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Categoria: | Letteratura |
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Testo
Che il sole sia il centro del mondo e immobile, è assurdo e falso in filosofia e formalmente eretico, per essere espressamente contrario alla sacra scrittura che la terra non sia centro del mondo né immobile, ma che si muova è parimenti proposizione assurda e falsa in filosofia. Il tribunale del Santo Uffizio imponeva l’abiura a Galileo Galilei, reo di aver sostenuto e diffuso le teorie copernicane. La controversia sulla conformazione dell’Universo e sulla posizione reciproca della terra e del sole non era soltanto un problema astronomico. L’idea di un Universo chiuso e geocentrico teorizzata da Aristotele, conciliata con la teologia cristiana da S.Tommaso, descritta dalla Commedia di Dante, durata circa 20 secoli: ne emergeva un’immagine ordinata e gerarchizzata del cosmo, in cui ogni essere (Dio compreso) aveva una ben precisa collocazione e all’uomo spettava una posizione privilegiata al centro del creato. Metterla in discussione significava ridiscutere il senso della presenza dell’uomo nell’Universo e dei suoi rapporti con Dio, incrinando una verità solennemente proclamata dalla Chiesa, sulla quale si basava la comune credenza religiosa.
Il problema del metodo scientifico, posto da Bacone in termini teorici trova il suo sbocco più rigoroso e concreto nell’opera di Galileo Galilei fondata su uno stretto rapporto tra sperimentazione, calcolo matematico e riflessione filosofica. Dedicò tutta la vita alla ricerca scientifica, affiancando all’elaborazione teorica una continua ricerca di conferme sperimentali e applicazioni pratiche attraverso la realizzazione e l’uso scientifico del cannocchiale. Compì osservazioni astronomiche rivoluzionarie che smentivano la cosmologia aristotelico-tolemaica e convalidavano la teoria copernicana, sollevando durissime polemiche. I suoi scritti, che miravano a sostenere e divulgare le sue scoperte anche oltre la cerchia degli specialisti, gli procurarono nel 1616 una condanna dell’Inquisizione che gli intimava di abbandonare la teoria copernicana. Fu costretto, ormai settantenne, a pronunciare una pubblica abiura. Galileo è considerato il fondatore della scienza moderna, oltre che per i singoli risultati delle sue ricerche e per la diffusione delle nuove teorie astronomiche, per la sua definizione di un metodo basato sulla ragione e sull’esperienza, svincolato dal principio d’ autorità. Ma il “grandissimo libro” dell’Universo “è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche”: il suo funzionamento non può essere inteso se non si impara a decifrare quel linguaggio. Così la matematica, che fino a quel momento non aveva interagito con lo sviluppo delle scienze naturali, viene applicata all’esperienza, come strumento di calcolo, di misura, e di verifica delle ipotesi: con questo nesso tra “sensate esperienze” e “sensate dimostrazioni” Galileo pone le basi del metodo scientifico moderno. Importante e nuovo è il modo in cui Galileo imposta lo spinoso problema del rapporto tra la scienza e la religione. Tra le due non può esserci contraddizione perché si riferiscono ad ambiti distinti: la scienza si occupa del funzionamento della natura, che l’uomo può studiare e comprendere attraverso la sola ragione; la fede invece ha per oggetto quelle verità soprannaturali che lo sguardo e l’intelligenza dell’uomo non possono raggiungere e che sono state rivelate da Dio attraverso la Bibbia. Non c’è dunque conflitto tra fede e ragione, ma coesistenza pacifica, basata sulla reciproca autonomia. Questa limpida distinzione, inaccettabile per la Chiesa del tempo, mirava ad emancipare la scienza dalle intrusioni del pensiero teologico e dal controllo dell'autorità ecclesiastica, apriva anche la strada ad un modo più autentico e personale di vivere l’esperienza religiosa.
Gli sviluppi della nuova scienza non si limitano ad affossare i dogmi sui quali si fondava il sapere ufficiale ma mettono in discussione gli stessi dati della percezione e del senso comune. Per uomini vissuti in un mondo che da secoli aveva costruito le sue certezze sull’evidenza dell’Universo tolemaico, queste sensazioni dovevano essere immensamente più sconvolgenti. Avviene così che anche la cultura perda il suo centro: nelle arti figurative la crisi dell’antropocentrismo si traduce in un abbandono della prospettiva rinascimentale che rappresentava la realtà sulla misura della percezione e della razionalità umana, e nella costruzione di spazi vertiginosi ed insondabili che sovrastano e sconcertano lo spettatore; nel campo del pensiero e della mentalità si assiste all’esplosione di una molteplicità di punti di vista e di atteggiamenti in conflitto tra loro, non più riconducibili a solidi fondamenti comuni.
Nella letteratura del secondo ‘500 le tendenze innovative non si affermano in aperta polemica con le posizioni classicistiche, ma scaturiscono paradossalmente proprio dall’ossessione delle regole e dei modelli: la regolamentazione è tanto minuziosa e particolareggiata che gli autori che si propongono di applicarla sembrano perdere di vista la fisionomia complessiva degli esempi a cui si ispirano per accanirsi nell’imitazione esasperata di singoli aspetti tematici e formali, prodigandosi in virtuosistici esercizi di stile. Opere raffinate ed artificiose, prove di abilità che corrodono dall’interno quegli ideali di equilibrio, di compostezza e di armonia che erano stati alla base della cultura umanistica. Il concetto a cui la critica fa ricorso per designare queste complicate esperienze è quello di “manierismo”, un termine vago applicato inizialmente alle arti figurative per significare il culto ossessivo della forma e dello stile (maniera). Dei principali artisti del secondo ‘500.
La letteratura barocca nasce, infatti, all’insegna della ricerca della novità e dell’originalità a tutti i costi, in aperto contrasto con la precettistica cinquecentesca: per stupire e suggestionare il lettore lo scrittore può attingere liberamente a quelle scelte linguistiche e quegli aspetti della realtà che le poetiche tradizionali avevano considerato indegni del decoro estetico e morale della missione letteraria. Così il ristretto repertorio, tematico della poesia tradizionale si allarga a dismisura, abbracciando un’amplissima gamma di argomenti, dai più sublimi ai più turpi: i lirici amorosi cantano le lodo di donne brutte, vecchie, zoppe, nane, balbuzienti, infestate da pulci o pidocchi; l’erotismo si mescola al senso di morte, il misticismo alla sensualità, la bellezza alla putrefazione, l’infinitamente grande all’ infinitamente piccolo. Attraverso questa smisurata moltiplicazione delle forme, dei temi e dei punti di vista sul mondo gli scrittori barocchi vogliono provocare nel lettore n effetto violento, simile a quello prodotto dagli spazi fastosi evocati dagli architetti e dai pittori attivi negli stessi anni: lo stupore di fronte all’infinita varietà e mutevolezza del mondo, il senso della sfasatura tra apparenza e realtà, la vertigine di un universo senza confini e senza centro.
E’ tipico dello scrittore barocco porsi come uno specialista della letteratura, che mette in secondo piano la speculazione filosofica sul valore morale ed educativo dell’arte per concentrarsi sulle tecniche e gli espedienti stilistici capaci di produrre sui lettori gli effetti voluti. Nascono così numerosi trattati che si propongono di esplorare le invenzioni e i procedimenti della scrittura, basati tutti sul presupposto che l’arte ha per fine il piacere e che il piacere nasce dalla meraviglia di fronte a qualche cosa di stupefacente.
Tra l’ultimo decennio del Seicento e la prima metà del Settecento la poesia italiana è dominata dall’accademia dell’Arcadia. Fondata a Roma nel 1690 da quattordici letterati fu la prima accademia a carattere nazionale: si diffuse in Italia attraverso una rete di “colonie” e ben presto ottenne l’adesione di quasi tutti i maggiori scrittori italiani. Il nome deriva dalla regione della Grecia nella quale è ambientata la poesia pastorale greca e romana: ogni accademico prese nome da pastore greco; il luogo di raduno fu detto “Bosco Parasio”; Gesù bambino, che era stato adorato dai pastori, fu indicato come protettore. Il travestimento pastorale voleva significare il ritorno a un ideale di semplicità e naturalezza contrapposto al malgusto e all’artificiosità del barocco, in sintonia con le concezioni razionalistiche dell’arte diffuse in Europa a partire dalla fine del Seicento. Divenne, grazie alla sua struttura fortemente gerarchizzata, uno strumento della politica culturale della Curia romana, tesa a recuperare il controllo sugli intellettuali e a rendere inoffensive le concezioni razionalistiche confinandole entro il solo campo dell’arte. Contro l’ampollosità e la sregolatezza del barocco si proclama la necessità del ritorno ai classici greci e latini ed a Petrarca, ma l’opera dei grandi autori viene riletta in modo riduttivo, svuotandola della sua profondità artistica e morale per ridurla a modello di correttezza e di leggiadria. Il tema dominante è l’amore per donne dai nomi fittizi e sempre uguali (Amarilli, Filli, Clori) cantato in modo galante e sospiroso, sullo sfondo dei salotti aristocratici o di un mondo naturale stilizzato. Lo stile mira alla grazia e alla chiarezza, a un impiego garbato ed elegante della parola: si fa un uso parco delle metafore, la sintassi è semplice e lineare. Si prediligono ritmi armoniosi e cantabili, e alle forme metriche tradizionali si accosta la canzonetta, imperniata su versi brevi di facile musicalità, adatta ad essere musicata e cantata.
L’immagine di sé che Parini offrì ai suoi contemporanei è quella di un uomo austero e incorrotto, tutto dedito alla poesia, all’insegnamento, alla promozione del bene pubblico. Una chiave per interpretare la figura di Parini è data dalle sue origini sociali umili e dal suo desiderio di emanciparsi attraverso l’attività letteraria. Nasce nel 1729 a Bosisio, in provincia di Como, sul lago di Pusiano da un modesto mercante di seta. A dieci anni si trasferisce a Milano presso una vecchia zia che, morendo, gli lascia una magra eredità a patto che proceda negli studi per diventare prete. Pubblica alcune “poesie di Ripano” e grazie a questo volumetto è ammesso all’Accademia dei Trasformati che, sotto la guida del conte Giuseppe Maria Imbonati, promuoveva un moderato rinnovamento letterario e appoggiava la politica riformatrice dell’imperatrice Maria Teresa. Nel 1754 diventa sacerdote ed entra a servizio presso i duchi Serbelloni come precettore dei figli, dove resterà per nove anni; nel 1764 viene assunto, sempre come precettore, dalla famiglia Imbonati. Sono gli anni in cui nella cultura milanese, per opera del gruppo del “Caffè” si va affermando il pensiero illuminista e maturano le condizioni per una collaborazione diretta tra gli intellettuali più avanzati e il governo austriaco: nei salotti della nobiltà illuminata il provinciale e “plebeo” Parini può assistere ai riti mondani della vita aristocratica e prendere contatto con le idee dell’Illuminismo Europeo. Nel decennio 1757-1766 Parini compone le sue opere più direttamente ispirate al pensiero illuministico: le Odi civili, dedicate a problemi sociali d’attualità, e il Mattino (1763) e il Mezzogiorno (1765), le prime due parti del poema incompiuto Il Giorno, rappresentazione satirica della vita insulsa di un giovane aristocratico che resterà il suo capolavoro. Prete per necessità, professa un cristianesimo umanitario e solidaristico, nemico dei dogmatismi e delle superstizioni, basato sul principio in poesie d’occasione prende posizione contro le guerre di religione e i roghi dell’Inquisizione, e plaude alla soppressione della Compagnia di Gesù. Dell’Illuminismo accetta il principio fondamentale dell’uguale dignità di tutti gli uomini, basato sulla ragione e sulla legge di natura: nel Dialogo sopra la Nobiltà immagina che un nobile ed un pota di origine plebea, dopo la morte, si incontrino sottoterra e discutano animatamente di questo tema. Le punte estreme del pensiero illuministico che Parini non può condividere sono da un lato le tesi materialistiche e antireligiose, dall’altro le critiche radicali all’ordinamento sociale, che sfociano in proposte rivoluzionarie.
Le Odi di Parini sono 25 componimenti poetici di metri diversi, scritti in diversi momenti della vita del poeta. La tradizionale contrapposizione tra la semplicità della vita dei campi e la corruzione della città si arricchisce di motivi inediti: la campagna non è celebrata soltanto come occasione di contemplazione e di evasione idillica ma come luogo di lavoro, e agli oziosi pastori e pastorelle dell’Arcadia subentra il “villan sollecito” teso ad incrementare la produzione agricola sperimentando nuove tecniche di coltivazione. “Militante” è la Salubrità dell’Aria (1759), che riprende in chiave ecologica il tema della contrapposizione tra città e campagna, denunciando l’atmosfera malsana che incombe su Milano, e la cupidigia e l’impunità degli inquinatori. Insieme ai pastori d’Arcadia scompaiono eroi guerreschi e mitologici del repertorio tradizionale per lasciar posto ai nuovi eroi della ragione e del “pubblico bene”: il medico che combatte contro i pregiudizi per diffondere nuove cure; il giudice che mira a prevenire i delitti; il poeta educatore che batte strade solitarie e innovative per mettere il suo talento di artista al servizio della società.
Il primo Giorno si presenta come un poema didattico, in cui un precettore che narra in prima persona illustra ad un “giovin signore” di famiglia aristocratiche le “leggiadre cure” e le “alte imprese” che lo devono impegnare nel corso di una giornata, per ingannare il “lungo tedio” della sua vita oziosa e viziata. In realtà le occupazioni sono del tutto insignificanti, fare colazione, incipriarsi, intrecciare schermaglie amorose con la dama, conversare, giocare a carte, presentate con pomposa solennità e trepidante deferenza: il precettore ostenta un’incondizionata adorazione per il suo signore, che designa con appellativi come “mio divino Achille”, “celeste prole”, “gemma de’ gli eroi”; e dipinge i suoi più insulsi passatempi come atti eroici, preziosi, sublimi. Quanto più il servilismo del precettore si profonde in riverenze e salamelecchi, tanto più il lettore avverte il contrasto tra l’intonazione aulica delle lodi e la stupidità del loro oggetto e si rende conto che i giudizi espressi dal narratore sono da intendere alla rovescia; emerge così, la riprovazione di Parini per gli ingiusti privilegi del ceto nobiliare, per la sua degenerazione etica e inutilità sociale, per l’artificiosità e la fatuità dei suoi costumi di vita. Ci sono rari momenti in cui Parini non traveste il suo punto di vista ma esprime direttamente il suo sdegno morale. Resta il fatto che la figura retorica dominante nel Giorno è l’ironia, e Parini ne fa un uso estremamente corrosivo e pungente. Per conferire un tono epico alla descrizione dei personaggi più insulsi e dei comportamenti più banali ricorre a tutte le risorse della tradizione classicistica: il lessico aulico, i sinuosi giri della sintassi, le perifrasi, le similitudini belliche o mitologiche.
L’opera di teatro è costituita da un testo ma si risolve e si realizza integralmente solo nella rappresentazione per la quale d’altronde è stata concepita e scritta. E la rappresentazione comporta una serie di interventi e di componenti che interagiscono col testo, danno attuazione in misura maggiore o minore a certe sue potenzialità, stabiliscono col destinatario che è lo spettatore, un determinato rapporto. Il testo teatrale si realizza nella sua completezza e si attua sul palcoscenico. Il teatro non descrive, non narra, ma presenta direttamente i personaggi in azione deriva infatti dal greco drama=azione) e affida all’attore tutto un insieme di dati (gesti, atteggiamenti fisiognomici, timbro di voce) che nel genere narrativo possono essere invece ampiamente descritti dal narratore.
Gli autori italiani dell’età umanistico-rinascimentale si rifanno consapevolmente ai modelli classici e soprattutto latini. Nel mondo romano, la commedia, sulla quale incidono influenze e suggestioni della produzione greca, nei suoi autori più rappresentativi: Plauto e Terenzio mostra caratteristiche ben definite e, via via, codificate:
1) Rappresenta vicende e personaggi della vita di ogni giorno
2) Adotta uno stile non “alto”, quale si conviene agli argomenti elevati ma medio, concedendo larghi spazi alla mimesi del parlato
3) Risulta quasi sempre formata dalla ripresa degli argomenti di due o più commedie greche: è questa la cosiddetta contaminatio.
4) E’ divisa in blocchi di vicende equivalenti agli atti, generalmente in numero di cinque ed è preceduta da un prologo; recitato da un attore, che per così dire lo personificava, il prologo venne usato da Plauto per riassumere l’intreccio della commedia che si recitava, da Terenzio invece come occasione per parlare in prima persona, per motivare la sua polemica e polemizzare con gli avversari
5) Aliena dall’analisi psicologica, la commedia di Plauto si fonda sul comico d’intreccio, cioè sugli effetti comici che derivano dall’ingarbugliarsi delle vicende, dai paradossali imprevisti, dagli equivoci; è qualcosa di ben diverso dal comico di carattere, che si fonda invece sullo scavo psicologico del personaggio e ne mette in luce la contraddittorietà. Il comico d’intreccio nella commedia romana dà luogo ad una serie di situazioni ricorrenti, di topoi, sia sul piano della vicenda, lo scambio di persona, l’agnizione, cioè il riconoscimento finale; la beffa. Sia sul piano dei personaggi, come tipi fissi, assolvono nel meccanismo del comico: abbiamo così il servo furbo, il vecchio avaro o libidinoso, il giovane innamorato ma impigliato in una rete di difficoltà, la donnina allegra, la ruffiana…
Il contatto con questo teatro verrà stabilito, con l’Umanesimo. Prima, l’attività teatrale si riduce, o alle performance dei giullari che accompagnano la recita di versi con esibizioni mimico-acrobatiche o a manifestazioni collegate al rito religioso. Queste ultime da forme ancora piuttosto rudimentali (durante la Settimana Santa il dialogo tra l’officiante e i fedeli, la lettura a più voci di passi evangelici relativi alla Passione di Cristo) arrivano prima alla Lauda drammatica poi alla sacra rappresentazione che, centrata su episodi della vita di Cristo o dei Santi viene rappresentata per tutti in luogo aperto a tutti o su un palcoscenico.
La trama riprende i moduli consueti dell’epoca, ispirati alla commedia latina e Boccaccio: un giovane ricco, Callimaco, è furiosamente innamorato di Lucrezia, bellissima e virtuosa moglie di Nicia, un dotto attempato e ridicolo. Per vincere la virtù della donna decide di sfruttare la sciocchezza de marito, che è ossessionato dal problema di non avere figli: si traveste da medico e lo convince che Lucrezia diventerà feconda bevendo una pozione di mandragola, erba dagli effetti miracolosi, ma il primo che si accoppierà con lei dopo che abbia bevuto la medicina dovrà morire. Per evitare questo rischio a Nicia basterà rapire il primo che passa per strada e ficcarlo a forza nel letto di Lucrezia al momento opportuno ( non importa dire che costui sarà Callimaco, di nuovo travestito). Convinto il marito resta da vincere la resistenza di Lucrezia: a ciò provvede il suo confessore, fra Timoteo che attirato da laute elargizioni si presta spiegarle che quel che le si chiede di fare non è peccato. Presa tra le pressioni del marito, del confessore, e anche di sua madre, Lucrezia acconsente; dopo aver fatto l’amore con lei in incognito, Callimaco le svelerà la propria passione e Lucrezia deciderà che quello che “il mio marito ha voluto per una sera, voglio che egli abbia sempre”. Machiavelli adotta gli ingredienti tipici della commedia cinquecentesca (la beffa erotica, la figura del pedante sciocco, gli intrighi e i travestimenti, la comicità delle battute a doppio senso); ma le ambienta nella Firenze del suo tempo e dà a personaggi e a situazioni un colorito realistico. Tutta sua è poi l’invenzione del personaggio di Fra Timoteo, che si spira alla tradizionale satira contro i frati. Nell’insieme la commedia presenta un mondo dominato dalle forze del desiderio e dell’interesse, privo di ideali, un mondo i cui vince la “virtù” dell’astuzia e dell’intrigo. Si riconosce insomma la concezione della società propria dell’autore del Principe, lo stesso pessimismo anche se tradotto efficacemente in chiara e comica.
La produzione che abbiamo finora esaminato nasce tutta all’interno della letteratura, è opera cioè di autori che vivono dall’interno il dibattito culturale-letterario del loro tempo, che sono polemisti e teorici oltre che autori di opere teatrali. Le opera di cui abbiamo parlato fin d’ora appartengono quindi ad un teatro che potremmo definire “letterario”. A partire della metà del ‘500 c’è un'altra attività e produzione teatrale, che sorge e matura al di fuori del mondo letterario, che punta sul teatro come spettacolo non come testo letterario e che valorizza non l’autore ma l’attore in tutta la vasta gamma delle sue valenze (interpretative, mimiche, acrobatiche). Si tratta cioè di una produzione che, appunto perché privilegia l’essenza primigenia del teatro, potremmo definire di teatro “teatrale”; ed è quella della cosiddetta commedia dell’arte. Questa definizione sottolinea l’organizzazione di queste compagnie d’attori, esemplata sulle corporazioni professionali, sulle arti medievali. Alle spalle dei comici dell’arte c’è il giullare medievale, artefice di una forma elementare di spettacolo che trovava posto sia ne l castello feudale sia nelle piazze cittadine o nei mercati, e che aveva “un suo proprio modo espressivo, in campo internazionale inteso”, cioè il linguaggio del gesto. E’ su questa strada della tipizzazione, della figura fissa, della maschera che si pongono i primi comici dell’arte, e quando il processo sarà giunto a maturazione i grandi interpreti saranno definiti col nome della maschera impersonata e non con le loro generalità anagrafiche. Già nella rigogliosa produzione della commedia del ‘500 esisteva una tipologia che derivata tra l’altro dal teatro latino si andava cristallizzando: i furbi e gli sciocchi, il vecchio babbeo, il giovane innamorato, il servo intrigante o ruffiano, lo scambio di persona e l’agnizione. Certo, fino a quando è nelle mani di autori dotati, questo materiale non si appiattisce nella tipizzazione standard, nella maschera fissa dando così caratteristiche costanti al personaggio, creando un personaggio che ha forti componenti di tipicità. E’ questo processo iniziato quindi già dalla prima metà del cinquecento) che i comici dell’arte sviluppano sino alle ultime conseguenze cioè sino alla creazione di maschere fisse di cui sono scontate e prevedibili le vicende e la cui identificazione risulta sempre più facile e gradita agli spettatori per la persistenza di un linguaggio, di un costume, di una gesticolazione. Questa fissità della maschera, che si cristallizza e si chiude ad ogni dinamica di sviluppo psicologico e non sarà mai carattere e la “riforma” goldoniana consisterà, nel passare dalle maschere ai caratteri. Un teatro quindi, quello della commedia dell’arte, fondato sull’attore, sulle sue capacità professionali, sul suo carisma e sull’improvvisazione che tutti questi dati valorizzava. I comici dell’arte no si attenevano ad u testo di autore, ma solo ad uno scenario che era un semplice canovaccio con una sintesi della trama, la partizione in atti, l’elenco dei personaggi e delle “robe” necessarie e qualche altra indicazione sommaria; e la traduzione di questo canovaccio in spettacolo era affidata all’estro e alle risorse di cui il singolo attore disponeva. Esistevano degli zibaldoni, dei brogliacci che contenevano dialoghi (d’amore, di sdegno, di separazione), sonetti, tirate, lazzi. L’attore inseriva questo materiale a sua scelta nel momento della recita che a lui sembrava più opportuno; o addirittura creava, improvvisava una situazione per inserire uno di questi testi.
Nelle sue memorie, Carlo Goldoni si presenta come un “uomo pacifico e di sangue freddo”, animato da convinzioni e atteggiamenti tipicamente settecenteschi: curiosità cordiale per i più vari aspetti della realtà, amore dell’avventura e dei viaggi, gusto per i piaceri e le gioie della vita, equilibrata apertura alle nuove idee di libertà e tolleranza. Si riflettono come in un variopinto affresco i costumi, i sentimenti, i vizi e le virtù che animarono la società del suo tempo. Il padre, medico, “non poteva fissarsi i nessun luogo”: a dodici anni Carlo lo segue a Perugia, dove inizia gli studi. Un anno dopo è mandato a Rimini a studiare filosofia, ma la scuola lo annoia e ciò che più lo appassiona è il teatro, la vita avventurosa e vagabonda degli attori. Intraprende gli studi di giurisprudenza a Pavia, ma viene espulso dal collegio per aver scritto una pepata satira contro le ragazze della città: Si laurea in legge a Padova. La prima commedia vera e propria è Momolo Cortesan un copione a soggetto in cui però la parte del protagonista è scritta per intero, e la Donna di garbo, interamente scritta in ogni sua parte. In quattro anni scrive con ritmo febbrile una quarantina di commedie di grande successo che si allontanano in modo sempre più deciso dagli schemi della commedia dell’arte, modificando a poco a poco le abitudini degli attori e del pubblico. L’attività goldoniana si situa sullo sfondo di una situazione culturale particolarmente dinamica: a Venezia ci sono ben 14 teatri, che si contendono senza esclusione di colpi i favori degli spettatori. Goldoni sperimenta generi e tematiche nuove. Ormai è diventato una celebrità nazionale e viene chiamato a lavorare a Bologna, Parma, Roma. Ma intanto sulla scena veneziana è comparso un nuovo e più pericoloso concorrente, che propone una radicale alternativa di gusto e di stile al teatro goldoniano: l’ultraconservatore conte Carlo Gozzi, che accusa Goldoni di volgarità, cattivo gusto, spirito sovversivo, e ottiene grande successo di pubblico con le sue fiabe teatrali e accetta di trasferirsi a Parigi come autore teatrale presso la “Comedie italienne”.
Goldoni è prima di tutto un uomo di teatro, che frequenta da vicino gli attori, sa fiutare i gusti del pubblico, si appassiona agli aspetti finanziari, tecnici, artigianali del mestiere che gli dà da vivere. Nella prefazione alla prima raccolta delle sue commedie scrive con la sua principale fonte di ispirazione non sta nei volumi ma in due “libri” legati alle concrete esperienze della sua vita: quello del mondo e quello del teatro. Il primo gli ha offerto “un ‘inesausta miniera d’argomenti” messe in scena: i personaggi e i fatti curiosi, le passioni, i costumi e le mode, i vizi da deridere e le virtù da esaltare. Il secondo gli ha insegnato le tecniche e i trucchi adatti a suscitare nel pubblico “la meraviglia” il “riso” e “quel tale dilettevole solletico dell’uman cuore”. Goldoni si ispira all’osservazione della vita quotidiana, sempre pronto a rimaneggiarli se le circostanze esterne lo richiedono. La sua riforma della commedia volta a “rialzare l’abbattuto teatro italiano”, non si svolge linearmente ma procede per successivi aggiustamenti con frequenti cambiamenti di direzione, in continuo dialogo con le esigenze, le propensioni, i capricci degli attori, degli impresari e del pubblico. La distanza di Goldoni dai due modi dominanti di concepire il teatro comico: da un lato la staticità degli accademici e dei classicisti, adoratori dei precetti di Aristotele e Orazio, fautore di un “purgatissimo” linguaggio teatrale, ma incapace di far divertire un pubblico vasto e composito, dall’altro la commedia dell’arte che riscuote un grande successo popolare ma contravviene ai dettami della moralità e del buongusto, assecondando le peggiori tendenze degli spettatori. Così Goldoni, d’accordo in questo con le posizioni dell’arcadia, conferisce una nuova importanza al testo letterario scrivendo per intero i copioni delle commedie, e l’impronta a quelle idee di naturalezza, misura, moralità che vanno per la maggiore fra i letterati del tempo. Non dimentica che il testo scritto è solo uno dei molti ingredienti dello spettacolo teatrale e che lo scopo fondamentale della commedia è “l’istruzione del popolo attraverso il suo divertimento e diletto”: mantiene vivo il legame con l’immediata capacità comunicativa, la vivacità dei meccanismi spettacolari, la rapidità dei movimenti e dei dialoghi a cui la commedia dell’arte deve il suo largo successo di pubblico; e ricorre spesso ai canovacci tradizionali, per costruire, attraverso ampliamenti e rielaborazioni, le trame delle sue commedie. Oltre alla scrittura integrale dei testi, l’altra fondamentale novità che Goldoni introduce nel teatro comico è la graduale abolizione delle maschere: nella commedia dell’arte Pantalone, Arlecchino; Brighella, Colombina erano dei “tipi” stereotipati e fissi, sempre uguali a se stessi; ad essi Goldoni sostituisce nuovi caratteri, nei quali si può sbizzarrire il suo gusto per l’osservazione dell’infinita varietà della vita, attribuendo a ciascun personaggio atteggiamenti, vizi, virtù, manie, tic ricorrenti che lo definiscono come un individuo vivo e concreto, capace di suscitare l’identificazione e l’ilarità degli spettatori. Questa tendenza a fare della commedia una “copia di quanto accade nel mondo” capace di registrare tempestivamente le novità e i cambiamenti che lo percorrono, è confermata dalla valorizzazione dei personaggi femminili in cui è colto il nuovo ruolo che la donna si sta conquistando nella società. Goldoni vuole imprimere alle sue commedie scritte in italiano o in veneziano, il tono di “una familiar conversazione” utilizzando un linguaggio semplice e naturale, che sia a portata di tutti. L’italiano si libera dall’impaccio di una tradizione enfatica e artificiosa per modellarsi sul parlato, appoggiandosi ora ai costrutti e al lessico dei dialetti settentrionali ora a un toscano “medio” e colloquiale. L’esaltazione dei valori borghesi, la satira della boria e del parassitismo dell’aristocrazia, il gusto per la definizione psicologica dei personaggi, comuni a molte opere di questi anni, culminano nella locandiera, ultima commedia scritta per il teatro S.Angelo in lingua italiana.
“Ragione” è la parola d’ordine che per tutto il Settecento risuona nei discorsi degli intellettuali e dei letterati. Le radici filosofiche di questa svolta culturale vanno cercate nella rivoluzione scientifica di Galileo e di Newton, nel razionalismo di Cartesio, nell’empirismo di Locke, ma il pensiero settecentesco va oltre le conquiste intellettuali del secolo precedente. Il metodo sperimentale e l’analisi razionale propri delle scienze naturali vengono applicati al campo della politica, della morale, della religione, uscendo dagli ambiti riservati agli specialisti per toccare i problemi che riguardavano la vita di ogni uomo e investire ogni campo della cultura, compresi quei principi trascendenti (Dio, l’anima, l’autorità) che nel ‘600 erano stati salvaguardati da rigide censure e autocensure. “Bisogna esaminare tutto, buttare all’aria tutto, senza eccezioni e senza riguardi” proclama Denis Diderot sulle pagine dell’Enciclopedia: è il conflitto tra i “Lumi” della ragione e le “Tenebre” dell’ignoranza da cui prende nome l’illuminismo. Agli inizi del ‘700 questo orientamento del pensiero si sviluppa principalmente sullo sfondo della liberale e borghese Inghilterra, che godeva di un clima di tolleranza unico in Europa, ma attorno alla metà del secolo il centro del movimento diviene la Francia. Qui gli intellettuali hanno a che fare con una situazione politica e culturale chiusa e repressiva: ne deriva un atteggiamento più polemico ed intransigente ed una maggiore radicalità delle prese di posizione in campo filosofico, sociale e religioso. L’affermazione dei valori della ragione si trasforma così in una vera e propria battaglia politica e culturale, destinata a confluire con le rivendicazioni della borghesia in ascesa e ad incrinare i fondamenti delle vecchie strutture politiche. Parigi diventa la capitale culturale d’Europa, gli intellettuali di tutte le nazioni parlano, leggono, scrivono in francese, e i philosophes acquistano una vera e propria egemonia sulla cultura europea. Ai loro suggerimenti e alle loro consulenze si appoggia “l’assolutismo illuminato” dei sovrani di Austria, Russia e Prussia intenzionati a promuovere politiche riformatrici nei loro Stati.
Le proposte politiche avanzate degli illuministi sono molto diverse: Voltaire propende per l’assolutismo illuminato, Montesquieu per una monarchia costituzionale all’Inglese basata sulla divisione dei poteri. Rousseau immagina un’organizzazione statale fondata sulla democrazia diretta. Nei fatti la massima espansione del pensiero illuminista, propiziata dalla fitta circolazione delle idee e degli uomini attraverso l’Europa, viene assecondata dalla politica dell’Assolutismo Illuminato e raggiunge il suo culmine intorno agli anni ’80. Nei due decenni successivi scossi dalle drammatiche vicende delel rivoluzioni americana e francese, alcuni capisaldi ideologici dell’Illuminismo entrano in crisi. La guerra tra la Francia rivoluzionaria e le potenze europee seguita dalle prime imprese militari di Napoleone diffonde per l’Europa una nuova idea di Nazione, come patrimonio spirituale, collettivo ch eogni cittadino deve difendere ed affermare, in netto contrasto con lo spirito cosmopolita e pacifista dei philosophes. Anche l’ottimismo di fondo sulla natura umana e la convinzione della perfettibilità dell’uomo e della società vengono minati dalle tragiche vicende del terrore e dal generale sconvolgimento che caratterizza l’europa di fine secolo. Ce n’è abbastanza perché vengano messe sotto accusa le fondamenta stesse del pensiero illuminista. Il centro più importante della reazione anti-razionalistica è in Germania, dove, fin dal 1770, per impulso di Goethe e Herder, nasce il movimento dello Sturm und Drang (tempesta e assalto) che, riallacciandosi direttamente o indirettamente al pensiero di Rousseau oppone all’aridità e alla freddeza della ragione illuminista l’esaltazione dell’istinto, del sentimento, della passione. Quel medioevo ch egli illuministi consideravano l’epoca più buia della storia, viene rivalutato come età della fede, dell’entusiasmo, dell’eroimo, contrapposta al freddo grigiore del secolo della ragione: “forze e virtù d’onore e di libertà, d’amore e di valentia, di cortesia e di parola”. Scrive Herder “ridateci la vostra devozione e superstizione, l’oscurità e l’ignoranza , il disordine e la rozzezza di costumi e prendetevi la luce e l’incredulità, la snervata freddezza e la raffinatezza, la filosofica rilassatezza e l’umana miseria nostra!”
Strettamente collegati alle nuove idee sull’arte sono due orientamenti della produzione artistica che si affermano in Europa nella seconda metà del ‘700. D aun lato il neo-classicismo fenomeno abbastanza circoscrivibile ed omogeneo, almeno ai suoi inizi; una serie di manifestazioni artistiche diverse tra loro che a posteriori sono state raccolte dalla critica sotto l’etichetta di “preromanticismo”. Il neo-classicismo è legato ad un tema tipico del pensiero illuministico: il desiderio di recuperare l’originaria semplicità e razionalità della natura umana liberandola dalle distorsioni determinate dallo sviluppo della libertà. Questo atteggiamento conferisce un significato nuovo al rapporto con gli ideali e le forme dell’antichità classica: sono gli anni in cui nasce la scienza archeologica: si scoprono Ercolano e Pompei e si diffonde una maggiore consapevolezza della distanza storica del mondo classico, visto come momento iniziale e privilegiato della storia dell’umanità, caratterizzato da una naturaleza e da una pienezza di vita perdute dalla società presente. Il principale teorico del neoclassicismo, l’archeologo e storico dell’arte tedesco Winckelmann individua nella scultura greca l’esempoi più alto di un’arte “secondo natura”, ch econdensa nella sua perfetta e armoniosa bellezza tutti i valori attribuiti al mondo clasico: equilibrio tra corpo e spirito, serenità, controllo dele passioni. Così l’aspirazione ad imitare ed attualizzare la bellezza classica in risposta alle esigenze della contemporaneità non ha solo un significato estetico, ma anche filosofico e morale, come riproposta di un modello di uomo libero ed austero, in armonia con se stesso, con la natura e con la società. Il neo-classicismo ha una forte influenza anche sulla letteratura, a cui offre un canone di prescrizioni tematiche e stilistiche: i riferimenti al mondo ellenico e alla mitologia, le descrizioni nitide e regolari, il lessico aulico, la scrittura elegante e controllata. L ariproposta della tradizionale idea del “bello” come armonia tra le parti e dell’arte come imitazione, la formulazione di norme e criteri di gusto chiari e definiti, il ripudio dell’”irregolarità” barocca in nome della compostezza e del controllo delle passioni avvicinano l’estetica neoclassica alle concezioni razionalistiche dell’arte. Il principale carattere comune degli autori e delle oper che in seguito saranno definiti “preromantici” è una concezione decisamente antirazionalistica e anticlassicista dell’arte: rifiuto di ogni regola che pretenda di imbrigliare la soggettività dell’artista, l’interpretazione accesamente pasionale dei concetti di “sublime” e di “genio”; esaltazione della natura selvaggia ed incontaminata; ammirazione per l apoesuia popolare primitiva e barbarica: questi atteggiamenti i ritrovano in una serie di manifestazioni artistiche che nascono in ordien sparso in diverse parti d’Europa, accomunate soltanto dal fatto di opporsi alle tendenze dominanti nel secolo, senza avere alle spalle un retroterra comune paragonabile a quello del neoclassicismo.
Il Settecento è, in tutta Europa, il secolo del teatro. Aumenta il numero degli spettatori; in tutte le città importanti nascono teatri a pagamento ch eaccolgono un pubblico di varia estrazione sociale; la professione dell’attore e l’attività teatrale si liberano gradualmente dalla marginalità e dal discredito a cui la chiesa e la morale dominante le avevano condannate nei secoli precedenti. Con la diffusione del pensiero illuministico lo spettacolo teatrale, capace di parlare ad un pubblico più vasto di quello della letteratura scrita, viene concepito come veicolo di nuove idee e strumento per la trasformazione della società. Mentre restano vivi e diffusi generi come la trageia, la commedia dell’arte, il melodramma, si profila progressivamente un mutamento del gusto, legato alla preminenza del pubblico borghese: i generi tradizionali si rinnovano e ne nascono di nuovi, come la “Commedia lacrimosa e il Dramma borghese”.
Anche la commedia dell’arte-altro genere teatrale egemone fra Seicento e primo Settecento-appare agli occhi dei letterati di gusto razionalista e arcadico come un esempio delle sregolatezze artistiche e morali del barocco. Si profila anche in questo campo l’esigenza di una “riforma” che ridimensioni lo spazio lasciato agli aspetti spettacolari per restituire centralità al testo scritto e decoro alla rappresentazione.
Vittorio Alfieri uomo in perenne conflitto con se stesso e col mondo, dilaniato da selvaggi furori e tetre malinconie, ferocemente avverso ad ogni limite imposto dalla società all’individuo. Gli anni dell’infanzia, funestati dalla morte del padre, e dalla precoce separazione dall’amatissima sorella, raffigurati come un’epoca di “vegetazione”, interrotta dall’esplodere dei “primi sintomi di un carattere appassionato”. In poco più di un decennio compone le sue opere maggiori: i trattati politici della Tirannide e del Principe e delle Lettere, le 19 tragedie e gran parte delle Rime.
La vita di Alfieri, è dominata da un senso di sradicamento e di solitudine, da una fremente rivendicazione della propria unicità ed eccezionalità in totale contrasto col mondo circostante. Negli scritti politici la ripugnanza per l’ottimismo e il gradualismo del secolo dei lumi, l’insofferenza per ogni vincolo che limiti la libertà individuale, l’ansia dei sentimenti e gesti titanici si traducono nell’evocazione di ideali astratti, di figure eroiche, di tragici conflitti psicologici non riconducibili a ipotesi ragionevoli e praticabili di trasformazione della società. Il trattato della Tirannide è centrato sul conflitto mortale che contrappone l’uomo libero al potere assoluto: analizza la struttura della tirannide, i sentimenti, le istituzioni, le forze sociali che le fanno da puntello, e individua i modi di resistenza e di ribellione nei suoi confronti. La cupa e solitaria figura del tiranno, circondato dal terrore e spaventato egli stesso dall’orribile ostilità da cui è attorniato, diventa il simbolo di tutto ciò che ostacola e limita l’individuo; e il suo antagonista, l’uomo eccezionale che pur di non vivere da schiavo sceglie la solitudine o il suicidio, o tenta l’impresa disperata di uccidere il tiranno, è l’incarnazione eroica ed astratta della libertà “divina, impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensità”. Il “liber uomo” è caratterizzato da “forte sentire”, un impulso istintivo proprio di pochi individui superiori, sconosciuto ai “turpissimi armenti” è dunque esclusa ogni possibilità di alleanza o di progetto collettivo che coinvolga le masse popolari. Alfieri non apprezza neppure il nuovo tipo di scrittore che fa della letteratura un mestiere, rendendosi “schiavo” dei gusti del pubblico: per poter svolgere senza compromessi la sua missione di banditore di verità e della libertà il poeta deve essere economicamente e socialmente indipendente, incurante del consenso dei contemporanei e tutto teso a dar voce alle spinte profonde e spontanee del suo “impulso naturale”. Più che affrontare concreti problemi sociali e politici, i trattati di Alfieri esprimono aspirazioni, sentimenti, attrazioni e repulsioni del tutto personali, che si condensano in una concezione della letteratura sospesa tra spinte innovative ed elementi conservatori. Da una parte il culto per la libertà, l’immagine dello scrittore come individuo eroico e isolato in conflitto coi tempi, l’idea dell’arte come espressione soggettiva e spontanea delle passioni si collocano nell’ambito delle teorie estetiche più avanzate del secondo ‘700 presso i romantici italiani. Dall’altra il disprezzo per le masse, l’incomprensione del processo di rinnovamento messo in moto dall’Illuminismo, si possono ricondurre a pregiudizi sociali e culturali del nobile.
Per dare piena espressione ai furibondi contrasti che animano la sua fantasia, Alfieri si affida alla tragedia, la forma teatrale più aspra e truce offerta dalla tradizione letteraria. La sua scansione è in 5 atti, pochi personaggi; rispetto delle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Quasi tutte sono centrate sul conflitto mortale fra un tiranno ed un eroe della libertà che precipita inesorabilmente verso un finale di sangue. I due antagonisti, pur incarnando principi opposti, spesso si somigliano per il “forte sentire” che li anima e li isola in una solitudine eroica: un impulso incontrollabile verso la totale affermazione di sè, una ripugnanza feroce per ogni limite che ostacoli l’espansione della loro personalità, un urgere di emozioni ed ossessioni oscure che la ragione non riesce a dominare. Ci sono poi le “tragedie della libertà”, centrate sul tema del tirannicidio, in cui l’eroe rischia la vita nella speranza di risvegliare la coscienza addormentata del popolo; e quelle più mosse, che intrecciano variamente le tematiche libertarie con quelle amorose e familiari
Il clima culturale del primo Ottocento è caratterizzato da un generale ripudio dei valori tipici dell’Illuminismo, accusato di essere astratto, livellatore, riduttivo della ricchezza dell’esperienza umana:
-si afferma la supremazia dell’intuizione e del sentimento sulla ragione analitica, contro il razionalismo illuminista;
-si proclama il valore dell’individuo, contro la tendenza settecentesca a mettere in primo piano i tratti universali che accomunano il genere umano;
-si esaltano le differenze nazionali, contro il cosmopolitismo illuminista;
-si rivalutano le tradizioni e l’evoluzione storica, contro la negazione illuminista del passato;
-si torna alla religione, si afferma il primato dello spirito sulla materia, contro il materialismo e l’esaltazione della scienza tipici del Settecento.
Il classicismo, cioè un ideale di composta armonia perseguito attraverso il richiamo a modelli antichi, è stato sempre presente nell’arte e nella letteratura europea, dal Rinascimento in poi. Col termine Neoclassicismo s’ intende un fatto più specifico: una corrente di gusto che si afferma a partire dalla metà del settecento come reazione al barocco, alla sua ricerca dell’effetto stravagante, dell’ornato stracarico, al suo misto di intellettualismo e sensualità; contro queste tendenze, il richiamo neoclassico all’antico mira a uno stile sobrio e austero, che unisca la semplicità alla monumentalità. Nel periodo della rivoluzione francese e dell’impero napoleonico il neoclassicismo diventa il gusto dominante in Europa in tutti i campi della letteratura e dell’Arte, fino ad influenzare l’abbigliamento (lo Stile Impero) e la moda. Nonostante la sua impronta archeologica, lo stile neoclassico si presenta come lo stile moderno per eccellenza dell’epoca: ad esso si ispirano i rivoluzionari, che proiettano i propri ideali negli eroi della repubblica romana antica, ma neoclassica è anche l’arte ufficiale dell’Impero Napoleonico, che cerca la propria consacrazione in una monumentalità ispirata all’antico.