Giovanni Verga e il verismo

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Testo

GIOVANNI VERGA
La poetica del Verismo trovò la sua più alta realizzazione artistica nell'opera di Giovanni Verga, con Manzoni il più grande narratore italiano dell'Ottocento.
Partito da moduli espressivi tardo - romantici, nei quali tradusse il disagio delle sue inquietudini giovanili, Verga trovò nel Verismo il punto di approdo sia della sua concezione della vita sia della sua esperienza artistica.
La sua «conversione» al Verismo lo condusse infatti a porre al centro della sua ispirazione artistica il «mondo dei vinti» della natia Sicilia, le plebi contadine nel cui destino e nei cui valori destinati alla sconfitta egli vedeva confermata la sua personale concezione pessimistica della vita.
E così Verga, che non credeva né al progresso né al socialismo, riuscì a dare la rappresentazione più vera e convincente di una realtà che costituiva l’emblema della società italiana del tempo:
- costruendo con la sua opera, benché da essa sia assente ogni intento di denuncia, un grande atto di accusa che sale dalla viva voce della stessa realtà sociale descritta;
- dimostrando la falsità della fiducia ottimistica nel progresso e nella scienza di cui si nutriva la cultura borghese e positivista.
La sua opera matura suonò sgradita presso il pubblico borghese del tempo e Verga, mentre i nuovi miti dannunziani e decadenti cominciavano a riscuotere successo in Italia, si ritirò durante gli ultimi anni nel silenzio e nel suo isolamento siciliano.
La formazione. Verga si orientò fin da giovanissimo, scartando i moduli classicisti della formazione scolastica, verso la produzione narrativa, nella quale espresse via via le sue esperienze di vita con moduli espressivi tardo - romantici.
Le prime prove narrative - i romanzi di ispirazione patriottica e di ambientazione borghese - coincisero infatti con le esperienze giovanili: la spedizione garibaldina in Sicilia e il suo entusiasmo liberale; la sua vita brillante ed irrequieta nell'ambiente mondano di Firenze e Milano. Ma il momento centrale della sua formazione, che ispirò la sua narrativa maggiore, furono i primi anni milanesi, durante i quali conobbe e approfondì gli elementi essenziali che determinarono la sua «conversione verista»:
• la conoscenza dell'opera e della poetica di Zola e del Naturalismo francese, discussa e approfondita con l'amico Capuana;
• l’incontro con il darwinismo, dal quale trasse l’idea della lotta per la sopravvivenza come elemento determinante nello sviluppo della storia umana;
• gli studi e le discussioni sulla questione meridionale (le inchieste di Jacini, Franchetti, G. Fortunato) attraverso i quali scoprì la condizione di miseria delle plebi siciliane.
La vita. Nacque nel 1840 a Catania, da una ricca famiglia di proprietari terrieri di origini nobiliari.
Ricevette un'educazione di impronta liberale, si nutrì di letture tardo romantiche e dei realismo francese (Dumas, Flaubert), iniziò giovanissimo a scrivere romanzi di ispirazione patriottica.
Iscrittosi nel 1858 all'università di Catania, interruppe nel 1861 i suoi studi di legge per arruolarsi nella Guardia Nazionale al tempo dell'impresa garibaldina in Sicilia.
Il soggiorno fiorentino (1865-1872). Avendo deciso di dedicarsi alla sua vocazione letteraria, dal 1865 iniziò a compiere frequenti viaggi a Firenze, dove si stabilì definitivamente nel 1869.
Qui frequentò circoli letterari e salotti aristocratici, dove conobbe, tra gli altri, Aleardi, Prati, Fusinato e scrisse Storia di una capinera (1871), il romanzo che gli diede la fama.
Il soggiorno milanese (1872-1894). Nel 1872 si trasferì a Milano dove visse un ventennio, pur ritornando spesso in Sicilia e compiendo viaggi all’estero. La sua fama gli aprì le porte dei salotti aristocratici e dei circoli letterari della città: conobbe l’ambiente della Scapigliatura, strinse amicizia con Capuana e De Roberto, frequentò gli ambienti teatrali della Scala, visse le sue più importanti e inquiete vicende sentimentali.
Durante il soggiorno milanese scrisse la maggior parte della sua produzione narrativa, sia i romanzi di ambientazione borghese sia le novelle e i romanzi veristi.
Il ritorno in Sicilia (1894-1922). Nel 1894, disseccatasi ormai la sua vena creativa, Verga ritornò a Catania, dove lavorò ancora al suo «Ciclo dei Vinti», senza però concludere alcun romanzo e a qualche lavoro teatrale. Si chiuse infine per un ventennio, fino alla morte, in un aristocratico silenzio, cui probabilmente non fu estraneo il mutato gusto del pubblico, che perdeva interesse per le «storie vere» e si avviava ad ammirare gli affascinanti eroi dannunziani.
Nominato senatore nel 1920, mori a Catania nel 1922.
L'ideologia. Nato e cresciuto nell'ambiente dell'aristocrazia agraria siciliana, Verga sembra trascinarsi il retaggio di quella cultura, i cui elementi centrali sono il senso fatalistico della vita e il conservatorismo politico.
Pur vivendo nell'ambiente borghese e positivistico della società milanese, Verga trovò proprio nel darwinismo la conferma della sua visione pessimistica e conservatrice della vita, che lo portava a considerare la struttura della società come una struttura immobile:
• La vita gli apparve infatti come un'impari lotta contro il destino, poiché la lotta per la sopravvivenza coinvolge tutte le classi più alte, ed ha come unica conclusione la sconfitta del singolo che tenta di mutare il proprio stato;
• Nella stessa trasformazione economica e sociale, che egli sentiva come momento inevitabile del progresso umano, vedeva al contempo la dissoluzione e la morte del mondo contadino e dei valori solidaristici della sua civiltà arcaica.
La poetica. La «conversione verista» - documentata nella produzione novellistica ed in particolare in Fantasticheria - consentì a Verga di trovare il canone artistico adatto a dare piena espressione sia al suo mondo poetico che alla sua ideologia:
• superando - attraverso il canone dell’impersonalità - l’urgenza autobiografica e i moduli tardo- romantici che avevano segnato i suoi romanzi di ambientazione borghese;
• rappresentando – attraverso il canone della scientificità – le leggi della lotta per la sopravvivenza che confermavano la sua concezione pessimistica della vita.
Il confronto e il contrasto tra la «realtà» delle plebi siciliane e la «falsità» del brillante mondo cittadino portò Verga a scoprire nel mondo degli umili e dei vinti il soggetto privilegiato della sua poetica:
• poiché la loro miseria consentiva di rappresentare nel modo più evidente il meccanismo deterministico della lotta per la sopravvivenza;
• poiché la genuina semplicità del loro mondo morale e dei loro valori esprimeva la condizione universale dell'uomo e del suo destino di sconfitta.
Nel 1878 scrisse una lettera all’amico Salvatore Paolo - Verdura dove si preannuncia: ad un “ciclo” di romanzi, la definizione di realismo, come “schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa”, anche se non fa riferimento all’utilizzo del metodo scientifico.
Scritti di poetica. Verga maturò la sua conversione al Verismo intorno alla metà degli anni settanta. Tra i suoi scritti, nei quali affronta questioni di poetica dal punto di vista teorico, vanno segnalati:
L'Introduzione, alla novella Nedda (1874), la prefazione all’Amante di Gramigna (1880), la Prefazione al romanzo I Malavoglia, nelle quali egli dichiara esplicitamente la sua adesione ai canoni del Verismo ed in particolare a quelli dell'impersonalità e della scientificità.
Fantasticheria (1878): più che una vera e propria novella è il richiamo alla memoria di un suo breve soggiorno ad Acitrezza in compagnia di una signora dell'alta società, la quale passa in brevissimo tempo dall'entusiasmo per la bellezza del paesaggio e per l’ambiente “primitivo” al disgusto e alla noia per la monotonia di quel borgo di pescatori. Per Verga invece è l’occasione per calarsi dentro il mondo quotidiano di quell’umile gente, capirne la condizione materiale ed il diverso sistema di valori, svolgendo così un primo nucleo di temi e motivi che ricorreranno poi ne I Malavoglia.
L'OPERA lo svolgimento dell’opera si può distinguere in tre periodi: il primo romantico e scapigliato; il secondo rappresentato dai romanzi e dalle novelle veriste; il terzo è un tentativo di narrativa socialista, ma in realtà fu soltanto verghiano.
La produzione preverista. La prima produzione giovanile - i romanzi di ispirazione patriottica - ha scarso rilievo dal punto di vista letterario: lo stile è retorico, la lingua ancora incerta.
Più significativi sono i romanzi di ambientazione borghese, scritti durante il soggiorno fiorentino e i primi anni milanesi, che testimoniano la sua adesione al gusto tardo - romantico del momento e gli diedero la fama.
Sono tutti ambientati nel mondo brillante e corrotto della mondanità cittadina, e si caratterizzano per:
• La predilezione per il tema della passione travolgente e fatale, dai toni fortemente melodrammatici; la presenza di donne fatali e sensuali, la degradazione morale e materiale di personaggi inevitabilmente condannati alla morte;
• Il motivo autobiografico dell'artista sradicato dal suo ambiente natale, soggetto - oggetto di amori travolgenti, in continua tensione tra l'inserimento nel gran mondo e il ritorno agli affetti familiari. Eppure, già in questa produzione tardoromantica, vi sono elementi che anticipano la futura svolta verista:
• I protagonisti sono tutti dei [vinti], trascinati alla morte da un oscuro destino;
• Vi compare una decisa polemica contro la società borghese dedita al lusso e al denaro, cieca di fronte alle miserie degli umili.
Romanzi di ispirazione patriottica:
(Catania) Amore e patria (1857), I carbonari della montagna (1862) ambientato in Calabria ai tempi di G. Murat, Sulle lagune (1863) che narra la passione di una donna italiana per un ufficiale asburgico.
Romanzi di ambientazione borghese: Una peccatrice (1866): fortemente autobiografico, narra di un intellettuale piccolo borghese di Catania, che conquista il successo e la ricchezza ma vede inaridirsi l’amore per la donna sognata e adorata, e ne causa così il suicidio.
Storia di una capinera (1871): romanzo sentimentale che narra l'amore impossibile di una novizia la quale, costretta alla clausura, muore di dolore alla notizia che il giovane di cui si era innamorata si è sposato.
Eva (1873): ricompare il tema autobiografico nella storia di un giovane pittore catanese e del suo amore travagliato per una ballerina, simbolo della corruzione di una società “materialista”. Divenuto famoso, incapace di riconquistare l'amore della ballerina, si ritira in Sicilia dove muore di consunzione.
Tigre reale (1873): storia di un giovane diplomatico che, travolto dalla passione per una nobildonna russa, abbandona la famiglia. Dopo una crisi interiore però abbandonerà la nobildonna che, colpita dalla tisi, muore.
Eros (1875): storia morbosa degli amori di un giovane aristocratico che amoreggia sia con la cugina che con un'amica di lei; il romanzo si conclude con il suicidio del protagonista.
Le novelle segnano l'inizio della narrativa verista di Verga. Nedda, è il primo tentativo verista, ma non del tutto verista, perché troppo di frequente lo scrittore sembra partecipare della pietà che gli ispira la sua creatura sventurata, il mutamento rispetto ai moduli narrativi precedenti però c’è:
• La protagonista è un’umile contadina;
• La narrazione di fatti e azioni sostituisce l'analisi psicologica e il dramma interiore;
• La voce narrante è interna al mondo descritto, domina il dialogo diretto.
Nella raccolta Vita dei Campi Verga approfondisce la sua esplorazione del mondo contadino siciliano, dominato da pregiudizi ancestrali e dalla dura legge dei bisogno e del lavoro, animato da personaggi primitivi con le loro passioni e le loro sconfitte.
In queste novelle c'è già il mondo dei futuri romanzi, dominato dalla legge della lotta per la sopravvivenza e dell’inesorabile sconfitta per chi tenta di uscire dal proprio mondo per conseguire un progresso materiale.
(Milano) Novelle rusticane. Composte subito dopo I Malavoglia, caratterizzate da uno stile ormai maturo, svolgono tematiche dagli orizzonti più ampi: il motivo economico non è più visto come sola necessità ma come avidità di ricchezza (anticipando così Mastro don Gesualdo), compaiono temi storico - sociali che denunciano implicitamente l'incapacità dell'unificazione nazionale di risolvere i problemi siciliani.
Le Novelle: (Milano) Nedda (1874): vi si narra la vicenda di una raccoglitrice di olive la cui vita è contrassegnata dagli stenti e dai lutti. Muore infatti il giovane di cui si è innamorata e muore d'inedia anche la piccola figlia.
Vita dei campi (1880), raccolta di novelle scritte tra il 1876 e il 1880. Tra le altre:
• Fantasticheria;
• Cavalleria rusticana: Turiddu, antico innamorato di Loia, viene ucciso per gelosia dal marito della sua amante, Alfio;
La lupa: è la storia di una popolana dalla torbida sensualità, la quale insidia il genero che infine la ucciderà;
• Rosso Malpelo: dramma di un fanciullo che, abbruttito dal lavoro e dalla miseria, muore travolto da una frana, come il padre, in una cava.
Novelle rusticane (1883). Tra le novelle più significative:
• Libertà: narra la storica rivolta dei contadini del paese di Bronte contro i notabili locali, al tempo della conquista garibaldina della Sicilia, repressa dalle truppe di Bixio.
• La roba: a Mazzarò la morte appare come un'ingiustizia, perché lo separa da quella «roba» che egli ha avidamente accumulato.
I Malavoglia. E’ il romanzo che apre il ciclo verghiano de I Vinti e che per l'esemplarità delle vicende narrate e per l'originalità della tecnica e dello stile rappresenta la migliore realizzazione della narrativa verista.
Il tema della vicenda è la dolorosa esperienza di sofferenze e di lutti di una famiglia di pescatori che l'ansia del miglioramento economico porta alla dissoluzione. L'idea che lo ispira esprime il pessimismo verghiano: per quanto gli uomini si affannino e lottino alla ricerca dei meglio, essi non possono sfuggire all'inflessibilità del destino. A chi tenta - come i Malavoglia - di uscire dalla propria condizione è riservata una catena di miserie e di lutti. L’unico spiraglio di speranza è dato dal rispetto della sacralità dei valori atavici: per chi resta fedele ai valori della casa e della famiglia (l'«ideale dell'ostrica») e rinuncia alla lotta per il progresso esiste una possibilità di salvezza, che coincide con la rassegnazione e l'accettazione dell'immobilismo sociale.
Lingua e stile. La novità maggiore del romanzo è l'adozione di una tecnica narrativa del tutto nuova e antiletteraria. Verga reinterpreta il canone verista dell'impersonalità con una soluzione stilistica che gli consente di non tradire parole e pensieri dei suoi personaggi: egli infatti scompare nella voce dei personaggi stessi o nel coro dei parlanti popolari (una voce interna al paese e alla storia) attraverso l'adozione del loro lessico, delle loro strutture sintattiche, dei loro proverbi. L'adesione al loro mondo morale risulta così totale, e da essa scaturisce l'originalità e l'espressività dello stile verghiano.
Il ciclo dei “Vinti” e I “Malavoglia”
Parallelamente alle novelle Verga concepisce il disegno di un ciclo di romanzi, che riprende il modello di Zola. Il primo accenno a questo disegno è in una lettera a Salvatore Paola Verdura, in cui Verga annuncia di avere in mente “una fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro all’artista”. A differenza di Zola però Verga non pone al centro del suo ciclo l’intento scientifico di seguire gli effetti dell’ereditarietà, ma esclusivamente la volontà di tracciare un quadro sociale, di delineare “la fisionomia della vita italiana moderna”, passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari alla borghesia di provincia all’aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza. Verga non intende soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i “vinti”, che “piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti”. Al ciclo viene premessa una prefazione, che chiarisce gli intenti generali dello scrittore: nel primo romanzo, I Malavoglia, tratta della semplice lotta pei bisogni materiali. Anche lo stile e il linguaggio devono modificarsi gradatamente in questa scala ascendente, e ad ogni tappa devono avere un carattere proprio, adatto al soggetto.
Risulta una particolare configurazione della struttura romanzesca, una costruzione bipolare. Si tratta di un romanzo corale, popolato di personaggi, senza che spicchi un protagonista. Ma questo “coro” si divide nettamente in due: da un lato si collocano i Malavoglia, e alcuni personaggi a loro collegati, che sono caratterizzati dalla fedeltà ai valori puri; dall’altro la comunità del paese, pettegola, cinica, mossa solo dall’interesse. Si alternano quindi nella narrazione due punti di vista opposti, quello nobile e disinteressato dei Malavoglia e quello gretto e ottuso degli altri abitanti del villaggio. Questo gioco di punti di vista ha una funzione importantissima. L’ottica del paese ha il compito di straniare sistematicamente i valori ideali proposti dai Malavoglia. Quei valori, onestà, disinteresse, altruismo, visti con gli occhi della collettività appaiono “strani”, non vengono compresi, anzi vengono stravolti e deformati.
Il ciclo de «I Vinti». Nella Prefazione a I Malavoglia Verga traccia il progetto di un ciclo di romanzi che illustrino la lotta per la vita e la ricerca del meglio da parte degli uomini. (5)
Egli non mette in discussione l'idea ottocentesca dei «grandioso» cammino dell'umanità alla «conquista del progresso», ma afferma il suo interesse per le vicende dei deboli che in questa lotta «cadono per via», travolti dalla loro stessa ricerca dei meglio. Nasce così il ciclo de I Vinti, che ne I Malavoglia illustra la lotta per la sopravvivenza materiale, in Mastro don Gesualdo l'avidità per la ricchezza, e che avrebbe dovuto proseguire negli altri romanzi che non scrisse: ne La Duchessa de Leyra la vanità aristocratica, ne L'onorevole Scipioni l'ambizione politica, ne L'uomo di lusso l'esasperazione di tutte le bramosie.
Malavoglia (1881). Nel paesino siciliano di Acitrezza, popolato di pescatori e contadini, si svolge la storia del fatale disfacimento della famiglia dei Toscano, detti «Malavoglia», i quali possiedono una casa («la casa del nespolo») e una barca («la Provvidenza»).
Il vecchio padron 'Ntoni, il patriarca della famiglia, nel tentativo di sollevarne le sorti economiche acquista a credito un carico di lupini per tentarne il commercio.
Ma il naufragio della barca, e con esso la perdita del carico e la morte di Bastianazzo (figlio di padron 'Ntoni e padre di cinque figli), dà il via ad una lunga catena di disgrazie.
Per pagare il debito dei lupini «la casa dei nespolo» viene venduta e così la famiglia si smembra: Luca muore in guerra (Lissa, 1866), il giovane 'Ntoni si dà al contrabbando, Lia si dà alla prostituzione ed infine padron 'Ntoni muore. Soltanto Mena e Alessi, il quale con il suo duro lavoro riuscirà a riscattare «la casa del nespolo», si salvano dalla rovina.
I Malavoglia
Cap. I. Nel paese di Aci Trezza vive la famiglia dei Toscano, conosciuti col soprannome di Malavoglia, anche se i suoi componenti sono sempre stati ottimi marinai e grandi lavoratori. Essi sono dei «possidenti», perché loro è la Provvidenza, la barca da pesca, e la casa del nespolo, dove abitano. La famiglia si compone di padron'Ntoni, suo figlio Bastianazzo, la nuora Maruzza (detta la Longa) e dai nipoti 'Ntoni, il più grande, poi Luca, Mena (detta Sant'Agata), quindi Alessi e Lia che all'inizio del romanzo sono bambini. L'azione comincia nel 1863 con la partenza di 'Ntoni chiamato per la leva di mare che dura 5 anni. Durante la sua assenza padron 'Ntoni decide di comprare un carico di lupini e di trasportarlo con la Provvidenza dove potrà rivenderli con un grosso guadagno: sarebbe la tranquillità economica assicurata per la famiglia. I lupini vengono acquistati dall'usuraio zio Crocifisso (soprannominato Campana di legno) tramite la mediazione del sensale del paese, Piedipapera.
Cap. II. La barca dei Malavoglia parte al tramonto; sopra c'è Bastianazzo. Lo sguardo si sposta sul paese dove si formano due crocchi, uno di uomini e l'altro di donne, che chiacchierano del più e del meno: è il mezzo usato dal narratore per presentare una parte dei personaggi. Tra gli uomini ci sono don Franco, il farmacista, che si proclama mazziniano, don Giammaria, vicario filoborbonico, e don Silvestro, segretario comunale e maestro di scuola. Tra le donne, oltre alla Longa, Anna, una povera vedova, Venera Zuppidda, la moglie del calafato, Grazia. la moglie di Piedipapera e Nunziata, una fanciulla orfana di madre e abbandonata dal padre che alleva i suoi fratelli più piccoli. Alla fine del capitolo compare Alfio Mosca, un povero carrettiere vicino di casa dei Malavoglia, innamorato di Mena, con la quale ha un tenero colloquio.
Cap. III. È la notte in cui la Provvidenza fa naufragio, con tutto il carico, durante una tempesta. Il dramma non viene raccontato direttamente, ma al traverso la descrizione della reazione del paese; le notizie ci incrociano e l'ultima a sapere che Bastianazzo è annegato è sua moglie.
Cap. IV. Vi sono le esequie in casa Malavoglia e tutto il paese vi partecipa; entrano così in campo altri personaggi e si conoscono altri retroscena che riguardano soprattutto affari e progetti di matrimonio: la Vespa, nipote di zio Crocifisso vuole sposare lo zio ricco, il quale, a sua volta, pensa di sposarla per impossessarsi delle terre della nipote; la figlia di Turi Zuppiddu e comare Venera, Barbara, sulla quale hanno mire matrimoniali don Silvestro e tanti altri; padron Fortunato Cipolla, ricco possidente di terre e di barche, che vuole trovare una moglie per il figlio Brasi e pensa a mena Malavoglia, purché abbia una dote.
Cap. V. Continuano le manovre matrimoniali, durante le quali scoppia la gelosia di zio Crocifisso nei confronti di Alfio Mosca perché teme che il carrettiere voglia soffiargli i possedimenti della Vespa. Viene intanto ripescata la Provvidenza che, adeguatamente riparata da mastro Zuppiddu, potrà riprendere il mare. I Malavoglia si danno da fare per avere una dilazione sul pagamento del debito con zio Crocifisso.
Cap.VI. 'Ntoni, insofferente del servizio militare, ottiene il congedo secondo la legge che permette la sostituzione con un parente: al suo posto andrà Luca. Egli torna al paese e comincia a lavorare con gli altri della famiglia, ma è scontento della vita che fa; intanto fa la corte a Barbara Zuppidda. Lo zio Crocifisso, per non renderci troppo impopolare nel paese, finge di vendere in cambio di 500 lire il credito che ha con i Malavoglia a Piedipapera, che, essendo più povero, potrà avere meno scrupoli nel far sequestrare la barca e la casa; infatti la questione va per vie legali. I Malavoglia apprendono dall’avvocato Scipioni che barca e casa hanno un'ipoteca dotale, rientrano cioè nella dote della Longa e non possono essere sequestrate. Ma padron 'Ntoni, fedele alla parola data, vuole comunque pagare il debito; inoltre don Silvestro, geloso di 'Ntoni per la corte che fa a Barbara, per rovinare la sua famiglia ed eliminarlo come concorrente, convince la Longa a togliere l'ipoteca dotale.
Cap. VII. Luca parte per il servizio militare. La Provvidenza riprende il mare. In paese nascono dei tafferugli perché il governo vuole imporre il dazio sulla pece: è l'occasione che fa scatenare tutte le inimicizie. Ora che i Malavoglia sembrano rimettersi in piedi, comare Zuppidda mostra di non sgradire un eventuale matrimonio tra sua figlia e 'Ntoni.
Cap. VIII. All'inizio del capitolo la scena si sposta nell'osteria di Santuzza, meta degli sfaccendati del paese; l'ostessa si rifornisce del vino da massaro Filippo che glielo fa arrivare di contrabbando, con la complicità di don Michele, il brigadiere, che in cambi riceve i favori di Santuzza; egli però dà la caccia ad altri contrabbandieri, come Rocco Spatu e Cinghialenta che, organizzati da Vanni Pizzuto, il barbiere, e da Piedipapera, fanno entrare nel paese caffè e zucchero. Una notte c'è uno scontro a fuoco sulla spiaggia, ma don Michele non riesce a catturare nessuno. Intanto si comincia a parlare del fidanzamento di Mena con Brasi Cipolla; Alfio Mosca, addolorato, abbandona il paese e va a lavorare alla Bicocca.
Cap. IX. Mentre si celebra il fidanzamento di Mena, giungono in paese due marinai che portano la notizia della sconfitta di Lissa: dopo vari giorni si saprà con sicurezza che vi è morto Luca. I Malavoglia, impossibilitati a pagare il debito, devono abbandonare la casa del nespolo e trasferirsi in affitto nella casa del beccaio: ora non sono più possidenti, il fidanzamento di Mena è rotto e 'Ntoni viene respinto dalla Zuppidda.
Cap. X. C'è una tempesta: la Provvidenza è sbattuta sulla spiaggia e padron 'Ntoni si ferisce; 'Ntoni comincia a passare le giornate all'osteria. Una passata di acciughe eccezionale procura un buon guadagno e riaccende le speranze dei Malavoglia che sperano di riscattare la casa del nespolo. Padron 'Ntoni guarisce.
Cap. XI. 'Ntoni vuole andarsene dal paese, ma viene convinto dalla madre a restare; dopo però che la Longa muore per il colera, abbandona la famiglia per andare a cercare fortuna altrove.
Cap. XII. La Provvidenza non può essere governata senza 'Ntoni e quindi viene venduta. Padron 'Ntoni e Alessi cominciano a lavorare come salariati sulle barche di padron Cipolla, sempre accumulando soldo su soldo per recuperare la casa del nespolo. Una notte torna 'Ntoni, più povero di prima; il nonno cerca di farlo lavorare con lui, ma il giovane passa le giornate tra l'osteria della Santuzza e la bottega di don Franco che inutilmente tenta di inculcargli le sue idee repubblicane.
Cap. XIII. 'Ntoni diventa il mantenuto della Santuzza che litiga con don Michele; questo provoca una lite tra i due. La Vespa riesce finalmente a farsi sposare dallo zio Crocifisso. Don Michele comincia a fare la corte a Barbara Zuppidda, ma, respinto, rivolge le sue attenzioni su Lia Malavoglia che si è fatta una signorina.
Cap. XIV. Santuzza, nella situazione creatasi, vede intralciato il suo traffico del vino: scaccia quindi 'Ntoni e si riprende come protettore e mantenuto don Michele. 'Ntoni per campare si mette nel giro del contrabbando con Rocco Spatu e Cinghialenta; una notte viene sorpreso da don Michele e, anche per l'astio che prova per lui, gli dà una coltellata nella pancia. Don Michele non muore, ma quando si celebra il processo contro 'Ntoni egli rischia parecchi anni di galera; per salvarlo gli avvocati fanno passare la tesi che il giovane abbia voluto vendicare la sorella Lia, disonorata da don Michele. Non e vero, ma cosi 'Ntoni viene condannato a soli 5 anni. Per Lia è ormai impossibile vivere in paese, fugge e finisce per prostituirsi a Catania.
Cap. XV. Torna al paese Alfio Mosca. Padron 'Ntoni si ammala e, per non costituire un ostacolo ai nipoti, si fa portare all'ospedale di Catania di nascosto da essi sul carro di Alfio. Si chiudono alcune vicende: visto che il figlio Brasi si è voluto sposare con la Mangiacarrubbe, una poco di buono, padron Cipolla, per non lasciargli i suoi beni prende in moglie Barbara Zuppidda. Alessi e Mena riescono finalmente a riacquistare la casa del nespolo e il giovane sposa Nunziata. Mena invece, sulla quale ricade agli occhi della gente il disonore della sorella Lia, rifiuta di sposare Alfio. Una sera torna'Ntoni, ma solo per vedere cosa rimane della famiglia: per lui è impossibile restare nella casa del nespolo e se ne riparte.
Mastro - Don Gesualdo. Il tema dominante è ancora quello economico: la (ricerca del meglio) diventa in Gesualdo Motta l'esasperata bramosia di ricchezza, che egli riesce ad ottenere attraverso un durissimo lavoro.
Ma l'aspirazione dell'ex - manovale a veder riconosciuta la sua ascesa sociale sarà destinata ad una squallida sconfitta. Il personaggio riempie in questo romanzo tutta la scena, e Verga ne esplora analiticamente tutte le pieghe dell'animo: la spregiudicatezza, l'assenza di pietà, l'incapacità di amare, il «mito della roba», la profonda solitudine.
La narrazione è ancora affidata ad una voce interna all'ambiente descritto, ma le maggiori concessioni alla descrizione, l'attenzione rivolta al personaggio e alle dinamiche sociali (aristocrazia in decadenza e borghesia in ascesa) fanno di Mastro don Gesualdo un romanzo più vicino ai moduli tradizionali.
Mastro-don Gesualdo (1889). Gesualdo Motta è un muratore che, mosso dalla bramosia della ricchezza («la roba»), dopo anni di duro lavoro e di sacrifici riesce a costruirsi una notevole fortuna.
Sposatosi con Bianca Trao, discendente di una nobile famiglia in decadenza, non riesce però a farsi accettare da un mondo in cui lo colloca la sua ricchezza ma che non è il suo e che lo rifiuta. La stessa moglie e la figlia Isabella gli negano il loro affetto.
Vittima della sua sete di denaro, è relegato dal disprezzo dei familiari nella solitudine e finisce squallidamente i suoi giorni abbandonato da tutti.
Dai “Malavoglia” al “Gesualdo.”
Tra il primo e il secondo romanzo del ciclo passano ben 8 anni. Nel Gesualdo Verga resta fedele al principio dell’impersonalità, per cui il narratore, pur senza coincidere con un preciso personaggio, deve essere “interno” al mondo rappresentato. Il livello sociale si è elevato rispetto ai Malavoglia e alle novelle: non si tratta più di un ambiente popolare, di contadini, pescatori, operai, ma di un ambiente borghese e aristocratico. Di conseguenza anche il livello del narratore si innalza. Il narratore del Gesualdo riprende i suoi diritti, ha uno sguardo lucidamente critico nel ritrattare ambienti e figure, nel mettere in luce bassezze, meschinità del protagonista e degli altri personaggi.
Il narratore del Gesualdo non dà esaurienti informazioni sugli antefatti, o ritratti e storie dei personaggi, come fa il narratore dei Promessi sposi: ne parla come se il lettore li conoscesse già da sempre; è proprio ciò che Verga aveva fatto nei Malavoglia. Nulla ci viene detto sul protagonista, della sua storia antecedente, del suo carattere, ma il personaggio stesso si abbandona ai ricordi e rievoca il suo passato.
Un’altra particolarità dell’impianto narrativo distingue il Gesualdo. I Malavoglia sono un romanzo corale che vede in scena una folla fittissima di personaggi. Di questi, solo i componenti la famiglia Malavoglia sono visti dall’interno, in modo tale che se ne possono conoscere pensieri e sentimenti, e nessuno di essi resta il centro focale del racconto. Tutti gli altri abitanti del villaggio non godono di questo privilegio, e sono visti solo e sempre dall’esterno. Il Gesualdo ha al centro la figura di protagonista, che si stacca nettamente dallo sfondo popolato di figure. È la storia di un individuo eccezionale, della sua ascesa e della sua caduta. Per gran parte la narrazione è focalizzata sul protagonista. Il punto di vista dei fatti coincide con la sua visione, cioè noi vediamo i fatti attraverso i suoi occhi, come li vede lui.
Scompare anche la bipolarità tra personaggi depositari dei valori e rappresentanti della legge della lotta per la vita, che caratterizza i Malavoglia. Gesualdo conserva un bisogno di relazioni umane: ha il culto della famiglia, rispetta il padre e aiuta i fratelli, ama la moglie e la figlia e vorrebbe essere amato da loro, è generoso con gli altri; ma non è mai un personaggio “malavogliesco”. La roba è il fine primario della sua esistenza, e ciò lo porta al disumano.
Il frutto della scelta di Gesualdo in favore della “roba” è una totale sconfitta. Gesualdo è amaramente deluso nelle sue aspirazioni e relazioni umane autentiche: il padre invidia la sua fortuna e nutre rancore per lui, tanto da voltargli le spalle persino sul letto di morte, la moglie non lo ama e lo tiene lontano con freddezza, la figlia si vergogna di lui, i figli naturali avuti da Diadata lo odiano, come lo odiano e lo invidia tutto il paese. Dalla sua lotta per la roba, Gesualdo non ha ricavato che odio e dolore.
Il teatro. Nell’ultimo periodo della sua creatività artistica Verga produsse delle opere teatrali, in genere tratte dalle sua novelle, che costituirono il primo tentativo di teatro verista ed ebbero in quei tempi un grande successo. Al di là del suo valore letterario, il teatro verghiano contribuì a decretare la fine del teatro romantico e portò sulla scena la vita popolare e i toni accesi e drammatici della passionalità verista.
Opere teatrali. Tra le più significative:
Cavalleria rusticana (1894), tratta dall’omonima novella, fu musicata da Mascagni ed ottenne un grandissimo successo.
Dal tuo al mio (1903), dramma in tre atti, che verrà in seguito trasformato in romanzo. Narra la storia di un sindacalista socialista che ha sposato la figlia di un nobile proprietario di una miniera e che si vede costretto a difendere, armi in pugno, la proprietà della moglie contro il tentativo dei minatori, suoi ex compagni, di incendiarla.
La poetica del Verismo italiano
Questo movimento culturale, letterario, sociale, filosofico, non è indefinibile, come il Romanticismo, ma poggia su basi concrete e chiare. Si fa risalire l’origine del movimento al clima del positivismo francese di August Comte e al clima del naturalismo letterario francese di Zola e Flaubert.
Verga a suo modo si sentiva più manzoniano che zoliano. Negli aspetti fondamentali il Verismo è la continuazione più approfondita del Romanticismo, che poneva alla base della sua poetica il vero come argomento dell’arte e l’utile per scopo. Il punto polemico con il Romanticismo riguarda l’eccessivo autobiografismo. La genesi del Verismo è nella crisi interna del Romanticismo, crisi che fu sociale, politica e letteraria.
Da noi la narrativa ebbe carattere regionale: la Sicilia fu rappresentata dal Capuana e dal Verga, la Sardegna dalla Deledda, Napoli da Di Giacomo e Matilde Sarao, la Toscana dal Fucini. Ogni regione italiana presentava il proprio quadro di miseria e di vita morale e questo non perché l’istanza fosse una specie di lotta di classe sociale, ma la necessità conseguenza di una letteratura che voleva essere fotografia obbiettiva della vita.
Lo scrittore attinge direttamente dalla vita, dai fatti e dai documenti della società, ricercando con metodo scientifico e meccanico le cause dei sentimenti umani e dei relativi movimenti psicologici. Per ricercare una fotografia vera della vita, senza maschere, i veristi si rivolgevano alla vita dei bassifondi.
I due elementi fondamentali della poetica del Verismo sono:
a) L’oggettività della rappresentazione artistica, che escludeva ogni autobiografismo.
b) L’impersonalità dell’artista.
Si ha un verismo italiano, diverso da quello francese per ragioni stilistiche, artistiche e sociali. Cioè un verismo regionalistico, di contro al naturalismo sociale della Francia; un verismo sentimentale e romantico di contro a quello scientifico.
L'immagine di Zola che si diffuse in Italia fu quella del romanziere scienziato e impavidamente “realista”, nonché dello scrittore sociale, in lotta contro le piaghe della società in nome progresso e dell'umanità. Difatti furono in primo luogo gli ambienti culturali milanesi di sinistra, repubblicani e socialisti, a diffondere e ad esaltare la sua opera sin dai primi anni’70. La prima traduzione italiana comparve in appendice al giornale “La plebe” nel 1875; dato l'indirizzo del giornale, il romanzo scelto fu La curèe, dove si rappresenta la corruzione dell'alta borghesia.
La sinistra milanese però, se ebbe il merito di cogliere subito l'importanza delle nuove tendenze, facendone la bandiera per la propria battaglia politica e culturale, rimase prigioniera delle sue aspirazioni confuse e velleitarie, e dimostrò di non avere la forza culturale e l'altezza intellettuale necessarie per costruire una teoria artistica organica.
Una teoria coerente ed un nuovo linguaggio furono invece elaborati da due intellettuali conservatori, due "galantuomini' meridionali, che operavano nello stesso ambiente milanese, assorbivano le stesse sollecitazioni del Naturalismo francese e condividevano l’ammirazione per Zola, sia pur da diverse prospettive: Capuana e Verga. fu poeta
Luigi Capuana fu critico propagandista, ha una funzione fondamentale nel diffondere la conoscenza di Zola, con la recensione delle sue varie opere, in particolare dell’Assommoir, che ha un successo clamoroso. Ma in questi articoli, pur nell'esaltazione dell'opera zoliana, si coglie chiaramente un modo di intendere la letteratura ben diverso da quello del Naturalismo francese.
La “scientificità” non deve consistere nel trasformare la narrazione in esperimento, per dimostrare tesi scientifiche, ma nella tecnica con cui lo scrittore rappresenta. La scientificità si manifesta solo nella forma artistica, nella maniera con cui l’artista crea le figure, organizza i suoi materiali espressivi. Questa materia si riassume nel principio dell’impersonalità dell’opera d’arte: per questo l’impersonalità è il motivo centrale della poetica del Verismo italiano. La teoria dell’impersonalità non è per Verga una definizione dell’arte, che pretende di negare realmente ogni rapporto tra creatore e opera e tanto meno un’affermazione dell’indifferenza psicologica dell’autore nei confronti della sua materia, ma solo la definizione di un procedimento tecnico, di far sì che non si avverta nel narrato la presenza dell’autore. Per questo Verga parla di “artificio”, di “illusione”, di “impressione”: al lettore deve apparire “come se” l’autore fosse scomparso; ma è ovvio che è pur sempre l’autore ad organizzare i materiali in modo da dare quella particolare impressione.
2. La tecnica narrativa del Verga
Il Verga applica coerentemente i principi della sua poetica nelle sue opere veriste, e ciò dà origine ad una tecnica narrativa profondamente originale e innovatrice, che si distacca sia dalla tradizione sia dalle contemporanee esperienze italiane e straniere. Nelle sue opere l’autore si “eclissa”, si cala “nella pelle” dei personaggi, vede le cose “con i loro occhi”, e le esprime “con le loro parole”. A raccontare infatti non è il narratore “onnisciente” tradizionale, che, come nei romanzi di Manzoni, riproduce il livello culturale, i valori, i principi morali, il linguaggio dello scrittore stesso, ed interviene continuamente nel racconto ad illustrare gli antefatti o le circostanze dell’azione, a tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d’animo e le motivazioni psicologiche dei loro gesti, a commentare e giudicare i loro comportamenti, a dialogare col lettore. Il punto di vista dello scrittore non si avverte mai, nelle opere del Verga: la “voce” che racconta si colloca tutta all’interno del mondo rappresentato, è allo stesso livello dei personaggi. Non è propriamente qualche specifico personaggio a raccontare; ma il narratore si mimetizza negli stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire, si riferisce agli stessi criteri interpretativi, agli stessi principi morali, usa il loro stesso modo di esprimersi. È come se a raccontare fosse uno di loro, che però non compare direttamente nella vicenda, e resta anonimo. Quindi i fatti non passano attraverso la “lente” dello scrittore: siccome chi narra è interno al piano della rappresentazione, il lettore ha l'impressione di trovarsi «faccia a faccia con il fatto nudo e schietto”. Tutto ciò si impone con grande evidenza agli occhi del lettore perché V., nei Malavoglia e nelle novelle, rappresenta ambienti popolari e rurali e mette in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, minatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da
quelli dello scrittore borghese.
Un esempio chiarissimo è fornito dall’inizio di Rosso Malpelo, che è la prima novella verista pubblicata dal Verga (1878) e che inaugura la nuova maniera di narrare: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo”. La logica, che sta dietro questa affermazione non è certo quella di un intellettuale borghese quale era il Verga: fa infatti dipendere da una qualità essenzialmente morale («malizioso e cattivo») un dato fisico, naturale, i capelli rossi; rivela cioè una visione primitiva e superstiziosa della realtà, estranea alle categorie razionali di causa ed effetto, che vede nell’individuo “diverso” un essere segnato come da un’oscura maledizione, che occorre temere e da cui è necessario difendersi. E tutta la vicenda è narrata da questo punto di vista: è come se a raccontare non fosse lo scrittore colto, ma uno qualunque dei vari minatori della cava in cui lavora Malpelo. Non solo, ma questo anonimo narratore, tipico delle opere verghiane che trattano di ambienti popolari, non informa esaurientemente sul carattere e sulla storia dei personaggi (come fa ad esempio Manzoni: si pensi ai capitoli interi dedicati a fra Cristoforo, alla monaca di Monza, all'innominato), né offre dettagliate descrizioni dei luoghi dove si svolge l'azione (si pensi ancora alla descrizione del lago di Como che apre I Promessi sposi): ne parla come se si rivolgesse ad un pubblico appartenente a quello stesso ambiente, che avesse sempre conosciuto quelle persone e quei luoghi. La storia è narrata con un linguaggio nudo e scabro, che riproduce il modo di raccontare di una narrazione popolare.
Perciò il lettore all'inizio dei Malavoglia e dei vari racconti, si trova di fronte a personaggi di cui possiede solo notizie parziali o non essenziali, e solo poco a poco arriva a conoscerli, attraverso ciò che essi stessi fanno o dicono, o attraverso ciò che altri personaggi dicono di loro. E se la voce narrante commenta e giudica i fatti, non lo fa certo secondo la visione colta dell’autore, ma in base alla visione elementare e rozza della collettività popolare, che non riesce a cogliere le motivazioni psicologiche autentiche delle azioni e deforma ogni fatto in base ai suoi principi interpretativi, fondati sulla legge dell'utile e dell’interesse egoistico. Di conseguenza anche il linguaggio non è quello che potrebbe essere dello scrittore, ma un linguaggio spoglio e povero, punteggiato di modi di dire, paragoni, proverbi, imprecazioni popolari, dalla sintassi elementare e talvolta scorretta, in cui traspare chiaramente la struttura dialettale (anche se Verga non usa mai direttamente il dialetto, ma sempre solo un lessico italiano; tanto che se deve citare un termine dialettale lo isola mediante il corsivo).
1. L’ideologia verghiana
A questo punto è inevitabile chiedersi: che cosa induce Verga a formulare questo principio dell'impersonalità e ad applicarlo così rigorosamente? Una risposta è data da Verga stesso in un passo fondamentale della Prefazione ai Vinti: “Chi osserva questo spettacolo [della “lotta per l’esistenza”] non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti”. Verga ritiene dunque che l’autore debba “eclissarsi” dall’opera, non debba intervenire in essa, perché non ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta. Ma tale risposta sposta semplicemente la questione. Perché non ha diritto giudicare? Per trovare una risposta soddisfacente, occorrerà risalire alla concezione generale del mondo che è il presupposto di una simile affermazione.
Alla base della visione di Verga stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società umana è per lui dominata dal meccanismo della “lotta per la vita”, un meccanismo crudele, per cui il più forte schiaccia il più debole. La generosità disinteressata, l’altruismo, la pietà sono valori ideali, che non trovano posto nella realtà effettiva. Gli uomini sono mossi non da motivi ideali, ma dall’interesse economico, dalla ricerca dell’utile, dall’egoismo, dalla volontà di sopraffare gli altri. È questa una legge di natura, universale, che governa qualsiasi società, in un tempo e in ogni luogo, e domina non solo le società umane, ma anche il mondo animale e vegetale. Come legge di natura, essa è immodificabile: perciò Verga ritiene che non si possono dare alternative alla realtà esistente, né nel futuro, in un’organizzazione sociale diversa e più giusta, né nel passato, nel ritornare a forme superate dal mondo moderno, e neppure nella dimensione del trascendente (la sua visione è rigorosamente materialistica e atea, ed esclude ogni consolazione religiosa, ogni speranza di riscatto dalla negatività dell'esistente in un'altra vita).
Ma se per Verga la realtà, per negativa che sia, è data una volta per tutte, senza possibilità di modificazioni, si può capire perché egli non ritiene legittimo, per lo scrittore che la rappresenta, dare giudizi. Infatti solo la fiducia nella possibilità di modificare il reale può giustificare l’intervento dall’esterno nella materia, il giudizio correttivo, l’indignazione e la condanna esplicita in nome dell’umanità, della giustizia, del progresso. Se è impossibile modificare l’esistente, ogni elemento giudicante appare inutile e privo di senso, e allo scrittore non resta che riprodurre la realtà così com’è, lasciare che parli da sé, senza farla passare attraverso alcuna “lente” correttiva. La letteratura non può contribuire a modificare la realtà, ma può solo avere la funzione di studiare ciò che è dato una volta per tutte, e di riprodurlo fedelmente, “senza passione”. La tecnica impersonale usata da Verga non è dunque frutto di una scelta casuale, ma scaturisce dalla sua visione del mondo pessimista, ed è per lui il modo più adatto per esprimerla. È chiaro che un simile pessimismo, che nega ogni trasformazione storica della società, e identifica l’assetto vigente con l’ordine naturale, ha una connotazione fortemente conservatrice. Proprio il pessimismo consente a Verga di cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo in quella realtà. Il pessimismo non è dunque un limite della rappresentazione verghiana, ma è la condizione del suo valore conoscitivo e critico. Anche se le opere veriste di Verga hanno per gran parte al centro la vita del popolo, non si riscontra in esse quell’atteggiamento populistico che affligge tanta letteratura del secondo 800, che consiste nella pietà sentimentale per le miserie degli “umili”.
Il pessimismo induce Verga a vedere che anche il mondo primitivo della campagna è retto dalle stesse leggi del mondo moderno, l’interesse economico, l’egoismo, la ricerca dell’utile, che pongono gli uomini in un costante conflitto fra loro. Verga è uno scrittore scomodo, aspro, sgradevole, che urta il lettore e stimola così la riflessione critica.
Non diffonde miti, ma semmai li distrugge.
4. Il verismo di Verga e il naturalismo zoliano
A questo punto sarà risultata evidente la profonda differenza che separa il verismo verghiano dal naturalismo di Zola, che pure è un punto di riferimento per gli scrittori italiani della nuova scuola. La distanza si misura sul piano delle tecniche narrative. Nei romanzi di Zola non esiste nulla di simile all’originalissima tecnica verghiana della “regressione” nel punto di vista del mondo popolare rappresentato. La “voce” che racconta nei Rougon- Macquart riproduce sempre il modo di vedere e di esprimersi dell’autore, del borghese colto, che guarda dall’esterno e dall’alto della materia; e questa voce narrante interviene spesso con giudizi sulla materia trattata. Si prenda ad esempio, nel secondo capitolo di Germinal (1885), la scena in cui i figli di un minatore fanno toeletta prima di recarsi al lavoro, ragazzi e ragazze insieme, in totale promiscuità: «Le camicie volavano, mentre, ancora gonfi di sonno, facevano i loro bisogni senza vergogna, con la naturalezza tranquilla di una cucciolata di cagnolini, cresciuti insieme». E’ evidente che qui lo scrittore, sottolineando la mancanza di pudore dei giovani e usando il paragone dei “cagnolini”, dà un giudizio dal suo punto di vista, secondo il suo codice morale borghese. Tra il narratore e i personaggi vi è un distacco netto. Questo nel Verga verista non avviene mai: in un caso del genere egli avrebbe raccontato la scena dal punto di vista dei minatori stessi, cioè non avrebbe affatto sottolineato la mancanza di vergogna, perché la voce narrante, interna a quel mondo e partecipe della sua visione, non l'avrebbe minimamente percepita. L’impersonalità zoliana è quindi profondamente diversa da quella di Verga: per Zola l’impersonalità significa assumere il distacco dello “scienziato”, che si allontana dall’oggetto, per osservarlo dall’esterno e dall’alto; per Verga significa invece immergersi, “eclissarsi” nell’oggetto. L’impersonalità di Zola è a parte subiecti, quella di Verga a parte obiecti.
Queste tecniche narrative così lontane sono evidentemente la conseguenza di due poetiche e di due ideologie diverse. Zola interviene a commentare e a giudicare, dall'alto del suo punto di vista "scientifico”, perché crede che la scrittura letteraria possa contribuire a cambiare la realtà, ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della letteratura, come studio dei problemi sociali e stimolo alle riforme; dietro la “regressione” di Verga nella realtà rappresentata vi è invece il pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile, che la letteratura non possa in alcun modo incidere su di essa, e che quindi lo scrittore non abbia “il diritto di giudicare”, e debba limitarsi alla riproduzione oggettiva, “sincera e spassionata”, del dato. Zola ha fiducia nella possibilità della letteratura di incidere sul reale perché è uno scrittore borghese. Verga è il tipico “galantuomo” del Sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato e immobile.
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