Da eroe ad antieroe

Materie:Tesina
Categoria:Letteratura

Voto:

1.5 (2)
Download:2162
Data:27.06.2005
Numero di pagine:29
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
eroe-ad-antieroe_1.zip (Dimensione: 1.07 Mb)
trucheck.it_da-eroe-ad-antieroe.doc     1171.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

PARTE SECONDA - DA EROE AD ANTIEROE
CAPITOLO 1. Il distacco tra uomo e malvagio nell’antichità
La testimonianza lasciata dalla mitologia greca e latina traccia un’immagine di cattivo simile a quella delle nostre favole: totalmente malefica, è delineata senza alcuna sfumatura psicologica; inoltre è fisicamente lontana dalle fattezze umane. Come nelle favole troviamo infatti orchi, giganti e uomini neri, nei miti incontriamo mostri marini, sfingi, chimere, ecc. Queste figure hanno l’unico scopo di rappresentare il male ed essere sconfitte dall’eroe di turno, che dal canto suo è bello, forte e, naturalmente, buono. La mitologia e l’epica antica avevano ragione di esistere solo per esaltare e innalzare gli eroi a modelli di forza e virtù; difatti nell’Iliade, storia di una guerra fra popoli nella difesa della propria reputazione, non si evidenzia uno schieramento di “buoni” e uno di “cattivi”, ma in entrambi si distinguono eroi valorosi (ad esempio Ettore ed Enea da una parte, Achille e Ulisse dall’altra) che combattono per cause diverse ma comunque conformi ai loro valori (l’onore, la gloria, la difesa della patria, la solidarietà verso gli alleati).1
Questo perché alla base vi era un fine pedagogico ben preciso, e perciò era importante che la gente si identificasse prontamente con l’eroe. Nell’epoca classica e anche per molti secoli a venire, infatti, l’intento principale della letteratura e delle tradizioni orali era quello di “miscere utile dulci”¹, cioè di trasmettere dei valori sociali in un modo accessibile a tutti. È vero anche che alcuni personaggi dei poemi e delle tragedie greche commettevano atti iniqui, ma ciò veniva inevitabilmente seguito da una vendetta o da una punizione divina. Un esempio può essere la vicenda di Agamennone che, pur vincitore a Troia, finisce ucciso tragicamente per mano della moglie vendicatrice della figlia Ifigenia, immolata vergine prima della guerra.
La distanza fra l’uomo comune e il malvagio permane anche dopo la fine dell’era classica, anche se in un’accezione diversa. Con l’avvento del Medioevo questa figura si converte nell’incarnazione del male in senso religioso, ossia in Satana, che diventa il “Maligno” per antonomasia.
Il dominio temporale della chiesa su tutta l’Europa cattolica impone una ben precisa mentalità che si radica fortemente nel popolo; si affermano credenze e superstizioni alimentate dalla paura dell’Inferno e soprattutto del Diavolo, che si traducono spesso in persecuzioni immotivate nei confronti di individui, diversi dalla gente comune anche solo per il colore dei capelli.
Un fenomeno di questo periodo, che testimonia quanto questa convinzione fosse diffusa tra il popolo e alimentata dall’autorità religiosa, è dato dalle «vite dei santi». Esse raccontavano di numerosi attacchi satanici e di lotte, allo scopo d’invitare i fedeli di tutte le estrazioni sociali, chierici e monaci, contadini e feudatari, a un severo impegno di opposizione e di superamento del male.
Inoltre nella letteratura più diffusa del tempo, quella cavalleresca, si riscontra una figura dell’eroe simile a quella mitologica. Egli viene concepito come rappresentante della moralità cristiana e difensore dell’istituzione feudale, un vero e proprio paladino che salvaguardia i deboli dalle ingiustizie e combatte per la patria, per la Chiesa e per il proprio re.
Questa concezione alquanto netta della realtà e della moralità fu inoltre influenzata dalla concezione dualistica del manicheismo, apparso nel III sec. d.C. Questa filosofia predicava la divisione assoluta del mondo in due principi, quello del Bene e quello del Male, e ha così influenzato la mentalità medievale (anche se considerato un’eresia e ostacolato fortemente dalla Chiesa) che ancor oggi si usa come termine negativo per indicare un giudizio drastico e il rifiuto di qualsiasi compromesso.
CAPITOLO 2.1. I primi eroi negativi
IL SATANA DI MILTON
Nel 1667 John Milton, un poeta inglese di impostazione umanistica e puritana, scrisse il famoso poema epico “Paradise Lost or the Fall of the Man” (“il Paradiso Perduto o la Caduta dell’Uomo”), sul modello di altri poemi d’argomento religioso come “ Gerusalemme liberata “ di Torquato Tasso. Anche se l’intento di Milton era senz’altro quello di trasmettere gli ideali cristiani, l’autore incentrò la sua opera non più su un personaggio in cui il lettore poteva identificarsi, com’era d’uso, ma rese protagonista il Diavolo, dotandolo di uno spessore tale da elevarlo ad eroe.
Nella prima parte del poema, infatti, prima di introdurre l’argomento principale, narra della caduta dell’angelo che più era vicino a Dio, Satana, e della sua presa di potere nel regno infernale.
"That we must change for heav’n, this mournful gloom
For that celestial light? Be it so, since he,
Who now is Sovereign, can dispose and bid
What shall be right: farthest from him is best,
Whom reason hath equall'd, force hath made supreme
Above his equals. Farewell happy fields,
Where joy for ever dwells: hail horrors; hail
“Che abbiamo ottenuto a cambio del Cielo?Questa lugubre oscurità
In cambio di quella luce celestiale?E così sia, giacché Colui
Che adesso è Sovrano può disporre e decidere
Ciò che dev'essere giusto: tanto meglio più è lontano da lui,
La cui ragione eguaglia, e la cui sola forza ha reso supremo
Sui suoi eguali. Addio, Campi felici,
Ove la gioia sempre s'intrattiene: Salve, orrori; benvenuto,
.
Dal modo in cui l'autore dà voce al personaggio è deducibile la collocazione del nemico del Bene per eccellenza come eroe del poema: i suoi monologhi altamente drammatici e significativi, si distinguono per una forza espressiva unica all'interno dell’opera; in altre parole gli argomenti espressi vengono rafforzati e abbelliti in modo da giustificarli e renderli credibili. La figura miltoniana dell'angelo caduto si basa infatti sulle connotazioni di un eroe che vuole difendere il suo onore, "ingiustamente" escluso dal Paradiso, simbolo del potere assoluto.
Infernal world; and thou profoundest hell
Receive thy new possessor; one who brings
A mind not to be changed by place or time.
The mind is its own place, and in itself
Can make a heav’n of hell, hell of heav’n,
What matter where, if I be still the same,
And what I should be, all but less than he
Whom thunder hath made greater? Here at least
We shall be free; th’Almighty hath not built
Here for his envy, will not drive us hence:
Here we may reign secure, and in my choice
To reign is worth ambition, though in hell:
Better to reign in Hell than to serve in heav'n".
Mondo Infernale; e tu, profondissimo Tartaro,
Accogli il tuo nuovo Padrone - qualcuno che possiede
Una mente che non può essere cambiata da tempi o luoghi
La mente è luogo a se stessa, ed essa stessa
Può trasformare il Paradiso in Inferno, l’Inferno in Paradiso.
Che importa il luogo, se sarò ancora lo stesso,
E cosa mai dovrei essere, appena inferiore a Colui
Che il Tuono ha reso grande? Qui almeno
Saremo liberi; l'Onnipotente non ha edificato
Questo luogo per chi lo invidia, non ci ha portati qui:
Qui regneremo sicuri; e dal mio punto di vista
Regnare è una degna ambizione, seppur nell'Inferno:
Meglio regnare all'Inferno che servire nel Paradiso” 2
Gli ideali difesi da Satana sono quelli che ardono nel cuore di ogni uomo da sempre, ed è per questo che tale grande personaggio verrà recuperato e preso a modello dagli autori romantici, più vicini all’uomo e perciò più sensibili ai valori proclamati dal Principe del Male: la liberazione da uno stato di schiavitù (“saremo liberi..meglio regnare all’inferno che servire nel Paradiso”), l’affermazione della propria individualità e delle proprie ambizioni (“che importa il luogo, se sarò ancora lo stesso”, “dal mio punto di vista regnare è una degna ambizione, seppur nell’Inferno”), l’elevazione della ragione sopra ogni cosa (“la mente… può trasformare il Paradiso in Inferno, l’Inferno in Paradiso”).
Tuttavia la mentalità inglese del ‘600, e soprattutto quella puritana dell’autore, non permettevano una completa celebrazione dell’eroe ribelle che cerca di affermare la propria volontà di potenza; infatti l’eroismo di Satana, per Milton, ha un valore fortemente negativo, dato che l’eroismo puro e la ribellione sono legati ad un concetto individualistico di libertà che è in netto contrasto con la religiosità dell’epoca. Questo giudizio è ravvisabile nel VI capitolo, dove all'eroismo del primo Satana e alla sua scelta di libertà si sostituiscono espressioni tortuose e caotiche, ipotesi e recriminazioni, sensazioni e ricordi oscuri che dimostrano come ormai Satana sia prigioniero di se stesso. Inoltre la sua trasformazione in serpente per tentare Adamo ed Eva lo degrada ad un livello bestiale e perciò non più eroico e ribelle.
LETTERATURA CRIMINALE DEL ‘700: I ROMANZI LIBERTINI, I PAMPHLETS SULLE ESECUZIONI
Anche nel ‘700 ritroviamo esempi di protagonisti negativi che, sebbene non abbiano avuto molto rilievo nella letteratura dell’epoca, hanno contribuito alla decaduta del romanzo pedagogico.
Il filone del romanzo libertino si presenta alla fine del Settecento con due scrittori francesi: Laclos e Sade.
A causa della degenerazione del pensiero illuministico nell’idea del dominio dell’uomo sugli altri uomini, la ragione scientifica e il calcolo razionale servono, nei romanzi di Sade, per amministrare i modi e le forme con cui ottenere (attraverso il crimine) il piacere, e in quello di Laclos per affermare (attraverso il libertinaggio) una volontà di potenza che si rivela alla fine fallimentare, sfociando in morte e follia.
Il romanzo di Pierre Ambrosie François Choderlos de Laclos, "Les liaisons dangereuses" ("Le relazioni pericolose"), apparve nel 1782. In quest’opera si trova già un esempio di cambiamento rispetto alla letteratura tradizionale, perché i personaggi principali non sono portatori dei valori morali comunemente accettati. Il lettore, che è condotto nella vicenda attraverso il punto di vista di chi guida il gioco, e cioè dei due protagonisti libertini, è costretto a rendersi complice nei loro atti iniqui; di qui la sensazione di malessere morale che continuamente il romanzo suscita. Inoltre la struttura stessa del romanzo epistolare contribuisce a creare un poliprospettivismo che rende difficile una lettura della vicenda in chiave solo manichea e moralistica; si delinea, infatti, un’indefinitezza nei personaggi e nelle situazioni, che disorienta il lettore settecentesco (abituato a riconoscersi nell’eroe giusto), agevolata dall’assenza di un giudizio critico dell’autore, dato che il romanzo epistolare fa parlare solo i protagonisti.
Il contemporaneo di Laclos, de Sade, arriva addirittura all’esaltazione della più completa amoralità, ostentando sia una filosofia atea e materialistica, sia la propensione cinica e sfrenata ai piaceri; ad esempio il suo romanzo “La nouvelle Giustine ou les malheurs del la vertu, suivie del l’histoire de Juliette, sa soeur, ou les prospérités du vice” (“La nuova Giustina o le disgrazie della virtù, seguita dalla storia di Giulietta, sua sorella, o le fortune del vizio”) esalta la fredda razionalità scientifica con cui il libertino organizza il proprio piacere, cercandolo nella tortura, nell’uccisione delle vittime e nella totale subordinazione dell’altro al desiderio di voluttà e di affermazione del singolo individuo. Nei romanzi di Sade si vive in un mondo completamente capovolto, in cui la virtù può essere solo vilipesa, mentre il vizio non può che trionfare.
Parallelamente alla letteratura settecentesca ufficiale e più conosciuta, il fascino verso il criminale veniva espresso attraverso il grande successo che avevano dei libercoli scritti sulle avventure dei delinquenti.
Pare infatti che in Inghilterra, sin dalla fine del Seicento, il cappellano della prigione di Negate, dopo aver assistito i condannati a morte, avesse il diritto di pubblicare il resoconto dei loro ultimi istanti e delle relative imprese delittuose. Queste narrazioni - in forma di pamphlets, venduti talvolta il giorno stesso dell'esecuzione - trovavano un largo pubblico, inducendo alcuni stampatori a raccoglierle in volume: nacque così, nel 1773, “The Newgate Calendar”, che conobbe numerose riedizioni. L'iniziativa venne ripresa da vari editori, i quali iniziarono la pubblicazione di opuscoli basati sui resoconti ufficiali del tribunale di Londra, arricchiti di particolari truculenti per soddisfare il morboso interesse del pubblico verso i criminali e le loro gesta.
La popolarità delle esecuzioni era altissima, e l'occasione si trasformava in una sorta di festa popolare. Spesso il condannato faceva "il discorso del patibolo", con cui era chiamato a riconoscere, insieme ai propri crimini, la giustizia della condanna. In questo modo il condannato incarnava, come osserva Michel Foucault "sotto la morale apparente dell'esempio da non seguire, tutto un ricordo di lotte e di scontri" ingaggiati "contro la legge, contro i ricchi, i potenti, i magistrati, la polizia militare e la ronda di notte, contro l'esattoria e i suoi agenti"3, tutte istituzioni per cui il popolo certo non parteggiava. Non di rado, dopo l'esecuzione il condannato veniva celebrato come un eroe, e la proclamazione postuma dei suoi delitti gli assicurava la gloria. Il pubblico settecentesco, quindi, vedeva nel criminale un malfattore e al contempo, un modello in cui identificarsi: ciò era dovuto all'estrazione popolare dello highwayman o bandito di strada, cui il comportamento deviante consentiva d'eludere un assicurato destino di povertà.
CAPITOLO 2.2. L’eroe romantico
Il protagonista che più frequentemente si incontra nelle opere letterarie del primo ottocento è l’eroe romantico, un uomo che si contrappone fieramente alle convenzioni sociali, che esprime passioni violente e che ha un senso vivissimo dell’avventura in cui cercano soddisfazione il suo desiderio di libertà e il suo grande individualismo.
Alla base dell’etica romantica sta il pensiero del filosofo spiritualista Jacobi “se è impulso è dovere”. Questa tematica si pone soprattutto al centro del movimento dello “Sturm und Drang” in Germania, ma si sviluppa grandemente anche in Inghilterra;
L’eroe romantico è il ribelle solitario che, orgoglioso della sua superiorità spirituale e della sua forza, sprezzante della mediocrità, si erge a sfidare ogni autorità, ogni legge, ogni limite, per affermare la sua libertà e la sua individualità d’eccezione (atteggiamento definito titanismo).
Un esempio è il Masnadiere di Schiller (1783): un nobile fuorilegge che, spinto dalla sua sete inestinguibile di libertà e grandezza, calpesta le leggi umane compiendo terribili delitti, arrivando sino a sfidare Dio stesso e che per questo è destinato ad essere gravato dal peso di un’oscura maledizione.
IL FAUST DI GOETHE
Alle radici del romanticismo tedesco, che raggiunge il suo apice tra il 1790 e il 1810, c'è il concetto dell'appartenenza dell'uomo a se stesso. Il mondo è instabile, contingente, relativo, forse una mera farsa degli dèi, e l'individuo, sia pure non autosufficiente, deve imparare ad adeguarsi e a schivare i mille ostacoli della vita.
Il percorso intellettuale e umano di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) fu quello di un giovane letterato che diede un contributo essenziale al romanticismo europeo, per giungere poi nell'età matura a una forma di umanesimo classicista in cui quella esperienza venne riassorbita all'interno di una visione più complessa.
Nel dicembre 1775 lesse alle dame della corte di Weimar un dramma su Faust. E' il cosiddetto Urfaust, che aveva già scritto in precedenza (dopo il 1772), capolavoro della fase sturmiana. Nelle linee principali la vicenda corrisponde a quella che sarà la prima parte del "Faust" definitivo: il dramma del mago, la tragedia di Margherita. Il linguaggio duro e vibrante soprattutto delle scene in prosa, nella successiva rielaborazione saranno attenuate.
La prima parte di questa tragedia, definitiva dopo il "Frammento" del 1790, uscì nel 1808. Goethe riuscì a terminare la seconda parte (in cinque atti) poco prima della morte, il 22 luglio 1831: essa uscì postuma, l'anno stesso della morte, nel 1832.
Protagonista di varie opere drammatiche, le quali, attraverso più secoli, hanno ripreso la leggenda del famoso truffatore tedesco che vendette l'anima al Diavolo, Faust è un personaggio realmente esistito, un taumaturgo ciarlatano del ‘500 noto nel centroeuropa per le sue truffe ai danni della gente superstiziosa. Della vita avventurosa e delle miracolose gesta di lui, in un'epoca in cui regnava sovrana la fede nella potenza della magia, presto si impadronì la leggenda, alimentata, nel sec. XVI, dalle lotte confessionali tra cattolici e luterani, i quali si attribuirono a vicenda la colpa di avere corrotto l'anima di Faust. Nel 1587 fu pubblicata un’opera su questo personaggio, scritta da un anonimo luterano, nella quale apparse già il motivo del patto col Diavolo. Verso la fine del 1500, la leggenda faustiana era già viva anche in Inghilterra, dove tempo dopo venne scritta la “Tragica storia del dottor Faust” da Marlowe. Qui la figura del protagonista ci è presentata in modo del tutto nuovo: su Faust non grava più il peso del «divieto teologico» del Medioevo, ma è animato dallo spirito ribelle, dominante nel pensiero rinascimentale, che, contro ogni dogma, esalta i diritti della ragione. Egli non è più il volgare ciarlatano del sec. XVI, ma piuttosto un potente titano che celebra la malia della vita senza curarsi di allontanare da sé il terrore del castigo. In seguito il genio di Goethe, riprendendo l'antica leggenda, diede una nuova forma al protagonista.
Faust, mosso da brama di conoscenza, cerca appagamento nello studio di tutte le scienze, ma invano; si dedica allora all'arte magica nella speranza di penetrare il mistero delle cose, ma con lo stesso risultato. Vinto dalla disperazione, vuole porre fine alla sua vita, quando in un mattino d’aprile erompe, diffondendosi nell'aria, un dolce suono di campane. È il giorno di Pasqua: Cristo è risorto e Faust ripensa alla innocente felicità della sua fanciullezza lontana. Vuole così darsi allo studio del Nuovo Testamento, ma lo spirito del male, Mefistofele, lo tenta, promettendogli la felicità, a patto di avere la sua anima. Concluso il patto, Mefistofele cerca appagare Faust con il piacere edonistico, ma non ottiene l’esito sperato. Gli mostra allora l'effigie di Margherita e poco dopo tra I due giovani sboccia un puro amore. Faust sembra veramente avvicinarsi alla piena felicità, ma il Demonio risveglia in lui la sensualità ponendo fine all’amore platonico. Al sentimento di colpa e alla nascita di un figlio illegittimo, seguono una serie di delitti e morti tragiche. Nella seconda parte del poema, Faust partecipa alla vita di Corte Imperiale; durante una delle frequenti feste evoca la figura di Elena di Troia, che gli appare di una bellezza soprannaturale; quando la figura di lei diventa realtà, fra loro si stringe un legame d'amore; ma Euforione, frutto di questo amore, vuole volare verso il sole e con sé trascina anche la madre. L'arte classica, figurata in questo simbolo, non è dunque riuscita a soddisfare la brama di Faust e inutili riescono anche i nuovi allettamenti di Mefistofele.
Infine Faust intuisce la vera via che guida l'uomo verso la felicità: l’attuazione di una grandiosa opera. Questa si realizza nel bonificare e strappare al mare una terra ricevuta dall’imperatore: grazie a ciò, sostiene, milioni di uomini potranno vivere liberi. Quando intravede il suo compimento, raggiunge la suprema gioia, ma intanto il patto si conclude e Faust cade morto. Mefistofele pare abbia vinto la scommessa fatta con Dio al principio del dramma, nel “Prologo in cielo”, e invece ora è possibile la salvazione per Faust, perché “colui che si affaticò sempre bramando, può essere redento”, e Margherita stessa lo accompagna in cielo.
Faust, l'uomo che alberga due anime nel proprio petto, l'una legata alle cose del mondo, l'altra avidamente tesa alle regioni celesti, è la personificazione compiuta di quella concezione che ha il culto esasperato della vita piena, senza freni, senza limiti, senza soste e senza leggi.
Con il Faust, Goethe porta a compimento uno dei più significativi miti dell’età moderna. Il carattere principale è lo Streben, il cercare, il tendere continuamente verso nuove mete, nello sforzo di superare ogni limite. Tale Streben s'ispira sempre a un principio fondamentale di vita che viene affermato già all'inizio del poema: “in principio era l'azione”; l'azione è alla base di ogni dignità di vita, è il culto stesso della vita: “l'azione è tutto - nulla la gloria”.
In Faust c'è quindi un’esaltazione dell'agire in sé e per sé come principio vitale di ogni cosa, precedente al momento stesso in cui l'uomo acquista coscienza del proprio essere. È un’esigenza che se, talvolta, può prescindere persino da uno scopo determinato, tanto più sarà libera dalle norme morali.
Faust è, dunque, un eroe dell’azione, soprattutto nella seconda parte del dramma. La funzione di Mefistofele è di indurre Faust a fermarsi nell’attimo, nel godimento del finito. Faust quindi capisce che solo nell’azione lo Streben diventa produttivo e sospinge l’uomo al continuo superamento di ogni tappa. Non c’è opposizione, ma un rapporto dialettico tra Faust, portatore della tensione inesausta dello spirito, e Mefistofele, non più terribile diavolo, ma ironico rappresentante dell’utilitarismo borghese.
Il vecchio tema del patto col diavolo assume in Goethe caratteri diversi dalla tradizione: il rapporto Faust-Mefistofele è all’origine di una visione positiva della scienza e della tecnologia: “Non è muta la terra a chi gagliardamente opera e vive”. Perciò il motivo della conoscenza è strettamente connesso a quello del potere e del dominio; sapere è potere – aveva già detto Bacone – e permette all’uomo di andare oltre l’uomo (la parola “Übermensch” – l’Oltreuomo teorizzato poi da Nietzsche – è stata introdotta da Goethe).
Anche il denaro non è più oggetto di denuncia morale, secondo una secolare tradizione che arriva fino al settecento; il denaro è celebrato da Mefistofele come strumento di potere, moltiplicatore della forza dell’individuo, che identifica il suo essere con un’infinita capacità di scambio. Ad un passo in cui Mefistofele afferma: “se posso pagarmi sei stalloni, le loro forze non sono le mie? Io ci corro su, e sono perfettamente a mio agio come se io avessi ventiquattro gambe”, Marx commentò: “Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso”4, sottolineando la funzione di alienazione del denaro, che è alla base della nuova etica borghese.
La celebrazione dell’attivismo comporta la distruzione e la creazione di nuovi mondi: è questo spirito demoniaco che anima il moderno sviluppo capitalistico.
Ma l’edificazione del nuovo mondo, che Faust realizza tramite il dominio sulle forze della natura, non è completo senza la distruzione. Il sogno di un’umanità libera e operosa che potrà vivere sulla fertile terra strappata al mare, non è scindibile dalla violenza e dalla rapina: Faust sottrae al mare la terra avuta in feudo dall’imperatore, grazie ad un esercito di schiavi, controllati da Mefistofele e da tre guardiani che assomigliano a moderni killers stipendiati.
Il conflitto delle interpretazioni sul giudizio positivo di Goethe circa la Streben è dovuto al finale positivo dell’opera: l’esperienza demoniaca del capitalismo è una via che l’umanità deve percorrere, il prezzo pagato alla futura libertà del genere umano, come sostengono Lukàcs e Cases (filosofo e critico ungherese, importante germanista italiano), oppure la felicità del genere umano non può passare attraverso il male e la distruzione, attraverso cioè un progresso borghesemente inteso?
Faust insomma potrebbe essere interpretato come un eroe dell’umanità e della sua tensione allo sviluppo oppure la sua figura può essere vista inseparabile dal “demonismo” dell’imprenditore capitalistico; comunque è senz’altro portavoce di un nuovo modo di guardare la realtà che non condanna a priori gli atti e i personaggi violenti per raggiungere una prospettiva più ampia dell’uomo e delle sue potenzialità; un principio cioè unicamente vitalistico, che tende sempre più in alto e a mete sempre più ardue, senza curarsi di distinguere quanto è lecito da quanto non lo è. “Chi ha la forza, ha anche il diritto”5.

BYRON E IL SUO EROE OSCURO
“He left a Corsair’s name to other times,
Link’d with one virtue, and a thousand crimes.” 6
Irrazionale, stravagante, doloroso, solitario nella furia degli elementi che lo circondano, tenebroso, bello e tragico, appassionato e un po' cinico, dominato da un perenne “besoin de fatalité", (secondo Charles Du Bos) e ossessionato dalla necessità di una libertà morale senza confini. Una libertà morale che, se pure si carica a volte di un significato politico, si esprime spesso, simbolicamente, attraverso ogni possibile atto di trasgressione.
Aggiungendo a tutto questo l'esaltazione dell'esotico e nel cliché generico del primo eroe romantico si riconoscerà il ritratto di lord Byron.
È difficile dire se in Byron si debba considerare maggiormente il poeta o il personaggio, entrambi contraddittori e proprio per questo rappresentativi di un'epoca il cui pensiero cominciava a spingersi, dopo Rousseau, a quell'analisi della coscienza individuale, a quell'affannosa ricerca di un'identità che deriva, con maggiore o minore consapevolezza, da una visione tragica della vita. Certo i due aspetti sono legati, ma è più probabile che sia stato il personaggio a creare il mito del poeta Byron, a gettare sulla sua poesia quella luce sulfurea, satanica, cui raramente sono sfuggiti il critico e il lettore, piuttosto che il poeta con la sua opera a creare, o per lo meno a rafforzare, il mito del tipico personaggio romantico, del ribelle aristocratico che nella pienezza di un cieco ottimismo liberale coglie l'angoscia dell'uomo contemporaneo, erede deluso della Rivoluzione francese cui fra le guerre napoleoniche e il disordinato progresso industriale appare chiaro il crollo degli orientamenti illuministici.
George G. Byron, nato a Londra nel 1788 e scrittore sin dalla giovinezza ma non da subito capito ed apprezzato, fu un vero protagonista del mondo letterario della sua e delle epoche successive, ammirato - sia pure con qualche sospetto - da uomini come Goethe, Foscolo, Schopenhauer e Stendhal; e comunque simbolo per generazioni di un concetto eroico, disperato e nello stesso tempo positivo della vita.
La produzione poetica di Byron è divisibile in due fasi: La prima fase romantica è rappresentata soprattutto dal "Pellegrinaggio del giovane Harold": prevalgono il sentimento e i luoghi comuni del romanticismo. Nella seconda fase Byron scrisse soprattutto poemi burleschi, a imitazione di quelli italiani (Pulci): la cosa migliore è il "Don Juan", poema eroicomico-satirico: all'interno di uno schema picaresco mescola satira, epica e romanzo.
Il 2 luglio del 1809 il poeta lasciò l'Inghilterra con l'amico John C. Hobhouse. Quando rientrò in Inghilterra, era il luglio dei 1811. Riguardo al suo viaggio, nel suo diario scrisse: “Amo l'energia, anche l'energia animale, d'ogni specie; e ho bisogno di entrambe: dell'energia della mente e dell'energia del corpo.”
Nei due anni del Grand Tour il poeta mise a punto quegli aspetti (energia della mente ed energia del corpo) che contribuirono fortemente alla creazione del suo eroe oscuro, dominato da un'ansia che oggi tendiamo a riconoscere come “tipicamente romantica”
Il poema autobiografico in stanze spenseriane “Childe Harold's Pilgrimage” (“Il pellegrinaggio del giovane Aroldo”), fu infatti iniziato quando era ancora in viaggio (nel 1810, e terminato nel 1818). In quest’opera, che gli diede una celebrità inattesa e senza precedenti, Byron riuscì ad esprimere esattamente il personaggio malinconico e ribelle, misantropo e ambizioso, l'esule volontario nostalgico di un passato eroico, deluso da un presente meschino, che già era stato impostato dai primi romantici. Creò insomma l’eroe byroniano che oggi conosciamo.
“Sperimentò la pienezza della Sazietà:
Odiò restare nella sua terra nativa, che gli parve
Assai più solitaria della triste cella
Dell'eremita. Poiché aveva percorso il lungo labirinto.
Del Peccato, né mai aveva espiato il male fatto,
Aveva sospirato a molte ma amata una sola,
E quella amata, ahimè, non fu mai sua.”
Dopo la vittoria di Waterloo, la pace tra Francia e Inghilterra non aveva portato né quiete né abbondanza all'Europa. I fermenti ideologici si facevano sempre più scoperti: la messa a punto del primo progetto di legge operaia, le agitazioni per la riforma elettorale e parlamentare, la nascita del movimento radicale; e intanto, sul continente, fra cospirazioni e reazioni, si stavano preparando le lotte per l'indipendenza. È naturale, in questi anni, che chiunque proclamasse con forza la parola libertà, difendesse la dignità dell'uomo e si battesse contro ogni rigida convenzione, come Byron nella sua opera, dovesse riscuotere l'entusiasmo di molti.
Il poeta si schierò apertamente a fianco delle menti più illuminate e progressiste, L'incontro con Shelley a Ginevra, che Byron raggiunse dopo aver visitato il campo di battaglia di Waterloo e aver viaggiato lungo il Reno, fu di grande importanza, poiché servì se non altro a chiarire nel poeta quel sentimento di partecipazione umanitaria già mostrato, e a rafforzare in lui il senso della storia. Inoltre fu Shelley a far conoscere a Byron il Faust di Goethe, e sappiamo quanto peso ebbe quest'opera nella sua già evidente propensione agli elementi magici.
Infatti il suo “Prometheus” (“Prometeo”) e il “Manfred” (“Manfredi”, portato a termine a Roma nel 1817) testimoniano dell'accentuarsi del gigantesco e del tenebroso sotto l'influenza di Shelley e di Goethe e della profonda impressione che ebbero sul poeta i maestosi paesaggi alpini.
Quella di Manfredi, un uomo solitario perseguitato da un destino inevitabile, colpevole di un crimine misterioso e inespiabile, torturato dal rimorso e potente al punto da poter evocare esseri occulti ricorrendo alle arti magiche, è una figura entrata nel patrimonio letterario dell'epoca, e ha influenzato molte opere successive, come il romanzo di Emily Brontë “Wuthering Heights” (“Cime Tempestose”), pubblicato nel 1847, che è considerato il romanzo inglese più famoso dell'epoca romantica.
Ambientato nelle lande dello Yorkshire, racconta l'amore demoniaco tra Catherine Earnshaw e lo zingaro trovatello Heathcliff. Quando l'amore viene impedito dal matrimonio di Catherine con Edgar Linton, Heathcliff diventa crudele, fugge con la sorella di Edgar e si sfoga maltrattando chiunque abbia a che fare con lui, arrivando a compiere atti violenti e delitti.
Appena pubblicato “Cime Tempestose” fu giudicato brutale, cupo ed immorale, poiché creò scandalo nella società ipocrita e convenzionale qual era quella inglese dell’Ottocento. Nella “malvagità” di Heathcliff si ravvisa l’eroe byroniano, artificioso, ma descritto con un’intensità ed una vivacità che lo rendono indimenticabile. I critici moderni vedono nel romanzo la storia “dell’amore romantico” per eccellenza, un amore sublimato dalla sofferenza, che è privo di qualsiasi accenno di sensualità, ma in cui non manca né la passione né la violenza.
CAPITOLO 2.3. La demistificazione dell’eroe buono
DON CHISCIOTTE
Accanto alla nascita letteraria dell’eroe negativo, il cui primo importante esempio si può far risalire al XVII secolo con l’opera miltoniana, si riscontrano, sempre nello stesso secolo, primi segnali in cui l’eroe-paladino, portatore e difensore dei valori socialmente accettati, comincia a non essere più un essenziale punto di riferimento e viene messo da parte. Questo fenomeno si verifica attraverso un processo di demistificazione del protagonista, come avviene nel romanzo di M. Cervantes, “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha” (“L'ingegnoso hidalgo don Quijote de la Mancha”), pubblicato in due parti distinte fra il 1605 e il 1615. Per l’innovazione stilistica presente nell'opera che, partendo dalla letteratura cortese-cavalleresca, dalla letteratura pastorale, dal romanzo picaresco e dalla novellistica, ha unito tutte queste esperienze per creare qualcosa di assolutamente originale ed unico, “Don Chisciotte” è definito da molti (ad esempio da Pirandello nel trattato sull’umorismo) come il primo romanzo moderno.
Cervantes visse la fase di passaggio tra il XVI e il XVII secolo. La sua formazione culturale si svolse pienamente nel clima rinascimentale, ma la sua esperienza personale, individuale, gli fecero vivere in prima persona l'inizio del grave momento di crisi del mondo europeo (soprattutto spagnolo). Dalla crisi del mondo rinascimentale germoglia un desiderio irrefrenabile di nuove condizioni esistenziali, in cui il singolo non sia irrigidito in un gioco prestabilito di rapporti sociali ma possa realizzare la propria individualità. In Cervantes è il bisogno di scoprire il sogno, la fantasia, l'ignoto, la follia, l'istinto, di svelare la zona in ombra della coscienza umana. Don Quijote idealista e folle hidalgo, e Sancho il suo scudiero dal tenace e realistico buonsenso, sono espressioni diverse e complementari di questa esigenza. Alla base del "Don Quijote" è un disagio di vivere, che sfocia nella prefigurazione di un mondo vagheggiato, che tuttavia resta tale: l'utopia cavalleresca (simbolo di tutte le utopie) è bella ma irreale e irrealistica nel mondo esistente.
La vicenda ruota intorno ai viaggi nell'est della Spagna compiuti dal protagonista, Alonso Chisciana, un nobiluomo (hidalgo) di campagna ormai cinquantenne, che vive in un piccolo paese della Mancia e che dopo anni di letture di libri cavallereschi impazzisce e comincia a pensare che tutto ciò che ha letto corrisponda al vero e che egli debba ripetere le gesta dei cavalieri erranti alla ricerca di fama e di gloria. Perciò si dota dell'armatura dei suoi avi (ma la sua visiera è di cartone), ribattezza il suo magro cavallo Ronzinante, sceglie per sé come nome di battaglia quello di Don Chisciotte della Mancia ed elegge a sua dama una contadina del luogo alla quale cambia il nome in Dulcinea del Toboso.
Al ritorno nel suo villaggio Don Chisciotte apprende che è stato pubblicato un libro che narra le sue avventure, descrivendole però in modo molto poco glorioso, ragion per cui il nobiluomo si decide ad una terza sortita proprio per affermare i suoi ideali di giustizia, di cortesia, di difesa degli oppressi tanto derisi nel libro appena pubblicato. Numerose vicende si susseguono, ma il nostro protagonista ha sempre la peggio, anche perché, oramai divenuto famoso, è vittima delle beffe di coloro che incontra e lo riconoscono come il folle che si crede un cavaliere errante. Motivo distintivo, infatti, della seconda parte del romanzo è il fatto che non è più tanto Don Chisciotte a trasformare la realtà secondo la sua immaginazione, quanto piuttosto i personaggi intorno a lui, incluso Sancio, a volerlo convincere a compiere stramberie per poterne poi ridere. Anche questa sortita si conclude comunque con un ritorno al villaggio; qui Don Chisciotte si ammala preso da una forte febbre che lo tiene a letto. La malattia lo rinsavisce, ma proprio allora muore.
L'interpretazione "tragica" dell’opera, storicamente affermatasi durante il Romanticismo, vede nell'hidalgo un campione dell'idealismo costretto a scontrarsi con una prosaica realtà priva di ogni eroismo.
Sarebbe così testimoniata dal Cervantes la crisi di fiducia del suo tempo nelle acquisizioni rinascimentali quali l'armonioso equilibrio tra la natura e l'uomo, la fiducia nell'agire umano guidato dalla razionalità. Nel suo romanzo regnano invece la confusione, l'incertezza, il disinganno: una "scissione tra coscienza e vita" che perdura ancora oggi e che rende il “Don Chisciotte” così attuale.
CAPITOLO 3. Il nuovo ruolo dell’eroe nel romanzo
Nella parte finale di quest’excursus nella letteratura occidentale per evidenziare il cambiamento della funzione dell’opera scritta, da strumento della società per l’educazione alla morale comune a mera espressione dell’interiorità dell’individuo -dovuta alla caduta della mentalità proiettata verso la collettività e all’imposizione dell’individualismo che oggi ci caratterizza -, si vogliono presentare a grandi linee i passaggi attraverso i quali, dalla seconda metà dell’ottocento, si è giunti al romanzo moderno e alla sua completa libertà nel trasmettere contenuti più o meno condivisibili. Attraverso le correnti letterarie presentate di seguito si comprende che lo scrittore si muove verso altre direzioni da quella meramente pedagogica; cercando di spaziare nella sfera delle situazioni mai narrate, arriva a scrivere anche di atti e persone immorali. A partire dal naturalismo infatti, la distinzione fra vizio e virtù non ha più valore: ciò che conta è il vero. Per l’estetismo invece, l’assoluto è l’arte in sé, per l’esistenzialismo è l’interiorità, ecc.
IL NATURALISMO E LA SUA EVOLUZIONE
In antitesi allo spiritualismo e all'ottimismo ideologico della cultura romanticista, il naturalismo intendeva fondarsi su premesse deterministe: dietro è la filosofia del positivismo. Si sottolinea il dipendere dell'uomo dalle condizioni ambientali, si denuncia senza riserve i limiti concreti della sua personalità etica. Con ciò si sposta l'attenzione non tanto sulla natura, nullificata ai loro occhi da un pessimismo che era l'antitesi dell'ottimismo illuministico alla Rousseau, quanto sulla società intesa come meccanismo di sopraffazione e abbrutimento dei singoli. Fondamentale per il naturalismo è l'ipotesi del male e della malattia, derivato dal deterioramento e dalla distorsione delle strutture sociali. In rapporto a questa ipotesi, assumevano importanza via via che il movimento definiva la sua poetica e le sue linee di tendenza, anche la negazione dei princìpi estetici tradizionali, e la rivoluzionaria proposta del totale patteggiamento del "bello" e del "brutto": è un'idea che troviamo già nel 1865, nella prefazione dei fratelli Goncourt al loro romanzo "Germinie Lacerteux".
Il naturalismo si poneva come rivendicazione, soprattutto in sede contenutistica, di ciò che la grande letteratura aristocratica e borghese per secoli aveva rifiutato, oppure ridotto alle forme facilmente controllabili e limitate del "grottesco" e del "pittoresco". Si deve ai fratelli Goncourt il riconoscimento del nuovo romanzo «clinico» (come lo chiamavano) doveva essere dedicato alle classi subalterne, alla piccola borghesia e al proletariato, fino ad allora sempre emarginato dal dominio elitario della letteratura.
Nella fase finale del suo sviluppo, la dimensione naturalistica si capovolse a poco a poco nel suo contrario, per l'affermarsi delle istanze espressive e fantastiche, e per la pluralità dei linguaggi. L'atteggiamento «oggettivo» dello scrittore naturalista si rivelò un mito, e portò a un soggettivismo che nell'ultima generazione colluse con una estrema varietà di modi: con esasperate tensioni formali (così nella produzione tedesca i poco rilevanti modelli di naturalismo celavano già le premesse per quella che sarebbe stata poco più tardi l'esplosione dell'espressionismo), o con interessi liricheggianti o simbolisti; tipico il passaggio, nell'area culturale russa, dal tono più controllato e documentario di Turgenev, al liberissimo e sfumato psicologismo di Cechov.
L’ESTETISMO
Una serie di fattori contribuisce a modificare profondamente, negli ultimi decenni del secolo, il panorama letterario e la concezione stessa della letteratura: tra questi vanno sottolineati la crisi della certezza e delle leggi scientifiche che via via vengono messe in discussione e relativizzate dagli stessi scienziati; ed una conseguente valorizzazione, di contro alla razionalità scientifica, di atteggiamenti spiritualistici o irrazionalistici. Questa evasione dalla realtà porta all’elaborazione di poetiche e a concrete realizzazioni artistiche caratterizzate non più da un’esigenza veristica o naturalistica, ma da una vocazione a trascurare il reale, ad andare oltre il fenomenico, sconfinando nel simbolo e nella dimensione irrazionale ed onirica, esorcizzando il reale con il vagheggiamento di realtà di complicata raffinatezza e con la teorizzazione e la pratica di quella contaminazione tra arte e vita che si definisce estetismo.
L’artista della corrente estetica, come Huysmans, D’Annunzio, Wilde, vuol trasformare la sua vita in opera d’arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello e andando costantemente alla ricerca di sensazioni squisite e piaceri raffinati, modellati sull’esempio delle grandi opere poetiche, pittoriche o musicali del passato. L’esteta ha orrore della vita comune, della volgarità borghese, di una società dominata dall’interesse materiale e dal profitto, dall’egualitarismo democratico, e si isola in una sdegnosa solitudine, circondato solo dalla bellezza e dall’arte. Il presente per lui è il trionfo della bruttezza e dello squallore, ciò che è bello ed eletto può essere collocato solo nel passato, in età di suprema raffinatezza come quella greca o quella rinascimentale.
Viene così preso a modello l’uomo “maledetto”, che ha il culto mistico dell’arte ed esalta il male per il suo valore estetico, per la sua sublime e orrida bellezza; dunque lo stesso protagonista delle opere dell’Estetismo rifiuta le norme morali e le convenzioni, nella sua assoluta amoralità commette atti di crudeltà e delitti, si compiace di sprofondare nel vizio; ne sono un esempio personaggi come Des Esseintes, Andrea Sperelli, Dorian Gray.
L’esteta Oscar Wilde (1854 -1900), nella prefazione al suo famoso romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” (1891) esprime al meglio, attraverso una serie di aforismi, i principi essenziali dell’Estetismo. Come è evidente, il dogma dell’”arte per l’arte” si impone su qualsiasi valore tradizionale, poiché non si pone più come obbiettivo di dare un qualsiasi messaggio morale:
“L’artista è il creatore di cose belle.”
“Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto.”
“Nessun artista ha intenti morali. In un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico” (“manierismo stilistico” significa errore retorico. L’intento morale per Wilde compromette l’esito estetico).
“L’artista può esprimere qualsiasi cosa.”
“Il vizio e la virtù sono per l’artista materiali d’arte.” (vale a dire che l’arte non ha alcuno scopo educativo, e che il vizio e la virtù sono trattati indifferentemente nell’opera estetica).
IL PRIMO NOVECENTO
Grazie a queste e ad altre correnti letterarie, nacquero, nel ‘900, generi letterari che esaltavano la libertà dell'"io" e sottolineavano la capacità umana di creare il mondo conforme al proprio pensiero e alla propria volontà.
Tutto ciò spingeva, così, l'uomo a comporre opere che si basassero sull'estetismo e l'angoscia esistenziale, le due componenti centrali e complementari della cultura del Novecento. Si attribuisce ormai serietà e tragicità alle vicende della vita quotidiana: è un processo che da Diderot porta a Stendhal e, attraverso Flaubert e i grandi russi, arriva fino a Proust e ai contemporanei.
Agli inizi del nuovo secolo osserviamo una vera rivoluzione nel linguaggio narrativo. Al posto di un narratore in terza persona troviamo un narratore in prima persona che prende attivamente parte al racconto: la narrazione diviene quindi "soggettiva".
La trama non ha più per oggetto grandi fatti storici o sociale ma si ripiega sulle vicende di un individuo, che si leva ad assoluto protagonista del romanzo.
Il ritmo della narrazione muta completamente: si fa lento e talvolta lentissimo. Diventa conseguentemente minore la differenza tra momenti descrittivi e momenti narrativi, fino al punto che è difficile distinguerli con esattezza.
Lo stile narrativo asseconda fedelmente lo svolgersi dei pensieri che si susseguono nel narratore: nasce il "monologo interiore" il quale, abolendo ogni regola di raziocinio e di sequenzialità espressiva, è da distinguersi dal tradizionale "soliloquio".
Il periodare si complica, le relazioni fra i concetti non seguono più una logica di causa/effetto, ma una necessità puramente psichica ed affettiva; la grammatica stessa viene talvolta forzata per rendere visibile ciò che nella vita quotidiana di ciascuno si cela nel più profondo della mente, al limite tra conscio ed inconscio.
ESISTENZIALISMO E LETTERATURA
Alla fine del XIX secolo, nell'ultimo decennio circa, insorgono istanze irrazionali e soggettiviste. Ma insorgono non solo come reazione al naturalismo e all'indirizzo sociale (e politico) cui corrispondeva. Ma anche dall'interno del naturalismo stesso, così che il passaggio dal realismo alla nuova fase soggettivistica avviene dentro coordinate di stratificazioni e progressivi spostamenti. L'istanza naturalistica di voler aprire gli occhi sulla realtà, è ripresa dal soggettivismo immediatamente successivo come volontà di guardare dentro la personalità umana: lo psicologismo della produzione letteraria borghese della fine del XIX secolo ha questa matrice (e porterà poi, nella commistione tra scientismo e psicologismo alla psicoanalisi di Freud).
La più grande figura di letterato esistenzialista fu il romanziere russo Fëdor Dostoevskij. Nel suo “Memorie dal sottosuolo” (1864), l'antieroe alienato che emerge dal romanzo ha un'indole imprevedibile e perversamente autodistruttiva; solo l'amore cristiano, che non è esprimibile filosoficamente, può salvare l'umanità da se stessa. Un personaggio del romanzo I fratelli Karamazov (1879-1880), Aljosha, afferma: "Dobbiamo amare la vita più del suo significato".
Oltre all’attenzione al dibattito delle idee e ai problemi filosofici nell’ambito dell’esistenzialismo, nei romanzi di Dostoevskij è presente un particolare interesse per la questione della legittimazione del male, connessa all’esistenza o meno di Dio (se Dio non esiste, l’uomo è del tutto libero, anche di compiere il male); inoltre vi si trova una riflessione sulle dinamiche dell’inconscio e una tendenza all’autoanalisi che sembrano prefigurare Freud e la psicoanalisi: in particolare si considerano la “doppiezza psicologica”, la compresenza di spinte contrastanti e contraddittorie nell’io più profondo, e gli stati di allucinazione e di delirio, in cui viene alla luce il “sottosuolo” dell’anima.
L’OPERA APERTA
Oltre la variazione del contenuto e la non espressione del giudizio dell’autore nel romanzo, la letteratura primonovecentesca ha fatto un passo ulteriore nei confronti di quella precedente, tendendo così al romanzo moderno: l’adozione di una nuova forma e metodo di scrittura qual è l’opera aperta.
La grande differenza fra l’opera chiusa e l’opera aperta7 è la presenza prima, l’assenza poi, dell’autore nella narrazione.
Infatti nel romanzo tradizionale l’autore è sempre presente, in modo più o meno esplicito, e fornisce, anche non volendolo, una pista di lettura al fruitore dell’opera. Questo percorso obbligato, che invita a provare simpatia per un personaggio e a disprezzare le azioni di un altro, causato dal tipo di narrazione che non dà espressione diretta ai personaggi, costringe il lettore ad costruire sulla vicenda lo stesso giudizio insinuato dallo scrittore.
Con l’affermazione dell’opera aperta al contrario, l’interprete del romanzo, non avendo supporti dall’autore, tende a crearsi un giudizio personale e particolare; qui sono gli stessi personaggi che si raccontano, attraverso il discorso indiretto libero e il flusso di coscienza, lasciando scoperto tutto il mondo interiore che sta dietro le loro azioni. Infatti l’opera è aperta proprio perché ha la “possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata“8.
In questo modo atti iniqui, completamente giustificati da chi li compie, che narrati in modo tradizionale sarebbero subito respinti, vengono compresi e accettati anche dal lettore, che si trova completamente coinvolto.
La prima volta che appare una consapevole poetica dell’opera aperta, afferma Eco, è nel simbolismo del secondo ’800 (Verlaine e Mallarmè), con la poetica della suggestione che deliberatamente intende stimolare il mondo personale dell’interprete. Essa però viene espressa massimamente nel Novecento, ad esempio nelle opere di Joyce e Virginia Woolf.
La tendenza contemporanea all’ambiguo e all’indeterminato, può o riflettere una condizione di crisi del nostro tempo o, all’opposto, la possibilità positiva di un uomo aperto ad un rinnovamento continuo dei propri schemi di vita e di conoscenza. Non si sa, certo è che questa consonanza di più settori della cultura contemporanea (musica, letteratura, arte, scienza) attraverso delle analogie di struttura, indica l’esistenza di una nuova visione del mondo. Si vedrà, nella parte quarta, come questa tendenza e il linguaggio dell’opera aperta si traducono ai giorni nostri, attraverso esempi magistrali in cui le vicende e le ragioni del protagonista criminale coinvolgono talmente da giustificare la sua elevazione a mito ed eroe.
1 Orazio
2 dal capitolo I di “Paradise Lost”
3 “Sorvegliare e punire”, Einaudi 1976
4 K. Marx, “manoscritti economici-filosofici del 1844”, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968
5 dal “Faust”
6 “Egli lasciò ad altri tempi il nome di Corsaro, / Congiunto a una virtù, e a mille delitti” G. G. Byron, “The corsair”, III, 24; 1814
7 differenza teorizzata da Umberto Eco nel saggio “Opera aperta”
8 U. Eco, “Opera aperta”, pag. 34
---------------
------------------------------------------------------------
---------------
------------------------------------------------------------
15

Esempio



  


  1. maria

    Sto cercando appunti sul tema dell'Ulisse del novecento