Italo Calvino

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Testo

Italo Calvino


"Nostro padre si sporse sul davanzale. -Quando sarai stanco di star lì cambierai idea!- gli gridò. -Non cambierò mai idea,- fece mio fratello, dal ramo. -Ti farò vedere io, appena scendi!-
-E io non scenderò più!- E mantenne la parola." (Il barone rampante)



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Calvino nasce a Cuba, a Santiago de Las Vegas, nel 1923 ma a meno di due anni è già in Italia, a Sanremo. Il padre infatti era ligure e la madre di Sassari, si trovavano nelle Antille per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola di agraria.
Il retaggio derivatogli da una famiglia i cui componenti erano tutti (i genitori, ma anche gli zii) scienziati ha sicuramente influenzato alcune opere e saggi successivi dello scrittore oltre che la scelta della facoltà universitaria: Agraria.
Per evitare l’arruolamento nell’esercito della Repubblica di Salò,entra a far parte della Resistenza,
partecipando attivamente alle azioni di una formazione delle Brigate Garibaldi (comuniste) sulle Alpi Marittime.Nel dopoguerra milita nel PCI e nel frattempo passa alla facoltà di Lettere di Torino dove si laurea nel 1947.




Argomento della sua tesi fu J. Conrad. Nello stesso periodo entra in contatto con la casa editrice Einaudi e conosce Pavese e Vittorini.
Il suo primo libro, "Il sentiero dei nidi di ragno" viene pubblicato nel 1947, grazie all'interessamento di Pavese, e si rifà proprio all'esperienza della Resistenza inserendosi nella corrente neorealistica che nacque nel primo dopoguerra. Molto interessante, a tal proposito, l'introduzione all'opera, scritta dall'autore stesso nel 1964 per una nuova edizione del libro.


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Nei primi anni '50, su suggerimento di Vittorini, Calvino decide di puntare sull'ispirazione fantastica. Nascono tre romanzi poi raccolti nel volume "I nostri antenati" : "Il visconte dimezzato" (1952) ,"Il barone rampante" (1956) e il "Cavaliere inesistente" (1959). Questi tre libri ,ambientati in un vago passato, hanno uno stretto legame col presente e con i suoi problemi. Rimangono certamente il punto più alto raggiunto dall'opera di Calvino: in essi prevale la componente fantastica e ironica, filtro necessario per misurarsi con il reale e l'amore per la favola ( si ricordi a tal proposito "Fiabe italiane" (1956), una raccolta delle più belle fiabe popolari italiane divise per regione e mirabilmente tradotte dal dialetto ). Nel "Visconte dimezzato e nel "Cavaliere inesistente" ritroviamo il prevalere del male sul bene e l'uomo alienato di Marx, la cui personalità svapora all'interno di una professione. Nel "Barone rampante" compare invece la problematica del rapporto tra intellettuale e società. La visione di Calvino dell'argomento ci riporta alla Francia settecentesca e al "Secolo dei Lumi", all'intellettuale che deve staccarsi dalla società, prenderne le distanze per meglio poterla comprendere.


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Con "Marcovaldo" (1963, ancora l'alienazione) si chiude il periodo dell'ispirazione puramente fantastica e si apre quello del romanzo-saggio.
Nel mezzo il breve filone realistico ( "La nuvola di smog" e "La speculazione edilizia" rispettivamente del 1957 e 1958) che tratta problemi del tempo quali l'industrializzazione e la cementificazione selvaggia e che culmina col breve romanzo "La giornata d'uno scrutatore"(1963). Qui lo scrittore affronta temi terribili come l'emarginazione e la degradazione a livello subumano e si chiede se esista un tipo di organizzazione della società che possa sopperire agli errori dell'ordine naturale.
Nel 1957 dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) che provocò una crisi in molti intellettuali comunisti, Calvino esce dal PCI (anche se resta sempre su posizioni di sinistra) e nel 1964 si trasferisce a Parigi, entrando in diretto contatto con la cultura francese.
Calvino è stato definito uno scrittore di testa piuttosto che di cuore e, in effetti, dai primi anni '60 in poi si affaccia nelle sue opere il retaggio scientifico di cui si è già detto e nasce una fase molto sperimentale della narrazione : vengono pubblicate "Le cosmicomiche" (1965) e "Ti con zero" (1967). Bisogna però ricordare che lo scrittore ligure si avvale del dato scientifico come di una carica propulsiva per costruire situazioni irreali e paradossali, grandi invenzioni narrative, immagini quasi fumettistiche al fine di verificare ipotesi razionali come quelle sulla nascita dell'universo.
In questo modo il vecchio romanzo si sfalda, si annulla, e diventa quasi un saggio, una ipotesi narrativo-scientifica. Si ricordino a tal proposito i raffinatissimi "Il castello dei destini incrociati"(1972), dove una serie potenzialmente infinita di storie nasce da un mazzo di Tarocchi e "Le città invisibili"(1973). Ma è del 1979 il libro più maturo dell'attività dello scrittore :"Se una notte d'inverno un viaggiatore". E' anche questo un romanzo saggio, anzi, il romanzo del narrare, il racconto delle peripezie a cui il Lettore la Lettrice sono costretti per poter completare il libro che stanno leggendo.
La trama si delinea sotto i nostri occhi e mette in luce gli artifici su cui la letteratura si fonda. Fino al suo ritorno in Italia avvenuto nel 1980, lo scrittore aveva sempre seguito con interesse e partecipazione le vicende italiane collaborando a vari giornali “Il Corriere della Sera” e “Il Giorno”.L'ultimo lavoro di Calvino sono le "Lezioni americane" scritte poco prima della morte nel 1985, si tratta dei testi di alcune conferenze che avrebbero dovuto tenersi all'università di Harvard. L'argomento è la presenza, nella letteratura di tutti i tempi, di sei categorie: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Consistenza (quest'ultima mai scritta).






Il sentiero dei nidi di ragno
(le parti in corsivo tratte dall'introduzione dell'autore del 1964)



Romanzo d’esordio di Calvino che si colloca nell’ambito del Neorealismo.
Protagonista è Pin, ragazzino cresciuto nei vicoli della vecchia San Remo, che un giorno ruba una pistola ad un ufficiale tedesco e la nasconde in un fosso dove "fanno i nidi i ragni". Poi Pin fugge ed entra a far parte di un gruppo di partigiani. A molti racconta della sua pistola e del posto segreto in cui l'aveva nascosta. Ma a nessuno interessa veramente, a nessuno importa granchè dei nidi di ragno. Pelle, uno dei partigiani, trova la pistola ma tradisce e si arruola nella brigata nera fascista. Solo Cugino, al termine del racconto, si sofferma con Pin a cercare le tane dei ragni, a guardarci dentro. Cugino è l'amico che Pin sognava e cercava. Insieme si allontanano, nella “notte piena di lucciole che,come le donne, viste da lontano sono bellissime ma da vicino sono schifose”.
Attraverso gli occhi di un bambino Calvino ci racconta vicende di guerra e rapporti umani. L'ambiente è quello dei proletari e sottoproletari proprio della corrente neorealistica ma la differenza sta nel fatto che qui ogni cosa è vista attraverso lo sguardo di un bambino e di conseguenza proiettata in un mondo di fiaba. I partigiani, a volte, sembrano quasi gnomi del bosco, il cuoco del distaccamento pare uscito da un racconto di Salgari, col suo falchetto sulla spalla e il suo passato trascorso a bordo di centinaia di navi per tutti i mari del mondo.
Lo scrittore, nell'introduzione scritta nel 1964, ha modo di precisare che nell'estraneità dello sguardo di Pin si metaforizza il suo stesso rapporto con la guerra partigiana, l'inferiorità che lui sentiva, in quanto "borghese", verso quel mondo.
In questo suo primo romanzo Calvino getta il seme di quelle che saranno le caratteristiche principali del suo percorso letterario: il realismo e l' ispirazione fantastica :" ...Fu Pavese il primo a parlare in tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me ne ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione..."
Per lo scrittore ligure, il neorealismo, fu un insieme di voci provenienti dalle più disparate parti del paese e ad esse profondamente ancorate con i dialetti e i gerghi che impastavano la lingua letteraria, ma fu anche l'occasione per fermare sulla pagina scritta il mondo dei boschi, dei nascondigli, di uomini armati e inseguimenti.
Calvino non vuole offrire un quadro celebrativo e agiografico della Resistenza “…la banda partigiana che rappresento è costituita dagli scarti di tutte le altre formazioni, da una serie di emarginati, di balordi, di picari…”ma intende dimostrare che anche chi si era impegnato nella lotta senza chiare motivazioni ideali, sentiva “un’elementare spinta di riscatto umano” e si trasformava così in forza storica attiva.
La Resistenza ne esce quindi non santificata ma nemmeno disprezzata, vista attraverso il filtro della favola che, come in altre opere di Calvino, è il componente necessario per comprendere la realtà.
I nostri antenati
( Il visconte dimezzato; Il barone rampante; Il cavaliere inesistente )
Nei tre romanzi pubblicati negli anni '50, "Il visconte dimezzato",
"Il barone rampante" e "Il cavaliere inesistente", Calvino analizza la figura
dell'uomo contemporaneo e il suo rapporto con la società.
Trattandosi di tre favole, per di più ambientate in un passato più o meno immaginario
fatto di cavalieri, re, castelli e dame, questo può apparire inverosimile.
Il visconte dimezzato:il visconte di Merardo di Terralba,durante le guerre contro i turchi a fine Cinquecento,viene diviso in due da una palla di cannone:ne nascono due personaggi opposti, il Gramo e il Buono, che incorrono in varie avventure, l’uno compiendo sistematicamente il male,l’altro il bene, sinchè un intervento chirurgico torna a riunirli in una sola persona.
Il barone rampante:il barone Cosimo Piovasco di Rondò, nel 1767, a dodici anni, in seguito ad uno scontro con il padre autoritario, decide di salire sugli alberi e di non discenderne più per il resto dei suoi giorni.Riesce tuttavia ad organizzare perfettamente la propria esistenza e a condurre una vita a suo modo “normale” e operosa: non si isola infatti dal mondo, ma al contrario continua a partecipare alla vita che si svolge attorno a lui, collaborando con i suoi interventi a renderla migliore, e segue gli sviluppi della storia politica e culturale, allacciando rapporti con gli intellettuali illuministi.
Il cavaliere inesistente:ambientato all’epoca di Carlo Magno e narrato dalla monaca Teodora.Il breve romanzo segue le avventure di un cavaliere,Agilulfo, che non ha corpo ma esiste come pura volontà, così forte da tenere unita e far muovere una splendida armatura bianca, ma vuota.
Intorno ad Agilulfo ruotano molti personaggi:
-Gurdulù: lo scudiero di Agilulfo,povero matto che è il suo esatto opposto, in quanto
vive senza esserne cosciente.
-Rambaldo: un giovane che venuto al campo per vendicare la morte del padre, s’innamora
di Bradamante,la donna cavaliere che a sua volta s’innamora dell’insensibile
cavaliere inesistente.
-Torrismondo: mette in dubbio la verginità di Sofronia quando la giovane era stata salvata
da Agilulfo sul punto di essere violata da due briganti.
Da questo intreccio Agilulfo esce sconfitto: oppresso dall’onta dell’accusa, che non riesce a dimostrare falsa, perde quella forza di volontà che lo faceva agire pur essendo inesistente,abbandonando così in giro i pezzi della sua armatura.
Gli altri concludono lietemente le loro vicende:
-Torrismondo si unisce a Sofronia
-Rambaldo scopre in un convento Bradamante che –sorpresa finale- è proprio la monaca
Teodora che ha raccontato la storia.
Analizziamo però i protagonisti: Il Visconte Medardo ritorna in patria diviso in due da
una palla di cannone, una metà è buona, l'altra cattiva; il barone Cosimo, per protesta
nei confronti del padre decide di andare a vivere sugli alberi e di non scendere più;
lo zelantissimo cavalier Agilulfo ,invece, in realtà non esiste, esiste solo la sua volontà
di compiere il proprio dovere.
I tre hanno in comune il fatto di avere una caratteristica ben definita, una regola fissa
che rispettano per tutto il corso del romanzo e nella quale definiscono la propria
personalità.
Sono esseri emblematici, balzani, che tentano disperatamente di realizzarsi come umani
opponendosi ai limiti imposti dal mondo, dalla società e dalla loro stessa incompletezza.
Noi non sappiamo nulla dell'esistenza di Medardo prima del colpo di cannone e dopo
l'operazione che lo ha "riunito", non possiamo neppure immaginare Cosimo
che cammina tranquillamente per strada, al suolo; e cosa sarebbe Agilulfo senza il suo zelo,
la sua condotta perfetta e precisa di paladino? Un'armatura vuota, abbandonata,
come accade alla fine del romanzo.
L'uomo di Calvino si compie in quello che fa e che è. Non è la lotta tra bene e male
e il trionfo di uno sull'altro quello che veramente si vuole sottolineare nel "Visconte
dimezzato" , quello che conta è "l'approfondimento ostinato di ciò che si è". Buono o cattivo non importa, il contrasto serve solo a sottolineare il dimidiamento. Questo perchè
"dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l'uomo contemporaneo; Marx lo disse 'alienato', Freud 'represso'; uno stato d'antica armonia è perduto, a una nuova completezza s'aspira."
La favola del visconte assume in modo evidente un valore allegorico,quello del “doppio”,
che allude alle componenti contrastanti della personalità umana.
L’idea di fondo però è che solo attraverso la scissione si può acquistare una più profonda conoscenza della realtà: al termine della sua vicenda il visconte, di nuovo unificato, può valersi dell’esperienza delle sue due metà separate.
Cosimo per poter capire la società, per occuparsi di essa e del bene del prossimo, se ne
deve staccare in modo radicale. Solo così raggiunge la propria autodeterminazione. C'è, nel
"Barone rampante" un vago sapore di settecento francese, la convinzione che l'intellettuale
debba allontanarsi dal mondo circostante per meglio poterlo comprendere. Il passato in questo romanzo è meno vago che negli altri due e alcuni riferimenti storici sono piuttosto
precisi e reali. Calvino sembra qui immedesimarsi col protagonista e non semplicemente
raccontare una storia.
Agilulfo invece esiste solo nella sua professione e nella sua volontà.
Quando il suo compito finisce, al termine di una serie di ariosteschi inseguimenti,
l'armatura perde vita.
Scrive Calvino (tra l'altro, probabilmente il migliore e più chiaro commentatore
di se stesso): "Ho voluto fare una trilogia d'esperienze sul come realizzarsi esseri umani
: nel Cavaliere la conquista dell'essere, nel Visconte l'aspirazione a una completezza al
di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una
completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà a un'autodeterminazione
individuale. Tre gradi d'approccio alla realtà."




Marcovaldo


Dieci racconti dedicati a Marcovaldo, un manovale di origine contadina che con la sua famiglia si trova inserito nell’alienante città industriale moderna e con disarmante candore tenta di sopravvivere ai suoi meccanismi,finendo per stravolgere i comportamenti e gli oggetti più usuali in forme surreali e stralunate.Nei modi lineari del comico e del fiabesco (che nella loro elementarità si rivolgono anche ad un pubblico infantile) le storie di Marcovaldo affrontano un problema reale e urgente in quegli anni,la seconda rivoluzione industriale e l’impatto devastante che essa aveva sul tessuto sociale di un’Italia ancora contadina.L’estraneità dello sprovveduto Marcovaldo a quel mondo nuovo e complesso assume nei confronti di esso una funzione straniante, facendone emergere con critica acutezza gli aspetti più assurdi. A queste storie, riunite nel 1958 nel volume dei Racconti, Calvino ne aggiunse poi altre dieci, raccogliendole nel volume
Marcovaldo ovvero le stagioni in città (1963).




La giornata di uno scrutatore


Questo breve romanzo è il culmine del filone “realistico”.
Il protagonista, Amerigo Ormea, durante le elezioni politiche del giugno 1953 è scrutatore di un seggio collocato all’interno del Cottolengo, l’istituto religioso torinese che raccoglie i casi umani più disperati.
Intellettuale comunista, laico, egli si scontra con una realtà che non può essere sistemata nei suoi schemi interpretativi: il mondo della sofferenza, della degradazione dell’uomo a livello subumano, della pura materia dolente.
Amerigo si arrovella così su due problemi centrali, che investono i fondamenti della sua visione marxista del reale.Innanzitutto si chiede se una società diversamente organizzata potrà risolvere problemi del genere e sconfiggere gli errori dell’ordine naturale, cioè se la storia potrà vincere la natura; in secondo luogo mette in discussione la sua stessa nozione di uomo, che si fonda sulla fiducia schiettamente umanistica nell’uomo consapevole di sé e dominatore del proprio destino.
Nella conclusione del romanzo Amerigo si rende conto che la “città” , cioè la comunità civile organizzata,non è solo quella dell’ Homo Faber, dell’uomo attivo e “sano”, che lavora e produce, ma anche quell’universo derelitto in cui si raccoglie tutta la “miseria della natura”, la “città dell’imperfezione”,che è anch’essa una comunità attiva e operosa nell’alleviare la sofferenza.
La “miseria della natura” e la crisi dell’ideologia
In questo brano tratto dal romanzo si nota un momento di crisi dell’umanesimo totale che colpisce il protagonista.
In un primo tempo l’intellettuale comunista appare corazzato dalle sue certezze ideologiche dinanzi alla realtà atroce della malattia e della degradazione dell’umano:”…solo il nostro è umanesimo totale…”, “…solo noi potremo organizzare istituti cento volte più efficienti di questo!…”, pensa “con la sua certezza di superiorità”.
Ma poi,quelle certezze a poco a poco si sfaldano dinanzi alle creature ospitate nel Cottolengo.
Dinanzi alla “miseria della natura”,un’idea astratta dell’uomo si dissolve e con essa tutta una serie di certezze politiche.Le idee di “libertà” e “giustizia” al cospetto di quella “miseria” perdono senso.E’ quella che ad Amerigo sembra una “crisi religiosa”, che lo porta pessimisticamente a ipotizzare che l’azione per contrastare il male s.ia inutile, a mettere in dubbio “la politica,il progresso,la storia”,dinanzi alla “vanità del tutto”.
Però poi, al vedere l’operosità,l’attività incessante dell’istituto, il protagonista sembra recuperare la sua fiducia storicistica e laica nel “fare”, e torna al convincimento iniziale:”…anche questo mondo dei minorati poteva diventare diverso, e lo sarebbe certo diventato, in una società diversa…”.




Le cosmicomiche


Nei racconti che fanno parte di questo libro, Calvino prende spunto da una teoria scientifica per trovare l'impulso necessario alle sue invenzioni narrative.
Si tratta di una serie di racconti che traducono in forme narrative ipotesi scientifiche sull’origine e l’organizzazione del cosmo, sulla struttura della materia, sui corpi celesti, sull’evoluzione della vita.
Consideriamo in particolare il primo racconto: "La distanza dalla luna". La storia è introdotta, come tutte le altre, da un brevissimo prologo di sapore scientifico che serve da "motivo di partenza" e che viene poi sviluppato dall'immaginazione dello scrittore.
Protagonista è Qfwfq, che assume le più varie fisionomie e si è trovato presente nei più diversi momenti dell’evoluzione del cosmo, quindi può parlare come testimone diretto
Racconta di come milioni di anni fa la luna fosse vicinissima alla
terra, raggiungibile con una scala a pioli, poi si allontanò da essa a causa delle maree.
Sulla luna praticamente attaccata alla terra si andava a raccogliere il "latte lunare", proprio durante una spedizione il satellite si allontanò portandosi via la donna amata da Qfwfq che da quel giorno guarda il cielo e alla fine del racconto ci confida: "...m'immagino di vederla, lei o qualcosa di lei ma nient'altro che lei, in cento in mille viste diverse, lei che rende Luna la Luna e che ogni plenilunio spinge i cani tutta la notte a ululare e io con loro."
La teoria, il dato scientifico, diventano nelle "Cosmicomiche" invenzione pura. Ritorna l'amore per la favola, per i personaggi senza tempo, il gusto per il gioco. Li potremmo immaginare come striscie a fumetti questi racconti, come scene di cinema muto.
Non sono avvicinabili alla letteratura di fantascienza perchè in essi non c'è nulla di futuristico, c'è piuttosto una parodia del mito delle origini, un'atmosfera strana e affascinante. E ci sono passi di poesia indimenticabili.
Altra cosmicomica molto particolare è “Tutto in un punto” in cui Qfwfq ci racconta di come tutta la materia destinata a dar vita all’universo era originariamente concentrata in un punto, senza spazio né tempo, analizzando alcuni dei pochi personaggi presenti sul punto,(dove tra questi c’era lui) come il signor De Xuaeaux e la signora Ph(i)nKo (i nomi sono la parodia di irte formule fisiche e chimiche).
Il testo termina con un allegro divertimento sul tema erotico, in cui la condizione originaria della materia rappresenta una realtà sessuale ideale, felice, senza conflitti né frustrazioni, perché tutti gli esseri sono compenetrati nello stesso spazio puntiforme.
La signora Ph(i)nKo trasforma in una sorta di Grande Madre, di divinità femminile e materna, calda e generosa che con un atto d’amore ( le tagliatelle) genera lo spazio e il tempo.

“…Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei (la signora Ph(i)nKo) dicesse: -Ragazzi,avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! – e in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei movendosi avanti e indietro con il matterello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei caldato sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano,bianche e unte d’olio fin sopra al gomito;pensammo lo spazio che avrebbero occupato la farina,e il grano per fare la farina,e i campi per coltivare il grano e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e a massi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta,e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)nKo pronunciava quelle parole: - …le tagliatelle, vè ragazzi! - …”




"Il castello dei destini incrociati" e "Se una notte d'inverno un viaggiatore": la sfida al labirinto.


Nel 1962, sulla rivista "Menabò" , viene pubblicato un articolo-saggio di Calvino intitolato "La sfida al labirinto."
Il "labirinto" è il dipanarsi continuo e potenzialmente infinito delle strade della narrazione. Questo concetto in particolare caratterizza la produzione del Calvino più maturo che in questo labirinto si addentra, scoprendone gli artifizi e i meccanismi.
Consideriamo a questo proposito due opere in particolare: "Il castello dei destini incrociati"(1969) e "Se una notte d'inverno un viaggiatore" (1979).
E' evidente, in queste due opere, la volontà dell'autore di esplorare le molteplici strade che una vicenda può prendere, sottolineando come ogni decisione presa dal protagonista o da un personaggio implica una serie praticamente infinita di variazioni.
Nel primo, raffinatissimo, romanzo i personaggi si trovano in un castello al centro di un bosco, seduti intorno ad un tavolo. Non possono parlare a causa di una specie di incantesimo e per raccontare la loro storia si servono di un mazzo di tarocchi. Affiancano una carta all'altra costruendo la vicenda e intersecandola con quella di un altro convitato.
Calvino costruisce un "cruciverba" perfetto di storie (ne traccia anche un preciso schema) in cui ogni tarocco compare una sola volta e perfettamente si inserisce nella vicenda. "...Passavo giornate a scomporre e a ricomporre il mio puzzle, escogitavo nuove regole del gioco, tracciavo centinaia di schemi, a quadrato, a rombo, a stella, ma c'erano carte essenziali che restavano fuori e carte superflue che finivano in mezzo..."
Nella seconda parte del libro "La taverna dei destini incrociati" il meccanismo rimane lo stesso, cambia solo il fatto che qui una carta può comparire più volte all'interno di una storia, non esiste quindi uno schema preciso.
La macchina combinatoria da cui prende l'impulso il "Viaggiatore" è invece diversa. Calvino si identifica non con l'autore del libro ma con il lettore. Non si tratta di un romanzo, ma della combinazione degli incipit di 10 differenti romanzi la cui lettura, per una serie di incredibili e inverosimili cause (quinterni di pagine mancanti, libri che sono in realtà altri libri e appaiono sotto falso titolo ecc...) non può essere portata a termine dal "Lettore" e dalla "Lettrice". I due protagonisti cercano in tutti i modi di trovare i seguiti delle storie e si imbattono in professori, artisti, falsificatori di romanzi, traduttori, editori .
Al termine dell'opera il "Lettore" entra in una biblioteca con l'elenco dei 10 libri interrotti. Gli viene fatto notare che i titoli formano un acrostico che a sua volta è l'incipit di un altro romanzo.
"...Lei crede che un racconto abbia un inizio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l'eoe e l'eroina si sposavano oppure morivano..."
Il Lettore, rassegnatosi a non trovare il seguito dei racconti, decide così di sposare la Lettrice.
Paradossalmente in questa maniera si giunge al termine del libro.
Appare chiaro come l'idea di Calvino sia anche qui, come nel "Castello", quella di dimostrare che , nella narrazione, ogni avvenimento produce molteplici effetti che diramano e frammentano la storia. Nel tentativo di risalire all'incontrario la sequenza di cause ed effetti si producono altre cause ed altri effetti.
Non bisogna però ridurre queste due opere alla stregua di semplici esperimenti, ma è necessario cogliere il gusto per il divertimento e l'intento "giocoso" di "smascherare" alcuni dei mezzi che la letteratura utilizza per prendere vita.


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