Letteratura dell'Ottocento

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Testo

Il progresso scientifico-tecnologico, l’affermarsi in maniera sempre più forte di una società capitalistica basata sull’efficienza e sulla produttività creano discrepanti reazioni negli intelletti ella seconda metà del secolo scorso in Italia. L’analisi delle opere di coloro i quali sono stati toccati più profondamente da questo sconvolgente e radicale mutamento dei tempi porta a comprendere la base comune di orrore e terrore verso ciò che è definito “la macchina”.
AUTORI OPERE
Giosuè Carducci da “Le Odi Barbare”: “Alla stazione in una mattina d’autunno”

“Inno a Satana”
Giovanni Pascoli da “Il Romanzo Georgico”: “La Siepe”
da “Canti di Castelvecchio”: “Nebbia”
Gabriele D’Annunzio da “Le laudi del cielo, del mare, delle terre e degli eroi”: “Maia”
A partire dalla seconda metà dell’800, con l’avvento della seconda rivoluzione industriale., il processo produttivo ha raggiunto dimensioni coloniali grazie al massiccio impiego di potenti macchinari che svolgono il lavoro che prima era affida-
to a braccia umane con risultati molto migliori in termini di tempo, qualità e quantità di produzione.
Inoltre il processo produttivo, sia industriale che agricolo, si fa sempre più impersonale per la tendenza a concentrarsi in monopoli. Nel nuovo tipo di società che si va in questo modo affermando l’individuo tende a venire progressivamente spersonalizzato ed inserito come ingranaggio di produzione in una anonima “massa”. Insomma, chi non è attivo e produttivo viene non di rado degradato ed emarginato. Poiché il processo di massificazione comprende anche l’ambito della cultura, il letterato si trova difronte ad un’angosciosa scelta: adeguarsi alla nuove esigenze della società borghese, scrivere e creare opere “vendibili” e popolari oppure finire emarginato e ostracizzato ai margini di un mondo che non è più in grado di com-
prenderlo e di cui, a sua volta, non si sente più parte.
I maggiori letterati italiani, come Carducci, Pascoli e D’Annunzio, hanno in apparenza reazioni diverse nei confronti dell’instaurarsi di questo nuovo stato di cose: chi lo appoggia e chi si fa cantore della nuova Italia postunitaria, di una destra imperialista e monarchica, chi ne prova ribrezzo e paura e tenta di riaffermare la situazione in declino, chi schifato dalla bassezza della cultura di massa e dei gretti fini di guadagno, si pone con sdegno al di sopra di questi, chiudendosi in una magnifica élite.
Per meglio poter affrontare l’argomento, ritengo sia a questo punto utile fare un riferimento alle opere dei suddetti autori che
meglio sottolineano la situazione.
Nella produzione giovanile del poeta Giosuè Carducci, tutta permeata di spirito polemicamente antiromantico e fortemente positivista, anche se non del tutto comune alle influenze romantiche, in particolare baudelairiane, si colloca il componimento
“Inno a Satana”: è un poemetto di 200 versi, dai toni decisamente ostili alla concezione reazionaria del Cristianesimo e del Papa Pio IX che tendevano a condannare come prodotto di Satana appunto ogni aspetto della modernità. Satana è così assunto come simbolo del progresso e della gioia vitale che agli occhi del giovane poeta sono assurdamente modificati dalla Chiesa. Nell’ultima parte del componimento, in particolare al verso 170, si allude ad un MOSTRO: è la macchina a vapore,
supremo emblema del progresso , che è capace di superare mari e monti e gli sono pari soltanto gli antichi dei dell’epos classico.
Il tema del “Mostro” è ripreso successivamente nelle “Odi Barbare” con il componimento “Alla stazione in una mattina d’autunno”. Tutta l’opera riporta una descrizione del treno visto come, per usare le parole dello stesso autore, un “Empio mostro” che crudelmente strappa agli affetti del poeta la donna amata.
Il passaggio descritto è di gusto evidentemente romantico; contemporaneamente si riscontra una notevole insistenza per i particolari più prosastici e quotidiani: tutto ciò è insolito in Carducci poiché a lui è caro un linguaggio aulico e classicheggiante. E’ chiaro quindi che l’utilizzo di tale tipo di linguaggio ha la funzione di evidenziare lo squallore scoraggiante della vita moderna, priva di qualsiasi parvenza di bellezza. Il ricorrere di tinte fosche e di immagini demoniache,
come gli occhi fiammeggianti che squarciano le tenebre [ i fanali del treno ] , pur richiamando l’ “Inno di Satana” , rendono il componimento pervaso da un senso di terrore non troppo vago che si condensa in aleggianti anime di dannati. Ma perché il
Carducci, che è il cantore della modernità per eccellenza, si ritrae impaurito dall’immagine del treno , simbolo supremo del progresso? I motivi sono molteplici da una parte, seppur in maniera inconscia , sente il timore, proprio degli intellettuali umanistici di fronte al progresso che tende incontrollabili ad emarginali dalla società come ingranaggi difettosi; dall’altro prova paura delle stesse macchine, creature dell’uomo che mai hanno prestato giuramento di fedeltà e che potrebbero, da un momento all’altro, rivoltarglisi contro come accade allo scienziato Frankestein nell’omonima opera della scrittrice inglese
Mary Shelly. Il progresso e le macchine sono temuti soprattutto perché vanno a superare e cancellare quei valori del passato, come il valore dell’individuo in sé o l’ideale di bellezza, che nella società industrializzata non trovano più albergo.
Questi atteggiamenti si ritrovano, seppur ampliati e sviluppati in nuove direzioni , in due letterati della generazione successiva a quella di Carducci che pure in lui hanno visto un maestro, una fonte di spunti, un predecessore:
si parla di Pascoli e di D’Annunzio.
In Pascoli l’angoscia legata all’avvento del progresso si condensa attorno ai suoi morti aleggianti e al poderetto in cui si ritira a vivere con le sorelle: il terrore dell’alienazione da una società che sente come ostile, si esprime nel vagheggiamento utopico di un mondo piccolo borghese basato sulla proprietà agricola. Due carmi sono emblematici a questo proposito: “La Siepe”, dal
dal romanzo georgico e “Nebbia” dai Canti di Castelvecchio; i temi presentati sono quelli consueti e cari al Pascoli: la siepe che racchiude la proprietà e che la difende dall’esterno, simbolo del confine tra ciò che è bene – ossia il nido , l’ambiente familiare – e ciò che è male – il mondo esterno e insidioso – ; il timore per la realtà estranea e la volontà di mantenersi lontano da questa; la gioia e l’importanza attribuite alle piccole cose di ogni giorno. Si riscontra nelle descrizioni una cultura d’impo- stazione positivistica, simile a quella del Carducci: è fondamentale e fondante la precisione attribuita ai particolari botanici ed
ornitologici delle realtà descritte. Tuttavia pur partendo da questa base comune, i Pascoli giunge a soluzioni del tutto differenti
da quelle del suo maestro: non approda all’esaltazione del positivismo e del progresso, al contrario li rifugge con orrore rendendosi conto che stanno alla base della decadenza della figura del letterato e vedendovi la causa delle sue molte disgrazie familiari.
Da qui scaturisce quindi quell’utopia regressiva che inneggia al mondo rurale che sta scomparendo a colpi di scure sotto i monopoli, lo innalza a supremo modo di vita; non manca qui l’influsso della cultura classica del professore.
Insomma per esorcizzare il suo timore del presente, Pascoli si rifugia nel passato. Ne “La Siepe” quindi il moderno mondo industriale è artificiosamente tagliato fuori dalla proprietà, si afferma un modus vivendi proprio di una società arcaica patriar- cale. Nella “Nebbia” invece il tentativo di tagliare fuori il progresso fallisce: in un bianco evanescente l’eco di un borbottio sordo attribuito ad eventi naturali non fa che richiamare con più forza il ricordo del fragore di una locomotiva, lo sbuffo sibilan
te di una nave, il rombo di uno dei primi aerei.
Questo ci dimostra che il Pascoli non riuscirà mai a liberarsi completamente dai suoi timori.
Le soluzioni di D’Annunzio sono ancora differenti, anche se complementari, a quelle di Carducci e Pascoli. Innanzi tutto c’è da dire che i risultati finali a cui approda D’Annunzio sono il frutto di un lungo processo di trasformazione e di ricerca:
una prima fase vide l’insigne poeta fare propri gli ideali dell’estetismo, rifugiarsi in un individualismo tutto votato alla ricerca del bello, annoiato ed angosciato da tutto quanto c’è di comune e basso. Segue poi una fase in cui, superato ed assimilato l’ideale estetico, approda ad una spiaggia più feconda: quella del superomismo . Si fa sempre più il rifiuto del conformismo, della morale cristiana coi suoi messaggi di egualitarismo e solidarietà, si affermano l’individualismo e lo spirito dionisiaco:
rifiuta l’etica della pietà e si rifugia in un vitalismo pieno e gioioso affiancato dal gusto per l’azione eroica e l’idea che l’Italia avrebbe potuto essere riscattata dall’attuale bassezza da una élite aristocratica di spiriti eletti e superiori.
In quest’ottica si inseriscono le “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi” e in particolare il lungo poema “Maia”. Il poema assume la forma di un carme profetico, colmo di slancio vitalistico; si tratta della trasfigurazione mitica di un viaggio realmente compiuto nell’Ellade. Dopo questa immersione nel passato il poeta è in grado di affrontare con rinnovata energia il presente: può tornare nelle grandi metropoli industriali e riscopre in questo orrore nuove immense potenzialità di vita ed energia. Per una sovrapposizione dei due piani i mostri del presente, le macchine, si affiancano agli enti mitici del passato assumendo un alone di sovrumana grandezza. In questo modo D’Annunzio raggiunge quella che è l’ultima tappa del percorso del letterato, trova il suo posto come cantore delle realtà quali la grande borghesia e il capitale: nuovo credo per nuovi dei.
Tuttavia anche questo è un ultimo, estremo tentativo di esorcizzare la paura, quella stessa paura del progresso che aveva pervaso Carducci e Pascoli: si fa cantore di quella realtà che teme per non esserne spazzato via; infatti ha bisogno di escogitare uno stratagemma per far entrare la realtà moderna nella poesia: le entità mostruose della macchina e del capitale sono accompagnate da un qualcosa di familiare e vicino al poeta, ossia le figure del mito e della storia classica.
Un esempio emblematico è offerto dalla sezione che va dal verso 127 al verso 210 della “Maia”.
Qui la macchina, che aveva suscitato i più terribili sentimenti nel poeta perché così lontana dall’uomo – che pure l’aveva
creata – , diventa dell’uomo un utile e prolifico strumento, le sue parti sono affiancate in un pomposo parallelismo ad un corpo umano nelle sue perfette componenti. Ne scaturisce un’immagine grandiosa, utopica e meravigliosa di un mondo completa- mente automatizzato che svolge il lavoro dell’uomo risparmiandoli fatiche ed affanni e fornendogli tutto ciò di cui può avere bisogno. Inoltre sono insistiti i paragoni con il mondo classico: l’antico, trasfigurato nel presente diventa la formula magica per rendere sopportabile e quasi piacevole quanto di oscuro o squallido c’è nel presente.
Quest’ultimo, in particolar modo, è uno stratagemma comune a tutti i poeti considerati: al loro comune timore, quello d’esser spazzati via da una società basata sulla produttività, sul grande capitale, sul lavoro delle macchine, oppongono quella che è, in fin dei conti, la stessa unica, comune risorsa ed al contempo la causa della loro emarginazione: la cultura classica. Il mondo classico, in cui si sentono a loro agio, assume nuova importanza: diventa uno schema da sovrapporre alla realtà attuale per poterla accettare oppure la condizione bucolica cui utopicamente tendere, con un atteggiamento che in qualche modo richiama
quello di Cicerone.

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