Luigi Pirandello: opere e poetica

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Luigi Pirandello

2. La visione del mondo e la poetica
2.1. Il vitalismo. Il “perpetuo movimento vitale” e le “forme”. I testi narrativi e drammatici di Pirandello insistono continuamente, con un arrovellio talora ossessivo, su alcuni nodi concettuali. Prima di esaminare direttamente l'opera nel suo sviluppo cronologico, è necessario dunque tentare di ricostruire il sistema delle idee che la sostanziano. Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, che è affine a quella di varie filosofie contemporanee (in particolare quella di Henri Bergson, teorico dello «slancio vitale», e quella di Georg Simmel): la realtà tutta è«vita», che imprigiona l'uomo, separandolo dall'immediatezza della «vita», è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel cogliere il carattere opprimente dell'ambiente famigliare, il suo grigiore avvilente, le tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne che si mescolano torbidamente alla vita degli affetti viscerali ed oscuri.
... e la condizione economica-sociale. L'altra “trappola” è quella economica, la condizione sociale e il lavoro, almeno a livello piccolo borghese: i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata di lavori monotoni e frustranti, di un'organizzazione gerarchica oppressiva. Da questa «trappola> non si dà per Pirandello una via d'uscita storica: il suo pessimismo è totale, non gli consente di vedere altre forme di società diverse. Per lui è la società in quanto tale, in assoluto, che è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale. La sua critica feroce delle istituzioni borghesi resta perciò, puramente negativa, non propone alternative, anzi, ideologicamente si accompagna a posizioni fortemente conservatrici, se non reazionarie.
La società borghese, specimen di una condizione metafisica. Pirandello non ricerca le cause storiche per cui la società è una «trappola» mortificante: la società borghese del suo tempo che egli indaga non è per lui che lo specimen particolare di una condizione metafisica, universale. L'unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi eroi è la fuga nell'irrazionale: nell'immaginazione che trasporta verso un "altrove" fantastico, come per l'impiegato Belluca di Il treno ha fischiato (T53), che sogna paesi lontani e attraverso questa evasione può sopportare l'oppressione del suo lavoro di contabile e della famiglia, composta di tre cieche, due figlie vedove con sette nipoti da mantenere; oppure nella follia, che è lo strumento di contestazione per eccellenza, in Pirandello, delle forme fasulle della vita sociale, l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza (si pensi agli eroi di Enrico IV o di Uno, nessuno e centomila).
L’eroe estraniato. I1 rifiuto della vita sociale di luogo nell'opera pirandelliana ad una figura ricorrente, emblematica: il «forestiere dalla vita>, colui che «ha capito il giuoco>, ha preso coscienza del carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere gli altri dall'esterno della vita e dall'alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua «parte»; osservando gli uomini imprigionati dalla , di irrisione e pietà (vedremo presto il senso profondo dell'«umorismo» pirandelliano).
La “filosofia del lontano”. È quella che Piraridello definisce anche «filosofia del lontano»: essa consiste nel contemplare la realtà come da un'infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l'abitudine ci fa considerare "normale", e in modo quindi da coglierne l’inconsistenza, l’assurdità, la mancanza totale di senso. In questa figura di eroe estraniato dalla realtà si proietta la condizione stessa di Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo perseguito dagli altri intellettuali del primo Novecento (pur risentendo delle !oro inquietudini e del loro ribellismo), e, nel suo pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida coscienza critica del reale.

2.2. Il relativismo conoscitivo. Molteplicità del reale e relativismo. Oltre che sulla visione della società, dal vitalismo pirandelliano scaturiscono importanti conseguenze sul piano conoscitivo. Se la realtà è magmatica, in perpetuo divenire essa non ci può fissare in schemi e moduli d'ordine totalizzanti, onnicomprensivi. Ogni immagine globale che pretenda di sistemarla organicamente non e che una proiezione soggettiva. Il reale è multiforme polivalente; non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservarlo: al contrario le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti. Caratteristico della visione pirandelliana è dunque un radicale relativismo conoscitivo: non si dà una verità oggettiva fissata a priori, una volta per tutte. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un'inevitabile incomunicabilità fra gli uomini: essi non possono intendersi, perché ciascuno fa riferimento alla realtà com'è per lui, e non sa né può sapere come sia per gli altri, proietta nelle parole che pronuncia il suo mondo soggettivo, che gli altri non possono indovinare. Questa incomunicabilità accresce il senso di solitudine dell'individuo che si scopre , che è il tratto caratterizzante l’umorismo, per Pirandello. Lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia signora coi capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. Questo «avvertimento del contrario» è il comico.
Il “sentimento del contrario”. Ma se interviene la riflessione, e suggerisce che quella signora soffre a pararsi così e lo fa solo nell’illusione di poter trattenere l'amore del marito più giovane, non posso più solo ridere: dall'«avvertimento del contrario», cioè dal comico, passo al «sentimento del contrario», cioè all'atteggiamento umoristico. La riflessione nell'arte umoristica coglie così il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, permette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente. Se coglie il ridicolo di una persona, di un fatto, ne individua anche il fondo dolente, di umana sofferenza, e lo guarda con pietà; o viceversa, se si trova di fronte al serio e al tragico, non può evitare di fare emergere anche il ridicolo. In una realtà multiforme e polivalente, tragico e comico vanno sempre insieme, il comico è come l'ombra che non può mai essere disgiunta dal corpo del tragico.
Una definizione dell'arte novecentesca. Nel saggio, Pirandello afferma che l'umorismo si trova nella letteratura di tutti i tempi, ma in realtà la definizione che egli ne propone si attaglia perfettamente all'arte contemporanea, nata dalla grande crisi novecentesca. Si tratta di un'arte riflessa, sempre accompagnata da una lucida consapevolezza di se stessa, che si strania nel suo farsi, si sdoppia, si autocontempla, non può mai coincidere interamente con una prospettiva univoca, ma deve sempre vedere l'oggetto anche dal punto di vista opposto. E un'arte «fuori di chiave», come la definisce Pirandello con una metafora musicale, cioè disarmonica e piena di continue dissonanze, in cui ogni pensiero genera sempre contemporaneamente il suo opposto, in cui lo scrittore da un lato crea e dall'altro critica e scompagina ciò che ha creato. È un'arte che non costruisce immagini armoniche, unitarie e ordinate del mondo, ma tende a scomporre, a disgregare, a fare emergere stridori, incoerenze e contrasti. È l'arte moderna per eccellenza, per ché riflette la coscienza di un mondo non più ordinato ma frantumato, in cui non vi sono più prospettive privilegiate e punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni laceranti. È quindi un'arte eminentemente critica, che dissolve luoghi comuni e abitudini di pensiero radicate, che costringe a vedere la realtà da prospettive inedite, stranianti, capaci di far saltare comodi e rassicuranti sistemi di certezze.
Una definizione della poetica di Pirandello stesso. Oltre ad essere una definizione dell'arte moderna, è questa soprattutto una definizione della poetica di Pirandello stesso, del suo programma artistico. Le sue opere, le novelle, i romanzi, i drammi (se si eccettua forse l'ultima produzione, quella dei “miti”), sono tutti testi , che rompa le forme fittizie e soffocanti del meccanismo sociale, ma che dinanzi alla dura repressione della rivolta dei Fasci si chiude in una rassegnata delusione. Il procedere della storia appare dunque, all'occhio pessimistico e disincantato di Pirandello, un movimento insensato che gira continuamente su se stesso, che «non conclude».
La storia «non conclude». Il personaggio chiave diviene perciò il vecchio don Cosmo Laurentano, che rappresenta la figura, cara a Pirandello, del «filosofo> estraniato, che ha «capito il giuoco» e guarda la vita come da un'infinita lontananza. Agli occhi del vecchio le passioni degli uomini, gli ideali patriottici, le conquiste del potere economico, le ideologie politiche come il socialismo, sono pure illusioni che ci si crea per consistere, per vivere, magari nobili ma del tutto vane, prive di realtà oggettiva, di cui non si può scorgere «né il senso né lo scopo>>. Tutto il complesso quadro storico del romanzo, folto di precisi riferimenti ad avvenimenti e problemi dell'Italia del decennio precedente, finisce dunque per dissolversi, per appiattirsi nel fluire insensato della vita.
Il quadro storico si dissolve. I1 suggello del romanzo è nelle parole finali di don Cosmo: «Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi, lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo [quello che, come dice poco sopra, «si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci»], finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà ... passerà...».
L'umorismo. Dietro il corposo impianto del romanzo storico e naturalistico riaffiora quindi l'«umorismo» pirandelliano, che disgrega e scompone l'assurdo meccanismo della vita sociale, con un atteggiamento di scettica irrisione e insieme di pietà.
4.4. «Suo marito» e «Si gira ...». Suo marito. Minore importanza ha il romanzo Suo marito, scritto verso il 1909 e pubblicato nel 1911 (di cui una più tarda redazione, col titolo mutato in Giustino Roncella nato Boggiolo, rimase incompiuta e inedita). Sullo sfondo di un'acre rappresentazione satirica degli ambienti intellettuali romani, si innesta il motivo, caro a Pirandello, del modo tutto soggettivo in cui ciascuno guarda il mondo e dell'incomunicabilità umana che ne deriva.
L'incomunicabilità. I1 contrasto qui si apre tra Silvia Roncella, scrittrice giunta a Roma dalla provincia, che rappresenta la spontaneità istintiva e totalmente disinteressata della creazione artistica, e il marito Giustino Boggiòlo, buon uomo, devotissimo alla moglie, ma limitato, attento solo agli aspetti economici della vita, che pensa esclusivamente a favorire il successo letterario della scrittrice e a bene amministrarne i guadagni. L'inconciliabilità dei due punti di vista, resi narrativamente con la focalizzazione alternata sull'uno e sull'altro personaggio, sfocia nell'incomprensione totale e nella rottura.
Si gira ... Connesso con i nuclei più vitali della problematica pirandelliana e denso di spunti acuti è invece il successivo Si gira… pubblicato nel 1915 sulla «Nuova Antologia» e poi nel 1916 in volume, ripreso e riveduto nel 1925 con il nuovo titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Dopo romanzi di impianto eterodiegetico come I vecchi e i giovani e Suo marito, Pirandello torna alla narrazione autodiegetica, soggettiva: il romanzo è costituito dal diario del protagonista, operatore cinematografico.
L'eroe estraniato dalla vita. Anche Serafino è il tipico eroe «filosofo», estraniato dalla vita, che contempla l'assurdo affannarsi degli uomini per inseguire illusioni che essi credono realtà oggettive. La sua professione, il suo stare sempre dietro alla macchina da presa che registra la vita, diviene la metafora di questo distacco contemplativo. Pirandello, in questo romanzo, mette a frutto la sua conoscenza diretta della nuova industria cinematografica appena affermatasi, e ha modo di affrontare uno dei nodi più urgenti della realtà contemporanea: il trionfo della macchina.
La macchina. È una realtà di fronte a cui gli intellettuali del tempo avevano avuto atteggiamenti quanto mai problematici: Pascoli, nella sua nostalgia per un mondo rurale ed arcaico, guardava con paura e orrore alle macchine che minacciavano di distruggerlo; D'Annunzio, per esorcizzare mi analogo sentimento d'orrore per la modernità che negava la bellezza, aveva scelto di offrirsi come celebratore della nuova e inquietante realtà, levando inni alla macchina in Maia (1903) e in Forse che si forse che no (1910); i futuristi celebravano entusiasticamente la macchina, portatrice di un'immagine nuova e sconvolgente della bellezza, nata dal dinamismo e dalla velocità.
Il rifiuto pirandelliano della condizione moderna. Pirandello dinanzi alla realtà industriale e alla macchina è diffidente e ostile: nella sua insofferenza per l'organizzazione sociale in assoluto, che soffoca la spontaneità della «vita», non può non provare repulsione per la macchina, che contribuisce ulteriormente a rendere meccanico il vivere degli uomini. La macchina da presa, che fissa per sempre in un fotogramma della pellicola il fluire continuamente mobile della vita, diventa emblema di questa angosciosa condizione moderna. Se la società in quanto tale, in ogni tempo, imprigiona il movimento vitale, questo suo nefasto effetto è per lo scrittore accresciuto dall’organizzazione sociale moderna.
La critica della mercificazione. Alla critica della meccanizzazione si unisce strettamente quella della mercificazione: la realtà industriale trasforma tutto in merce, negando la spontaneità dei sentimenti. Questo è particolarmente visibile in un'industria culturale come il cinema, che, a fini di profitto, fissa la vita in moduli convenzionali e stereotipati, quali sono gli intrecci dei film. La vicenda che sta al centro del romanzo sembra proprio uno dei soggetti prediletti dal cinema di consumo del tempo, una tempestosa storia d'amore, che ha al centro una "donna fatale", l'attrice russa Varia Nestoroff, e si conclude con un finale tragico, a sensazione: il giovane Aldo Nuti, innamorato geloso dell'attrice, mentre si gira una scena con una tigre, spara alla donna anziché alla belva ed è sbranato da essa; nel frattempo Serafino continua a girare meccanicamente la manovella della macchina da presa, e resta muto per lo choc subito.
Lo straniamento della materia esasperatamente romanzesca. In realtà questo soggetto esasperatamente romanzesco è del tutto straniato ironicamente, secondo il procedimento umoristico proprio di Pirandello: da un lato al fondo di quell'intreccio convenzionale e falco vi è una materia dolente, un nucleo di autentica, straziata sofferenza, ma dall'altro la vicenda è ridotta a puro meccanismo, svuotata di senso, come Pirandello proprio negli stessi anni fa con gli intrecci dei suoi drammi «grotteschi», che portano all'assurdo e al paradosso gli schemi stereotipati del teatro borghese. Segno tangibile dello straniamento è che la vicenda, più che essere narrata e distribuita in scene, è semplicemente enunciata in una serie di riprese successive, come se si trattasse delle prove di un «romanzo da fare> (De benedetti).
Il mutismo dell'eroe e la reificazione dell’artista. Anche il finale mutismo di Serafino è denso di significati. Come suggerisce acutamente Luperini, il suo «silenzio di cosa diventa metafora della reificazione stessa dell'artista che può soltanto passare in rassegna gli avvenimenti che la realtà gli squaderna davanti, ma non può più interpretarli»: l'alienazione del soggetto non è che il riflesso dell'alienazione che domina la realtà oggettiva.
4.5. “Uno, nessuno e centomila”. Dopo Si gira ..., Pirandello si dedica prevalentemente al teatro, diradando il suo impegno di narratore. Tuttavia lavora ancora ad un romanzo, Uno, nessuno e centomila, avviato sin dal 1909 ma portato a termine molto più tardi, pubblicato nel 1925-1926 sulla rivista «La fiera letteraria> e infine in volume nel 1926.
La crisi dell'identità individuale. I1 romanzo si collega al Fu Mattia Pascal, riprendendo il tema centrale della visione pirandelliana, la crisi dell'identità individuale. I1 protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre casualmente che gli altri si fanno di lui un'immagine diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere «uno», come aveva creduto sino a quel momento, ma di essere assume sulla scena. I due drammi citati danno corpo concreto, nelle loro strutture, a questi principi: in essi il «tragico» è sempre straniato dal «comico», che è appunto come l'ombra goffa che il tragico si trascina continuamente dietro, e viceversa il “comico” rivela sempre, al suo fondo, un nucleo di traffica serietà. Angelo Baldovino e Leone Gala, nella loro riduzione della vita a “parte” e a maschera, hanno qualcosa di burattinesco che li rende ridicoli, ma rivelano anche uno strazio profondo, autenticamente sofferto. In particolare Leone Gala, come meglio vedremo nell'analisi del testo, cela dietro il suo distacco filosofico qualcosa di torbido e oscuramente dolente, che farà saltare la maschera del lucido, impassibile ragionatore e farà emergere, nel finale, la sua umana miseria.
5.2. Il «teatro nel teatro». La critica pirandelliana alle forme teatrali correnti, nel periodo del , lavora sotterraneamente all'interno di quelle forme stesse, spingendole all'assurdo e cosi disgregandole.
I Sei personaggi. Nel 1921, coi Sei personaggi in cerca d'autore, Pirandello porta allo scoperto il rifiuto, investendo direttamente temi, intrecci e convenzioni teatrali del tempo. I Sei personaggi a cui allude il titolo, un Padre, una Madre, un Figlio, una Figliastra, una Bambina, un Giovinetto, sono nati vivi dalla mente di un autore, ma questi si è rifiutato di scrivere il loro dramma, che è proprio un drammone borghese a forti tinte, basato sul classico triangolo adulterino, su esacerbati conflitti familiari, lutti strazianti, colpi di scena sorprendenti. Pertanto si presentano su un palcoscenico dove una compagnia sta provando una commedia (II giuoco delle parti di Pirandello), affinché gli attori diano al loro dramma quella forma che l'autore non volle fissare.
La messa in scena dell’impossibilità di scrivere e rappresentare il dramma. Così Pirandello, invece del dramma dei personaggi, mette in scena la sua impossibilità di scriverlo; e non può scriverlo, come egli stesso precisa nella prefazione aggiunta al testo nel 1925, proprio per il suo carattere esasperatamente «romantico». Emerge però anche l'impossibilità di rappresentarlo: non solo per la mediocrità degli attori, ma per l'incapacità intrinseca del teatro di rendere culla scena ciò che uno scrittore ha concepito (e non importa se in questo caso l'autore non ha dato forma scritta alla sua creazione). Questa sfiducia nel linguaggio teatrale in sé era stata chiarita da Pirandello sin dal 1908 in un saggio, Illustratori, attori e traduttori (cfr. M6). I Sei personaggi costituiscono così un testo metateatrale, dove, attraverso l'azione scenica, si discute del teatro stesso.
Il “teatro nel teatro”. Il dramma, alla sua prima rappresentazione a Roma nel 1921, suscitò l'indignazione furibonda del pubblico, impreparato a un discorso d'avanguardia che sconvolgeva le convenzioni del teatro corrente, ma in seguito andò incontro ad un trionfale successo, anche su scala mondiale. Le soluzioni d’avanguardia del > (il nome vero del personaggio non è mai rivelato: egli si identifica totalmente con la sua parte), definito appunto «il grande Mascherato». La finzione dell'eroe non è che la prosecuzione cosciente, rigorosa, portata all'estremo, della finzione che è di tutti, costretti dal meccanismo sociale ad indossare delle maschere. «Enrico IV», con la sua "recita", costringe anche gli altri a mascherarsi, a recitare, per assecondarlo, ma proprio così mette in luce la finzione di cui sono prigionieri nella vita quotidiana. Verso la sua maschera l'eroe ha un atteggiamento ambivalente: da un lato ne prova fastidio, sentendo la nostalgia della «vita»; dall'altro però la commedia sociale lo disgusta, e la maschera che lo isola dal mondo costituisce una sorta di rifugio, di protezione, sicché il gesto finale che lo costringe a chiudersi definitivamente nella parte si può intendere dettato da una volontà di fuggire da quella realtà intollerabile.
L’eroe estraniato e doppio. Con ricompare la grande figura, cara a Pirandello, dell'eroe estraniato dalla vita, dotato di superiore consapevolezza, che guarda dall'alto la miseria della commedia mondana. Ma, come tutti i grandi personaggi pirandelliani, anch'egli è doppio, scisso, non è un eroe disumano nella sua purezza intellettuale: è turbato anch'egli da passioni, appetiti, rimpianti che lo legano alla vita. I1 gesto finale, che lo chiude nuovamente nel guscio protettivo della follia, può essere allora letto (secondo quanto recentemente ha proposto Roberto Alonge) come la manifestazione di una debolezza, la confessione di un'immaturità, di un'incapacità di vivere.
5.3. Il “pirandellismo”. La successiva produzione drammatica di Pirandello, che prosegue tra gli anni Venti e gli anni Trenta, tende a riprodurre gli schemi di quella precedente, ma in maniera alquanto stanca, in forme macchinose ed artificiose. In certo moda Pirandello riduce la sua straordinaria forza drammatica a maniera, giunge quasi a proporre la caricatura di se stesso.
I1 cerebralismo sofistico. L’arrovellarsi convulso dei personaggi assume qualcosa di sofistico, di contorto e capzioso, si riduce ad astratto e programmatico cerebralismo, che dà l’illusione di una profondità intellettuale, mentre è solo ripetizione di schemi ormai inerti. È questa la fase che è stata definita «pirandellismo», e che non caratterizza solo lo scrittore, ma vari suoi imitatori. L'eccesso di cerebrarlismo pseudofilosofco è anche dovuto all'influenza su Pirandello di un suo interprete, Adriano Tilgher (cfr. La critica), che in un saggio del 1922 aveva meccanicamente ridotto tutta la tematica pirandelliana al conflitto tra «vita» e «forma>>, inducendo così lo scrittore stesso a modellare su quell'astratto schema i suoi drammi. Citiamo solo alcuni titoli dei testi di questo periodo: La vita che ti diedi (1923), Diana e la Tuda (192fi), L 'amica delle mogli (1926), O di uno o di nessuno (1929), Come tu mi vuoi (1930), Trovarsi (1932), Quando si è qualcuno (1933).
6. L'ultimo Pirandello: i “miti” e le novelle surreali
6.1. I «miti» teatrali. Una nuova poetica rispetto a quella dell'. Già sul finire degli anni Venti compaiono però nella produzione teatrale di Pirandello nuove direzioni di ricerca, che rivelano un cambiamento di poetica rispetto a quella. dell'

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