Luigi pirandello ( 1867 – 1936)

Materie:Riassunto
Categoria:Italiano

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Testo

Luigi pirandello ( 1867 – 1936)
1. La vita
Nacque nel 1867 a Girgenti ( oggi Agrigento), da una famiglia di agiata condizione borghese. Dopo il liceo si iscrisse all’Università di Palermo; va a Roma , infine a Bonn dove si laurea in filologia romanza. L’esperienza tedesca fu importante perché lo mise in contatto con quella cultura e con gli altri romantici.
Nell’1892 si stabilì a Roma e si dedicò alla letteratura; nel ’93 scrisse “ L’esclusa”, suo primo romanzo; nel 1994 pubblicò “ Amori senza amore”, raccolta di racconti; Sposò Maria Antonietta Portulano. Pubblicò articoli e saggi su varie riviste e scrisse la sua prima commedia “ Il nibbio”
Nel 1903 c’è un dissesto economico della famigli che portò drammatiche conseguenze: la moglie ebbe una crisi che la sprofondò nella follia; la convivenza con la donna ( profondamente gelosa) costituì un tormento continuo per P. ( ciò può essere visto come origine della sue concezione familiare come “trappola”)
Mutò anche la sua condizione sociale e degli dovette integrare il non lauto stipendio di professore, intensificando la sua produzione; lavorò anche per l’industria cinematografica.
Anche la sua esperienza fu legata alla declassazione, dal passaggio da una vita di agio ed una di piccolo borghese, con i conseguenti disagi economici e frustrazioni.
L’autore raccolse in vari volumi le sue novelle ottenendo successo sul pubblico ma non sulla critica, che lo considera uno scrittore di consumo.
Dal 1910, P. ebbe il primo contatto con il mondo teatrale e dal 1915 la sua produzione teatrale si intensifico e P. divenne scrittore per il teatro, anche se non abbandonò la narrativa. Tra il 1916 e 1918 scrisse e rappresentò vari drammi: “Pensaci Giacomino!”, “ Il giuoco delle parti”, che modificavano profondamente il linguaggio della scena del tempo e che suscitarono reazioni sconcertate sia sul pubblico, che sulla critica.
Erano gli anni della guerra e P. ( patriottico) era a favore dell’intervento, che vedeva come compimento del programma risorgimentale. Ma la guerra incise dolorosamente sulla sua vita :il figli, Stefano, volontario, fu fatto subito prigioniero dagli Austriaci); di conseguenza la malattia della moglie si aggravò e fu ricoverata in una casa di cura fino alla sua morte.
Dal 1920 il teatro di P. comincia a conoscere il successo del pubblico (“ sei personaggi in cerca d’autore” 1920) P. ebbe un successo mondiale. Nel 1925 assunse la direzione del Teatro d’Arte a Roma . Si legò sentimentalmente, ma in maniera platonica, a Marta Abba, una giovane attrice per la quale scrisse molti drammi.
Nel 1924, dopo il delitto Matteotti, P. si iscrisse al fascismo ( così ebbe l’appoggio da parte del regime), ma la sua adesione fu ambigua e difficilmente definibile.
Negli ultimi anni si dedicò alla pubblicazione organica delle opere in numerosi volumi: le “Novelle per un anno” ( produzione novellistica) e le “Maschere nude” ( testi drammatici).
Nel 1934 gli viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura.
Egli era attento anche al cinema, pur conscio del pericolo che esso rappresentava per il teatro; seguiva da vicino gli adattamenti cinematografici delle sue opere.
Si ammalò di polmonite e morì nel 1936, lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro teatrale “I giganti della montagna”, in cui culminava la nuova fase dei “miti”.
2. LA VISIONE DEL MONDO E LA POETICA
2.1 Il vitalismo
Alla base della visione del mondo di P. vi è una concezione vitalistica : la realtà è tutta vita, perpetuo movimento vitale inteso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all’altro. Tutto ciò che si stacca da questo flusso e assume una forma distinta e individuale si irrigidisce comincia a morire. In realtà noi non siamo che parte indistinta dell’universale fluire della vita, ma tendiamo a cristallizzarci in forme distinte, a fissarci in una realtà che noi stessi ci diamo.
Anche gli altri, con cui viviamo nella società, ci danno determinate forme. Noi crediamo dei essere uno per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda di chi ci guarda. Ciascuna di queste forme è una maschera. P. era convinto che nell’uomo coesistano più persone , ignote a lui stesso, che possono emergere inaspettatamente; condusse una critica serrata al concetto di identità personale, di “io”.
Questa teoria della frantumazione dell’io in tanti stati in continua trasformazione è un dato storicamente significativo, rispecchia la crisi dell’idea d’identità e di persona, portata dall’affermarsi di tendenze spersonalizzanti nella società: il capitalismo, l’industria.
Così l’io si indebolisce, perde la sua identità: P. è uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette nelle sue opere. Nei suoi personaggi la presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita smarrimento e dolore. Il non essere nessuno provoca angoscia solitudine, ma così pure le forme in cui gli altri lo vedono, sono come delle “trappole” in cui lui si dibatte, lottando per liberarsene.
La società appare a P. come una costruzione artificiosa e fittizia, da cui scaturisce un rifiuto della vita sociale e dei ruoli che essa impone ed un bisogno immediato di autenticità, spontaneità.
La società fotografate da P. è l’Italia giolittiana e postbellica ( nelle novelle c’è la condizione piccolo- borghese, nel teatro quella alto- borghese). L’istituto in cui si manifesta meglio la trappola è la famiglia, col suo grigiore, le tensioni, gli odi, i rancori, le ipocrisie.
L’altra trappola è quella economica, la condizione sociale ed il lavoro, che imprigionano l’uomo in condizioni misere e frustranti. Da questa trappola non si esce, dice P., che è del tutto pessimista e non vede altre forme di società. Per lui è la società in quanto tale che è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale.
Non ne ricerca la causa, né propone alternative, tranne che la fuga nell’irrazionale, nell’immaginazione che trasporta verso un altrove fantastico. Questo rifiuto della vita sociale dà luogo ad una figura emblematica: Il “forestiere della vita” che, avendo preso coscienza del carattere fittizio della società, si isola guardando vivere gli altri dall’esterno, rifiuta si assumere una sua parte e osserva gli uomini imprigionati nella trappola, con un atteggiamento di irrisione e di pietà. È questa che P. definisce “la filosofia del lontano” secondo cui si contempla la realtà come da una distanza infinita, in modo tale da coglierne l’inconsistenza, l’assurdità e la mancanza totale di senso. In questa figura di eroe estraniato si proietta P. stesso.
2.2 Il relativismo conoscitivo
Dal vitalismo di P. scaturiscono altre importanti conseguenze sul piano conoscitivo: la realtà eè multiforme , polivalente, non c’è una prospettiva da cui osservarla, non c’è una verità oggettiva, ma tante verità soggettive. Ognuno ha la sua verità, nata dal suo modo di vedere le cose. Ne nasce un’incomunicabilità fra gli uomini. Anche per questo P. è collegato al quel clima culturale europeo del primo 900 in cui si consuma la crisi delle certezze positivistiche e rientra quindi nell’ambito del Decadentismo. Ma per vari aspetti P. appare già al di fuori di esso: per lui la realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno alcun senso complessivo. Il Decadentismo poneva l’io al centro del mondo, o meglio, identificava il mondo con l’io; per P. l’io si frantuma, si annulla in una serie di frammenti incoerenti: queste teorie collocano P. già oltre il D. in clima pienamente novecentesco.
2.3 la poetica: l’umorismo
Dalla visione del mondo di P. scaturiscono anche la concezione dell’arte e la poetica. Esse sono enunciate in vari saggi specie ne “ l’Umorismo”, composto da una parte storica e da una teorica, in cui viene definito il concetto stesso di umorismo. L’opera d’arte nasce dal libero movimento della vita interiore, la riflessione resta invisibile; nell’opera umoristica invece la riflessione non è nascosta, non è una parte del sentimento, ma si pone dinanzi ad esso, come giudice: di qui nasce il “Sentimento del Contrario”, tratto caratterizzante dell’umorismo. (dall’avvertimento del contrario, che è il comico, passo al sentimento del contrario, cioè all’atteggiamento umoristico.). La riflessione coglie il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, permettendo di vederla da diverse angolazioni contemporaneamente.
Nel saggio P. afferma che l’arte umoristica è arte di tutti i tempi, ma si attaglia perfettamente all’arte contemporanea. È definita un’arte fuori di chiave, disarmonica, in cui ogni pensiero genera sempre il suo opposto. È un’arte che non costruisce immagini armoniche, ma tende a scomporre a far emergere incoerenze e contrasti.
Le opere di P. sono tutti testi “umoristici”, in cui tragico e comico sono mescolati e il mondo è frantumato, al limite dell’assurdo.
3. LE poesie e le novelle
P. compose poesie per 30 anni (1883- 1912)
Nella sua poesia egli rifiuta le soluzioni a lui contemporanee e conserva le forme tradizionali. La prima raccolta “ Mal giocando”(1889), “Pasqua di Gea” (1891), “Fuori di chiave” (1912).
P. scrisse novelle per tutto l’arco della sua attività, più intensamente nei primi 15 anni del 900.
Si tratta di una produzione copiosissima, per lo più occasionale, prima pubblicata su quotidiani e riviste, poi raccolta in volumi. Furono: “ Amori senza amore”, “Beffe della morte e della vita”.
Nel 1922 progettò una sistemazione in 24 volumi col titolo di “ Novelle per un anno”, ma solo 14 furono pubblicati, a cui se ne aggiunse uno postumo.
Non c’è ordine , come dice anche il titolo, nella raccolta pirandelliana, che sembra rispecchiare il non- ordine del suo mondo. All’interno della raccolta troviamo alcune novelle siciliane, apparentemente di clima verista, ma diverse per due motivi: 1. Poiché riscopre il sostrato mitico e folklorico della terra siciliana ( decadente); 2. Poiché le figure di un arcaico mondo contadino sono deformate, bizzarre, grottesche, assurde.
Affini ad esse ci collocano le novelle romane in cui si succedono figure che rappresentano la condizione piccolo- borghese, figure avvilite e dolenti, prigioniere della loro trappola, da cui non c’è via d’uscita.
Nel tratteggiare questo campionario di umanità, P. mette in opera il suo tipico atteggiamento “umoristico”, portando all’estremo dell’assurdo, i casi comuni della vita, per dimostrare che le legge che li governa è la casualità più bizzarra, in cui non vi è alcun senso. Da questo meccanismo scaturisce il riso, ma è sempre accompagnato, in nome del sentimento del contrario, da una pietà per l’umanità avvilita e sofferente. Ciò fa emergere anche il fondo ignorato della psiche, la violenza, la crudeltà: P. distrugge l’idea di personalità coerente, rivela le varie persone che si annidano nell’individuo, a lui stesso ignote e che possono irrompere all’improvviso.
4. ROMANZI
4.1 “l’esclusa” e “il turno”:
Nel 1893, a solo 26 anni, scrisse il primo romanzo : Marta Ayala, lo pubblicò sul quotidiano “La Tribuna” nel 1901 col titolo “ L’Esclusa”, donna ingiustamente accusata di adulterio, che viene cacciata di casa dal marito e vi verrà riammessa solo dopo essersi resa effettivamente colpevole.
Il romanzo ha ancora legami col Naturalismo, sia nella materia ( il quadro di un costume provinciale, con cui si scontra una donna intelligente e sensibile), sia nell’impianto narrativo (narrazione in terza persona, con focalizzazione sulla protagonista mediante lo strumento dell’indiretto libero. In realtà i capisaldi della visione naturalistica e positivistica sono messi in discussione: al centro della vicenda vi è un “fatto” dal forte potere condizionante, l’adulterio; in realtà il fatto non ha una reale consistenza oggettiva, ma solo soggettiva. La struttura a chiasmo della vicenda (Marta viene cacciata di casa quando è innocente e viene riaccolta quando è colpevole), sottolinea gli aspetti assurdi, paradossali delle azioni umane. Nasce un gioco del caso imprevedibile e bizzarro: in tal modo P. critica il Naturalismo, che aveva impostato in maniera deterministica il rapporto tra causa ed effetto.
Il gioco del caso è ripreso nel romanzo “il Turno” (1895) dove un innamorato, per poter sposare la donna amata deve aspettare la morte di due mariti.
4.2 “Il fu mattia pascal”
E’ il terzo romanzo di P. e presenta in forme pienamente mature i temi tipici dello scrittore e sperimenta soluzioni narrative nuove.
E’ la storia di un piccola borghese, imprigionato nella trappola familiare che, per un caso fortuito si trova libero e padrone di sé; diviene autosufficiente economicamente e apprende di essere ufficialmente morto, in quanto la moglie e la suocera lo hanno riconosciuto nel corpo di un annegato. Egli invece di approfittare della libertà, per vivere immerso nel fluire della vita, vuole costruirsi un’identità nuova. Resta attaccato alla vita sociale, alla trappola. Decide di rientrare nella sua vecchia identità, ma scopre che la moglie si è risposata ed ha avuto una figlia. Non gli resta che adattarsi a “ forestiere della vita” che contempla gli altri dall’esterno, consapevole di non essere più nessuno.
Il romanzo è pieno di motivi: La trappola delle istituzioni sociali che imprigionano il flusso vitale; la critica dell’identità individuale; è presente una prova della poetica dell’ ”umorismo”: la realtà viene grottescamente distorta, ma al di là del riso che questo suscita, vi è l’autentica sofferenza del protagonista: Scatta il sentimento del contrario: tragico e comico vanno insieme.
Non troviamo più la narrazione in terza persona: il romanzo è raccontato dal protagonista, in forma retrospettiva. Il percorso è focalizzato sull’io narrato, sul personaggio mentre sta compiendo i fatti; punto di vista soggettivo, mutevole, inattendibile e inaffidabile. Il Mattia Pascal narratore scarta i modelli di racconto ottocenteschi.
4.3 “i vecchi e i giovani”
Fu scritto fra il 1906 e il 1909 e pubblicato 1913.
E’ un romanzo storico, che rappresenta le vicende politiche e sociali della Sicilia edell’Italia negli anni 1892-93. Al centro della vicenda vi è la nobile famiglia Laurentano. L’intreccio si basa sul confronto fra due generazioni: i vecchi che hanno fatto l’Italia, ma vedono i loro ideali risorgimentali sviliti e negati dalla corruzione politica presente; i giovani appaiono smarriti e incerti sulla direzione da imporre alla loro vita.
Il personaggio chiave diviene il vecchi Don Cosmo Laurentano, che rappresenta la figura del filosofo estraniato che guarda la vita come da un’infinita lontananza Agli occhi del vecchio le passioni degli uomini, gli ideali patriottici, le conquiste del potere economico, sono illusioni.
4.4 “suo marito” e “si gira”
“Suo marito”, pubblicato nel 1911: sullo sfondo di una rappresentazione satirica degli ambienti intellettuali romani si innesta il motivo del modo soggettivo con cui ognuno guarda il mondo, e l’incomunicabilità che ne deriva.
“Si gira”, pubblicato nel 1915 e riveduto nel 1925 con il titolo di “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”: e costituito dal diario del protagonista, operatore cinematografico. Serafino è il tipico eroe “filosofo” , estraniato dalla vita. Il suo stare sempre dietro alla cinepresa, diviene metafora di questo distacco contemplativo. P. affronta uno dei problemi più urgenti del periodo: il trionfo della macchina, è una realtà di fronte a cui gli intellettuali del periodo avevano avuto atteggiamenti problematici. P. è ostile e diffidente verso la realtà industriale, prova repulsione per la macchina che contribuisce a rendere meccanico il vivere dell’uomo.
4.5 “ Uno, nessuno e centomila”
Pubblicato in volume nel 1926.
IL tema di fondo è la crisi dell’identità individuale. Il protagonista si scopre che gli altri si fanno di lui un’immagine del tutto diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere “uno”, ma di essere “centomila”, nel riflesso delle prospettive degli altri, e quindi “nessuno”. Questa presa di coscienza fa saltare tutte le certezze e determina una crisi.
Decide di distruggere tutte le immagini che gli altri si fanno di lui, per cercare di essere “uno per tutti”. Fonda un ospizio per i poveri ed egli stesso vi si fa ricoverare, estraniandosi totalmente dalla vita sociale: trova, così, una sorta di guarigione, rinunciando ad ogni identità e abbandonandosi al puro fluire della vita.
Contrariamente a “Il fu Mattia Pascal”,dove l’eroe si limita ad una condizione negativa, sospesa, “uno, nessuno e centomila” trasforma la mancanza d’identità in una condizione positiva.
Si tratta anche qui di una narrazione retrospettiva da parte del protagonista, il quale si dilunga in un ininterrotto monologo: la voce narrante si abbandona ad un convulso riflettere, divagare.
5. il teatro
Il 1915 è la data d’inizio di una continuità teatrale dello scrittore. Scrive anche vari testi dialettali: è un teatro che gioca sulla deformazione e sull’assurdo.
Il contesto culturale in cui P. andava ad inserirsi era quello di un dramma borghese naturalistico che si incentrava sui problemi della famiglia e sul denaro; era un dramma serio, che si fondava sulla riproduzione fedele della vita quotidiana, sulla rigida consequensialità di causa ed effetto.
P. apparentemente riprende quei temi e quegli ambienti, ma i ruoli ( il marito, l’uomo d’affari) vengono assunti con estremo rigore, sino a giungere al paradosso e all’assurdo.
“Pensaci Giacomino” (1916), “Così è, se vi pare” ( 1917), “ Il piacere dell’onestà” (1917), “Il giuoco delle parti” ( 1918): in questi drammi P. sconvolge due capisaldi del teatro borghese naturalistico: la verisimiglianza e la psicologia. Gli spettatori non si trovano più di fronte ad un mondo “normale”, ma vedono un mondo stravolto, ridotto alla parodia e all’assurdo; i personaggi sono contraddittori, trasformati quasi in marionette; il linguaggio è concitato, convulso, con continue interrogazioni, esclamazioni, sottintesi, mezze frasi.
Inizialmente il teatro di P. ebbe scarso successo di pubblico; ma il carattere rivoluzionario di questo teatro, la sua contestazione della borghesia, fu colta pienamente solo da un recensore d’eccezione, Antonio Gramsci.
Con “Il piacere dell’onestà” e “Il giouco delle parti” P. si accosta alla poetica del teatro grottesco.
Il “grottesco” non è altro che la forma che l’arte “umoristica” assume sulla scena: in questi due drammi il tragico e il comico sono indivisibili.
5.2 Il teatro nel teatro
Nel 1921 mette in scena “ Sei personaggi in cerca d’autore”.
Il dramma, alla sua prima rappresentazione a Roma, suscitò l’indignazione del pubblico, ma in seguito andò incontro ad un trionfale successo.
Le soluzioni d’avanguardia del “teatro nel teatro” ( cioè un teatro in cui viene messo in scena il teatro stesso con i suoi problemi) sono perseguite con altri 2 testi: “ Ciascuno a suo modo” (1924) e “ Questa sera si recita a soggetto” (1929); nel primo viene affrontato il problema del conflitto tra attori e pubblico, nel secondo quello tra gli attori e il regista.
Al ciclo del “teatro nel teatro” si collega “Enrico IV”, perché anche qui vi è una recita in scena.Il nome vero del personaggio non viene mai rivelato, egli si identifica totalmente con la sua parte, definito appunto Il Grande Mascherato. Verso la sua maschera, il protagonista ha un atteggiamento ambivalente: da un lato ne prova fastidio, sentendo la nostalgia della “vita”; dall’altro la maschera lo isola dal mondo e costituisce una sorta di rifugio, di protezione.
6. l’ultimo Pirandello: i “miti” e le novelle surreali
In queste ultime opere appaiono tendenze irrazionalistiche e mistiche, che puntano a stabiire un contatto con l’Essere, con l’essenza stessa delle cose, attraverso forme simboliche, di intuizione.
L’arte diviene lo strumento privilegiato per la rivelazione dell’essenza e della verità.
Il linguaggio muta; il discorso assume forme di liricità.
Si può ravvisare il ritorno di P. ad un clima decadente, dovuto anche al mutamento delle condizioni storiche: dopo il ’26, si assiste, anche nel campo della cultura, ad un “ritorno all’ordine”, ad una rinuncia alle provocazioni.
Di questo clima sono espressione i 3 miti pirandelliani: testi teatrali che non rappresentano più la realtà sociale borghese, ma si collocano in un’atmosfera mitica e simbolica, utilizzando elementi leggendari.
Il testo più significativo è “I giganti e la montagna”: l’opera affronta un problema che assilla lo scrittore, quello della posizione dell’arte all’interno della realtà moderna, capitalistica ed industriale.
6.2 le ultime novelle
Le novelle degli anni 30 sono raccolte negli ultimi due volumi delle “Novelle per un anno”, “Berecche e la guerra”, “Una giornata”: in esse, alla rappresentazione “umoristica” della società, delle maschere che la vita impone agli uomini, si sostituisce lo scavo nell’inconscio.
Spesso le novelle si collocano in un clima surreale, fantastico, allucinato ( “C’è qualcuno che ride” 1934). Le forze dell’inconscio possono essere positive e vitali, come in questo caso, ma possono anche veicolare impulsi aggressivi e violenti (“Soffio” 1933).
La novella “Una giornata” ( 1936) è forse una metafora della vita e del rapido fuggire del tempo che ci avvicina alla morte. Quello della morte è un tema costante delle ultime novelle.

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