Eugenio Montale.

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Testo

IN LIMINE
Godi se il vento ch'entra nel pomario
vi rimena l'ondata della vita:
qui dove affonda un morto La memoria è scialba, stancata: le immagini, sono incerte,
viluppo di memorie tremanti.
orto non era, ma reliquiario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell'eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall'erto muro.
Se procedi t'imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete Montale, attende il miracolo, il cui simbolo spesso è la
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! donna.
Va, per te l'ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
QUASI UNA FANTASIA
Raggiorna,lo presento da
un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse.
Torna l'avvenimento
del sole e le diffuse
voci, i consueti strepiti non porta.
Perché? Penso ad un giorno d'incantesimo
e delle giostre d'ore troppo uguali
mi ripago. Traboccherà la forza
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m'affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali.
Avrò di contro un paese d'intatte nevi
ma lievi come viste in un arazzo.
Scivolerà dal cielo bioccoso un tardo raggio.
Gremite d'invisibile luce selve e colline
mi diranno l'elogio degl'ilari ritorni.
Lieto leggerò i neri
segni dei rami sul bianco
come un essenziale alfabeto.
Tutto il passato in un punto
dinanzi mi sarà comparso.
Non turberà suono alcuno,
quest'allegrezza solitaria.
Filerà nell'aria
o scenderà s'un paletto
qualche galletto di marzo.
MERIGGIARE PALLIDO E ASORTO
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
ARSENIO
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore uguali,
strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide,
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso.
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva,-
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene -
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che s'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un frùscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
GLORIA DEL DISTESO MEZZOGIORNO
Gloria del disteso mezzogiorno
quand'ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d'attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto, - e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l'ora più bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.
L'arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s'una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore, Riprende il tema dell’attesa, della “gioia” del “sabato”
ma in attendere è gioia più compita. Leopardiano.
FELICITA’ RAGGIUNTA
Felicità raggiunta, si cammina La felicità è “barlume che vacilla”, “ghiaccio che
per te su fil di lama. s’incrina”; richiama l’immagine leopardiana del
Agli occhi sei barlume che vacilla, “piacer figlio d’affanno”: la felicità non esiste perché
al piede, teso ghiaccio che s'incrina; è solo una pausa del dolore.
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
FINE DELL'INFANZIA
Rombando s'ingolfava
dentro l'arcuata ripa
un mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume.
Di contro alla foce
d'un torrente che straboccava
il flutto ingialliva.
Giravano al largo i grovigli dell'alighe
e tronchi d'alberi alla deriva.
Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici pallide
più d'ora in ora; stente creature
perdute in un orrore di visioni.
Non era lieve guardarle
per chi leggeva in quelle
apparenze malfide
la musica dell'anima inquieta
che non si decide.
Pure colline chiudevano d'intorno
marina e case; ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come il fumo di un casale
che veleggi
la faccia candente del cielo.
Tra macchie di vigneti e di pinete,
petraie si scorgevano
calve e gibbosi dorsi
di collinette: un uomo
che là passasse ritto s'un muletto
nell'azzurro lavato era stampato
per sempre - e nel ricordo.
Poco s'andava oltre i crinali prossimi
di quei monti; varcarli pur non osa
la memoria stancata.
So che strade correvano su fossi
incassati, tra garbugli di spini;
mettevano a radure, poi tra botri,
e ancora dilungavano
verso recessi madidi di muffe,
d'ombre coperti e di silenzi.
Uno ne penso ancora con meraviglia
dove ogni umano impulso
appare seppellito
in aura millenaria.
Rara diroccia qualche bava d'aria
sino a quell'orlo di mondo che ne strabilia.
Ma dalle vie del monte si tornava.
Riuscivano queste a un'instabile
vicenda d'ignoti aspetti
ma il ritmo che li governa ci sfuggiva.
Ogni attimo bruciava
negl'istanti futuri senza tracce.
Vivere era ventura troppo nuova
ora per ora, e ne batteva il cuore.
Norma non v'era,
solco fisso, confronto,
a sceverare gioia da tristezza.
Ma riaddotti dai viottoli
alla casa sul mare, al chiuso asilo
della nostra stupita fanciullezza,
rapido rispondeva L’infanzia è il momento mitico dell’ innocenza e della
a ogni moto dell'anima un consenso felicità. Punto d’incontro con Leopardi.
esterno, si vestivano di nomi
le cose, il nostro mondo aveva un centro.
Eravamo nell'età verginale
in cui le nubi non sono cifre o sigle
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare.
D'altra semenza uscita
d'altra linfa nutrita
che non la nostra, debole, pareva la natura.
In lei l'asilo, in lei
l'estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l'anima nostra confusa.
Eravamo nell'età illusa.
Volarono anni corti come giorni,
sommerse ogni certezza un mare florido
e vorace che dava ormai l'aspetto
dubbioso dei tremanti tamarischi.
Un'alba dové sorgere che un rigo
di luce su la soglia
forbita ci annunziava come un'acqua;
e noi certo corremmo
ad aprire la porta
stridula sulla ghiaia del giardino.
L'inganno ci fu palese.
Pesanti nubi sul torbato mare
che ci bolliva in faccia, tosto apparvero.
Era in aria l'attesa
di un procelloso evento.
Strania anch'essa la plaga
dell'infanzia che esplora
un segnato cortile come un mondo!
Giungeva anche per noi l'ora che indaga. Il confine tra il tempo dell’infanzia e quello della
La fanciullezza era morta in un giro a tondo. maturità, è segnato dal giungere dell’”ora che
indaga”, che coincide con l’atto della ragione e
Ah il giuoco dei cannibali nel canneto, con la scoperta di un “palese inganno”, termine
i mustacchi di palma, la raccolta molto usato da Leopardi.
deliziosa dei bossoli sparati!
Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme.
Certo guardammo muti nell'attesa
del minuto violento;
poi nella finta calma
sopra l'acque scavate
dové mettersi un vento.
L'AGAVE SULLO SCOGLIO
Scirocco
O rabido ventare di scirocco
che l'arsiccio terreno gialloverde
bruci;
e su nel cielo pieno
di smorte luci
trapassa qualche biocco
di nuvola, e si perde.
Ore perplesse, brividi
d'una vita che fugge
come acqua tra le dita;
inafferrati eventi, L’”agave” è la sorella della leopardiana “ginestra”. Anche
luci - ombre, commovimenti questa, assiste inerme agli “inafferrati eventi”…
delle cose malferme della terra;
oh alide ali dell'aria
ora son io
l'agave che s'abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d'alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
Maestrale
S'è rifatta la calma
nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora
il cammino ripiglia.
Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.
O mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto coi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:
sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
"più in là"!
NON RECIDERE, FORBICE, QUEL VOLTO
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala...Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
MONTALE E LA FLOSOFIA
Montale ha detto in una importante autointervista del 1946: "mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L'espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell'inganno del mondo come rappresentazione".
Per Schopenahuer, fortemente echeggiante nel pensiero e nell’opera montaliana, il mondo non è frutto della ragione, ma di una volontà senza meta, di un impulso senza norma.In questo senso egli mostra una chiara opposizione al razionalismo ottimistico proprio di Hegel, sostituito da un volontarismo pessimistico. Il mondo per Shopenahuer è volontà e rappresentazione e come tale è negativo; è la volontà che ci spinge verso un mondo di cui noi conosciamo soltanto l’aspetto fenomenico, solo una rappresentazione attraente; ci sfugge il senso vero dell’universo, che è riposto nel dolore. Il piacere ci incatena alla vita, ma esso è solo un’illusione. Montale, senza dubbio, è esente da un tale inganno, così fermo nella consapevolezza di una rottura fra soggetto e mondo, inconoscibile e non ordinabile, di una lacerazione profonda fra realtà e soggettività che porta ad una completa disarmonia che soltanto il miracolo può sanare.
Sappiamo in realtà, grazie al Quaderno genovese, un taccuino di appunti del 1917 che Montale leggeva molto e disordinatamente, magari i libri della sorella Marianna, studentessa di filosofia.
Solo per dare un'idea, vediamo la lista dei quaranta libri da portare con sé in un romitorio che Montale stilò un po' per gioco nel Quaderno: "una scelta da Descartes, Spinoza, Schopenhauer, Bergson. I Vangeli, Epitteto" e poi alla rinfusa Tolstoj, Flaubert, Baretti, Dante, Leopardi, Tasso, ecc.
In più occasioni Montale cercò di attenuare il peso delle letture filosofiche nella sua opera: "la mia cultura filosofica è modesta e non è neppure di prima mano" (Auto da fè); "mia sorella studiava filosofia. Qualcosa più del nome di Boutroux e di Bergson mi sarà passato tra le mani; "agli inizi ero scettico, influenzato da Schopenhauer", ecc. Anche se il poeta si difende come può, comincia dunque a delinearsi una mappa di letture: un po' di Platone, Schopenhauer, Lachelier, Boutroux, Bergson. Il poeta degli Ossi sente delle affinità con pensatori, diciamolo all'ingrosso, che tendono alla svalutazione della realtà esterna alla coscienza e alla riduzione della scienza a conoscenza falsa o propedeutica; non ne condivide però il finalismo religioso. L'influenza di Bergson sulle arti è stata enorme (il concetto di durée interiore, ecc.) e neppure Montale sarà stato esente dal contagio, anche se in Auto da fè semina dubbi sull'élan vital: "privilegiare l'energia anziché la ragione idealistica o Dio sconosciuto non sana alcun dissidio".

ITINERARIO POETICO
Montale stesso invita il lettore a considerare la sua opera poetica "nella sua totalità", come un organico itinerario di esperienza conoscitiva ed espressiva scandito in tempi, articolato in successivi sviluppi. Sarà proficuo seguire il suo consiglio, ripercorrendo in sintesi l'intero cammino, tenendo conto delle grandi tappe, dei momenti fondamentali. La Liguria dell'infanzia e della giovinezza (nato a Genova il l2 ottobre 1896, Montale trascorre le prime trenta estati della sua vita nella vasta villa paterna a Monterosso nelle Cinque Terre) offre alla sua prima poesia il costitutivo teatro di un paesaggio intenso di grandi luci estive e di inquieti orizzonti marini. Pienamente immerso nel paesaggio ligure, e in gran parte "all'aria aperta" e accompagnato dal "delirio del mare", segnato ma non sopraffatto da un intimo rovello filosofico, il suo libro iniziale, Ossi di seppia, è già un capolavoro, uno dei libri-chiave del Novecento poetico. Apparve in prima edizione nel 1925, in seconda edizione accresciuta di alcune importanti poesie, nel 1928.
Al 1916 risale la prima redazione del testo più antico della raccolta, che comincia coi versi famosi "Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto", già portatori di alcuni segni-simboli fondamentali del libro (come l'ora meridiana, il muro, l'orto), e che si conclude non meno significativamente: "E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com'è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia". (Si noti l'asprezza anche fonica dell'immagine finale, inserita nella tonalità caratteristica della cosiddetta "linea ligure" della poesia italiana del Novecento). Il senso angoscioso di una chiusura e costrizione esistenziale (il muro, appunto, che compare in diversi testi, la "rete che ci stringe", la "ferrea catena della necessità", la "catena che ci lega", la "giostra d'ore troppo uguali" della ripetizione banale) domina l'immaginario del primo libro. Vi si oppone la ricerca di sperati spiragli di libertà e di vita autentica: la "maglia rotta" nella rete, "l'anello che non tiene", la "lima che sega" la catena (in limine), l'inaspettato prodigio che salva (il "miracolo laico"), di cui è portatrice l'immagine femminile, che assumerà nei due libri seguenti la fondamentale funzione di una moderna e laica Beatrice. La poesia, in questo contesto tematico, in questa cupa e pessimistica visione del mondo, non può indicare la strada per uscire dalla crudele morsa del mondo (Non domandarci la formula che mondi possa aprirti), poiché è venuto meno il suo potere conoscitivo ed interpretativo del reale, a causa della perdita, da parte del soggetto, della fiducia nella possibilità di una corrispondenza logica ed analogica, tra io e mondo, può solo offrire “qualche storta sillaba e secca come un ramo”, può solo rappresentare questa condizione negativa, rinvenendola negli oggetti attraverso il correlativo oggettivo eliottiano. La poesia è ancora il risultato della consapevolezza della negatività, di questo non essere dell’uomo. Negli “Ossi di seppia” tale negatività è riscontrabile nel medesimo titolo della raccolta: gli ossi rappresentano il correlativo oggettivo della condizione dell’uomo, ridotto appunto a rifiuto, ad inutile rottame dell’esistenza, espulso, esiliato dalla vita, quella reale, quella autentica, quella vera, quella rappresentata dal mare. La tematica del detrito comporta un sentimento di scacco e di fallimento esistenziale e sociale, ma non esclude totalmente un riscatto, un appiglio, una salvezza.Ma dove trovare questo appiglio, dove rintracciare una qualche piccola possibilità di salvezza? Paradossalmente proprio nella condizione di rifiuto, proprio nella diversità che tale condizione determina:la leggerezza. Solo grazie a questa l’osso potrà galleggiare sulle onde e confondersi con la natura, con l’armonia cosmica e diventare quasi parte di questa, perché in fondo è questo il tormento dell’uomo, non poter essere in armonia con il cosmo, non poter aderire panicamente e completamente alla natura.
La leggerezza è anche, da un punto di vista pratico, la possibilità di vivere in un piccolo mondo infantile, protetto ma fragile (“Penso ad un giorno d’incantesimo”), che consenta un minimo di libertà adolescenziale, quella negata all’uomo che vive nel momento della decisione e dell’inserimento nella vita sociale.
Ma restare nel mondo degli incanti adolescenziali significa rifiutare le responsabilità di una vita adulta, significa allontanarsi da quella che è la vita reale, significa essere vili.
Con la fine dell’infanzia l’uomo deve dire addio al grembo protettivo, in cui l’adesione al ritmo cosmico era spontanea e naturale. Il distacco da quell’età mitica, avviene con il “minuto violento” della consapevolezza che distrugge ogni illusione. Quell’età perduta è possibile riviverla soltanto nella dimensione della memoria. Quella montaliana è però una memoria difficile, fatta di ricordi fulminei destinati subito a svanire, ad allontanarsi, a diventare di un altro; è una memoria che cigola per un ingranaggio, per un meccanismo non funzionante e non controllabile.Nonostante questo, il ricordo è spesso un talismano che, per pochi istanti, può introdurre l’uomo nel miracolo della salvezza; un miracolo, però, avvertito, creduto, ma non reale e presto dimenticato.
Ogni possibilità di salvezza, di miracolo, di prodigio, è affidata ad una memoria fragile, desultoria ed involontaria (a differenza di quella leopardiana, ma bisogna tenere presente che, il tempo di Montale, è quello bergsoniano dell’anima, non quello fiico-oggettivo), che difficilmente riuscirà ad assolvere la propria funzione, ad una memoria inadeguata ed arbitraria: è lei che decide chi deve apparire in ricordo e chi no, è lei che poi deforma il passato, lo fa vecchio.
E’ questa, dunque, una memoria che ha come sua pare fondante l’oblio e che da questo è regolata e resa crudele, poiché non solo impone ciò che è indesiderato, ma sottrae anche il ricordo desiderato. Questa crudeltà è propria di una memoria quale è presente negli “Ossi di seppia”, grigia, stanca, scialba, dilavata e terribile. Nella seconda edizione di Ossi di seppia compare un testo- chiave, Arsenio, in cui il poeta condensa gli elementi che caratterizzano il "personaggio che dice io" in questo primo libro. Arsenio, in parte alter ego di Montale (non certo per caso in rima con Eugenio), reincarna il tipico eroe negativo, o antieroe, romantico o decadente, del quale proprio in quegli anni Montale scopriva e proclamava, primo forse tra gli italiani, la grandezza. Arsenio è incapace di vivere.
Il secondo libro, Le occasioni, esce in prima edizione in un anno funesto per il destino d’Europa, il 1939. Presagi dell'immane tragedia, non tanto espliciti quanto di "atmosfera", si potrebbero reperire in alcune delle splendide poesie conclusive, senza però dimenticare che una certa vocazione "apocalittica" è presente anche altrove. Primo nucleo del libro è la raccoltina La casa dei doganieri e altri versi, in cui ancora compare il motivo del "varco". Nel cuore del libro troviamo i Mottetti, piccolo canzoniere d'amore profondamente originale e moderno, incentrato nel tema della lontananza, dell'assenza. Un critico che di Montale fu commilitone e amico, Sergio Solmi, per far meglio capire il passaggio dal primo libro al secondo, dall'autobiografismo "universalistico", "esemplare" della giovinezza, alla dimensione di un destino personale, carico di segreto, ombre, reticenze, proprio della maturità ricorre a una pertinente citazione da Rilke: "più andiamo lontano, e più personale, più unica si fa la vita". Anche il paesaggio muta dopo che il poeta si trasferisce a Firenze: non più la dismisura irrequieta del mare di Liguria, ma la misura "umanistica" delle armoniose colline. Montale al tempo delle Occasioni, ricercava una poesia simile "a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi".
Come Arsenio, secondo Montale, rappresenta una cerniera tra il primo e il secondo libro, così Nuove stanze, del '39, può considerarsi una cerniera tra Le occasioni e Finisterre, primo nucleo del terzo libro, La bufera e altro (1956), forse il più alto e certo il prediletto dal poeta. In Nuove stanze l'atmosfera della guerra ormai alle porte è molto più esplicita che altrove, ed è significativo che si apra una finestra "non vista", e nella sfera del privato, rappresentata dal chiuso di una stanza, penetri minacciosa, allarmante, la Storia, la "tregenda" di un destino comune. Finisterre (quasi finis terrae come finis Europae, minacciata fine di una certa Europa umanistica e illuminata) esce in prima edizione a Lugano in piena guerra, come "un'appendice alle Occasioni, per gli amici che non vorrebbero fermarsi e far punto a quel libro". E ancora: "Le Occasioni erano un'arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio. Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Si tratta di poche poesie, nate nell'incubo degli anni '40-42,forse le più libere che io abbia mai scritto". A proposito del titolo del terzo libro, Montale scrive: "La bufera è la guerra, in specie quella guerra dopo quella dittatura; ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti". Il terzo libro sviluppa con ammirevoli esiti il tema della memoria. Sullo sfondo disumano di una guerra totale, l'amorevole pietas per le memorie personali e familiari, può rappresentare un’intatta isola di squisita umanità.
L'ultimo Montale segna una netta svolta nel cammino. Nel l971 appare Satura. Nel 1973, Diario del '71 e del '72. Nel l977, Quaderno di quattro anni. Nel 198l, anno della sua morte (avvenuta a Milano il 12 settembre), vedono la luce Altri versi e poesie disperse. Non va dimenticato, anche se questo ragguaglio concerne soltanto l'opera poetica, che Montale ci ha lasciato un'imponente opera in prosa, che comprende i finissimi racconti di Farfalla di Dinard, le felici prose di viaggio intitolate Fuori di casa, scritti saggistici, di critica letteraria, musicale e di costume, che documentano la lunga e assidua attività di giornalista. Nell'insieme dell'opera in versi di Montale successiva alla Bufera gli studiosi hanno tentato di operare distinzioni (un posto a parte occupa in Satura la serie degli Xenia, affettuoso colloquio, fondato sulle dimesse e tenere rievocazioni del quotidiano, con la moglie morta). La tensione lirica è ora o totalmente assente o dissimulata con abilità: il poeta ama ora mostrarsi "in pigiama", abitare "a pianterreno", abbandonare la pittura di cavalletto per un'"arte povera", frequentare e lasciar intravedere il "retrobottega" . Egli stesso ci dice: "ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora do il verso". Il linguaggio è prosastico, trito, spesso volutamente sciatto, ma in realtà per lo più frutto di notevole, sorniona scaltrezza espressiva. Frequente la riduzione autoparodica di trascorsi e sintomatici momenti “alti” della propria poesia.
RAPPORTO CON LA STORIA
PRIMO MONTALE (Genova 1896-1926)
Storia: L'Italia è un paese sostanzialmente contadino, dominato da una borghesia agraria fortemente conservatrice, solo all'inizio della rivoluzione industriale. I problemi dell'unificazione risorgimentale sono ancora aspri, il divario culturale Nord Sud pone le basi di quello che sarà sempre il problema Italiano.
Le arti: il Manifesto del Futurismo è pubblicato a Parigi nel 1909.I crepuscolari si affermano in Italia.
Montale studia privatamente assistito dalla sorella Marianna, la famiglia, originaria di Monterosso, agiata borghesia di scagno ovvero di commercio, abita a Genova.
Storia: Guerra Italo-Turca, conquista della Libia, (1911), Prima Guerra Mondiale (1914-1918), Montale è arruolato e parte per il fronte.
La vittoria (1918), dopo i mesi cupi della disfatta di Caporetto. Le difficoltà del dopoguerra assistono la nascita del fascismo (1919) indebolendo i governi incapaci di gestire le tensioni sociali e la protesta operaia e contadina. Il dibattito all'interno dei socialisti diventa duro si forma l'ala stalinista, si prepara la scissione di Livorno (1921) e la nascita del Partito Comunista Italiano.
La riforma agraria e la politica di incentivi del Governo innescano un periodo di relativa espansione economica. L'industrializzazione del Nord ha inizio.
Le arti: avanguardismo letterario, il futurismo sconquassa i paradigmi della corrente cultura espressiva. Il Vate emergente di quegli anni è D'Annunzio (1865-1938) (Impresa di Fiume 1919).
Montale, nel 1916 compone Meriggiare pallido e assorto che verrà pubblicata negli Ossi di Seppia (prima edizione Gobetti 1925, Torino).E’ la poesia che rappresenta al meglio questo periodo.
Meriggiare pallido e assorto …
La separazione tra la nostra vita e il resto è espressa con una figura precisa: una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. La luce abbagliante del sole, le scaglie di mare lontano e i suoni del meriggio partecipano l'intenso affetto esistenziale e rendono viva e presente la triste meraviglia.
Storia (1924): Il Fascismo al potere e al massimo della popolarità. Il regime si macchia di gravi delitti politici (Giacomo Matteotti e i fratelli Rosselli): chi dissente viene trattato dalle squadre di manganellatori e costretto a bere litri di olio di ricino. Il consenso viene quindi garantito da una parte con i favori del regime, con la demagogia e con l'esaltazione nazionalista, dall'altra con i picchiatori.L'Italia diventa Impero. Il Duce controlla informazione, formazione e cultura.Il regime occupa ogni campo dell'arte: la letteratura è funzionale al regime la pittura e la poesia sono celebrative. Il Futurismo risulta così organico ai temi del regime da divenirne quasi l'emblema.
Montale inizia le sue letture anglosassoni (T. Eliot).
In un primo tempo, pubblica la raccolta di versi Accordi nel 1922. Nel 1925 per le edizioni Gobetti di Torino esce Ossi di Seppia. Sempre nel 1925 Montale firma il manifesto antifascista di Benedetto Croce, che esce su L'Esame, il saggio su Italo Svevo (Omaggio a Italo Svevo).
La poesia che rappresenta questo periodo e che spesso viene citata come dichiarazione politica (o non politica) di Montale è "Non chiederci la parola...", sempre da Ossi di Seppia:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato…
Una dichiarazione di non appartenenza e di non volontà. Diverse possono essere oggi le interpretazioni anche alla luce della non appartenenza di Montale al dibattito (scontro) politico culturale degli anni 70. La posizione di Montale può essere quella di chi sostiene come prioritario diritto della persona, quello alla astrazione: quando per non essere conniventi e per denunciare un regime diventa necessario sottoscrivere un'altra impossibile ideologia, la non appartenenza è l'unica denuncia possibile, l'unico impegno accettabile. Oppure è un diritto del Poeta quello di non coinvolgersi e di vivere al di sopra delle categorie correnti denunciando tutta la miseria della condizione umana, senza distinzione e senza scelta di campo? Di fatto Montale soffriva e disprezzava la volgarità culturale fascista e si sentiva rabbiosamente impotente contro la marea conforme. La sua scelta di campo era dunque precisa e lui la definiva semplicemente decenza.
SECONDO MONTALE (Firenze 1926-1948)
Montale, nel 1927 ottiene un impiego presso l'Editore Bemporad di Firenze, conosce Drusilla Tanzi che sposerà solo nel 1962.Nel 1929 Montale lascia Genova e va a Firenze.
Storia (1929-1939): il decennio più oscuro del Fascismo in Italia, il Regime è subalterno a Hitler, la persecuzione razziale ha inizio, le migliori menti del paese si impegnano nella celebrazione della razza Ariana. Alcuni di questi celebratori diventeranno poi organici al PCI e alla DC.
Il Duce proclama l'Impero. Comincia l'autarchia. Si sente oramai chiaro l'avvicinarsi della tragica fine del regime.
Montale a Firenze frequenta il caffè degli intellettuali fiorentini, le giubbe rosse e gli ambienti dei giovani ermetici, collabora a Solaria. I suoi commenti sul fascismo sono pubblici e taglienti, disprezza l'arroganza e la stupidità del regime si sente insultato come Italiano dalla sua volgarità: al caffè Le giubbe rosse esprime liberamente la sua insofferenza che era resa quasi maniacale dalla sensazione di impotenza. L'amico Guarnieri gli rimprovera la opposizione, che egli ritiene settaria, al regime fascista e la reazione di Montale è violenta: riferisce Guarnieri che Montale alza la voce e le mani gli tremano. Nel 1934 il prefetto di Firenze convoca Montale e gli comunica la cessazione dall'incarico di direttore del Vieusseux con decorrenza immediata e senza liquidazione. Per vivere si dedica al lavoro di traduttore: il temutissimo allontanamento dal Vieusseux lo libera dall'incubo di perdere il posto e alla fine lo protegge dalle provocazioni dei fascisti Fiorentini. Drusilla Tanzi (Mosca) risolve in quel periodo i suoi problemi di esistenza quotidiana.
Montale, nel 1939 pubblica Le occasioni con Einaudi e l'anno successivo l'opera viene ristampata in una seconda edizione accresciuta di quattro liriche.
L'eco della tragedia in corso percorre le pagine delle Occasioni. Il distacco/denuncia di Montale è però espresso più pesantemente dall'atmosfera che nel suo complesso la raccolta impone all'animo del lettore, ricordi troncati, abbandoni, distacchi, lontananze e silenzi, oscurità fisica e ideale.
Tutta la vicenda dei rapporti tra Montale e il fascismo è una tesa rappresentazione del dramma di una intelligenza libera che vuole poter rifiutare senza dover necessariamente combattere o assumere profili eroici. La rivendicazione del diritto di non essere eroi e la rabbia dell'impotenza.
Emblema di questo periodo è “Non recidere, forbice"
Non recidere, forbice, quel volto…
Montale sopravvive dopo la perdita del posto al Vieusseux traducendo (Shakespeare, Yeats, Eliot, Melville), e si forma in questo modo la sua cultura Europea: rara caratteristica nell'Italia della autarchia (anche culturale) e impermeabile ai messaggi di altre lingue, in genere pochissimo conosciute anche dalla borghesia più sofisticata di allora. La sensibilità Europea aumenta la sua alienazione e la sua insofferenza, in un Paese che era allora ancora più provinciale di quanto non sia rimasto oggi.
Storia (1939-1945): La seconda guerra mondiale, la sconfitta, la capitolazione parziale, la guerra civile, gli elementi di resistenza, l'entusiasmo della ricostruzione, il CLN, il pericolo comunista. Gli italiani imparano il costo della tragedia, ogni velo cade sulla stupida allucinazione trionfalistica del regime e il sacrificio, per la causa sbagliata, di decine di migliaia di eroi sconosciuti nelle steppe Russe e nei deserti africani viene ancora offeso da una gestione politica abbietta e furba. La fine della guerra segna l'inizio di una rinascita che sarà sempre marcata dalla ambiguità dell'armistizio: economica, industriale, ma non di valori culturali e nazionale. Le elezioni del 1948 e l'inizio del regime democristiano. L'era di Degasperi. Le grandi lotte sindacali e l'inizio del miracolo economico italiano. Con la ricostruzione si mettono le basi del regime successivo e della partitocrazia consociativa che avrebbe poi governato l'Italia fino agli anni '90.
Montale vive il periodo della Seconda Guerra Mondiale a Firenze dove resta anche dopo la liberazione. Assiste scettico e speranzoso allo stesso tempo alla caduta e alla umiliazione dei vecchi padroni.
Nel 1943 esce in Svizzera il volumetto Finisterre che verrà poi incluso nella Bufera e altro: Nel 1946 esce la sua Intervista immaginaria con il titolo di Intenzioni, nella quale Montale dichiara il suo 'manifesto' poetico.
Nelle liriche de La Bufera e altro (quelle scritte tra il ’40 ed il ’44), ci si attenderebbe una eco immediata e precisa della emergenza di allora, della guerra e delle tragedie che sconvolgevano l'Italia, ma a parte cenni enigmatici e quasi crittografie questo riscontro non si trova. Montale spiega in uno scritto del '46 che :"...Si presentano nella vita di chi ha vissuto abbastanza a lungo situazioni gravi, casi veramente di emergenza, nei quali tutto sembra rovinare e la vita pare legata a un filo molto sottile...l'uomo ... posto di fronte al nulla o all'eterno ... si aggrappa alla vita ... infinitamente più cara quanto più è prossima a sfuggire". Ecco la ragione della quasi esclusiva presenza nelle liriche scritte dal '40 al '44 di elementi privati e riflessioni interiori. Quasi a compensare l'assurdo e incomprensibile dolore del mondo, il massacro e la bestialità con dolcezza malinconica, con la sofferenza personale o la nostalgia per una figura femminile ineffabile e fuggitiva.
Nel 1948 lascia Firenze e va a Milano al Corriere della Sera con un incarico di redattore della terza pagina.
TERZO MONTALE (Milano 1948-1964)
Storia: il miracolo economico esplode: l'Italia democristiana si arricchisce, il potere democristiano inizia la associazione con i Socialisti e la consociazione con il PCI. DC, PSI e PCI si spartiscono il potere negli istituti fondamentali scuola, università, banche, RAI, giornali, parastato attraverso un processo sistematico di lottizzazione delle strutture (quello che Montale chiamò l'ossimoro permanente). Con il Trattato di Roma (1957) inizia il processo di unificazione politica dell'Europa. Nel mondo, finita la guerra in Corea, inizia la guerra in VietNam . Il mondo è diviso in due blocchi distinti: il muro di Berlino è il simbolo di questa fase storica. A Est la rivolta Ungherese inizia a incrinare il potere dell'Impero Sovietico: pochi intellettuali comunisti Italiani se ne accorgono e molti confermano la loro fedeltà allo stalinismo incapaci di rinunciare al sogno del comunismo ideale e di rinnegare un impegno esistenziale.
A Montale, la partitocrazia consociativa non piace che non trova il nuovo regime molto diverso dal precedente, il suo disgusto per la volgarità e per l'ignoranza dei potenti è uguale. La matrice borghese gli rende inaccettabile il PCI e gli impedisce anche l'intuizione di una rivoluzione. Montale a Milano traduce e pubblica i suoi diari di poeta, viaggia come inviato del Corriere venendo in più diretto contatto con il mondo moderno, esterno, spesso criticando severamente: queste esperienze, influenzano le liriche scritte tra il ’45 ed il ’54 (poi confluite, insieme a quelle di Finisterre (’40-’44), nella Bufera e altro, dopo l’uscita della quale, comincia, per Montale, il silenzio poetico). Iniziano gli anni della sua notorietà internazionale. In Italia è accettato come il più grande poeta contemporaneo.
QUARTO MONTALE (Milano 1964-1971)
Storia: il miracolo italiano mostra la corda, lotte sindacali e scontri sulle piazze Italiane travolgono governi e coalizioni. Dopo qualche estemporaneo rigurgito di destra (Tambroni) inizia la fase dei governi di centrosinistra. Si consolida la consociazione di tutti i partiti dell'arco costituzionale nella gestione politica senza opposizione o con opposizione finta. Il Partito Comunista occupa molte aree di effettivo potere ed è al governo di diverse Regioni Italiane. Nel 1968 la protesta degli operai si collega con il Movimento Studentesco che riscontra i segnali di Berkeley e Parigi: fiorisce la grande primavera giovanile, flower-power, Beatles e cultura del rock. La tensione positiva giovanile originaria, la contestazione ironica incomprese dall'establishment degenerano rapidamente. Il PCI, con un errore storico clamoroso, interpreta il momento come quello della possibile rivoluzione e tenta la strumentalizzazione del Movimento degli Studenti: cavalcare la tigre del Movimento è lo slogan. Il Movimento non riesce a distinguere. Le più importanti sedi Universitarie Italiane vengono occupate dagli studenti, le frange arroganti (i katanghesi, i vikinghi come venivano chiamati) prevalgono, i professori che non si adeguano sono reazionari vengono presi in ostaggio e messi alla berlina (sul modello cinese). In molte sedi la il Movimento studentesco viene appoggiato dai professori cosiddetti progressisti, la demagogia travolge tutti, si svolgono esami collettivi dove gruppi di decine di studenti ricevono il 30 politico da professori conniventi o intimiditi da assemblee vocianti dove qualunque buon senso viene deriso e umiliato, ogni tentativo di recuperare una didattica specifica e competente viene massacrato, i concetti di selezione e meritocrazia vengono bollati di fascismo. La volgarità stupida vince e riflette la simmetrica stupidità del sistema. Nel 1973 al Congresso di Rimini il Movimento si spacca: una parte inizia la fase clandestina che sfocerà poi negli anni di piombo come venne chiamato il decennio del terrorismo in Italia. Nel mondo si consuma la tragedia del VietNam: l'escalation americana prepara il baratro di una sconfitta che modificherà profondamente la cultura occidentale. Mai il concetto della democrazia liberale occidentale era stato tradito dalla incompetenza culturale come in questa inutile e sanguinosa guerra, mai era stato pagato un prezzo così alto per un errore politico: il libro di Robert McNamara o un altro milione di libri come quello non potranno mai recuperare la tragedia storica. E questo non vuole assolutamente diminuire il sacrificio di coloro che hanno combattuto e sono morti da eroi a causa dell'egoismo culturale dei responsabili politici Francesi e Americani (58 mila Americani e forse tre volte tanti Vietnamiti).
Montale nel 1964, comincia una nuova stagione poetica: le poesie scritte per la morte della moglie e quelle di argomento satirico, polemico, comico, confluiscono in Satura, ultimo libro di Montale, uscito nel 1971.

NON CHIEDERCI LA PAROLA (Ossi di seppia)
Il poeta si rivolge all'umanità, abituata a farsi guidare dai poeti-vati, e la disinganna affermando di essere egli stesso uomo isolato, come tanti, e smarrito in un mondo incomprensibile e indecifrabile. La normalità della vita è deprecata, dal poeta: chi non si pone angosciosi interrogativi non vive appieno il suo essere uomo.Montale è consapevole che la poesia non può fornire certezze positive, non possiede formule miracolose capaci di comunicare i più profondi significati della vita, ma offrirci soltanto nostalgia e consapevolezza delle realtà negative dell'esistenza. L'autore stesso intende far presente che non è in grado di comunicare la verità; nemmeno lui ne è a conoscenza. "Ho sempre bussato alle porte di quel meraviglioso e terribile enigma che è la vita. Sono stato giudicato pessimista, ma quale abisso di ignoranza e di basso egoismo si nasconde in chi pensa che l'uomo sia il dio di se stesso?". Il poeta condanna l'orgogliosa sicurezza di chi confonde la propria condizione di limitatezza umana con la sublime grandezza degli dèi, e rappresenta la parte più oscura dell’uomo, che non si cura di ciò che è distruzione e che sta proprio fuori di sé.
PICCOLO TESTAMENTO (La bufera e altro)
Scritta nel 1953 e pubblicata nello stesso anno sulla rivista "La Fiera Letteraria", questa poesia è la prima delle due "Conclusioni provvisorie" che costituiscono la settima e l'ultima sezione de La bufera e altro; in effetti ha tutto l'aspetto di un messaggio conclusivo, di un lascito testamentario indirizzato a una donna (forse Clizia, forse la Volpe, che ispira le poesie più tardi de La bufera è che va identificata nella poetessa Maria Luisa Speziali) in cui si vuole trasmettere il senso di una ricerca morale estranea alle fedi e ai dogmi: una ricerca che ha certo scarso peso di fronte alla distruzione prossima ventura della civiltà occidentale - qui preconizzata in un'allegoria di rara efficacia espressiva - ma che pur sempre un segno, un'impronta che la poesia col suo orgoglio e la sua umiltà, ha lasciato sul suo tempo.La concezione radicalmente negativa della storia e dell' ideologia che si affaccia da questa lirica andava decisamente controcorrente rispetto al clima culturale dei primi anni 50, dominato dalle parole d'ordine del neorealismo e della letteratura " impegnata ". Anche per questo, quando nel 1956 uscì "La bufera e altro", le reazioni della critica marxista e dell' intellettualità di sinistra furono sostanzialmente negative. Nel 1968 Franco Fortini vedeva in questa lirica l'espressione di una posizione aristocratica e alto borghese, colpevolmente insensibile ai veri problemi del secolo. Montale ha espresso la rimozione che la parte più europea del ceto intellettuale italiano ha operato del conflitto fondamentale del nostro secolo-quella sociale e politico-sostituendolo col tema "eterno" dello scacco e dell'incomunicabilità. Le "bufere" delle barbarie fascista, della guerra e della catastrofe atomica sono quindi interpretate come mere intensificazione di una unica potenza intrinsecamente malvagia, l'esistenza. Oggi possiamo riconoscere la carica profetica che le posizioni di Montale assumono se rapportate ai tempi in cui vennero formulate: la linea di pensiero negativo che attraversa tutto il 900, invano soffocato dal clamore delle fedi, dell'utopia totalizzante, trova in Montale uno dei più coerenti e sensibili terminali, capace di confrontarsi senza schermi con la storia, e di dedurne senza paura un "arido vero" di leopardiana memoria, altrettanto pensoso renitente di fronte alle "magnifiche sorti e progressive" sbandierate sull'orlo dell'abisso.
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO (Ossi di seppia)
Nel componimento, il poeta descrive l'angoscia esistenziale dell'uomo, condannato a vivere in un mondo incomprensibile dal quale è impossibile ogni evasione. Tutto il brano è centrato sulla simbologia del muro: esso rappresenta, in tutta la sua drammatica concretezza e fisicità, quella barriera di incomunicabilità che percorre la realtà dell'uomo del Novecento. Vivere è camminare a ridosso di una muraglia irta di cocci aguzzi di bottiglia, oltre la quale non è possibile né andare, né vedere.La lirica è caratterizzata da una serie di infiniti con l'intento di dare una continuità monotona e senza senso dei vari aspetti della vita, nelle loro parvenze labili ed effimere. Questi infiniti designano una situazione di atemporalità, una sorta di "delirio di immobilità", come una parodia dell'azione alla scoperta della incomprensibilità del mondo. La poesia si apre con una riflessione sulla natura e sul paesaggio, passando, poi, ad una più amara e desolata ricerca di un superamento della barriera.Il muro d'orto diviene una muraglia, secondo una climax che culmina al concludersi del poema. L'autore, infatti, dopo aver meditato sulla realtà che lo circonda, si rende conto che tale limite è invalicabile e, disperato, si accorge che questa chiusura è totale e non offre spiragli: non ci sarà mai dato di conoscere la verità, o di raggiungere la felicità assoluta alla quale aneliamo invano.

Esempio



  


  1. ginna

    str suoni in la casa dei doganieri

  2. Ciccia

    il commento sulla poesia gloria del mezzogiorno

  3. Ciccia

    commento gloria del disteso mezzogiorno