mar se ne torna per paura
l'Аufido indietro. E forse che non finge
temer di me, perchй il mio fallo aggravi?
Malvagia astuzia! Ma non piъ per nulla
vo' che ne tema. Un'anima sн vile
non ti torrа la mia destra giа mai.
Stiesi pur teco, e nel tuo petto alloggi,
di lei ben degno albergo. Or a te vegno,
gran padre, e 'l tuo parer discorro, e dico:
Se tu piъ non t'affidi, e piъ non credi
ne l'armi tue; s'abbandonati affatto
siam d'ogni parte; se una volta rotti,
siam per sempre perduti; e se fortuna,
varпando le veci, unqua non cangia,
signor, pace imploriamo; e l'armi in terra
gittando, a giunte mani accordo e vиnia
impetriam dai nemici. Ancorchй, quando
oh! del nostro valor punto in noi fosse!
sopra tutti felice, riposato,
e glorпoso spirito sarebbe
chi, per ciт non veder, morto si fosse!
Ma se le nostre forze ancor son verdi,
la nostra gioventъ florida, intatta,
disposta e pronta a l'armi; e per sussidio
i popoli d'Italia e le cittadi
son con noi tutte; e s'a' nemici ancora
sanguinosa, dannosa e poco lieta
и questa gloria; ed han de' morti anch'essi
la parte loro; e la tempesta и pari
d'ambe le parti; a che nel primo intoppo
con tanto scorno, a noi stessi mancando,
gittarne a terra? a che tremare avanti
che la tromba si senta? A la giornata
il tempo stesso, il varпar de' casi,
l'industria, le vicende, il moto e 'l giuoco
potria de la fortuna in molte guise,
come suol l'altre cose, ancor le nostre,
cangiando, risarcire, e porre in saldo.
Non avrem Dпomede in nostro aiuto;
avrem Messapo; avremo il fortunato
Tolunnio; avrem tant'altri incliti duci
di tant'altre cittа. Nй di men gloria,
nй di minor virtъ saranno i nostri
di Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,
la gran volsca virago, che n'addusse
di cavalieri e di caterve armate
sн bella gente. E se me solo appella
il nemico a battaglia, e se v'aggrada
che sol io gli risponda ed io sol osto
al ben comune, io solamente assumo
sopra me questa impresa. E giа non credo
che le mie man sн la vittoria abborra,
che per tanta ch'io n'aggia, e speme e gioia,
accettar non la deggia. Androgli incontro
con l'animo, se fosse anco maggiore
del magno Achille, e come Achille, anch'egli
l'armi di Mongibello indosso avesse.
Io Turno, io che non punto a qual si fosse
mai degli antichi di valor non cedo,
questa mia vita stessa a voi, Latini,
ed a Latin mio suocero consacro
solennemente. Enea me solo invita;
l'accetto, il bramo e 'l prego, anzi che Drance,
s'ira и questa di dio, con la sua morte
la purghi, o che la gloria me ne tolga,
s'и pur gloria o vertute». In cotal guisa
consultando i Latini avean tra loro
dispareri e tenzoni. Usciti a campo
erano i Teucri intanto. Ed ecco un messo
venir volando, che la reggia tutta
e tutta la cittа pose in tumulto,
annunzпando che dal tosco fiume
giа mosso de' Troiani e de' Tirreni
se ne venia l'esercito in battaglia
in vиr Laurento; e che di genti e d'armi
si vedean piene le campagne e i colli.
Gli animi incontinente si turbaro;
sgomentossene il volgo: ai valorosi
s'acceser l'ire. Trepidando ognuno
discorrea per le strade; arme fremea
la gioventъ; dolenti e lagrimosi
i padri discordando, e chi per Turno
sentendo e chi per Drance, avean tra loro
vari bisbigli. E tutto il corpo insieme
facea de la cittа tale un trambusto,
e tal ne l'aura unitamente un suono,
qual и se spaventata esce d'un bosco
torma di rochi augelli, o qual talora
da le pescose rive di Padusa
van per gli stagni schiamazzando a schiere
turbati i cigni. In tale occasпone
gridava Turno: «Or questo и, padri, il tempo
di seder a consiglio: or consigliate
agiatamente: aggiate sopra tutto
cura a la pace, or ch'i nemici armati
ne son giа sopra». E, cosн detto a pena,
saltт fuor de la reggia; e vтlto a torno:
«Arma, - disse, - tu, Vтluso, i tuoi Volsci,
e tu, Messapo, i rutuli cavalli.
Tu, Catillo, e tu Cora, uscite a campo:
va tu con la tua gente a la muraglia
incontinente; e tu dispensa i tuoi
fra le porte e le torri. Ite voi meco,
che rimanete; e ciascuno armi i suoi».
Per tutta la cittа si va scorrendo
a le mura. A l'insegne, ai capitani
ognun s'adduce. I padri irresoluti
se n'escon dal consiglio. Il re turbato
si ritira, e si pente che non aggia
per sй, senza consulta, il frigio duce
per amico e per genero accettato.
Dansi tutti a munire, a cavar fosse,
tutti a somministrar chi sassi e travi,
e chi dardi e chi strali. E giа la roca
tromba ne va per la cittа squillando
de la battaglia il sanguinoso accento.
Le matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno
d'ogni etа, d'ogni sesso e d'ogni grado
a l'ultimo periglio, al gran bisogno
corrono a la muraglia. E d'altra parte
da gran corteo di donne accompagnata
con doni e preci di Minerva al tempio
va la regina, ed ha Lavinia seco,
la vergine sua figlia, onde venuta
era tanta ruina: e di ciт mesta,
porta i begli occhi lagrimosi e chini.
Seguon le madri e d'odorati incensi
vaporando il delъbro, in flebil voce
pregano in su la soglia: «Armipotente
Tritonia, tu che puoi, la possa e l'armi
frangi al frigio ladrone, e di tua mano
anciso in su la porta me lo stendi».
Esso re Turno da la furia spinto
ricorre a l'armi; e di squamoso acciaro
e d'тr giа tutto orribile e splendente,
cinto di brando, e sol del capo ignudo
lieto mostrossi, e di speranza altiero
di vedere il nemico. E 'n quella guisa
da la rтcca scendea che da' presepi
sciolto destriero esce ruzzando in campo,
o ch'amor di giumente, o che vaghezza
di verde prato, o pur desio lo tragga
del noto fiume; che sbuffando freme,
e ringhia e drizza il collo e squassa il crine.
A l'uscir de la porta ecco davanti
gli si fa co' suoi volsci cavalieri
la vergine Camilla: e sн com'era
non men gentil che valorosa e bella,
tosto che l'incontrт con tutti i suoi
dismontт da cavallo, e vиr lui disse:
«Turno, se degnamente uom forte ardisce,
io mi rincoro, e ti prometto io sola
di gire ai cavalier toscani incontro.
Lascia me col mio stuolo assalir prima
la troiana oste, e che primiera io tragga
di questa pugna e de' suoi rischi un saggio;
e tu qui co' pedoni a piи rimanti
a guardia de la terra». A tal proposta
Turno ne la terribile virago
gli occhi fissando: «O de l'Italia, - disse -
ornamento e sostegno, e di che lode,
e di che premio al tuo gran merto uguale
ristorar ti poss'io? Ma (poichй cosa
non и che la pareggi) abbi, famosa
guerriera, in grado ch'io con te comparta
questa fatica. Enea, come dal grido
avemo e da le spie fin qui ritratto,
spinte ha le schiere de' cavalli avanti
per batter la campagna: ed egli altronde
presa la via del monte, per alpestro
sentiero a la cittа di sopra al giogo
vien con l'altre sue genti. Il mio disegno
и fargli agguato, e collocarmi appresso
lа, 've sopra la foce il doppio bosco
del curvo monte ambe le strade accoglie.
Tu, raьnati i tuoi con gli altri tutti
nostri cavalli, i suoi nel piano assagli
a spiegate bandiere. Il fier Messapo
sarа con te: saranvi de' Latini,
vi saran di Corace e di Catillo
le squadre tutte; e tu con essi il carco
prendi di comandarle». Indi esortando
parimente Messapo e gli altri duci
a la lor fazпone, egli a la sua
tostamente si volse. И tra due branche
del monte una vallea che d'ambi i lati
ha folte selve, e luoghi occulti e chiusi,
a l'insidie de l'armi accomodati.
Ha ne l'imo una sиmita per mezzo
angusta, malagevole e scontorta
che d'ogn'intorno и da le ripe offesa.
In cima, in su l'uscita, и tra le selve
ascosa una pianura, con ridotti
acconci a ritirarsi, ed opportuni
a spingersi o dal destro o dal sinistro
lato, che si rincontri o che s'aspetti
nemica gente, o pur che di gran sassi
si tempesti di sopra. A questo loco,
di cui ben era pratico, in agguato
Turno si pose, e i suoi nimici attese.
Dпana intanto timorosa e mesta
favellando con Opi, una del coro
de le sue Ninfe, in tal guisa le disse:
«Vedi a che perigliosa e mortal guerra
a morir se ne va la mia Camilla,
ne le nostr'armi ammaestrata invano.
E pur m'и cara, e sovr'ogni altra io l'amo.
Nй questo и nuovo, o repentino amore.
Fin da le fasce и mia. Mиtabo, il padre
di lei, fu per invidia e per soverchia
potenza da Priverno, antica terra,
da' suoi stessi cacciato; e da l'insulto,
che gli fece il suo popolo, fuggendo,
nel suo misero esiglio ebbe in campagna
questa sola bambina che, mutato
di Casmilla sua madre il nome in parte,
fu Camilla nomata. Andava il padre
con essa in braccio per gli monti errando
e per le selve, e de' nemici Volsci
sempre d'intorno avea l'insidie e l'armi.
Ecco un giorno assalito con la caccia
dietro, fuggendo, a l'Amasиno arriva.
Per pioggia questo fiume era cresciuto,
e rapido spumando, infino al sommo
se ne gia de le ripe ondoso e gonfio;
tal che, per tйma de l'amato peso
non s'arrischiando di passarlo a nuoto,
fermossi; e poichй a tutto ebbe pensato,
con un sъbito avviso entro una scorza
di salvatico sъvero rinchiuse
la pargoletta figlia. E poscia in mezzo
d'un suo nodoso, inarsicciato e sodo
tиlo, ch'avea per avventura in mano,
legolla acconciamente; e l'asta e lei
con la sua destra poderosa in alto
librando, a l'aura si rivolse, e disse:
"Alma latonia virgo, abitatrice
de le selve e de' monti, io padre stesso
questa mia sfortunata figlioletta
per ministra ti dedico e per serva.
Ecco ch'a te devota, a l'armi tue
accomandata, dal nimico in prima
sol per te la sottraggo. In te sperando
a l'aura la commetto; e tu per tua
prendila, te ne prego, e tua sia sempre".
Ciт detto, il braccio in dietro ritraendo,
oltre il fiume lanciolla; e 'l fiume e 'l vento
e 'l dardo ne fкr suono e fischio e rombo.
Mиtabo, da la turba sopraggiunto
de' suoi nemici, a nuoto alfin gettossi
e salvo a l'altra riva si condusse.
Ivi d'un verde cespo, ove piantato
avea Trivia il suo dono, il dardo e lei
divelse, e via fuggissi; e piъ mai poscia
non fu da tetti o da cittadi accolto;
chй per natia fierezza a legge altrui
non si fфra unqua additto. Il tempo tutto
de la sua vita, di pastore in guisa,
menт per monti solitari ed ermi;
e per grotte e per dumi e per orrende
selve e tane di fere ebbe ricetto
con la fanciulla, a cui fu cibo un tempo
ferino latte, e balia una d'armento
ancor non doma e pavida giumenta.
Ne le tenere labbra il padre stesso
de la fera premea l'orride mamme;
nй pria tenne de' piи salde le piante,
che d'arco, di faretra e di nodosi
dardi le mani e gli omeri gravolle.
Non d'тr le chiome, o di monile il collo,
nй men di lunga, o di fregiata gonna
la ricoverse; ma di tigre un cuoio
le facea veste intorno, e cuffia in capo.
Il fanciullesco suo primo diletto
e 'l primo studio fu lanciar di palo,
e trar d'arco e di fromba; e 'n fin d'allora
facea strage di gru, d'oche e di cigni.
Molte la desiвr tirrene madri
per nuora indarno. Ed ella di me sola
contenta, intemerata e pura e casta,
la sua verginitа, l'amor de l'armi
sol ebbe in cale. Or mio fфra disio
che di questa milizia e de la pugna,
che presa ha co' Troiani e co' Tirreni,
fosse digiuna; per sн cara io l'aggio,
e tale or mi saria grata compagna.
Ma poi che acerbo fato la persegue,
scendi, ninfa, dal cielo, e nel paese
va de' Latini. Ivi al conflitto assisti,
che per Lazio e per lei mal s'apparecchia.
Prendi quest'arco e prendi questa mia
stessa faretra, e di qui traggi il tиlo
per vendicarmi di qualunque ardito
sarа di vпolar quest'a me sacra
e devota virago, Italo, o Teucro
che sia. Poscia io verrт di nube involta
a provveder che 'l miserabil corpo
non sia d'armi spogliato, e che raccolto
sia ne la patria, e seppellito e pianto».
Cosн dicendo, entro un sonoro nembo,
da' mortali occhi non veduta, a terra
lievemente calossi. I teucri intanto
e i toschi duci le lor genti avanti
spingendo, a la cittа s'avvicinaro.
Piena d'armi, d'insegne, di cavalli
e di schierati fanti e di squadroni
si vedea la campagna. Eran per tutto
gualdane, giramenti, scorribande
di cavalieri: in secche selve i colli
parean conversi: ardea la terra e 'l cielo
di ferrigni splendori, e d'ogni parte
s'udian fremer cavalli e squillar trombe.
Incontro a lor da l'altra parte usciro
il fier Messapo, i cavalier latini,
Corace col suo frate, e di Camilla
la bellicosa banda. Era il concorso
tuttavia de le genti, e de' cavalli
il fremito maggiore. E giа la massa
ristretta, e giа vicine ambe le parti
a tiro d'asta, a fronte si fermaro
l'una de l'altra; e con le lance in resta,
con saette e con dardi incominciaro
primamente da lunge a salutarsi.
Poi di subite grida udito un tuono
al ciel levossi; e due contrari nembi
da la terra sorgendo, armi fioccaro
di neve in guisa, e coprоr d'ombra il sole.
Alfin da ciascun lato i destrier punti
andвr tutti con tutti a rincontrarsi.
Era Tirreno al fiero Aconte opposto
ne la battaglia; e questi primamente
s'urtaro, e per la furia e per la forza
de l'urto ambe le lance, ambi i cavalli,
ed ambi i corpi infranti, stramazzati,
l'un da l'altro disgiunti, quai percossi
da fulmine o da macchine avventati,
caddero a terra. E pria ne l'aura Aconte
lasciт la vita. Conturbate e sparse
le schiere de' Latini, incontinente
con le targhe rivolte a tutta briglia
vиr le mura spronando in fuga andaro.
Gli seguiro i Troiani; e primo Asila
gli assalse e gli cacciт fin su le porte.
Qui fermi e rincorati alzan le grida,
volgon le teste, e si rifan lor sopra,
ch'eran lor contra. Cosн quando questi,
e quando quelli or cacciano, or cacciati
tornano: in quella guisa ch'a vicenda
il mare or d'alto a riva i flutti increspa,
e ne l'ultima arena ondeggia e spuma;
or da la riva indietro se ne torna,
e le stess'onde, e la commossa ghiara
sorbendo e voltolando, si ritragge.
Due volte i Toschi i Rutuli incalzaro
fino a le mura; e i Rutuli due volte
risospinsero i Toschi. Al terzo assalto
mischiвrsi ambe le schiere, e l'un con l'altro
vennero a zuffa. Allor le grida e i mugghi
si sentоr de' cadenti: allor si vide
il pian tutto di sangue, e tutto d'armi
e d'uomini coverto e di cavalli
feriti e morti. Orsнloco a rincontro
di Rиmolo trovossi; e non osando
di star seco a le mani, al suo cavallo
trasse del dardo, e 'n su l'orecchio il colse.
Del colpo impazпente e per sй fiero
si scosse, s'avventт, col petto in alto
e con le zampe il corridor levossi,
e 'n su l'arena il cavalier distese.
Catillo Iola e 'l grande Erminio occise;
Erminio, che di corpo e d'armi e d'animo
era de' piъ robusti, de' piъ chiari
e de' piъ riguardevoli guerrieri
de' Toschi tutti. Avea la chioma stessa
per sua celata; avea gli omeri ignudi
di ferro al ferro esposti, e di ferite
ampio bersaglio. In su l'aperte spalle
Catillo il colse; e tremolando il tиlo
passogli il petto, e raddoppiogli il duolo.
Per tutto si fa sangue; in ogni parte
si tragge, si ferisce, si stramazza;
e chi cede e chi segue. In varie guise
ne van tutti a morir morte onorata.
In mezzo a tanta occisпone, ignuda
da l'un de' lati infurпando esulta
la vergine Camilla; ed or di dardo
fulminando, or di lancia, or di secure
non mai stanca percuote. E qual Dпana
di sonora faretra e d'arco aurato
gli omeri onusta, ancor che si ritragga,
saettando, ferite e morti avventa.
D'intorno ha per compagne e per guerriere
d'archi, di mazze e di bipenni armate,
Tulla, Tarpиa, Larina ed altre illustri
italiche donzelle, a suo decoro
scelte da lei per sue degne ministre
ne la pace e ne l'armi. In tal sembianza
Termodoonte il bellicoso stuolo
de l'Amazzoni sue vide in battaglia
attorneggiare Ippolita, o col carro
gir di Pentesilиa le schiere aprendo
con feminei ululati. Or chi fu prima,
chi poi, cruda virago, e quali e quanti
quei ch'abbattesti, e che di vita spenti
mandasti a l'Orco? Eumenio primamente
di Clizio il figlio, da costei trafitto
fu d'un colpo di lancia in mezzo al petto.
Cadde il meschino, e fe' di sangue un rivo,
sopra cui voltolandosi, e mordendo
il sanguigno terren, di vita uscio.
Indi va sopra a Liri e sopra a Pиgaso
quasi in un tempo, a l'un mentre, inciampando
il suo destriero, il fren raccoglie; a l'altro
mentre a lui, che trabocca, il braccio stende
per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi
precipitaro. A cui d'Ippтta il figlio
Amastro aggiunse, e via seguendo, Arpаlico
e Tиreo e Cromi e Demofonte occise.
Quanti dardi lanciт, tanti Troiani
gittт per terra. Ornнto, un cacciatore,
gli gia davanti, e stranamente armato
cavalcava di Puglia un gran destriero:
per sua corazza avea d'ispido toro
un duro tergo; per celata un teschio
di lupo, che dal capo insino al mento
sbarrava le mascelle, e digrignando
mostrava i denti. In man portava, ad uso
di contadini, un nodoroso palo
di grave ronca armato. Egli nel mezzo
degli altri suoi con le due teste andava
sovrano a tutti, e le ferine orecchie
ergea di cresta e di pennacchi in vece.
Camilla il giunse, lo fermт, l'occise
senza contrasto, giа che vтlta in fuga
era la schiera sua. Sovra al suo corpo
disse rimproverando: «E che pensasti,
Tosco insolente? di venire a caccia
in qualche selva, e seguir damme imbelli?
Venuto sei lа 've una dama armata
col ferro amaramente vi rintuzza
la superbia e la lingua. Oh pur non poco
ti fia di vanto, referendo a l'ombre
de' tuoi: per man fui di Camilla occiso».
Indi Orsнloco assalse, e Bute appresso,
due corpi de' maggiori e de' piъ forti
del troian oste. A Bute un colpo trasse
che 'l giunse ove tra l'elmo e la corazza
si scopre il collo, onde lo scudo appeso
sta da sinistra. Orsнloco, fuggendo
e gridando, gabbт; ch'al giro interno
s'attenne e strinse; e lа 've era seguita,
seguitт lui. Gli fu sopra in un tempo
a colpi di secure, e l'armi e l'ossa
gli pestт sн che per suo scampo a' prieghi
si volse. Alfine un tal sopra la testa
ne gli piantт, che le cervella infrante
gli schizzвr da la fronte e da le tempie.
D'Аьno montanar de l'Appennino
il bellicoso figlio a l'improvviso
fu da lei cтlto: un Ligure scaltrito,
che per ordire inganni (in fin che 'l fato
gliel concedй) non degli estremi avuto
era tra' suoi. Costui nel primo incontro
sbigottito fermossi. E poichй vide
non poter con la fuga a lei sottrarsi,
che gli era sopra, a la malizia usata
ricorrendo: «Oh! gran prova, - a dir comincia -
sarа la tua, se ben femina sei,
di sfidar me, quando a un caval t'affidi
sн fugace e sн forte. Or al vantaggio
rinunzia de la fuga e meco a piede
prendi zuffa del pari; e poi vedrassi
a cui questa ventosa tua bravura
onore acquisti». A cotal dir Camilla
di furia, di dolor, di sdegno ardendo
ratto dismonta; e 'l corridor deposto
in man de la compagna, a piи si pianta;
stringe la spada, imbracciasi lo scudo,
e con pari armi intrepida l'attende.
Il giovine, che vinto si credette
aver con quello avviso, incontinente
la groppa le mostrт del suo cavallo,
e via spronando a tutta briglia il pinse.
«Ligure vano, vano orgoglio in prima
ti mosse: or vana astuzia e vana fuga
sarа la tua; chй l'arte del fallace
tuo padre, e di tua patria, a far non basta
che vivo da le man mi ti ritolga».
Disse la virgo, e qual da cocca strale
dietro gli si spiccт: ratto l'aggiunse,
passollo, attraversollo, al fren di piglio
diedegli; lo ferн, l'ancise alfine.
Cosн d'un alto sasso agevolmente
sparvier grifagno al timido colombo
s'avventa, e lo ghermisce; onde in un tempo
sangue e piuma dal ciel neviga e piove.
In questa, de' mortali e de' celesti
l'eterno regnator, che pur talvolta
alcun de' raggi suoi vиr noi rivolge,
non con lieve disdegno o picciol'ira
mosse Tarconte a sovvenir le schiere
de' suoi ch'erano in volta. Egli per mezzo
va de l'occisпoni e de le mischie,
or il destrier contra i nemici urtando,
or le sue squadre inanimando, insieme
le ristringe, le instiga, le garrisce,
e per nome ciascun chiamando: «Ah, - disse, -
Tirreni, e che timore, e che spavento
и 'l vostro? che viltа, che codardia
v'ha presi? e quando mai fia che vi punga
o dolore, o vergogna? Adunque in fuga
gite per una femina? Una femina
vi disperde e v'ancide? A che di ferro
invan cosн le destre e i petti armate?
De le donne temete? Or via, campioni
da letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,
a sacrifizi, allor che ne le sacre
foreste и da l'aruspice intonato
che la vittima e grassa, itene tutti
seco a goder del saginato bue
a piena pancia, chй null'altro amore,
null'altro studio и 'l vostro». E, ciт dicendo,
ne va come devoto a morte anch'egli.
Con Vиnolo s'affronta; e sн com'era
turbato, l'aggavigna, e fuor lo tragge
del suo cavallo. Alto levossi un grido
tal, che tutti a veder le ciglia alzaro
i Latini e i Tirreni. Iva Tarconte
per la campagna con la preda in grembo
del nimico e de l'armi; e 'n mezzo al corso
svelge da l'asta sua medesma il ferro,
e cerca ov'и di piastra il corpo ignudo
per darli morte. E mentre ne la gola
tenta ferirlo, ei con le braccia in alto
si scherma, regge il colpo, e da la forza
quanto puт con la forza si districa.
Come ne l'aria insieme avviticchiati
si son visti talor l'aquila e 'l serpe
pugnar volando, e l'una aver con l'ugne
e col becco ghermito e morso l'altro:
e l'altro co' suoi giri e co' suoi nodi
farle vincigli a' piи, volumi a l'ali;
e questo con la testa alto fischiando,
e quella schiamazzando e dibattendo,
ambedue voltolarsi, ambedue stretti
far di squame e di piume un sol viluppo;
cosн Tarconte per lo campo a volo,
vincitor de le schiere di Tiburte,
Vиnolo sen portava. E questo esempio
del suo duce seguendo, e del successo
assecurata, la meonia torma
tutta contr'a Latini impeto fece.
Tra questi Arunte, un che di giа dovuto
era al suo fato, con un dardo in mano
Camilla astutamente insidпando,
si diede a seguitarla, a circuпrla,
a cercar destra e comoda fortuna
di darle morte. Ovunque ella o per mezzo
fendea le schiere, o vincitrice indietro
si ritraea, l'era vicino Arunte;
e tutti i moti suoi, tutte le vie
osservando, attendea che netto il colpo
gli rпuscisse; e da fellone intanto
avea l'asta a ferir librata e pronta.
Giva per avventura a lei davanti
Cloro, un giovine idиo che sacerdote
era giа di Cibele. I Frigi tutti
non avean chi di lui fosse ne l'armi
piъ riccamente adorno. Un suo corsiero
per lo campo spingea, di spuma asperso,
cinto di barde e d'acciarine lame
come di scaglie e di leggiadre piume
leggiadramente inteste. Un arco d'oro
gli pendea da le spalle, una faretra
a la cretese. In testa, in gambe, in dosso
d'armi e d'arnesi in barbara sembianza,
di peregrina porpora e di seta,
di bisso, di teletta e d'ostro e d'oro
tutto coverto, tutto ricamato,
tutto trinciato; e saettando andava.
Costui veduto, ogni altra impresa indietro
lasciando, a lui si volse o per vaghezza
di consecrar le sue bell'armi al tempio,
o pur che di sн vago ostile arnese
di gir pomposa cacciatrice amasse.
Basta che per le schiere incauta, ardente,
e, come donna, vogliolosa e folle
de l'amor de la preda e de le spoglie,
contro a lui se ne giva; allor ch'Arunte,
dopo molto appostarla, alfin le trasse
in tal guisa pregando: «O di Soratte
sommo custode, Apollo, a cui devoti
noi fummo in prima, a cui di sacri pini
nutriamo il foco, e per cui nudi e scalzi
tra le fiamme saltando e per le brage
securamente e senza offesa andiamo,
dammi, chй tutto puoi, padre benigno,
che questa infamia per mia man si tolga
da l'armi nostre. Io di costei non bramo
armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti
mi sian di lode, e pur che questo mostro
caggia spento da me, ne la mia patria
senza piъ gloria andrт di questa guerra
pago e contento». Udн Febo del vуto
parte, e parte per l'aura ne disperse.
Udн che morta da quel colpo fosse
la vergine Camilla; e non udio
di lui, ch'ei vivo in patria ne tornasse;
chй ciт per l'aura ne portaro i vиnti.
Tosto che da le man l'asta ronzando
gli uscio, fыr gli occhi e gli animi e le grida
de' Volsci tutti a la regina intenti.
Ed ella nй del tиlo, nй de l'aura
moto o fischio sentн; nй vide il colpo,
mentre giъ discendea, finchй non giunse.
Giunsele a punto ove divelta e nuda
era la poppa; e del virgineo sangue,
non giа di latte, sitibonda scese
sн che 'l petto l'aprн. Le sue compagne
le fыr trepide intorno; e giа che morta
cadea, la sostentaro. Arunte in fuga
ratto si volge, di paura insieme
turbato e di letizia; chй ne l'asta
piъ non confida, e piъ di star non osa
incontro a lei. Qual affamato lupo
ch'ucciso de l'armento un gran giovenco,
o lo stesso pastore, in sй confuso
di tanta audacia, anzi che da' villaggi
gli si levin le grida, infra le gambe
si rimette la coda, e ratto a' monti
fuggendo, si rinselva; in cotal guisa
Arunte, dopo 'l tratto, impaьrito,
solo a salvarsi inteso, in mezzo a l'armi
si mischiт tra le schiere. Ella, morendo,
di sua man fuor del petto il crudo ferro
tentт svelgersi indarno; chй la punta
s'era altamente ne le coste infissa:
onde languendo abbandonossi, e fredda
giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi
scintillavano ardor, grazia e fierezza,
si fкr torbidi e gravi. Il volto, in prima
di rose e d'ostro, di pallor di morte
tutto si tinse. In tal guisa spirando,
Acca a sй chiama, una tra l'altre sue
la piъ fida di tutte e la piъ cara;
e dice: «Acca, sorella, i giorni miei
son qui finiti: questa acerba piaga
m'adduce a morte, e giа nero mi sembra
tutto che veggio. Or vola, e da mia parte
di' per ultimo a Turno che succeda
a questa pugna e la cittа soccorra;
e tu rimanti in pace». A pena detto
ebbe cosн, che abbandonando il freno
e l'arme e sй medesma, a capo chino
traboccт da cavallo. Allora il freddo
l'occupт de la morte a poco a poco
le membra tutte. E, dechinato il collo
sopra un verde cespuglio, alfin di vita
sdegnosamente sospirando uscio.
Camilla estinta, per lo campo un grido
levossi che n'andт fino a le stelle,
e surse al cader suo zuffa maggiore;
chй i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo
pinsero avanti. Opi, ministra intanto
di Trivia, che nel monte era discesa
vicino a la battaglia, indi il conflitto
stava mirando intrepida e sicura,
e visto di lontan tra molte genti
nascer nuovo tumulto e nuove grida,
poscia in mezzo di lor caduta e morta
la vergine Camilla: «Ah, - sospirando
disse, - virgo infelice! troppo, troppo
crudel supplizio hai de l'ardir sofferto,
se d'irritar l'armi troiane osasti.
E di che pro t'и stato a viver nosco
solinga vita, armar de l'armi nostre,
gradire i boschi e venerar Dпana?
Ma te non lascerа la tua regina
giacer disonorata in questa fine
de la tua vita; e la tua morte oscura
non sarа tra le genti; e non dirassi
che non и chi di te vendetta faccia;
chй chпunque di ferro avrа ferito
il corpo tuo, sarа meritatamente
di ferro anciso». Era a Dercenno, antico
re de' Laurenti, un gran sepolcro eretto,
cui sopra era di terra un monte imposto
e d'elci annosi e folti un bosco opaco.
Qui la veloce dea dal ciel calossi
al primo volo; e di qui visto Arunte
splender ne l'armi, e gir di sua follia
superbo e gonfio: «Ove ne vai? - diss'ella, -
qui convien che ti fermi, e qui morendo
de la morta Camilla il premio avrai
degno di te, se di perir sei degno
de l'armi di Dпana». E, ciт dicendo,
la buona arciera del turcasso aurato
trasse un acuto strale, e l'arco tese,
e tirт sн ch'ambe le corna estreme
vennero al mezzo, ed ambe parimente
le mani, una tirata e l'altra spinta,
quella toccт la poppa e questa il ferro.
L'arco, l'aura, lo stral sonare udio,
e ferir e morir sentissi Arunte
tutto in un tempo. I suoi quasi in oblio
cosн come spirava, in mezzo al campo
lo lasciвr fra la polve in abbandono;
ed Opi al ciel tornando a volo alzossi.
Caduta lei, la schiera di Camilla
primieramente in fuga si rivolse.
Indi turbвrsi i Rutuli, e diкr volta.
Diи volta il fiero Atina; e i duci tutti,
e tutte fыr le insegne abbandonate.
Cerca ognun di salvarsi, e vиr le mura
ne vanno a tutta briglia, e piъ nel campo
alcun non и che di far testa ardisca
contra la strage e contra la ruina
che fanno i Teucri. Se ne van con gli archi
scarichi in su le terga e spenzoloni;
e piъ che di galoppo in vиr Laurento
battono il campo, e fan nubi di polve.
Le madri da' balconi e da' torrazzi
percossi i petti, alzano al ciel le grida
con femineo ululato. E quei che primi
giunti trovвr le porte ancor non chiuse,
mischiati co' nemici, ove piъ salvi
si credean ne l'entrata e fra le mura
de la stessa lor patria, anzi agli alberghi
lor propri e da' nemici e da la morte
fыr sopraggiunti. In cotal guisa in prima
stette la porta agli avversari aperta;
poi chiusa escluse i suoi, che fuori in preda
restando de' nemici, ai lor piъ cari,
che morir gli vedean, perchй s'aprisse
supplicavano indarno. E qui tra quelli
che n'erano a difesa, e quei ch'a forza,
anzi a furia, a ruina incontro a loro
s'avventavan ne l'armi, orrenda strage
si fece e miseranda. E degli esclusi
altri in cospetto degli stessi padri,
e de le madri che dogliose grida
ne facean da le torri e da le mura,
da l'impeto cacciati o da la calca
precipitвr ne' fossi, e giъ da' ponti
cadder sospinti; ed altri ne la fuga
da' sfrenati cavalli e da la cieca
lor furia trasportati, a dar di cozzo
gоr ne le chiuse porte. In su' ripari
ancor le donne (che le donne ancora
il vero della patria amore infiamma),
come giunte a l'estremo, allor che morta
vider Camilla, il femminil timore
volgono in sicurezza, e sassi e dardi
lanciando, e con aguzzi, inarsicciati
pali il ferro imitando, osano anch'elle
per la difesa delle patrie mura
gir le prime a morir morte onorata.
A Turno intanto ne le selve arriva
Acca, la giа spedita messaggiera,
con l'amara novella; un gran tumulto
portando, che l'esercito и sconfitto,
morta Camilla, annichilati i Volsci,
e i Teucri d'ogni cosa impadroniti
stanno in campagna col favor che porta
seco de la vittoria il corso e 'l nome;
assalgon la cittа. D'ira, di sdegno
e di furore il giovine infiammato
(chй tale era il voler empio di Giove)
da l'insidie si toglie, esce de' boschi
ov'era ascoso, e giъ scende da' colli.
Smarriti non gli avea di vista a pena,
a pena era nel piano, allor ch'Enea
prese del monte; e lа 'v'era l'agguato,
trovando aperto, senz'offesa anch'egli
superт 'l giogo, e de la selva uscio.
Cosн con passi frettolosi entrambi
con tutte le lor genti, e l'un da l'altro
poco lontani a la cittа sen vanno.
E 'nsiememente da l'un canto Enea
vide di polverio fumare i campi,
e di Laurento sventolar l'insegne;
Turno da l'altro Enea scoperse, udendo
l'annitrir de' cavalli e 'l calpestio
crescer di mano in mano. Eran vicini
sн, che venuto a zuffa ed a battaglia
si fфra anco quel dн: se non che Febo,
fatto vermiglio, i suoi stanchi destrieri
stava giа per tuffar ne l'onde ibиre;
onde avanti a le mura ambi accampati
di trincee si muniro e di ripari.

LIBRO DECIMOSECONDO

Turno, poscia che vede afflitti e domi
giа due volte i Latini, e non pur scemi
di forze, ma di speme e di baldanza,
da lui farsi rubelli, e che a lui solo
ognun rivolto in tanto affare attende
le pruove, le promesse e i vanti suoi,
furпoso, implacabile, inquпeto
arde, s'inanimisce, e si rinfranca
prima in se stesso. Qual massнla fera
ch'allor d'insanguinar gli artigli e il ceffo
disponsi, allor s'adira, allor si scaglia
vиr chi la caccia, che da lui si sente
gravemente ferita; e giа godendo
de la vendetta, sanguinosa e fiera
con le iube s'arruffa, e con le rampe
frange l'infisso tиlo e graffia e rugge:
cosн la vпolenza era di Turno
accesa, impetьosa e furibonda;
e cosн conturbato appresentossi
al re davanti, e disse: «Indugio, o scusa
piъ non fa Turno: e piъ non ponno i Teucri
da quel ch'и patteggiato, e stabilito,
se non se per viltа, ritrarsi omai.
Eccomi in campo: ecco parato e pronto
sono al duello. Or fa', padre, che 'l patto
sia fermo e rato e sacro; e i sacrifici
e 'l giuramento appresta. Oggi, signore,
sii certo ch'io con le mie mani a morte
questo de l'Asia fuggitivo adduco,
e 'l difetto di tutti io solo ammendo
(stiansi pure a vedere i tuoi Latini);
o ch'ei vincendo fia padrone a voi,
e marito a Lavinia». A cui Latino
col cor sedato in tal guisa rispose:
«Giovine valoroso, al tuo valore,
a la ferocia tua che tanto eccede
ne l'armi, io deferisco. E tu dovrai
appagarti di me, s'io, d'ogni cosa
temendo, con ragione e con maturo
consiglio in tutti i casi inveglio e curo
che 'l mio stato si salvi e la tua vita.
A te del vecchio Dauno erede e figlio,
seggio e regno non manca, oltre a le terre
di cui tu fatto hai da te stesso acquisto
per forza d'armi. Oro, favori e gradi
da Latino avrai sempre; e maritaggi
e donne d'alto affar son per lo Lazio,
e per le terre di Laurento assai.
Ma soffri ch'io ti parli, e senti, e nota
poscia quel ch'io dirт: che dirт vero,
ben che noia ti sia. Fatal divieto
mi proibiva, e gli uomini e gli dиi
m'avean vaticinando in molte guise
denunzпato, che mia figlia a nullo
io maritassi di color che chiesta
me l'avean prima. E pur dall'amor vinto
che ti port'io, dal parentado astretto
c'ho con la casa tua, mosso dal pianto
e da le preci de la donna mia,
dandola a te mi sono al fato opposto:
ho rotto fede al genero; ho con lui
presa non giusta e non sicura guerra.
Da indi in qua tu stesso, tu che primo
soffri tante fatiche e tanti affanni,
hai veduto in che rischi, in che travagli
siam noi caduti; chй due volte rotti
in due sн gran battaglie, in questo cerchio
ne siam rinchiusi a sostentare a pena
la speranza d'Italia. Il Tebro и caldo
del nostro sangue. I campi son giа bianchi
de le nostr'ossa. Ed io, folle, a che torno
tante fпate al precipizio mio?
Chi cosн da me stesso mi sottragge?
Se, Turno estinto, io nel mio regno deggio
i Troiani accettar, chй non gli accetto
or ch'egli и vivo e salvo? e chй non pongo
fine a la guerra, a la ruina espressa
del mio regno e de' miei? Che ne diranno
i Rutuli parenti? che diranne
Italia tutta, quando a morte io lasci
(voglia Dio che non sia) gir un che tanto
ama la parentela e 'l sangue mio?
Rimira de la guerra come vana
sia la fortuna. Abbi pietа del vecchio
Dauno tuo padre, che da te lontano
in Ardea se ne sta mesto e dolente».
Turno a questo parlar nulla si mosse
de la ferocia sua: crebbe piъ tosto
il suo furore; e lo rimedio stesso
gli aggravт 'l male. Ei, come pria poteo
formar parola, in tal guisa rispose:
«Nulla per conto mio di me ti caglia,
signor benigno: anzi, ti prego, in grado
prendi ch'io per la lode e per l'onore
patteggi con la morte. Ed anch'io, padre,
ho le mie mani; ed anco il ferro mio
ha taglio e punta, e fa ferita e sangue.
Non sempre avrа, cred'io, la madre a canto
che di nube lo cuopra e lo trafugga
come vil femminella, e di vane ombre
seco s'involva». E, ciт detto, si tacque.
Ma la regina, de l'audace impresa
del genero dolente e spaventata,
piangendo, e per angoscia a morte giunta,
lo tenea, lo pregava, e gli dicea:
«Turno, per queste lagrime, per quanto
t'и, se pur t'и, de l'infelice Amata
l'onor, l'amore e la salute in pregio
(giа che tu sola speme, e sol riposo
sei de la mia vecchiezza: a te s'appoggia,
in te si fonda di Latino il regno,
e la sua dignitade, e la sua casa
che ruina minaccia) in don ti chieggio,
astienti di venir co' Teucri a l'arme;
chй qualunque ne segua avverso caso
sopra me cade; ch'io teco di vita
escirт pria che mai suocera o serva
io mi veggia d'Enea». Queste parole
de la madre sentн Lavinia virgo,
di rugiadose lagrime e d'un foco
di vergineo rossor le guance aspersa,
qual fфra se di purpura macchiato
fosse un candido avorio, o che di rose
si spargessero i gigli. In lei mirando
il giovine, d'amor non men che d'ira
acceso, a la regina brevemente
cosн rispose: «Ah, madre mia, ti prego,
in cosн perigliosa e dura impresa
non mi far col tuo pianto e col tuo duolo
sinistro annunzio. Chй s'a Turno и dato
che muoia, in suo poter piъ non и posto
che di morire indugi». Indi a l'araldo
rivolto: «Va, - gli disse, - e da mia parte
quest'ingrata e spiacevole ambasciata
porta al frigio tiranno, che dimane
tosto che fia la rubiconda Aurora
a l'orпente apparsa, i Teucri suoi
contr'a Rutuli addur piъ non s'affanni.
Stiensi l'armi de' Rutuli e de' Teucri
per mio conto in riposo. Chй tra noi
col nostro sangue a diffinir la guerra,
e di Lavinia le bramate nozze
in su quel campo a procurar ci avemo».
Detto cosн, vиr la magion s'invia
rapidamente; addur si fece avanti
i suoi cavalli, e le fattezze e 'l fremito
notando, se ne gode, e ne concepe
speme e vittoria: chй di razza usciti
eran giа d'Orizнa, da cui Pilunno
ebbe giumente e corridori in dono,
che di candor la neve, e di prestezza
superavano il vento. Avean d'intorno
i valletti e gli aurighi che palpando,
forbendo e vezzeggiando, in varie guise
gli facean lieti, baldanzosi e fieri.
Fatte poscia venir l'armi, si veste
la sua corazza d'oricalco e d'oro
e dentro vi s'adatta e vi si vibra
con la persona. Imbracciasi lo scudo,
pruovasi l'elmo; e la vermiglia cresta
squassando, il brando impugna, il fido brando
da lo stesso Vulcano al padre Dauno
temprato in Mongibello a tutte pruove.
Alfine un'asta poderosa e grave,
ch'appo un'alta colonna era appoggiata
in mezzo de la casa, in man si pianta,
spoglio d'Аttore aurunco. E poichй l'ebbe
brandita e scossa: «Asta, - gridando disse, -
ch'a le mie fazпoni unqua non fosti
chiamata indarno, ora al maggior bisogno
da te soccorso imploro. Il grande Attтre
armasti in prima, or sei di Turno in mano.
Dammi che 'l corpo atterri, e la corazza
dischiodi, e 'l petto laceri e trapassi
di questo frigio effeminato eunuco;
dammi che 'l profumato, inanellato,
col ferro attorcigliato zazzerino
gli scompigli una volta, e ne la polve
lo travolga e nel sangue». In cotal guisa
dicendo, infurпava, ardea nel volto,
scintillava negli occhi, orribilmente
fremea, qual mugghia il toro allor che irato
si prepara a battaglia, e l'ira in cima
si reca de le corna, indi l'arruota
a qualche tronco, e 'l tronco e l'aura in prima
ferendo, alto co' piи sparge l'arena
e del futuro assalto i colpi impara.
Da l'altro canto Enea, non men feroce
ne l'armi di sua madre, al fiero Marte
s'inanima e s'accinge, e del partito
che gli era per compor la guerra offerto,
si rallegra, l'accetta; e i suoi compagni
e 'l suo figlio assicura, or di se stesso
la franchezza mostrando, or le venture
de' fati rammentando e le promesse.
Indi con la risposta al re Latino
manda chi la disfida e 'l patto accetti,
e del patto i capitoli e le leggi
stabilisca e confermi. Era de' monti
in su la cima a pena il sole apparso
de l'altro giorno, allor ch'i suoi destrieri
sorgon da l'onde, e con le nari in alto
fiamme anelando, il mondo empion di luce:
quando nel campo i Rutuli discesi
e i Teucri insieme, sotto l'alte mura,
fabbricвr lo steccato, a cui nel mezzo
i fochi e l'are di gramigna asperse
furo agli dиi d'ambe le parti eretti
comunemente; e d'ambi i sacerdoti
di bianco lino involti, e di verbena
cinti le tempie, andaro altri con l'acqua,
altri con le facelle intorno accese.
Poscia ecco degli Ausoni da l'un canto
a piene porte l'ordinate schiere
uscir da la cittа di picche armate;
da l'altro de' Troiani e de' Tirreni
gir l'esercito tutto in varie guise
d'abiti e d'armi; e questi incontro a quelli
non altramente ch'a battaglia instrutti.
Fra mezzo a tante mila i condottieri
ciascun da la sua parte si vedea
gir d'oro e d'ostro alteramente adorni.
E 'l gran Memmo con questi e 'l forte Asila,
e Messapo con quelli, de' cavalli
il domatore e di Nettuno il figlio.
Poscia che, dato il segno, ebbe ciascuno
chi di qua chi di lа preso il suo loco,
piantвr le lance, dechinвr gli scudi.
Le donne, i vecchi, i putti e 'l volgo inerme,
di veder desпosi, altri in su' tetti,
altri in su' rivellini e 'n su le torri
stavan mirando. E non dal campo lunge
sedea Giuno in un colle, Albano or detto,
ch'allor nй d'Alba il nome avea, nй 'l pregio
nй i sacrifici. In questo monte assisa
vedea de' Laьrenti e de' Troiani
l'accolte genti, e di Latino il seggio.
Ivi la dea di Turno a la sirocchia,
che dea de' laghi era e de' fiumi anch'ella,
disse cosн: «Ninfa, de' fiumi onore,
sovr'ogni ninfa a me gioconda e cara,
tu sai come te sola ho preferita,
e come volontier del cielo a parte
meco t'ho posta. Ascolta i tuoi dolori,
perchй di me dolerti unqua non possa.
Finchй di Lazio la fortuna e 'l fato
me l'han concesso, io prontamente e Turno
e la tua terra e i tuoi sempre ho difeso.
Or veggio questo giovine a duello
con disegual destino esser chiamato:
veggio il dн della Parca e la nemica
forza che gli и vicina. Io questo accordo,
questa pugna veder con gli occhi miei
per me non posso. Tu, se cosa ardisci
in pro del tuo germano, ora и mestiero
che tu l'adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fallo: e chi sa che 'l misero non cangi
ancor fortuna?» A pena avea ciт detto
che Iuturna gemendo e lagrimando
tre volte e quattro il petto si percosse.
A cui Giuno soggiunse: «E' non и tempo
da stare in pianti. Affretta; e da la morte
scampa, se scampar puossi, il tuo fratello,
o turbando l'accordo, o suscitando
nuova cagion di mischia e di tumulto.
Io son che l'impongo, e te n'affido».
Con questo la lasciт sospesa e mesta,
e d'amara puntura il cor trafitta.
Ecco vengono al campo i regi intanto;
Latino il primo, alto in un carro assiso,
che da quattro suoi nitidi corsieri,
di gran macchina in guisa, era tirato,
e, di dodici raggi il fronte adorno,
del Sole, avo di lui, sembianza avea.
Turno traean due candidi destrieri,
con due suoi dardi in mano agili e forti.
Enea, de la romana stirpe autore,
con l'armi sue celesti e con lo scudo
che dianzi da le stelle era venuto,
uscio da l'altro canto, e seco a pari
Ascanio il figlio suo, de la gran Roma
la seconda speranza. A mano a mano
il sacerdote in pura veste involto
anzi agli accesi altari il nuovo parto
d'una setosa porca, ed una agnella
ancor non tosa al sacrificio addusse;
e vтlti a l'orпente, in atto umнle
s'inchinвr tutti; e vino e farro e sale
sparser d'ambe le parti; ambe col ferro,
sн com'era uso, a le devote belve
segnвr le tempie. Allor il padre Enea
strinse la spada, e, gli occhi al ciel rivolti,
cosн disse pregando: «Io questo sole
per testimone invoco e questa terra,
per cui tanti ho fin qui sofferti affanni;
invoco te, celeste, onnipotente,
eterno padre, e te, saturnia Giuno,
giа vиr me piъ benigna, e ben ti prego
che mi sii tale, e te gran Marte invoco,
ch'a l'armi imperi; e voi fonti e voi fiumi,
e voi tutti del mar, tutti del cielo
numi possenti; e vi prometto e giuro
che se Turno per sorte и vincitore
di questa pugna, il successor del vinto
gli cederа: ch'a la cittа d'Evandro
si ritrarrа; che mai poscia ribelle
non gli sarа: che guerra o lite o sturbo
alcun altro piъ mai non gli farа.
Ma se piъ tosto, come io prego, e come
spero che mi succeda, al nostro Marte
la dovuta vittoria non si froda;
io non vo' giа che gl'Itali soggetti
siano a' miei Teucri, nй d'Italia io solo
tener l'impero; io vo' ch'ambi del pari
questi popoli invitti aggian tra loro
governo e leggi eguali, e pace eterna.
A me basta ch'io dia ricetto e culto
a' miei numi, a' miei Teucri, e sia Latino
suocero mio, del suo regno e de l'armi
signor, rettore e donno. Io poscia altrove
altre mura ergerommi, e de' miei stessi
fien le fatiche, e di Lavinia il nome».
Cosн pria disse Enea; cosн Latino
seguitт poi con gli occhi e con la destra
al ciel rivolto: «Ed io giuro, - dicendo, -
le stesse deitа, la terra, il mare,
le stelle, di Latona ambo i gemelli,
di Giano ambe le fronti, il chiuso centro,
e la gran possa degl'inferni dii.
Odami di lа su l'eterno padre,
che fulminando stabilisce e ferma
le promesse e gli accordi. I numi tutti
chiamo per testimoni: e tocco l'ara,
e tocco il foco, e questa pace approvo
dal canto mio. Nй mai, che che si sia
di questa pugna, nй per forza alcuna,
nй per tempo sarа ch'ella si rompa
di voler mio; non se la terra in acqua
si dileguasse, non se 'l ciel cadesse
ne l'imo abisso: cosн come ancora
questo mio scettro (chй lo scettro in mano
avea per sorte) piъ nй fronda mai
nй virgulto farа poichй reciso
dal vivo tronco, o da radice svиlto
mancт di madre, e giа d'arbore ch'era,
sfrondato, diramato e secco legno
di giа venuto, e d'oricalco adorno
e per man de l'artefice ridotto
in questa forma, e per quest'uso in mano
dei re latini и posto». In cotal guisa
fermati i patti e l'ostie in mezzo addotte,
tra i piъ famosi, anzi a l'accese fiamme
le svenвr, le smembrвr, le svisceraro.
E sн com'eran palpitanti e vive,
le fibre ne spiвr, le diкro al foco,
n'empiкr le squadre e ne colmвr gli altari.
Di giа disvantaggioso e diseguale
questo duello a' Rutuli sembrava;
e giа vari bisbigli, e vari moti
n'eran tra loro; e com' piъ sanamente
si rimirava, piъ di forze impаri
si vedea Turno; ed egli stesso indizio
ne diи, che lento e tacito e sospeso
entrт nel campo. E come ancor di pelo
avea le guance lievemente asperse,
orando anzi a l'altar pallido il volto
mostrossi, e chino il fronte, e grave il ciglio.
Tale una languidezza rimirando,
e tal del volgo un sussurrare udendo
Iuturna, sua sorella, infra le schiere
gittossi, e di Camerte il volto prese.
D'alto legnaggio, di valor paterno,
e di propria virtute era Camerte
famoso in fra la gente. E tal sembrando,
giа degli animi accorta, iva Iuturna
rumor diversi e tai voci spargendo:
«Ahi! che vergogna, che follia, che fallo,
Rutuli, и 'l nostro, che per tanti e tali
sola un'alma s'arrischi? Or siam noi forse
di numero a' nemici inferпori,
o d'ardire, o di forze? Ecco qui tutti
accolti i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi
che sono anco per fato a Turno infensi.
A due di noi contra un di loro a mischia
che si venisse, di soverchio ancora
fфrano i nostri. Ei che per noi combatte,
ne sarа fra gli dиi, cui s'и devoto,
in ciel riposto, e qui tra noi famoso
viverа sempre. Ma di noi che fia,
ch'or ce ne stiam sн neghittosi a bada?
La patria perderemo? e da stranieri,
e da superbi in servitude addotti,
preda e scherno d'altrui sempre saremo?
Da questo dir la gioventъ commossa
via piъ s'accende, e 'l mormorio serpendo
piъ cresce per le squadre. Onde i Latini
e gli stessi Laurenti, che pur dianzi
di pace eran sн vaghi e di quпete,
pensier cangiando e voglie, or l'arme tutti
gridano, tutti pregan che l'accordo
sia per non fatto; e tutti han de l'iniqua
sorte di Turno ira, pietate e sdegno.
In questa, ecco apparir ne l'aria un mostro
per opra di Iuturna, onde turbati
e dal primo proposito distolti
fыr da vantaggio de' Latini i cuori.
Videsi per lo lito e per lo cielo
di roggio asperso un di palustri augelli
impaьrito e strepitoso stuolo.
Dietro un'aquila avea, ch'a mano a mano
giuntolo de lo stagno in su la riva,
un cigno ne ghermн ch'era di tutti
il maggiore e 'l piъ bello. A cotal vista
gli occhi e gli animi alzвr l'itale squadre;
e gli augei, che pur dianzi erano in fuga
(mirabile a vedere!), in un momento
stridendo si rivolsero, e ristretti
in densa nube, ond'era il ciel velato,
la nimica assaliro. E sн d'intorno
la cinser, l'aggirвr, l'attraversaro,
ch'a cielo aperto, u' dianzi erano in fuga,
le fкr gabbia, ritegno e forza, al fine
che, gravata dal peso e stretta e vinta,
de la lena mancasse e de la preda.
Il cigno dibattendosi, da l'ugne
sovra l'onde gli cadde; ed ella scarca,
da la turba fuggendo, al cielo alzossi.
I Rutuli a tal vista con le grida
salutвr pria l'augurio: indi a la pugna
si prepararo. E fu Tolunnio il primo,
ch'augure, incontro al patto, anzi le schiere
si spinse armato, e disse: «Or questo и, questo
ch'io desпava; e questo и quel ch'io cerco
ho ne' miei vуti. Accetto e riconosco
il favor degli dиi. Me, me seguite,
Rutuli miei. Con me l'armi prendete
contro al malvagio, che di strana parte
venuto con la guerra a spaventarci,
ha voi per vili augelli, e i vostri lidi
cosн scorre e depreda. Ma ritolto
questo cigno gli fia; di nuovo al mare
in fuga se n'andrа. Voi combattendo
in guisa de la pria fugace torma,
ristringetevi insieme, e riponete
il vostro re, che v'и rapito, in salvo».
Detto cosн, spinse il destriero, e trasse
contr'a' nimici. Andт stridendo e dritto
l'aura secando il fulminato dardo:
e 'nsieme udissi col suo rombo un grido
che insino al ciel, de' Rutuli, sentissi.
Insieme scompigliossi il campo tutto,
turbвrsi i petti, ed infiammвrsi i cuori.
L'asta volando giunse ove a rincontro
nove fratelli eran per sorte accolti,
che tutti d'una sola etrusca moglie
da l'arcadio Gilippo eran creati.
Un di lor ne colpн lа 've nel mezzo
il cinto s'attraversa, e con la fibbia
s'afferra al fianco. Ivi tra costa e costa,
penetrando altamente, lo trafisse,
e morto in su l'arena lo distese.
Questi, il piъ riguardevole ne l'armi
era degli altri, e 'l piъ bello e 'l piъ forte,
e gli altri come tutti eran feroci,
dal dolore infiammati incontinente
chi la spada impugnт, chi prese il dardo;
e contra il feritor tutti in un tempo
come ciechi, avventвrsi. Incontro a loro
si mosser de' Laurenti e de' Latini
le genti a schiere, e d'altro lato a schiere
spinsero i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi.
Cosн d'arme e di sangue uguale ardore
surse d'ambe le parti; e l'are e 'l foco
ch'eran di mezzo, e l'ostie e le patene
n'andвr sossopra; e tal di ferri e d'aste
denso levossi e procelloso un nembo,
che 'l sol se n'oscurт, sangue ne piovve.
Grida e fugge Latino, e i numi offesi
se ne riporta, e detestando abborre
il vпolato accordo. Armasi intanto
il campo tutto; e chi frena i destrieri,
chi 'l carro appresta; e giа con l'aste basse,
e con le spade ad investir si vanno.
Messapo desпoso che l'accordo
si disturbasse, incontro al tosco Auleste
che, come re, di regal fregi adorno
e d'ostro, al sacrificio era assistente,
spinse il cavallo e spaventollo in guisa,
che mentre si ritragge infra gli altari
ch'avea da tergo, urtando, si travolse.
Messapo con la lancia incontinente
gli si fe' sopra, e sн com'era in atto
di supplicarlo, il petto gli trafisse,
«Cosн ben va, - dicendo, - or a' gran numi
porco piъ grato e miglior ostia cadi».
Cadde il meschino, e fu, spirante e caldo,
sovraggiunto dagl'Itali e spogliato.
Diи Corinиo per un gran tizzo a l'ara
di piglio; e sн com'era ardente e grave,
ad Ebuso ch'incontro gli venia,
nel volto il fulminт. Schizzonne insieme
il foco e 'l sangue; e di baleno in guisa
un lampo ne la barba gli rifulse
che diи d'arsiccio odore, indi gli corse
sopra senza ritegno; e qual trovollo
da la percossa abbarbagliato e fermo,
l'afferrт per la chioma, a terra il trasse,
col ginocchio lo strinse, e col trafiere
gli passт 'l fianco. Podalirio ad Also
pastor, che fra le schiere infurпava,
s'affilт dietro; e giа col brando ignudo
gli soprastava, allor ch'Also rivolto
la gravosa bipenne ond'era armato
gli piantт nella fronte e 'nsino al mento
il teschio gli spartн, l'armi gli sparse
tutte di sangue: ond'ei cadde, e le luci
chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
Enea senz'elmo in testa, infra le genti
la disarmata destra alto levando,
e discorrendo, e richiamando i suoi:
«Dove, dove ne gite? Che tumulto, -
dicea, - che furia, che discordia и questa
cosн repente? Oh trattenete l'ire;
oh non rompete. Il patto и stabilito;
l'accordo и fatto. Solo a me concesso
и ch'io combatta. A me sol ne lasciate
la cura e 'l carco. Io, non temete, io solo
il patto vi ratifico e vi fermo
con questa sola destra; e Turno a morte
di giа mi si promette, e mi si deve
da questi sacrifici». In questa guisa
gridava il teucro duce; ed ecco intanto
venir d'alto stridendo una saetta;
non si sa da qual mano, o da qual arco
si dipartisse. O caso, o dio che fosse
che tanta lode a' Rutuli prestasse,
l'onor se ne celт, nй mai s'intese
chi del ferito Enea vanto si desse.
Turno, poichй dal campo Enea fu tratto,
e turbar vide i suoi, di nuova speme
s'accese, e gridт l'armi, e sopra al carro
d'un salto si slanciт, spinse i cavalli
infra' nemici, e molti a morte dienne.
Molti ne sgominт, molti n'infranse,
e con l'aste, fuggendo, ne percosse.
Qual и de l'Ebro in su la fredda riva
il sanguinoso Marte, allor ch'entrando
ne la battaglia, o con lo scudo intuona,
o fulmina con l'asta, e i suoi cavalli
da la furia e da lui cacciati e spinti
ne van co' venti a gara, urtando i vivi,
e calpestando i morti; e fan col suono
de' piи fino agli estremi suoi confini
tremar la Tracia tutta, e van con essi
lo spavento, il timor, l'insidie e l'ire,
del bellicoso iddio seguaci eterni;
in cosн fiera e spaventosa vista
se ne gia Turno, la campagna aprendo,
uccidendo, insultando e di nemici
miserabil ruina e strage e strazio
or con l'armi facendo, or co' destrieri
che sudanti, fumanti e polverosi,
spargean di sangue e di sanguigna arena
con le zampe e con l'ugne un nembo intorno.
Stиnelo, ne l'entrar, Tаmiro e Polo
condusse a morte; i due primi da presso,
l'ultimo da lontano. E da lunge anco
Glauco percosse e Lado; i due famosi
figli d'Imbraso, ne la Licia nati,
da lui stesso nutriti, e parimente
a cavalcare e guerreggiare instrutti.
Da l'altra parte Eumиde il chiaro germe
de l'antico Dolone. Il nome avea
costui de l'avo, e l'ardimento e i fatti
seguia del padre, che de' Greci il campo
spпare osando, osт d'Achille ancora
in premio de l'ardir chiedere il carro.
Ma d'altro che di carro premпollo
il figlio di Tidиo; nй perт degno
d'un tanto guiderdone unqua si tenne.
Turno, poscia che 'l vide (che da lunge
lo scтrse) con un dardo il giunse in prima:
indi a terra gittossi: e qual trovollo
di giа caduto e moribondo, il piede
sopr'al collo gl'impresse, e ne la strozza
lo suo stesso pugnal cacciogli, e disse:
«Troiano, ecco l'Italia, ecco i suoi campi,
che tanto desпasti: or gli misura
costн giacendo. E questo si guadagna
chi contra a Turno ardisce; e 'n questa guisa
si fondan le cittа». Dietro a costui
Bute, e di mano in man Darete, Cloro
e Sнbari e Tersнloco e Timete
lanciando, uccise. Ma Timete in terra
ferн, che per sinistro o per difetto
d'un suo restio cavallo era caduto.
Qual sopra al grande Egeo sonando scorre
il tracio Bora, che le nubi e i flutti
si sgombra avanti; e questi ai lidi, e quelle
a l'orizzonte in fuga se ne vanno:
tal per lo campo, ovunque si rivolge,
fa Turno sgominar l'armi e le schiere;
e tal seco ne va furia e spavento,
che financo al cimier morte minaccia.
Fegиo, tanta fierezza e tanto orgoglio
non sofferendo, al concitato carro
parossi avanti, e lievemente un salto
spiccando, con la destra al fren s'appese
del sinistro corsiero. E sн com'era
da la fuga rapito e da la forza
di tutti insieme, insiememente a tutti
(dal sentier divertendoli e dal corso)
facea storpio e disturbo. Ed ecco al fianco
che da la destra parte era scoperto,
cotal sentissi de la lancia un colpo
che la corazza ancor che doppia e forte,
stracciogli, e 'n fino al vivo lo trafisse
ma di lieve puntura. Ond'ei rivolto,
e 'mbracciato lo scudo e stretto il brando,
contra gli s'affilava, e per soccorso
gridava intanto. Ma la ruota e l'asse
ch'erano in moto, urtandolo, a rovescio
gittвrlo, e Turno immantinente addosso
sagliendogli, infra l'elmo e la gorgiera
il collo gli recise, e dal suo busto
tronco il capo lasciogli in su l'arena.
Mentre cosн vincendo e d'ogni parte
con tanta strage il campo trascorrendo
se ne va Turno; Enea dal fido Acate,
da Memmo e dal suo figlio accompagnato
(come da la saetta era ferito),
sovr'un'asta appoggiato, a lento passo
verso gli alloggiamenti si ritragge.
Ivi contro a lo stral, contro a se stesso
s'inaspra e frange il tиlo, di sua mano
ripesca il ferro. e poi che indarno il tenta,
comanda che la piaga gli s'allarghi
con altro ferro, e d'ogn'intorno s'apra,
sн che tosto dal corpo gli si svelga,
e tosto alla battaglia se ne torni.
Comparso intanto era a la cura Iapi
d'Iдso il figlio, sovr'ogn'altro amato
da Febo. E Febo stesso, allor ch'acceso
era da l'amor suo, la cetra e l'arco
e 'l vaticinio, e qual de l'arti sue
piъ l'aggradasse, a sua scelta gli offerse.
Ei che del vecchio infermo e giа caduco
suo padre la salute e gli anni amava,
saper de l'erbe la possanza, e l'uso
di medicare elesse, e senza lingua
e senza lode e del futuro ignaro
mostrarsi in pria, che non ritorre a morte
chi li diи vita. A la sua lancia Enea
stava appoggiato, e fieramente acceso
fremendo, avea di giovani un gran cerchio
col figlio intorno, al cui tenero pianto
punto non si movea. Sbracciato intanto
e con la veste e la cintura avvolta,
qual de' medici и l'uso, il vecchio Iapi
gli era d'intorno; e con diverse pruove
di man, di ferri, di liquori e d'erbe
invan s'affaticava, invano ogn'opra,
ogn'arte, ogni rimedio, e i preghi e i vуti
al suo maestro Apollo eran tentati.
De la battaglia rinforzava intanto
lo scompiglio e l'orrore; e giа 'l periglio
s'avvicinava; giа di polve il cielo,
di cavalieri il campo era coverto;
che fin dentro a' ripari e fra le tende
ne cadevano i dardi; e giа da presso
s'udian de' combattenti e de' caduti
i lamenti e le grida. Il caso indegno
d'Enea suo figlio, e 'l suo stesso dolore
in sй Ciprigna e nel suo cor sentendo,
ratto v'accorse, e fin di Creta addusse
di dittamo un cespuglio, che recente
di sua man cтlto, era di verde il gambo,
di tenero le foglie, e d'ostro i fiori
tutto consperso e rugiadoso ancora.
Quest'erba per natura ai capri и nota,
e da lor cerca allor che 'l tergo o 'l fianco
ne van di dardo o di saetta infissi.
Con questa Citerиa per entro un nembo
ne venne ascosa, e col salubre sugo
d'ambrosia e d'odorata panacea
mischiolla, e poscia i tiepidi liquori
ch'eran giа presti in tal guisa ne sparse,
che nпun se n'avvide. E n'ebbe a pena
la piaga infusa, che l'angoscia e 'l duolo
cessт repente, il sangue d'ogni parte
de la ferita in fondo si raccolse,
e seguendo la mano, il ferro stesso
come da sй n'uscio. Spedito e forte,
e nel pristino suo vigor ridotto,
Enea dritto levossi. Iдpi il primo:
«A che, - disse, - badate? e perchй l'arme
tosto non gli adducete?» Indi a lui vтlto,
contro a' nemici in tal guisa infiammollo:
«Enea, non и, non и per possa umana
o per umano avviso o per mia cura
questo avvenuto. Un dio, certo un gran dio
a gran cose ti serba». In questo mezzo
ei, giа di pugna desпoso, entrambi
s'avea gli stinchi di dorata piastra,
il dorso di lorica, e la sinistra
di scudo armata. E giа l'asta squassando,
d'indugio impazпente, in su la soglia
tanto sol de la tenda si ritenne,
che, sн com'era di tutt'armi involto,
il caro Iulo caramente accolse,
e con le labbia a pena entro l'elmetto
baciollo, e disse: «Figlio mio, da me
la sofferenza e la virtute impara;
la fortuna dagli altri. Io, quel che posso
or con questa mia destra ti difendo:
onor, grandezza e signoria t'acquisto
col sangue mio. Tu poi, quando maturi
fian gli anni tuoi, fa che d'Enea tuo padre
e d'Ettore tuo zio sн ti rammenti,
che ti sian le fatiche e i gesti loro
a gloria ed a vertute esempi e sproni».
Detto cosн, fuor de le porte uscendo,
brandн la lancia, e tutti in un drappello
ristrinse i suoi. Memmo ed Antиo con esso,
e quanti altri del vallo erano in prima
lasciati a guardia, il vallo abbandonando,
dietro gli s'inviaro. Allor di polve
levossi un nembo, e d'ogn'intorno scossa
al calpitar de' piи tremт la terra.
Turno di sopra un argine mirando,
questa gente venir si vide incontro.
Viderla, e ne temero e ne tremaro
gli Ausoni tutti. Udinne il suon da lunge
Iuturna in prima, e per timore indietro
se ne ritrasse. Enea volando, al campo
spinse lo stuol, che polveroso e scuro
tal se n'andт qual d'alto mare a terra
squarciato nembo, quando, ohimи! che segno
e che spavento, e che ruina apporta
ai miseri coloni! e quanta strage
agli alberi, a le biade, a la vendemmia
se ne prepara! e qual se n'ode intanto
sonar procella, e venir vento a riva!
Cotal contro a' nemici il teucro duce
co' suoi, come in un gruppo insieme uniti,
entrт ne la battaglia. Al primo incontro
Osiri, Archezio, Ufente ed Epulone
ne gir per terra. Acate e Memmo e Gia
e Timbrиo gli affrontaro, e ciascun d'essi
atterrт 'l suo. Cadde Tolunnio appresso,
l'augure che primiero il dardo trasse
nel turbar de l'accordo. Al suo cadere
tutto in un tempo empiessi il ciel di grida,
la campagna di polve; e vтlti in fuga
se ne giro i Latini. Enea sdegnando
e di seguire e d'incontrar qual fosse
pedone o cavalier, che o lunge o presso
di provocarlo e di ferirlo osasse,
sol di Turno cercando iva per entro
quella densa caligine, e 'l suo nome
solamente gridando, a la battaglia
lo disfidava. Impaьrita e mesta
di ciт Iuturna, la virago ardita,
tosto di Turno al carro appropinquossi,
e giъ Metisco, il suo fedele auriga,
subito trabocconne. Ed ella in vece
e 'n sembianza di lui, lui stesso al corpo,
a l'armi, a la favella, ad ogni moto
rassomigliando, in seggio vi si pose,
e ne prese le redini, e lo resse.
Qual ne va negra rondine alпando
per le case de' ricchi, allor che piume
e fuscelletti al cominciato nido
quinci e quindi rauna, o picciol'esca
a' suoi loquaci pargoletti adduce;
che sotto a' porticali e sopra l'acque,
e per gli atri volando e per le sale
or alto or basso si travolve e gira;
cotal Iuturna il campo attraversando
per ogni parte si spingea col carro
e co' destrieri infra i nemici a volo,
sovente a loco a loco il suo fratello
vincitor dimostrando, e non soffrendo
che punto dimorasse, o ch'a rincontro,
o pur vicino al gran Teucro ne gisse.
Enea da l'altro canto incontro a lui
volgendo, e rivolgendo, e fra le schiere
cosн com'eran dissipate e sparse
indarno ricercandolo, il chiamava
ad alta voce. E mai gli occhi non torse
ov'ei si fusse, e dietro non gli mosse,
ch'ella co' suoi corsieri in piъ diversa
e piъ lontana parte non fuggisse.
Or che farа, ch'ogni pensiero, ogni opra,
ogni disegno gli rпesce invano?
e i pensier son diversi? Ecco Messapo,
che per lo campo discorrendo intanto
d'improvviso l'incontra. E sн com'era
d'una coppia di dardi a la leggiera
ne la sinistra armato, un ne gli trasse
dritto sн che feria; se non ch'Enea
gli fece schermo, e rannicchiato e stretto
chinossi alquanto. E pur ne l'elmo il colse
e 'l cimier ne divelse. Irato surse;
e poichй da' nemici attorneggiato
si vide, e che i cavalli eran di Turno
di giа spariti, a Giove, ai sacri altari
del vпolato accordo e de l'insidie
molto si protestт: poscia tra loro
gittossi impetuoso, e strazio e strage
prosperamente, ovunque si rivolse,
ne fece a tutto corso; e senza freno
si diede a l'ira ed a la furia in preda.
Or qual nume sarа ch'a dir m'aнti
le tante occisпoni e sн diverse
che di duci e di schiere e di falangi
fecer quel giorno, Enea da l'una parte,
Turno da l'altra? Ah, Giove, sн crudele,
sн sanguinosa guerra infra due genti
che saran poscia eternamente in pace?
Enea Sucrone, un de' piъ forti Ausoni
occise in prima, e primamente i Teucri
fermт, ch'eran da lui rivolti in fuga.
L'incontrт, lo ferн, senza dimora
morto a terra il gittт; ch'in un de' fianchi
con la spada lo colse, e ne le coste
e ne la vita stessa ne gl'immerse.
Turno a piи dismontato, Аmico in terra,
che da cavallo era caduto, infisse:
e seco il frate suo Dпoro estinse.
L'un di lancia ferн, l'altro di brando;
e d'ambi i capi dai lor tronchi avulsi,
sн com'eran di polvere e di sangue
stillanti e lordi, per le chiome appesi
anzi al carro si pose. E via seguendo
quegli Talone e Tаnai e Cetиgo
tre feroci Latini ad un assalto
si stese avanti, e 'l mesto Onite appresso
figlio di Peridнa, gloria di Tebe.
E tre dal canto suo questi n'ancise
ch'eran fratelli de la Licia usciti
e de' campi d'Apollo; a cui per quarto
Menete aggiunse. Ah, come il fato indarno
si fugge! Infin d'Arcadia fu costui
qui condotto a morire. E 'n su la riva
era nato di Lerna, ove pescando,
da l'armi, da le corti e da' palagi
si tenea lunge; e solo il suo tugurio
avea per reggia, e per signore il padre,
povero agricoltor de' campi altrui.
Come due fochi in due diverse parti
d'un secco bosco accesi, ardon sonando
le querce e i lauri; o due rapidi e gonfi
torrenti che nel mar dagli alti monti
precipitando, se ne va ciascuno
il suo cammino aprendo, e ciт che truova
si caccia avanti e rumoreggia e spuma;
cosн per la campagna, ambi fremendo,
le schiere sgominando, e questi e quelli
atterrando ne gian, da l'una parte
Enea, Turno da l'altra. Or sн che d'ira,
or sн che di furor si bolle e scoppia,
e con tutte le forze a ferir vassi;
chй l'esser vinto, e non la morte и morte.
E qui Murrano (un che superbo e gonfio,
del nome e de l'origine vantando
se ne gia degli antichi avi e bisavi
latini regi) fu d'un balzo a terra
da la furia d'Enea spinto e travolto;
sн che di lui, del carro e de le ruote
fatto un viluppo, i suoi stessi cavalli,
il signore oblпando, incrudelоrsi,
e sotto al giogo e sotto ai calci accolto
l'infranser, lo pigiвr, lo strascinaro
e l'ancisero alfine. Ilo, che fiero
e minaccioso avanti gli si fece,
seguн Turno a ferir di dardo, in guisa
che de l'elmetto la dorata piastra
e le tempie e 'l cerиbro gli trafisse.
Nй tu, Crиteo, di man di Turno uscisti,
perchй de' piъ robusti e de' piъ forti
fosti de' Greci. Nй di man d'Enea
scampвr Cupento i suoi numi invocati:
chй nel petto ferillo, e non gli valse
lo scudo che di bronzo era coverto.
E tu che contra a tante argive schiere
e contra al domator di Troia Achille,
Eцlo, non cadesti, in questi campi
fosti, qual gran colosso, a terra steso.
Ma che? Quest'era il fin de' giorni tuoi:
qui cader t'era dato. Appo Lirnesso
altamente nascesti: appo Laurento
umil sepolcro avesti. Eran giа tutti
quinci i Latini e quindi i Teucri a fronte,
e tra lor mescolati Asila e Memmo,
e Seresto e Messapo, e le falangi
degli Arcadi e de' Toschi, ognun per sй,
e tutti insieme con estrema possa,
con estremo valor senza riposo
facean mortale e sanguinosa mischia.
Qui nel pensiero al travagliato figlio
pose Ciprigna di voltar le schiere
subitamente a le nimiche mura,
e con quel nuovo, inopinato avviso
assalir, disturbare, e l'oste insieme
e la cittа por de' Latini in forse.
E sн come, di Turno investigando,
volgea le luci in questa parte e 'n quella,
vide Laurento che non tocco ancora
stava da tanta guerra immune e scevro.
E da l'occasпon subitamente
preso consiglio, a sй Memmo, Seresto
e Sergesto chiamando, indi vicino
sovr'un colle si trasse, ove de' Teucri
a mano a man si raunвr le schiere.
E sн come raccolti, armati e stretti
s'eran giа fermi, in mezzo alto levossi
e cosн disse: «Udite, e senza indugio
fate quel ch'io dirт. Giove и con noi.
E perchй sн repente io mi risolva
a questa impresa, non perт di voi
alcun sia che men pronto vi si mostri.
Oggi o che re Latino al nostro impero
converra ch'obbedisca e freno accetti;
o che questa cittа, seme e cagione
di questa guerra, e questo regno tutto
a foco, a ferro ed a ruina andranne.
E che deggio aspettar? Che non piъ Turno
fugga, si come fa, la pugna mia?
E che vinto una volta, si contenti
di combattere un'altra? Il capo e 'l fine,
cittadin miei, di questa guerra и questo.
Via, col foco a le mura, e con le fiamme
ne vendichiam del vпolato accordo».
Avea ciт detto, quando ognuno a gara
e tutti insieme inanimati e stretti
di conio in guisa, qual intera massa,
appressвr la cittа. Vi furon preste
le scale e 'l foco. Altri assalоr le porte,
e questi e quelli occisero e cacciaro,
come pria s'abbattero. Altri lanciando
oppugnвr la muraglia; onde levossi
di terra un nembo che fece ombra al sole.
Enea sotto le mura attorneggiato
da' primi suoi, la destra alto e la voce
levando, or con Latino or con gli dиi
si protestava, che due volte a l'armi
era forzato e che due volte il patto
gli si turbava. I cittadini intanto
facean tumulto. E chi volea che dentro
si chiamassero i Teucri e che le porte
fossero aperte, il re fin su le mura
a ciт traendo;, e chi l'armi gridando
s'apprestava a difesa. Era a vederli
qual и di pecchie entro una cava rupe
accolto sciame allor che dal pastore
d'amaro fumo и la caverna offesa;
che trepide, confuse e d'ira accese,
per l'incerate fabbriche travolte,
discorrendo e ronzando se ne vanno:
al cui stridor l'affumigata grotta
mormora, e tetro odore a l'aura esala.
In questo tempo un infortunio orrendo,
timor, confusпone e duolo accrebbe
agli afflitti Latini, e pose in pianto
il popol tutto: e fu che la reina,
visto da lunge incontro a la cittade
venire i Teucri, e giа le faci e l'armi
volar per entro, e piъ nulla sentendo
o vedendo de' Rutuli o di Turno,
onde aнta o speranza le venisse,
si credй la meschina che giа l'oste
fosse sconfitto, e, 'l genero caduto,
ogni cosa in ruina. E presa e vinta
da sъbito dolore, alto gridando:
«Ah! ch'io la colpa, - disse - io la cagione,
io l'origine son di tanto male».
E dopo molto affliggersi e dolersi,
giа furпosa e di morir disposta,
il petto aprissi, e la purpurea veste
si squarciт, si percosse, e dell'infame
nodo il collo s'avvinse, e strangolossi.
Udito il caso, la diletta figlia
i biondi crini e le rosate guance
prima si lacerт, poscia la turba
v'accorse de le donne, e di tumulto,
di pianti, di stridori e d'ululati
la reggia tutta e la cittade empiessi.
Ognun si sgomentт. Latino, afflitto
de la morte d'Amata e del periglio
del regno tutto, lanпossi il manto,
bruttossi il bianco e venerabil crine
d'immonda polve; amaramente pianse
che per suocero dianzi e per amico
non si confederт col frigio duce.
Turno, che in questo mezzo combattendo
rimaso era del campo in su l'estremo
incontro a pochi, e quelli anco dispersi,
giа scemo di vigore, e trasportato
da' suoi cavalli, che ritrosi e stanchi
ognor piъ se n'andavano lontani,
in sй confuso e dubbio se ne stava.
Quando ecco di Laurento ode le grida
con un terror che, non compreso ancora,
gli avea da quella parte il vento addotto.
Porse l'orecchie, e 'l mormorio sentendo
de la cittа, che tuttavia piъ chiaro
di tumulto sembrava e di travaglio:
«Oh, - disse, - che sent'io? che novitate
e che rumore e che trambusto и questo
che di dentro mi fиre?». E, quasi uscito
di sй, mirando ed ascoltando stette.
Cui la sorella (come giа conversa
era in Metisco, e come i suoi cavalli
stava reggendo) si rivolse, e disse:
«Di qua, Turno, di qua. Quinci la strada
ne s'apre a la vittoria. Altri a difesa
saran de la cittа. Se d'altra parte
Enea de' tuoi fa strage, e tu da questa
distruggi i suoi, che mon men gloria aremo,
e piъ sangue faremo». E Turno a lei:
«O mia sorella! (che mia suora certo
sei tu) ben ti conobbi infin da l'ora
che turbasti l'accordo, e che poi meco
ne la battaglia entrasti. Or, benchй dea,
indarno mi t'ascondi. E chi dal cielo
cosн qua giъ ti manda a soffrir meco
tante fatiche? A veder forse a morte
gir tuo fratello? E che, misero! deggio
far altro mai? qual mi si mostra altronde
o salute o speranza? Io stesso ho visto
con gli occhi miei, lo mio nome chiamando,
cadere il gran Murrano. E chi mi resta
di lui piъ fido e piъ caro compagno?
E 'l magnanimo Ufente anco и perito,
credo, per non veder le mie vergogne:
e 'l corpo e le armi sue, lasso! in potere
son de' nemici. E soffrirт (chй questo
sol ci mancava) di vedermi avanti
aprir le mura, e ruinare i tetti
de la nostra cittа? Nй fia che Drance
menta de la mia fuga? E fia che Turno
volga le spalle, e quella terra il vegga?
Sн gran male и morire? inferni dii,
accoglietemi voi, poichй i superni
mi sono infesti. A voi di questa colpa
scenderт spirto intemerato e santo,
e non sarт de' miei grand'avi indegno».
Ciт disse a pena; ed ecco a tutta briglia
venir per mezzo a le nemiche schiere
un cavalier che Sage era nomato.
Di spuma e di sudore il suo cavallo,
e di sangue era sparso. In volto infissa
portava una saetta, e con gran furia
Turno chiamando e ricercando andava.
Poscia che 'l vide: «In te, - disse, - и riposta
ogni speranza: abbi pietа de' tuoi.
Enea va come un folgore atterrando
tutto ciт che davanti gli si para;
e le mura e le torri e 'l regno tutto
di ruinar minaccia; e giа le faci
volano ai tetti. A te gli occhi rivolti
son de' Latini. E giа Latino stesso
vacilla, e fra due stassi a qual di voi
s'attenga, e di cui suocero s'appelli.
La regina che solo era sostegno
de la tua parte, di sua propria mano,
per timore e per odio de la vita,
s'и strangolata. Solamente Atina
e Messapo a difesa de le porte
fan testa; ma gli vanno i Teucri a schiere
con tant'aste a rincontro e tante spade
serrati insieme, quante a pena in campo
non son le biade. E tu per questa vтta
e deserta campagna il carro indarno
spingendo e volteggiando te ne stai?»
Turno da tante orribili novelle
sopraggiunto in un tempo e spaventato,
si smagт, s'ammutн, col viso a terra
chinossi. Amor, vergogna, insania e lutto
e dolore e furore e coscпenza
del suo stesso valore accolti in uno,
gli arsero il core e gli avvamparo il volto.
Ma poscia che gli fu la nebbia e l'ombra
de la mente sparita, e che la luce
gli si scoprн de la ragione in parte:
cosн com'era ancor turbato e fero,
di sopra al carro a la cittа rivolse
l'ardente vista. Ed ecco in su le mura
vede che una gran fiamma al cielo ondeggia,
gli assiti, i ponti e le bertesche ardendo
d'una torre ch'a guardia era da lui
de la muraglia in su le ruote eretta.
E disse: «Giа, sorella, giа son vinto
dal mio destino. A che piъ m'attraversi?
Via, dove la fortuna e dio ne chiama!
Fermo son di venir col Teucro a l'armi,
e soffrir de la pugna e de la morte
ogni acerbezza, anzi che tu mi vegga
de la gloria de' miei, sorella, indegno.
Or al fato mi lascia e sostien ch'io
disfoghi infurпando il mio furore».
Cosн dicendo, fuor del carro a terra
gittossi incontinente, e la sirocchia
lasciando afflitta, via per mezzo a l'armi
e per mezzo a' nemici a correr diessi.
Qual di cima d'un monte in precipizio
rotolando si volge un sasso alpestro,
che dal vento o dagli anni o da la pioggia
divelto, per le piagge a scosse, a balzi
vada senza ritegno, e de le selve
e degli armenti e de' pastori insieme
meni guasto, ruina e strage avanti;
tal per l'opposte e sbaragliate schiere
se ne gia Turno. E giunto ove in cospetto
de la cittа di molto sangue il campo
era giа sparso, e pien di dardi il cielo,
alzт la mano, e con gran voce disse:
«State, Rutuli, a dietro; e voi, Latini,
toglietevi da l'armi. Ogni fortuna,
qual ch'ella sia di questa pugna, и mia.
A me la colpa, a me si dee la pena
del vпolato accordo: a me per tutti
pugnar debitamente si conviene».
A questo dir di mezzo ognun si tolse,
ognun si ritirт. Di Turno il nome
Enea sentendo, il cominciato assalto
dismise e da le mura e da le torri
e da tutte l'imprese si ritrasse.
Per letizia esultт, terribilmente
fremй, si rassettт, si vibrт tutto
nell'armi, e 'n sй medesmo si raccolse;
quanto il grand'Ato, o 'l grand'Erice a l'aura
non sorge a pena, o 'l gran padre Appennino,
allor che d'elci la fronzuta chioma
per vento gli si crolla, e che di neve
gioioso alteramente s'incappella.
I Rutuli, i Latini, i Teucri, e tutti
o ch'a la guardia o ch'a l'offesa in prima
fosser de la muraglia, ognuno a gara
l'armi deposte, a rimirar si diкro.
Latino esso re stesso spettatore
ne fu con meraviglia, ch'anzi a lui
altri due re sн grandi, e di due parti
del mondo sн diverse e sн remote,
fosser de l'armi al paragon venuti.
Eglino, poichй largo e sgombro il campo
ebber davanti, non si fur da lunge
veduti a pena, che correndo entrambi
mosser l'un contra l'altro. I dardi in prima
s'avventвr di lontano, indi s'urtaro;
e 'l tonar degli scudi e 'l suon degli elmi
fe' la terra tremare, e l'aura ai colpi
fischiт de' brandi. La fortuna insieme
si mischiт col valore. In cotal guisa
sopra al gran Sila o del Taburno in cima,
d'amore accesi, con le fronti avverse
van due tori animosi a riscontrarsi;
che pavidi in disparte se ne stanno
i lor maestri, s'ammutisce e guarda
la torma tutta, e le giovenche intanto
stan dubbie a cui di lor marito e donno
sia de l'armento a divenir concesso:
ed essi urtando, con le corna intanto
si dan ferite, che le spalle e i fianchi
ne grondan sangue, e ne rimugghia il bosco;
tal del troiano e dell'ausonio duce
era la pugna e tal de le percosse
e degli scudi il suono. A questo assalto
il gran Giove nel ciel librate e pari
tenne le sue bilance, e d'ambi il fato,
contrapesando, attese a qual di loro
desse la sua fatica e 'l suo valore
de la vittoria o de la morte il crollo.
Qui Turno a tempo, che sicuro e destro
gli parve, alto levossi, e con la spada
di tutta forza a l'avversario trasse,
e ne l'elmo il ferн. Gridaro i Teucri,
trepidaro i Latini, e sgomentвrsi
tutte d'ambi gli eserciti le schiere.
Ma la perfida spada in mezzo al colpo
si ruppe, e 'n sul fervore abbandonollo,
sн che la fuga in sua vece gli valse:
ch'a fuggir diessi, tosto che la destra
disarmata si vide, e che da l'else
l'arme conobbe che la sua non era.
И fama che da l'impeto accecato,
allor che prima a la battaglia uscendo
giunse Turno i cavalli e 'l carro ascese,
per la confusпone e per la fretta
lasciato il patrio brando, a quel di piglio
diи per disavventura, che davanti
gli s'abbattй del suo Metisco in prima.
E questo, fin che dissipati e rotti
n'andaro i Teucri, assai fedele e saldo
lungamente gli resse. Ma venuto
con l'armi di Vulcano a paragone
(come quel che di mano era costrutto
di mortal fabbro) mal temprato e frale,
qual di ghiaccio, si franse e ne la sabbia
ne rifulsero i pezzi. E cosн Turno
fuggendo, or quinci or quindi per lo campo,
qual forsennato, indarno s'aggirava,
d'ogni parte rinchiuso; che da l'una
lo serravano i Frigi e la palude,
e 'l fosso e la muraglia era da l'altra,
e non men ch'ei fuggisse, il teucro duce
(come che da la piaga ancor tardato
fosse de la saetta, e le ginocchia
si sentisse ancor fiacche) il seguitava.
L'ardente voglia, e la speranza eguale
a la tйma di lui, sн lo spingea,
che giа giа gli era sopra, e giа 'l feria.
Cosн cervo fugace o da le ripe
chiuso d'un alto fiume, o circondato
da le vermiglie abbominate penne,
se da veltro и cacciato o da molosso
che correndo e latrando lo persegua,
di qua di lui, di lа del precipizio
temendo e degli strali e degli agguati,
fugge, rifugge, si travolge e torna
per mille vie; nй dal feroce alano
и perт meno atteso e men seguнto,
che mai non l'abbandona; e giа gli и presso
a bocca aperta, e giа par che l'aggiunga,
e 'l prenda e 'l tenga, e come se 'l tenesse,
schiattisce, e 'l vento morde, e i denti inciocca.
Allor le grida alzвrsi, a cui le rupi
de' monti e i laghi intorno rispondendo,
l'aria e 'l ciel tutto di tumulto empiero.
Mentre cosн fuggia Turno, gridando
e rampognando i suoi, del proprio nome
ciascun chiamava, e 'l suo brando chiedea.
Enea da l'altra parte, minacciando
a tutti unitamente ed a qualunque
di sovvenirlo e d'appressarlo osasse,
che faria delle genti occisпone
senza pietа, ch'a sacco, a ferro, a foco
metteria la cittade e 'l regno tutto,
sн com'era ferito, il seguitava.
Cinque volte girando il campo tutto,
e cinque rigirando, e molte e molte
di qua di lа correndo, imperversaro;
chй non per gioco, non per lieve acquisto
d'onor, ma per l'imperio, per lo sangue,
per la vita di Turno era il contrasto.
Per sorte in questo loco anticamente
era a Fauno sacrato un oleastro
d'amare foglie, venerabil legno
a' naviganti che dal mare usciti
a salvamento, al tronco, ai rami suoi
lasciavano i lor vуti e le lor vesti
a questo dio de' Laьrenti appese.
Non ebbero i Troiani a questo sacro
piъ ch'agli altri profani arbori o sterpi
alcun riguardo; onde con gli altri tutti
lo distirpвr, perchй netto e spedito
restasse il campo al marzпale incontro.
De l'oleastro in loco era caduta
l'asta d'Enea: qui l'impeto la trasse;
qui si tenea tra le sue barbe infissa.
E qui per ricovrarla il teucro duce
chinossi, e per far pruova se con essa
lanciando lo fermasse almen da lunge,
poi ch'appressar correndo nol potea.
Allor per tйma in sй Turno confuso:
«Abbi, Fauno, di me cura e pietate, -
disse, pregando, - e tu, benigna terra,
sii del suo ferro a mio scampo tenace,
se i vostri sacrifici e i vostri onori
io mai sempre curai, che pur da' Frigi
son cosн vilipesi e profanati».
Ciт disse, e non fu 'l detto e 'l vуto in vano:
ch'Enea molta fatica e molto indugio
mise intorno al suo tиlo, nй con forza,
nй con industria alcuna ebbe possanza
mai di sferrarlo. Or mentre vi s'affanna
e vi studia e vi suda, ecco Iuturna
un'altra volta ne lo stesso auriga
mutata gli si mostra, e la sua spada
al fratello appresenta. E d'altra parte
Venere, disdegnando che la ninfa
cotanto osasse, incontinente anch'ella
accorse al figlio, e l'asta gli divelse.
Cosн d'arme, di speme e d'ardimento
ambidue rinforzati, e l'un del brando,
l'altro de l'asta altero, un'altra volta
a vittoria anelando s'azzuffaro.
Stava Giuno a mirar questa battaglia
sovr'un nembo dorato, allor che Giove
cosн le disse: «E che faremo alfine,
donna? E che far ci resta? Io so che sai,
e tu l'affermi, che da' fati Enea
si deve al cielo, e che tra noi s'aspetta.
Ch'agogni piъ? Che macchini, e che speri?
A che tra queste nubi or ti ravvolgi?
Convenevol ti sembra e degna cosa
che mortal ferro a vпolar presuma
un che fia Divo? E ti par degno e giusto
ch'a Turno in man la spada si riponga
quando egli stesso la si tolse e ruppe?
E l'avria senza te Iuturna osato,
non che potuto, a crescer forza ai vinti?
Togliti giъ da questa impresa omai,
togliti; e me, che te ne prego, ascolta:
nй soffrir che 'l dolor, ch'entro ti rode,
cangiando il dolce tuo sereno aspetto,
sн ti conturbi, e sн spesso cagione
mi sia d'amaritudine e di noia.
Quest'и l'ultima fine. Assai per mare,
assai per terra hai tu fin qui potuto
a vessare i Troiani, a muover guerra
cosн nefanda, a scompigliar la casa
del re Latino, e 'ntorbidar le nozze,
sн come hai fatto. Or piъ tentar non lece;
ed io tel vieto». E qui Giove si tacque.
Abbassт 'l volto, ed umilmente a lui
cosн Giuno rispose: «Io, perchй noto
m'и, signor mio, questo tuo gran volere,
ancor contra mia voglia abbandonata
ho l'aнta di Turno, e qui da terra
mi son levata. Che se ciт non fosse,
me cosн solitaria non vedresti,
com'or mi vedi, in queste nubi ascosa,
e disposta a soffrir tutto ch'io soffro
degno e non degno; ma di fiamme cinta
mi rimescolerei per la battaglia
a danno de' Troiani. Io, solo in questo,
tel confesso, a Iuturna ho persьaso
ch'al suo misero frate in sн grand'uopo
non manchi di soccorso, e ch'ogni cosa
tenti per la salute e per lo scampo
de la sua vita. E non perт le dissi
giammai che l'arco e le saette oprasse
incontr'Enea. Tel giuro per la fonte
di Stige, quel ch'a noi celesti numi
solo и nume implacabile e tremendo.
Ora per obbedirti e perchй stanca
di questa guerra e fastidita io sono,
cedo e piъ non contendo. E sol di questo
desio che mi compiaccia (e questo al fato
non и soggetto), che per mio contento,
per onor de' Latini, per grandezza
e maestа de' tuoi, quando la pace,
l'accordo e 'l maritaggio fia conchiuso
(che sia felicemente), il nome antico
di Lazio e de le sue native genti,
l'abito e la favella non si mute:
nй mai Teucri si chiamino e Troiani.
Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani
sian d'Alba i regi, e la romana stirpe
d'italica virtъ possente e chiara.
Poichй Troia perн, lascia che pиra
anco il suo nome». A ciт Giove sorrise,
e cosн le rispose: «Ah! sei pur nata
ancor tu di Saturno, e mia sorella,
e consenti che l'ira e l'acerbezza
cosн ti vinca? Or, come follemente
la concepisti, il cor te ne disgombra
omai del tutto. E tutto io ti concedo
che tu domandi, e vinto mi ti rendo.
La favella, il costume e 'l nome loro
ritengansi gli Ausoni, e solo i corpi
abbian con essi i Teucri uniti e misti.
D'ambedue questi popoli i costumi,
i riti, i sacrifici in uno accolti,
una gente farт ch'ad una voce
Latini si diranno. E quei che d'ambi
nasceran poi, sovr'a l'umana gente,
si vedran di possanza e di pietade
girne a' celesti eguali; e non mai tanto
sarai tu cуlta e riverita altrove».
Di ciт Giuno appagossi, e lieta e mite
giа verso i Teucri, al ciel fece ritorno.
Giove poscia Iuturna da l'aнta
distor pensт di suo fratello, e 'l fece
in questa guisa. Due le pиsti sono,
che son Dire chiamate, al mondo uscite
con Megera ad un parto, a lei sorelle,
figlie a la Notte, e di Cocito alunne,
che d'aspi han parimente irte le chiome,
e di ventose bucce i dorsi alati.
Queste di Giove al tribunale intorno,
e de la sua gran reggia anzi la soglia
si presentano allor che pena e pиsti
e morti a noi mortali, e guerre a' luoghi
che ne son meritevoli apparecchia.
Una di loro a terra immantinente
spinse il padre celeste, onde Iuturna
de la fraterna morte augurio avesse.
Mosse la Dira, e di tempesta in guisa
ch'impetьosamente trascorresse,
volт come saetta che da Parto,
e da Cidone avvelenata uscisse,
e, non vista, ronzando e l'ombre aprendo,
ferita immedicabile portasse.
Giunta lа 've di Turno e de' Troiani
vide le schiere, in forma si ristrinse
subitamente di minore augello,
ed in quel si cangiт che da' sepolcri
e dagli antichi e solitari alberghi
funesto canta, e sol di notte vola.
Tal divenuta, a Turno s'appresenta,
gli ulula, gli svolazza, gli s'aggira
molte volte d'intorno; e fin con l'ali
lo scudo gli percuote, e gli fa vento.
Stupн, si raggricciт, muto divenne
Turno per la paura. E la sorella,
tosto che lo stridor sentinne e l'ali,
le chiome si stracciт, graffiossi il volto,
e con le pugna il petto si percosse:
«Or che - dicendo - omai, Turno, piъ puote
per te la tua germana? E che piъ resta
a far per lo tuo scampo, o per l'indugio
de la tua morte? E come a cotal mostro
oppor mi posso io piъ? Giа giа mi tolgo
di qui lontano. A che piъ spaventarmi?
Assai di tйma, sventurato augello,
nel tuo venir mi dйsti. E ben conosco
a i segni del tuo canto e del tuo volo
quel che m'apporti. E non punto m'inganna
il severo precetto del Tonante.
E perchй vita mi concesse eterna?
Perchй 'l morir mi tolse? Acciт morendo
non finisse il mio duolo? Acciт compagna
gir non potessi al misero fratello?
Immortal io? Che valmi? E che mi puote
ne l'immortalitа parer soave
senza il mio Turno? Or qual mi s'apre terra
che seco mi riceva e mi rinchiugga
tra l'ombre inferne; e non piъ ninfa e dea
ma sia mortale e morta?» E cosн detto,
grama e dolente, di ceruleo ammanto
il capo si coverse. Indi correndo
nel suo fiume gittossi, ove s'immerse
infino al fondo, e ne mandт gemendo
in vece di sospir gorgogli a l'aura.
Intanto il suo gran tиlo Enea vibrando
col nimico s'azzuffa, e fieramente
lo rampogna, e gli dice: «Or qual piъ, Turno,
farai tu mora, o sotterfugio, o schermo?
Con l'armi, con le man, Turno, e da presso,
non co' piи si combatte e di lontano.
Ma fuggi pur, dileguati, trasmutati,
unisci le tue forze e 'l tuo valore,
vola per l'aria, appiattati sotterra,
quanto puoi t'argomenta e quanto sai,
che pur giunto vi sei». Turno, squassando
il capo: «Ah! - gli rispose - che per fiero
che mi ti mostri, io de la tua fierezza,
orgoglioso campion, punto non temo,
nй di te: degli dиi temo, e di Giove,
che nimici mi sono e meco irati».
Nulla piъ disse; ma rivolto, appresso
si vide un sasso, un sasso antico e grande
ch'ivi a sorte per limite era posto
a spartir campi e tфr lite a' vicini.
Era sн smisurato e di tal peso,
che dodici di quei ch'oggi produce
il secol nostro, e de' piъ forti ancora,
non l'avrebbon di terra alzato a pena.
Turno diegli di piglio, e con esso alto
correndo se ne gia verso il nimico,
senza veder nй come indi il togliesse,
nй come lo levasse, nй se gisse,
nй se corresse. Disnervate e fiacche
gli vacillвr le gambe, e freddo e stretto
gli si fe' 'l sangue. Il sasso andт per l'aura
sн che 'l colpo non giunse, e non percosse.
Come di notte, allor che 'l sonno chiude
i languid'occhi a l'affannata gente,
ne sembra alcuna volta essere al corso
ardenti in prima, e poi freddi in su 'l mezzo,
manchiam di lena sн ch'i piи, la lingua,
la voce, ogni potenza ne si toglie
quasi in un tempo: cosн Turno invano
tutte del suo valor le forze oprava
da la Dira impedito. Allora in dubbio
fu di se stesso, e molti per la mente
gli andaro e vari e torbidi pensieri.
Torse gli occhi a' suoi Rutuli, e le mura
mirт de la cittа: poscia sospeso
fermossi, e pauroso; sopra il tиlo
vistosi del gran Teucro, orror ne prese,
non piъ sapendo o dove per suo scampo
si ricovrasse, o quel che per suo schermo,
o per l'offesa del nimico oprasse.
Mentre cosн confuso e forsennato
si sta, la fatal asta Enea vibrando,
apposta ove colpisca, e con la forza
del corpo tutto gli l'avventa e fиre.
Macchina con tant'impeto non pinse
mai sasso, e mai non fu squarciata nube
che sн tonasse. Andт di turbo in guisa
stridendo, e con la morte in su la punta
furпosa passт di sette doppi
lo rinforzato scudo; e la corazza
aprendo, ne la coscia gli s'infisse.
Diи del ginocchio a questo colpo in terra
Turno ferito. I Rutuli gridaro:
e tal surse fra lor tumulto e pianto,
che 'l monte tutto e le foreste intorno
ne rintonaro. Allor gli occhi e la destra
alzando in atto umilmente rimesso,
e supplicante: «Io - disse - ho meritato
questa fortuna; e tu segui la tua;
chй nй vita, nй vиnia ti dimando.
Ma se pietа de' padri il cor ti tange
(chй ancor tu padre avesti, e padre sei),
del mio vecchio parente or ti sovvenga.
E se morto mi vuoi, morto ch'io sia,
rendi il mio corpo a' miei. Tu vincitore,
ed io son vinto. E giа gli Ausoni tutti
mi ti veggiono a' piи, che supplicando
mercй ti chieggio. E giа Lavinia и tua;
a che piъ contra un morto odio e tenzone?»
Enea ferocemente altero e torvo
stette ne l'arme, e vтlti gli occhi a torno,
frenт la destra; e con l'indugio ognora
piъ mite, al suo pregar si raddolciva;
quando di cima all'omero il fermaglio
del cinto infortunato di Pallante
negli occhi gli rifulse. E ben conobbe
a le note sue bolle esser quel desso,
di che Turno quel dн l'avea spogliato,
che gli diи morte; e che per vanto poscia
come nimica e glorпosa spoglia
lo portт sempre al petto attraversato.
Tosto che 'l vide, amara rimembranza
gli fu di quel ch'ei n'ebbe affanno e doglia;
e d'ira e di furore il petto acceso,
e terribile il volto: «Ah! - disse - adunque
tu de le spoglie d'un mio tanto amico
adorno, oggi di man presumi uscirmi,
sн che non muoia? Muori; e questo colpo
ti dа Pallante, e da Pallante il prendi.
A lui, per mia vendetta e per sua vittima,
te, la tua pena, e 'l tuo sangue consacro».
E, ciт dicendo, il petto gli trafisse.
Allor da mortal gelo il corpo appreso
abbandonossi; e l'anima di vita
sdegnosamente sospirando uscio.

- Fine -

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