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Categoria: | Letteratura |
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Giovanni Pascoli
Figlio quartogenito di Ruggero, fattore della tenuta della Torre, di proprietà dei principi Torlonia, dopo avere trascorso l'infanzia nella casa paterna, nel 1862 venne collocato a Urbino nel collegio Raffaello tenuto dagli scolopi. Il 10 agosto 1867 il padre, mentre tornava dal mercato di Cesena, rimase ucciso da una fucilata sparata a bruciapelo da un ignoto, e fu quello il primo di una lunga serie di lutti che funestarono l'adolescenza del poeta. Lasciata la tenuta della Torre, la famiglia si stabilì a San Mauro, e nel volgere di un anno morirono la sorella Margherita e la madre, e nel 1871 il fratello Luigi. Giovanni stette ancora nel collegio di Urbino sino al 1871; frequentò la seconda liceale a Rimini e la terza a Firenze, conseguendo la maturità classica a Cesena. Essendosi classificato primo tra i concorrenti a sei borse di studio messe a bando dall'università di Bologna (tra i professori che lo esaminarono c'era il Carducci, e il Pascoli narrò poi quell'incontro memorabile nella prosa Ricordi di un vecchio scolaro), poté iscriversi ai corsi di lettere. Moriva di lì a poco il fratello maggiore Giacomo che, molto confidando nel suo ingegno, lo aveva aiutato. Il poeta, che in quegli anni strinse amicizia con Andrea Costa e aderì al socialismo, tanto s'infervorò dell'azione rivoluzionaria da venire incarcerato (7 settembre - 22 dicembre 1879). Quando uscì di prigione la sua passione politica si era di molto affievolita e, anche per esortazione del Carducci, tornò agli studi e conseguì la laurea nel 1882. Cominciò allora la sua carriera di professore liceale di latino e greco: a Matera prima, quindi a Massa dove ricostituì la famiglia ricongiungendosi con le sorelle Ida e Maria, la prima delle quali di lì a poco si sposò, mentre l'altra gli restò sempre vicina, affettuosa ma anche troppo gelosa custode della sua intimità.
Dal 1887 al 1895 insegnò nel liceo di Livorno, e nel 1895 si sistemò nella casa di Castelvecchio di Barga, presso Lucca, che non molto dopo poté acquistare e che fu poi sempre il suo porto di pace. In quegli anni malinconici e sereni, assorbiti da un lavoro talvolta eccessivo, maturò la maggior parte delle liriche raccolte in Myricae delle quali solo poche sono anteriori al 1886: Il maniero e Rio Salto del 1877, Romagna del 1880. Pubblicate nel 1891, Myricae segnarono l'inizio della sua fortuna di scrittore; in quello stesso anno il Pascoli riportò il primo successo di poeta in latino aggiudicandosi la medaglia d'oro al concorso di Amsterdam con il poemetto Veianus. Nel 1895 passò dall'insegnamento liceale a quello universitario tenendo per due anni l'incarico di grammatica greca e latina a Bologna; dal 1897 al 1902 fu poi nominato titolare di letteratura latina all'università di Messina; dal 1903 al 1905 tenne a Pisa la cattedra di grammatica greca e latina, che lasciò per succedere al Carducci nell'insegnamento della letteratura italiana a Bologna. Nella fase della sua formazione, documentabile attraverso le liriche giovanili raccolte poi nelle Poesie varie (1912), la poesia pascoliana quanto restò lontana dagli influssi del classicismo carducciano altrettanto fu aperta alle suggestioni del tardo Romanticismo. Specialmente la lettura dell'Aleardi e di poeti stranieri lasciò non poche tracce nei versi giovanili, come l'esempio di Severino Ferrari lo portò a tentare metri, temi e linguaggio della poesia popolare. Ma la fase sperimentale era ormai nettamente superata nelle Myricae, che, arricchite di nuovi componimenti nelle varie edizioni sino alla sesta del 1903, furono per la loro inconfondibile originalità un libro fondamentale non soltanto nella carriera del Pascoli ma nella storia della moderna poesia italiana. Tema dominante delle Myricae è la campagna nei suoi momenti di più trepida malinconia, osservata con occhio attento ai particolari, ma amata soprattutto per quanto in essa si rispecchia della tristezza del poeta. I tocchi descrittivi vi possono essere molto precisi, non solo per condiscendenza al naturalismo trionfante nel secondo Ottocento ma per il presupposto che la poesia sia dentro le cose stesse; eppure la bellezza delle migliori liriche di Myricae consiste non nella fedele riproduzione della natura, bensì nell'alone di stupore che circonda i paesaggi e li fa vibrare in un'atmosfera di sogno. Altro tema fondamentale sono i ricordi autobiografici, con la meditazione sul dolore personale che aspira a farsi riflessione sul dolore di tutte le creature. Qui non è difficile scorgere ambizioni sproporzionate alla più schietta ispirazione del poeta, e vederlo assumere nel suo mondo d'idillio e di sogno accenti messianici che la fragilità delle idee mal riesce a giustificare.
Riconoscendo nelle Myricae la più autentica espressione della poesia pascoliana, non solo si è portati a sottovalutare queste contraddizioni, ma si rinuncia anche a capire come in esse stia qualche cosa di intrinseco, oltre che a tutta la poesia, alla personalità del Pascoli. Tali contraddizioni sono infatti quelle che si osservano anche nelle pagine critiche e negli scritti teorici. Mentre il Pascoli condannò la “poesia applicata” e credette che il canto del poeta sia sempre qualche cosa di prodigiosamente istintivo (e queste idee espose nelle prefazioni scritte per le varie edizioni di Myricae, nel saggio del 1895 Eco di una notte mitica, sulla notte degli imbrogli nei Promessi sposi, accostata per certi particolari alla descrizione della fuga di Enea da Troia del secondo libro dell'Eneide, e soprattutto in quello che resta il documento fondamentale della sua poetica, Il fanciullino, in non pochi dei saggi danteschi (Minerva oscura, 1898; Sotto il velame, 1900; La mirabile visione, 1902) e altrove egli si compiacque di scoprire nella poesia reconditi significati mistici e simbolici e di attribuirle precise finalità morali, in evidente contrasto con quel principio di purezza lirica che aveva teorizzato nel Fanciullino. Giustamente però la critica, anziché insistere su queste debolezze concettuali, si è impegnata soprattutto nello studio della complicata psicologia del poeta, valendosi a tal fine anche dell'epistolario, e nell'analisi del suo linguaggio e del modo nel quale arditamente in esso si incontrano il letterario e il popolare, l'arcaico e il moderno. Nondimeno, sulle numerose raccolte di versi che vennero dopo le Myricae difficilmente potranno mutare i giudizi comunemente accettati. Un posto privilegiato toccherà sempre ai Canti di Castelvecchio, nei quali i temi delle Myricae tornano più rarefatti e in accordi metrici e musicali più altamente suggestivi: alcune delle liriche di questa raccolta - La mia sera, La tessitrice, Il gelsomino notturno, Il ciocco - saranno sempre ammirate tra i capolavori pascoliani. Difficilmente contestabile è pure l'importanza dei Poemetti (1897), sdoppiati poi nei Primi poemetti (1904) e nei Nuovi poemetti (1909), che per l'ampia struttura e per la stessa metrica - la terzina di endecasillabi - più concedono a modi narrativi e drammatici, ma per gli argomenti che trattano e per la sintassi franta, tutta sospensioni, ritorni e riprese improvvise, offrono una delle più schiette testimonianze dell'anima poetica del Pascoli. Maggiore complessità artistica è nei Poemi conviviali (1904) e nei Carmina. La profonda assimilazione della lingua dei poeti greci e la sensibilità romantica con la quale leggende e storie dell'antica Grecia sono rivissute nei Conviviali pongono infatti il lettore di fronte a una poesia suggestiva e di rara raffinatezza. Nei Carmina poi, che raccolgono i vari componimenti poetici latini (una sezione di epigrammi e poesie in metri lirici; i poemetti ispirati dalla storia di Roma antica [Res romanae] e dalla storia letteraria romana [Liber de poetis]; e, in una sezione a sé, i poemetti di argomento cristiano [Poemata christiana]), la poesia latina ritrovava, dopo i secoli dell'Umanesimo, accenti di verità e di modernità che hanno del portentoso. Opera di artista più che di poeta sembrano invece Le canzoni di re Enzio (1909) e, nella maggior parte, i Poemi italici (1911); ma di artificiosità e di infruttuose deviazioni dai centri vitali della sua sensibilità il Pascoli diede soprattutto prova in Odi e Inni (1906) e nei Poemi del Risorgimento, raccolti postumi nel 1913. Chi voglia infine conoscere a fondo il gusto del Pascoli artista e interprete di poesia non dovrà trascurare le sue traduzioni, riunite nel volume delle Traduzioni e riduzioni (1913) e le fortunate antologie scolastiche, le due latine (Lyra, 1895, ed Epos, 1897) e le due italiane (Sul limitare, 1889, e Fior da fiore, 1901), che per la scelta dei brani e per le osservazioni disseminate nelle note costituiscono un documento di prim'ordine della sensibilità estetica del poeta. Nel Novecento la poesia pascoliana è stata sottoposta ad analisi che partendo da punti di vista differenti hanno contribuito a metterne in luce aspetti nuovi e ad accrescerne l'importanza: sotto il profilo linguistico, studiosi che vanno da G. Contini a P. P. Pasolini hanno messo in risalto il carattere sperimentale del linguaggio pascoliano; mentre altri lettori, quali M. Luzi e G. Barberi Squarotti, hanno considerato la poesia di Pascoli alla luce della psicoanalisi e della critica simbolica.