Verga e I Malavoglia

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura
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Testo

I malavoglia

“I Malavoglia” hanno all’apparenza una struttura circolare, nel senso che il finale pare coincidere con l’inizio: il giovane Alessi si sposa con Nunziata, ritorna, così, nella casa del nespolo (la casa di famiglia), e la vita riprende con i suoi ritmi consueti. Tuttavia, inizio e fine non sono affatto sovrapponibili perché, nel frattempo, sono accadute numerose perdite: il giovane ‘Ntoni è finito in prigione, Lia è stata disonorata, è finita in una grande città e ora conduce una vita malfamata, e il patriarca, padron ‘Ntoni , che rappresentava il simbolo dell’unità famigliare, è morto nell’ospedale dei poveri.
L’interpretazione tradizionale del romanzo (quella secondo Luigi Russo) vede ne “I Malavoglia” la cosiddetta “religione della casa”: coloro che l’hanno tradita, come Lia e il giovane ‘Ntoni, non osano ritornare. Eloquente, a questo proposito, la pagina finale del romanzo: ‘Ntoni, uscito di prigione, va a rivedere per l’ultima volta la casa del nespolo in cui ora vive suo fratello Alessi (che nel frattempo ha sposato Nunziata), con la sorella Mena; alla domanda del fratello che gli chiede se vuole rimanere, risponde “tu lo sai che non posso”, come a dire che per i traditori della religione non esiste alcuna possibilità di redenzione, di riscatto. La critica moderna (quella di Luperini e Musumarra) ritiene, invece, che l’abbandono definitivo di Aci-Trezza da parte del giovane ‘Ntoni, più che l’esclusione dal piccolo eden dovuta ad un tradimento, rappresenti una vittoria, una conquista: rimanere ad Aci-Trezza significava inserirsi in un circuito di esistenza arcaico, mentre andarsene per sempre voleva dire tentare la strada del progresso. Quindi, per la critica moderna ‘Ntoni è l’unico vincitore, perché è l’unico che, sia pure con dolore, volta le spalle al vecchio mondo per inserirsi nel nuovo. Secondo la critica tradizionale, invece, l’unico vincitore era, al contrario, Alessi, perché era riuscito a ricostruire la situazione iniziale di tranquillità della famiglia e del villaggio.
Verga scrive questo romanzo quando vive a Milano e non c’è dubbio che, nella sua nostalgia di esule, Aci-Trezza può apparire come un piccolo eden, come un luogo ancora innocente, elementare, sì, ma estraneo alle ipocrisie del mondo sviluppato, del mondo cittadino, della società mondana. Il critico Masiello scrive, a questo proposito, che c’è in Verga una sorta di idoleggiamento nostalgico della sua terra, per cui lo scrittore rinuncia ad agire criticamente sulla realtà rappresentata, accettandola nella sua integralità. Certamente, questo non significa che Verga non sia consapevole della bipolarità del mondo di Aci-Trezza, nel senso che se da un lato ci sono delle figure generose, dedite al lavoro, al sacrificio (padron ‘Ntoni, compar Alfio, Nunziata,), dall’altro vi è tutto un mondo fatto di piccole avidità, di egoismi, di maldicenze. Verga sa, insomma, che Aci-Trezza non è un paradiso in terra, ma, pur con i suoi vizi e i suoi difetti, è ancora un mondo vivibile rispetto all’artifizio della società borghese.
In questo romanzo è possibile individuare due cronotopi (secondo la terminologia di Bachtin), che si alternano nel corso della narrazione: abbiamo, quindi, due modi diversi di intendere il tempo in rapporto allo spazio. Il primo cronotopo fonde un tempo circolare con lo spazio interno di Aci-Trezza. Il tempo circolare è quello che investe le azioni che si ripetono ciclicamente (la pesca, la salatura del pesce, i riti religiosi), insomma i giorni e le azioni del villaggio, che da sempre ritornano su se stesse, le cose che si ripetono quasi uguali; lo spazio è appunto lo spazio interno di Aci-Trezza. Il secondo cronotopo si fonda su un tempo lineare e sullo spazio esterno ad Aci-Trezza. Il romanzo abbraccia infatti 15 anni (dal 1863 al 1878), e descrive una serie di avvenimenti che dall’esterno investono in qualche modo anche il villaggio di pescatori (la terza guerra di indipendenza, l’arrivo del telegrafo,…).
Il canone dell’impersonalità poneva a Verga difficili problemi di lingua e di stile, peraltro già affrontati in “Vita dei campi”. Sul piano linguistico Verga adotta una lingua paradialettale che è formalmente quella italiana, ma aperta a tutte le suggestioni della parlata siciliana; ne è esempio l’uso frequente del “che” asintattico, cioè di un “che” che non svolge una funzione sintattica nella frase, ma che corrisponde al “cà” della parlata siciliana. Quanto allo stile, Verga focalizza il racconto su una pluralità di narratori popolari che esprimono l’anima del villaggio, il suo sentire; questi narratori sono condizionati dal sentire popolare che li induce a dare un valore economico ad ogni fatto, anche laddove dovrebbe prevalere il valore umano (si parla quindi di straniamento rovesciato, peraltro già visto in altre novelle). Ne troviamo un esempio all’inizio di uno dei primi capitoli del romanzo, in cui il vecchio padron ‘Ntoni scruta il mare in tempesta, in ansia per la sorte del figlio Bastianazzo; a questo proposito, commenta un narratore popolare: “che in mare lui ci aveva la barca coi lupini, e il figlio Bastianazzo, per giunta”. Notiamo, quindi, come prima ci sia la preoccupazione economica, poi la preoccupazione umana per il figlio, ma noi capiamo che il narratore è inattendibile perché non è possibile che il vecchio pensasse prima alla roba e poi al figlio (l’effetto straniante consiste nel considerare normale una cosa che non lo è: preoccuparsi della roba prima del figlio).
I giudizi dei narratori popolari sono coerenti con la loro scarsa cultura, con i loro modi di vita, e Verga, che spesso non condivide i loro giudizi, si astiene dall’intervenire per contestarli. Verga fa altresì un ampio uso sia di proverbi popolari, molto vicini all’anima della gente, sia del discorso indiretto libero, che consiste nel presentare in modo immediato il punto di vista di un personaggio, senza alcuna reggenza di un “verba dicendi” o di un “verba cogitandi”.

Esempio