Dalla scuola di Mileto ad Aristotele.

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Testo

LA SCUOLA DI MILETO
A Mileto nasce la prima scuola di pensiero dell’Occidente e, con essa, inizia l’indagine filosofica della (((((, termine che, per i milesii (e i presocratica in genere) indicava non solo la natura, ma una specie di essenza ultima, di realtà fondante, della natura stessa, in grado di spiegarne l’intima organizzazione e le sua trasformazioni.
Il problema della ((((( viene affrontato dai milesii secondo un procedimento in larga misura comune, che può essere definito ricerca dell’((((, termine che, per i presocratica indica sia l’origine delle cose in senso generico, sia ciò di cui le cose sono fatte (la loro natura), sia la realtà ultima a cui tutte le trasformazioni conducono, sia l’aspetto divino dell’universo. L’(((( è dunque una sorta di “sostanza” o di “elemento” primo e generatore che sta alla base di tutto ciò che esiste.
Il grande merito dei milesii è stato quello di aver cercato l’(((( della realtà nella realtà stessa e non al di là o al di fuori di essa (come accade nei miti): sotto questo profilo l’(((( è un principio razionale, impiegato per condurre ricerche e riflessioni razionali sulla realtà. Da ciò il secondo merito dei milesii: aver creato l’immagine di un nuovo universo ordinato, i cui accadimenti sono collegati fra loro secondo principi regolari e costanti; l’universo mitico, in cui si manifestavano arbitrari e imprevedibili progetti divini è ormai decisamente superato.
TALETE
Il fondatore della scuola di Mileto è Talete (VII-VI secolo a.C.). La maggior parte delle informazioni a proposito di questo filosofo è posteriore e molte si ripetono con poche modifiche da un autore all’altro, mentre altre si perdono ai confini tra storia e leggenda. Dicono le fonti che fu un valido uomo politico; di lui si ricordano due consigli dati ai concittadini: egli propose ai Greci della Ionia di allearsi contro la minaccia persiana (secondo Erodoto) e dissuase i cittadini di Mileto dall’alleanza con Creso (riportata da Diogene Laerzio).
Egli non lasciò nulla di scritto, ma viene menzionato da varie fonti come uno degli uomini più sapienti del suo tempo (episodio dei frantoi di Mileto e Chio). Tramandano le fonti che egli individuò i solstizi e la distanza tra di essi, calcolò le proporzioni tra il Sole, la Luna e le loro orbite, comprese che la Luna è illuminata dal Sole, divise i mesi in 30 giorni e l’anno in 365.
In campo matematico gli sono attribuite cinque proposizioni matematiche:
 il diametro divide in due il cerchio;
 gli angoli alla base dei triangoli isosceli sono uguali
 gli angoli al vertice formati da due rette che si intersecano sono uguali;
 l’angolo inscritto in un semicerchio è un angolo retto;
 la base e gli angoli ad essa adiacenti sono sufficienti per individuare un triangolo.

Si racconta che misurò l’altezza delle piramidi calcolandone l’ombra, che cercò di spiegare le piene del Nilo e che deviò il fiume Halys per permettere il guado alle truppe di Creso.
Impegnato in molti campi di ricerca sia scientifici che tecnici, elaborò la tesi secondo la quale l’(((( della realtà fosse l’acqua. Aristotele attribuisce al filosofo principalmente due tesi: la prima afferma che l’acqua (o l’elemento umido) è l’((((; la seconda aggiunge l’immagine della terra che galleggia sulle acque.
L’acqua può essere l’(((( della realtà perché possiede quel requisito di universalità (l’umidità è presente in tutte le cose) che consente di ricavare da tale sostanza o elemento l’infinita varietà dei fenomeni.
Talete non distingue questi ultimi appartenenti gli uni al mondo animato e gli altri al mondo inanimato, perché pensa che tutta la natura sia intrinsecamente animata e che tale animazione sia assolutamente inseparabile e indistinguibile dalla natura stessa. Questa concezione, chiamata “ilozoismo” si accompagna alla tesi che “tutto è pieno di dei”, una tesi che costituisce un altro di stanziamento dalla visione mitologica del mondo; essa implica che per Talete non esiste un Olimpo nel quale abitano gli dei immortali, giacché il divino (come l’anima) è diffuso ovunque.
ANASSIMANDRO
Discepolo di Talete fu Anassimandro (secondo una fonte sarebbe nato nel 611/610 a.C.),a cui è attribuita la scoperta dello gnomone e che la tradizione ci tramanda come particolarmente impegnato nella vita politica della sua città. Egli, per primo, rese accessibile il suo pensiero mediante la pubblicazione di un libro “(((( ((((((”, composto in prosa. Si doveva trattare di una sorta di storia fisico-geografica dell’universo, che prendeva le mosse dalla sua formazione. Anassimandro risponde al problema dell’(((( ponendolo nell’((((((( (termine che designa qualcosa di “illimitato”, di “privo di limiti” e quindi infinito, ma anche “indefinito”). Anassimandro opta, quindi, per un qualcosa di indeterminato, che precede tutte le determinazioni, anche se egli lo pensa in modo ancora sostanzialmente fisico, cioè come una massa informe che, in qualche modo, circonda l’universo. Anassimandro scelse tale principio probabilmente perché, a suo parere, il principio che deve fungere da unità nella molteplicità, da uguaglianza nella differenza, non può essere un elemento particolare (questo non potrebbe spogliarsi della sua particolarità e dunque non possiederebbe le caratteristiche richieste per l’((((). L’(((((((, concepito come eterno e immortale, indistruttibile e sempre in movimento, consente ad Anassimandro, inoltre, di compiere un processo di astrazione: mentre per Talete la terra galleggia sull’acqua, per Anassimandro essa è “librata in alto, non sostenuta da niente e rimane sospesa perché ha eguale distanza da tutte le cose”.
Come si genera la realtà? Anassimandro propone che, dall’((((((( si distacchino coppie di opposti (caldo-freddo, secco-umido) a causa del continuo movimento di quest’ultimo e si alternano sopraffacendosi a turno con regolarità ciclica.; Anassimandro, inoltre, vede il distacco di un opposto dall’((((((( come un atto di ingiustizia, che richiede una riparazione ,affidata ad un’altra coppia di contrari che, a loro volta, compiono una nuova ingiustizia nell’atto stesso con cui riparano la precedente.
Sembra assodato che Anassimandro estendesse questa infinita vicenda ciclica anche ai mondi: questi mondi nascerebbero e morirebbero nel corso del tempo, venendo continuamente sostituiti da mondi nuovi. Gli opposti, una volta usciti dall’(((((((, entrano in relazione tra loro e generano i mondi veri e propri, compreso l’universo reale.
ANASSIMENE
Discepolo di Anassimandro, visse nel VI secolo e fu l’ultimo rappresentante della scuola di Mileto. Anch’egli scrisse un libro “(((( ((((((”, in cui individuò, come (((( l’(((, un termine che designa tutto ciò che ha aspetto volatile, gassoso o impalpabile.
Per un verso esso potrebbe apparire filosoficamente più “rozzo” del principio di Anassimandro e un passo indietro, perché Anassimene torna ad un principio particolare (come l’umido di Talete), filosoficamente più semplice dell’((((((( del maestro. Per un altro verso egli compie un grande passo avanti, poiché non si accontenta di puntualizzare l’((((, ma si preoccupa anche di chiarire le modalità secondo le quali l’universo sarebbe derivato da esso.
Anassimene ipotizza un’alternanza di rarefazione e di condensazione dell’aria, che dilatandosi produrrebbe i corpi più leggeri e addensandosi quelli più pesanti.
Egli è,così, il primo a supporre che la varietà delle cose sia dovuta semplicemente ai diversi gradi di aggregazione della medesima sostanza.
IL PITAGORISMO
Non è facile ricostruire in modo attendibile il pensiero di Pitagora di Samo, vissuto tra il 570 a.C. e il 500 a.C. perché egli non lasciò nulla di scritto e le sue concezioni vennero intrecciate e contaminate a partire dal I secolo a.C. fino al V d.C. con varie dottrine di ascendenza mistico religiosa. Inoltre, il suo insegnamento orale era circondato da un alone di mistero (l’espressione “Ipse dixit” fu attribuita in origine proprio a Pitagora, in connessione col carattere oracolare e non discutibile del suo magistero). Aristotele non menziona mai il filosofo, ma si limita a riferimenti ai “cosiddetti pitagorici”; nella “Vita di Pitagora” di Apollonio di Tiana leggiamo che Pitagora faceva miracoli, prevedeva il futuro, poteva diventare invisibile, aveva il dono dell’ubiquità, possedeva una coscia d’oro.
Anche a proposito della sua scuola non possediamo dati certi: cenacoli di pitagorici si diffusero in tutta l’Italia Meridionale (e poi anche in Grecia) dal VI al V secolo, tanto che, fino al 500 a.C. Crotone fu governata da un direttorio pitagorico, finché una sollevazione popolare spodestò i pitagorici; durante tali scontri sarebbe morto anche Pitagora.
In essi vigeva la consegna del silenzio nei confronti dei non affiliati e ai loro principali esponenti, Filolao, Archita di Taranto, il medico Alcmeone e il comico Epicarmo, non è attribuibile con certezza la paternità di alcuna dottrina particolare, anche se certamente essi contribuirono allo sviluppo del pensiero pitagorico, che si presenta quindi come il prodotto non di un singolo filosofo, ma di un gruppo di filosofi, operosi i un arco di tempo piuttosto lungo.
I membri delle comunità pitagoriche, basate sulla pratica della vita comune e sull’aristocratica virtù dell’amicizia, si distinguevano in “acusmatici”, cioè coloro che si limitavano ad ascoltare passivamente i precetti che venivano trasmessi loro e in “matematici”, cioè coloro che si impegnavano attivamente nella ricerca della verità.
È consuetudine accostare il pitagorismo all’orfismo; in effetti, entrambe avevano come fine la salvezza individuale, ottenuta mediante la graduale purificazione dell’adepto ed entrambi coltivavano la credenza nella “metempsicosi”, cioè nel passaggio e reincarnazione dell’anima dopo la morte in un altro vivente. Mentre nell’orfismo, però, le pratiche di purificazione erano affidate soprattutto alla passiva osservanza dei riti, regole e precetti, nel pitagorismo, invece, il fine della purezza viene considerato raggiungibile prevalentemente mediante la conoscenza e il possesso della verità.
L’indagine dei pitagorici può essere considerata come un proseguimento delle speculazioni milesie della (((((; essa è caratterizzata da un’importante novità: il principio della realtà viene individuato nel numero. Ma come può un ente astratto come il numero generare una realtà concreta? Per i pitagorici il numero non era una mera realtà concettuale, ma un ente nel quale “astratto” e “concreto” si mescolano in maniera indissolubile e indistinguibile.
I pitagorici avevano, quindi, un’idea fisico-geometrica dei numeri, li concepivano come un insieme di punti disposti nello spazio, che usavano raffigurare concretamente servendosi di sassolini (“calculi”).
Perché viene scelto, come principio della realtà, proprio il numero? Molto probabilmente perché, meglio delle altre “(((((”, sembrava possedere le caratteristiche adeguate a costituire l’unità nella molteplicità: i numeri si applicano a tutte le cose, che trovano così, nella numerabilità, un fondamentale elemento di omogeneità e parentela, al di là delle loro differenze specifiche.
I pitagorici, in effetti, approfondirono notevolmente lo studio della matematica, scoprendo leggi, corrispondenze e relazioni (come il famoso teorema); per certi aspetti l’orientamento della ricerca da essi seguito appare più maturo e sofisticato di quello seguito dai milesii.
Anche il numero dei pitagorici è un (((( fisico-naturale: è la sostanza di cui sono composte le cose; ma di tale sostanza esso esprime soprattutto la struttura logica, l’intelaiatura dei suoi interni rapporti formali. Con i pitagorici viene così avviato un nuovo metodo di indagine: il significato ultimo di ciò che esiste non può essere trovato semplicemente isolando una sostanza privilegiata, percepibile attraverso i sensi, ma va ricercato penetrando nella struttura della realtà e scoprendo le leggi razionali che ne governano i processi e le relazioni interne.
Come veniva dimostrata la tesi che il mondo è numero e struttura numerica? Con la dottrina che, così come la realtà appare un’armonia di opposti, anche i numeri risultano essere un’armonia di questo genere e che è proprio da una prima opposizione originaria che tutto deriva. Tale opposizione è quella tra il Limite e l’Illimitato, la quale, delimitando appunto una realtà inizialmente illimitata, ha prodotto sia i “numeri-figure” di cui sono fatte le cose, sia le cose stesse di cui i numeri sono l’essenza e il principio. Oltre a questa prima coppia fondamentale, i pitagorici elencano altre nove coppie:
 dispari e pari;
 uno e molteplice;
 destra e sinistra;
 maschio e femmina;
 movimento e stasi;
 retta e curva;
 luce ed oscurità;
 bene e male;
 quadrato e rettangolo.
Anche tali coppie vengono considerate fondative o costitutive della realtà: i loro primi termini hanno il carattere del “limite” in senso positivo e i secondi i caratteri dell’ “illimitato” in senso negativo. La realtà nasce così da un atto con cui il limiti si impone sull’illimite e il disordine viene ordinato e organizzato.
Oltre al compito di organizzare la realtà, i pitagorici attribuiscono ai numeri anche quello di rappresentare molteplici significati, con particolare riferimento all’armonia e alla perfezione presenti nell’universo. Ne deriva una complessa simbologia numerica, della quale il numero perfetto, o (((((((((, formato dalla somma dei primi quattro numeri interi, viene considerato il nucleo fondamentale di tutto l’universo numerico, possedendo quindi un carattere mistico e sacro.
Secondo alcune testimonianze, infine, è stato proprio Pitagora a chiamare “cosmo” l’universo, fatto significativo poiché il suo mondo, concepito come armonia numerica, è una struttura altamente ordinata.
I pitagorici conferiscono un significato etici ed estetico alla nuova immagine della natura, concependo l’ordine dell’universo non solo come razionale, ma anche come buono e bello, proprio perché logico, razionale e coerente. L’ordine perseguito attraverso la ricerca numerologica possedeva, inoltre, un preciso valore morale e la sua comprensione intellettuale era l’indispensabile veicolo per la purificazione e la salvezza individuale.
ERACLITO
Nato ad Efeso intorno alla metà del VI secolo a.C. Eraclito è il primo autore di cui si conservino numerosi frammenti del testo “(((( ((((((”. Questi frammenti sono particolarmente difficili da interpretare perché Eraclito – soprannominato “l’Oscuro” – scriveva in modo estremamente denso e allusivo, in base ad una precisa scelta dettata dal fatto che, per Eraclito, gli autori precedenti si erano limitati ad indagare e a dire l’apparenza esteriore delle cose, mentre invece se ne doveva cogliere la natura profonda: una natura che si sottrae ai più, difficile non solo da trovare, ma anche da ricercare (“la natura ama nascondersi”) e, tanto più, da comunicare.
Tale difficoltà è connessa anche al fatto che, per Eraclito, la verità non può essere perseguita con i sensi, o con un’interrogazione diretta delle cose naturali (come avevano fatto i milesii), ma può essere scoperta solo con lo sguardo dell’intelletto.
Eraclito è il primo a contrapporre la riflessione razionale alla comune esperienza dei sensi.
Tale riflessione razionale consiste in un pensiero, in un “(((((”, che è anche “discorso”; per Eraclito questo “discorso” è eternamente ed assolutamente vero, indipendentemente da chi cerca di coglierlo ed esporlo: egli si presenta come il suo semplice “profeta” e “banditore”. Questo “(((((”, però, non è solo pensiero-discorso: è anche la “ragione”, la verità, di questo pensare-dire; ed è anche la misura, il rapporto, la proporzione insiti nelle cosa.
Di cosa si fa portavoce il “(((((”? Per secoli Eraclito è stato considerato il filosofo dell’eterno divenire delle cose, anche se il celebre motto “((((( (((” è opera della successiva generazione di eraclitei.
Il nucleo della filosofia di questo filosofo consiste nella ripresa della tesi (già di Anassimandro e dei pitagorici) che l’universo è composto da coppie di contrari che si alternano e si combattono l’un l’altro (“Il conflitto è padre di tutte le cose”).
Per Eraclito, però, solo apparentemente i contrari si combattono per annullarsi a vicenda: in realtà l’annullamento dell’uno produrrebbe anche l’annullamento dell’altro; quindi, i contrari non sono altro che due aspetti della stessa realtà.
La realtà va concepita come un’armonia prodotta dall’equilibrata tensione di forze opposte: per Eraclito la tensione dei contrari costituisce la struttura intima della realtà, la sua “natura” e, dunque, la sua “(((((”.
Per un verso Eraclito si distacca dalla filosofia della (((((: questa si era accontentata di ricercare l’unità che sorregge il molteplice, le somiglianze al di là delle distinzioni; invece il filosofo assume le differenze e la molteplicità come aspetti essenziali di ciò che esiste, spingendosi fino alle conseguenze più estreme: proprio nella differenza e nel conflitto risiede l’unità del tutto.
Per un altro verso, Eraclito prosegue in seno a tale filosofia, individuando il fuoco come (((( della realtà, ponendolo come principio del conflitto generativo.
Difficilmente verificabili sono le tesi eraclitee sulla costituzione dell’universo, mentre invece elaborò una complessa teoria dell’anima, secondo la quale l’uomo non deve lasciarsi guidare dal proprio desiderio, ma dal “(((((” e dal “(((((”, che rappresentano la giusta misura e l’unico valido criterio di giudizio.
Con Eraclito si insinua una nuova concezione della filosofia, che viene chiamata a liberare l’uomo dai suoi pregiudizi e a fargli osservare il mondo non superficialmente, mediante i sensi o le fuorvianti opinioni, ma attraverso la ragione.
LA SCUOLA DI ELEA
Nella storia del pensiero, la scuola di Elea, il cui fondatore fu Parmenide, rappresenta un punto di svolta.
SENOFANE DI COLOFONE
Sebbene legato tradizionalmente all’eleatismo perché considerato (quasi certamente a torto) il maestro di Parmenide, Senofane di Colofone (nato tra il 580 e il 565 a.C.) non ebbe, in realtà, rapporti con esso. Egli coltivò interessi assai diversi da quelli eleatici, occupandosi soprattutto di questioni morali e religiose: animato da una forte vocazione di educatore e sapiente, Senofane critica il fatalismo pessimistico tipico della cultura tradizionale, battendosi per una paideia fondata sui valori dell’uomo e della razionalità. Secondo il filosofo, gli uomini conquistano quanto sta loro a cuore attraverso un personale impegno e travaglio nel tempo.
Quanto alla fede senofanea nel “(((((”, essa si dispiega da un lato in un deciso rifiuto dei miti, dall’altro in una radicale critica della tradizionale concezione antropomorfica degli dei. Secondo Senofane gli dei sono solo una fuorviante costruzione fatta dagli uomini stessi, che in essa proiettano le loro qualità e i loro difetti. A tali fantasie Senofane contrappone un’embrionale teologia fondata sui tre principi dell’unicità, dell’assolutezza e dell’immortalità di dio, nonché della sua totale eterogeneità rispetto all’uomo.
PARMENIDE
Vissuto tra la seconda metà del VI secolo e la prima metà del V, Parmenide delinea, nel suo poema “(((( ((((((” una suggestiva immagine della filosofia come rivelazione e, insieme, come ricerca razionale.
Tale ricerca si può svolgere lungo due diverse vie: la via dell’affermazione di “ciò che è e non può non essere” e la via della negazione di “ciò che non è e che è necessario che non sia”.
La prima via parte dalla constatazione dell’esistenza di “enti” e, da tale constatazione, perviene ad affermare l’esistenza di un essere generale.
La seconda via si riferisce invece al “non essere”: si riferisce, in sede generale, alla negazione dell’essere, al non essere delle cose (ad es. “questo tavolo non è una sedia).
Per Parmenide queste due vie non sono uguali: la prima è percorribile, la seconda no. Secondo il filosofo eleate, si può pensare e dire l’essere, mentre non si può pensare e dire il non essere: come si può pensare e dire che un ente non è? Se lo pensassi e lo dicessi, lo farei necessariamente essere!
La tesi di Parmenide è dunque che il pensiero e il linguaggio si possono riferire soltanto all’essere; anzi, pensare ed essere sono per lui la medesima cosa. Da questo punto di vista i caratteri dell’essere vengono identificati da Parmenide attraverso una serrata indagine logico-razionale intorno ai caratteri che il pensiero ha e non può non avere.
La caratterizzazione parmenidea dell’essere è celebre sia per il suo rigore che per la paradossalità di alcuni suoi aspetti o implicazioni: l’essere deve essere ingenerato e incorruttibile, omogeneo e immobile, fuori dal tempo e invisibile, senza fine ma non infinito. Tutte queste peculiarità si spiegano alla luce del principio fondamentale che il non essere non può venire pensato: se si pensasse l’essere come corruttibile, ciò equivarrebbe a pensare che possa divenire non essere.
La realtà sensibile, date le sue caratteristiche, non coincide in alcun modo con l’essere, in quanto include il non essere sotto forma di generazione, corruzione, divenire, mobilità, temporalità. Quindi, di essa non si può avere scienza, perché non può venire pensata secondo il pensiero del solo essere: nel loro abituale conoscere le cose, gli uomini si ingannano. Essi seguono una terza via, che è una sorta di ibrida mescolanza tra le due vie dell’essere e del non essere: gli uomini dicono, allo stesso tempo, che una cosa è e non è, cosa molto scorretta; pertanto, il loro linguaggio non è un linguaggio vero, cioè non è un linguaggio che dica le cose come sono.
Parmenide, però, ammette una forma di conoscenza del mondo sensibile: la ((((, o opinione. La prima ragione di questa ammissione è in qualche modo metodologica: il sapiente deve esperire una conoscenza imperfetta per meglio cogliere la conoscenza vera nella sua forma pura; d’altra parte, però ha anche a che fare con il rapporto tra uomo e realtà d’esperienza: poiché, se da una parte essa non è puro essere, ma neppure non essere, bisogna darne una spiegazione, anche se non vera ed opinabile.
Su questa premessa, infine, Parmenide fonda una cosmologia e una concezione della natura: due principi iniziali, Luce ed Notte, in una sorta di atto sessuale, concepito come una tendenza universale di tutte le cose a riprodursi, avrebbero generato gli astri e tutti i corpi celesti. La causa di questa generazione dipenderebbe da un “demone che tutto governa” di cui non abbiamo ulteriori notizie.
Discepoli diretti ed indiretti di Parmenide coltiveranno l’ambizione di mantenere la rigorosa interpretazione dell’essere-pensiero fornita dal filosofo di Elea, ma insieme di ripensare il rapporto tra esso e il mondo del divenire e dell’esperienza, fino a conferire a tale mondo caratteri tali da consentirne una conoscenza vera.
ZENONE DI ELEA
Zenone di Elea, vissuto tra il VI e il V secolo, fu uno dei discepoli prediletti di Parmenide. Scrisse, secondo la tradizione, un’opera dal titolo tradizionale “Sulla natura”.
Egli si dedicò particolarmente a difendere il maestro dalla critica di avere sostenuto principi contrari alle presunte evidenze dell’esperienza.
Il metodo di tale difesa consiste nel ribaltare queste critiche, mostrando che proprio tali evidenze risultano insostenibili dal punto di vista logico-razionale. La riflessione zenoniana si concentra soprattutto sul movimento delle cose: il proposito è dimostrare che non la sua negazione (espressa da Parmenide) ma la sua affermazione (apparentemente indiscutibile) produce paradossi irresolubili. Tra i tre paradossi che presenta per confutare il moto, è particolarmente noto quello di Achille e la Tartaruga: se si immagina che in una gara di corsa con una tartaruga Achille parta con un certo svantaggio, egli non raggiungerà mai la tartaruga; nel lasso di tempo da lui impiegato per raggiungerla, la tartaruga avrà compiuto un certo cammino.
Notevole risulta anche l’argomento della freccia: data una freccia in movimento, in ciascun momento essa occuperà uno spazio esattamente identico alle sue dimensioni; ma occupare esattamente lo spazio significa, in realtà, stare fermi (almeno per un attimo) nello spazio. Ne deriva il paradosso che il movimento di un corpo è composto di spazi-istanti nei quali esso è fermo.
La stessa tecnica viene usata da Zenone per difendere la negazione parmenidea che le cose siano molteplici. Il presupposto del ragionamento è che il molteplice sia composto da un certo numero di unità, e proprio l’ammissione di tali unità produce conseguenze insostenibili: essa porta, ad esempio, ad ammettere che un corpo finito sia infinito. In effetti, ogni grandezza è divisibile in infinite parti: ogni parte è, a sua volta, ulteriormente divisibile in altre parti. Ma un insieme infinito configura un corpo infinito: il corpo sarebbe, allora, insieme finito ed infinito.
Al fondo di questi paradossi c’è, probabilmente, l’indebita identificazione tra realtà logica e realtà empirica: essi, mentre sono validi nella dimensione della logica, non lo sono in quella della realtà.
Mentre Parmenide aveva radicalizzato la distanza tra essere razionale perfetto e realtà sensibile imperfetta, Zenone riapre il confronto tra l’essere e la realtà.
MELISSO DI SAMO
Ultimo esponente della scuola di Elea fu Melisso di Samo, contemporaneo di Zenone. Di lui sappiamo, inoltre, che svolse importanti compiti militari e politici per conto della sua città, sconfiggendo anche gli Ateniesi in una battaglia navale; compose un’opera dal titolo “Della natura o Dell’Essere”, di cui è rimasto un numero limitato di frammenti.
La sua riflessione fu dedicata, soprattutto, ad una sistematizzazione dei principi di Parmenide.
I suoi contributi più interessanti riguardano principalmente la dottrina dell’essere: a proposito della sua assolutezza e della sua in generabilità, Melisso non si limita a darle come autoevidenti, ma ne offre una dimostrazione legata al principio secondo il quale “dal nulla nasce il nulla” – ex nihilo nihil – per cui, se l’essere c’è non può essere nato dal non essere.
Per quanto riguarda l’infinità dell’essere, Melisso va contro il maestro: l’essere deve essere infinito in quanto, non essendo nato né avendo una fine, è illimitato. Melisso ne afferma, inoltre, l’unità e l’eternità.
Tutto ciò esprime la tendenza dell’eleate a delineare una concezione positiva dell’essere, mentre Parmenide si era soffermato a dire che cosa l’essere non può essere; la forte valorizzazione dei caratteri assoluti dell’essere esclude la via della (((( di Parmenide. La tesi che la realtà sensibile-molteplice è impossibile, perché altrimenti dovrebbe possedere le stesse caratteristiche dell’essere, presentata in modo del tutto incidentale, dimostrata per assurdo, sarà ripresa poi e sviluppata dai filosofi pluralisti.

I PLURALISTI
Con il termine “pluralisti” si indicano quei filosofi i quali, al contrario dei milesii, ritengono che un solo principio sia insufficiente per spiegare la realtà e che si debba quindi ricorrere ad una molteplicità di principi. I pluralisti si distinguono anche dagli eleati poiché, pur accettando il medesimo principio da cui muoveva Parmenide, si rifiutano di concepire il mondo diveniente e molteplice come non essere, e quindi di rinunciare a darne una spiegazione razionale.
Il loro problema è quello di tener fermo il principio parmenidea e, nel contempo, salvare i fenomeni nel loro esistere differenziato, eterogeneo, dinamico, nella loro possibilità di essere conosciuti in modo rigoroso.
A tal fine essi affermano che l’essere è originariamente e costitutivamente molteplice, pur presentando tutti gli altri caratteri dell’essere parmenideo.
EMPEDOCLE DI AGRIGENTO
Di Empedocle si sa con certezza che nacque ad Agrigento e che aveva circa quarant’anni nel corso dell’ottantaquattresima olimpiade (444-441 a.C.). Nel 444 a.C. si recò a Turi, dove conobbe Protagora ed Erodoto. Del tutto insicura è la tradizione circa la sua morte, che lo vorrebbe suicida nella bocca dell’Etna.
I frammenti tramandatici si sogliono dividere in due poemi: “Sulla Natura” e il poema di carattere religioso “Purificazioni”.
Filosofo e medico, taumaturgo e poeta, Empedocle afferma che la realtà si compone di quattro “radici” primitive: aria, acqua, terra, fuoco. Tali radici sono eterne ed incorruttibili, ma hanno la capacità di mescolarsi e di separarsi, compenetrandosi reciprocamente. È proprio da questa loro mescolanza e separazione che nascono le qualità multiformi delle cose e le loro illimitate capacità di trasformazione.
Ma come spiegare la tendenza delle quattro ((((( a mescolarsi e a separarsi?
Empedocle la attribuisce non già alle ((((( stesse, ma ad altri due principi: l’Amicizia e l’Inimicizia, principi di chiara origine antropomorfica, che sono però le due cause universali di unione e disgregazione, responsabili del ciclo cosmico.
Amicizia ed Inimicizia combattono una lotta incessante, nella quale vincono e soccombono alternativamente. La fase di dominio dell’Amicizia produce unione e armonia tra le radici, mentre la fase di dominio dell’Inimicizia produce disarmonia e conflitto.
Per Empedocle, poi, l’Amicizia e l’Inimicizia aspirerebbero tendenzialmente a regnare da sole. Le fasi di apogeo dell’una e dell’altra, denominate rispettivamente “sfero” e “vortice”, producono la “doppia morte” di tutte le cose (che passano per una doppia nascita nelle fasi intermedie); le cose muoiono, infatti, sia per l’eccessiva integrazione degli elementi di cui sono composte, provocata dall’Amicizia che ne fa scomparire tutte le differenze specifiche, sia per la completa separazione degli elementi (provocata dall’Inimicizia).
Il cosmo è il risultato di questi due processi uguali e contrari, i quali fanno sì che l’essere risulti immobile: ma ciò non perché il movimento sia considerato impossibile, bensì perché, a giudizio di Empedocle, l’essere compie un immutabile, eterno movimento ciclico.
In campo religioso, Empedocle si dimostra vicino al pitagorismo e all’orfismo. In alcuni suoi frammenti si parla del problema della purificazione e della salvezza individuale. Inoltre, è esposta la tesi orfico-pitagorica della rinascita degli esseri umani, dopo la morte, in altre forme di vita, e si rinvengono anche accenni ad un oltretomba in cui i malvagi vengono puniti per le violenze commesse in vita.
Ciò ha portato a contrapporre un Empedocle “fisico” e “scienziato” (autore del “(((( ((((((”) ad un Empedocle sacerdote e profeta (autore delle “Purificazioni”). Pareva difficile, infatti, conciliare una visione del cosmo sostanzialmente unitaria e “materiale”, dove tutto avviene incessantemente in base ai medesimi sei principi, con le idee apparentemente spirituali di immortalità e di oltretomba, di colpa e punizione. In realtà, il conflitto è solo apparente: i fenomeni dell’immortalità e della reincarnazione non hanno nulla di spirituale: essi sono spiegati dal fatto che le quattro radici sono eterne e uguali in tutti i corpi, per cui lo stesso “materiale” che prima era uomo può ben diventare cavallo o cane senza morire mai. La rinascita, dopo la morte, per Empedocle, grazie alle medesime cause che regolano tutte le altre trasformazioni naturali.
Per quanto riguarda la teoria della conoscenza, Empedocle sostiene che il simile conosce il simile, intendendo che la conoscenza avviene quando le quattro radici di cui siamo fatti entrano in contatto con i loro corrispettivi situati fuori di noi. Tale contatto è di tipo materiale: ogni oggetto produce effluvi che colpiscono i nostro organi ricettivi e producono la sensazione penetrando i nostri pori. Dunque, Empedocle non contempla la presenza nell’uomo di un autonomo elemento spirituale ed intellettuale; sia la conoscenza che la memoria sono fenomeni esclusivamente fisiologici che si spiegano nell’ambito di una concezione unitaria e razionale della vita e dell’uomo. Per Empedocle, infine, come non v’è alcun dualismo né all’interno del cosmo, né fra enti animati ed esseri inanimati, così non c’è alcun dualismo né all’interno dell’essere umano, né tra aspetti diversi del suo essere e agire.
ANASSAGORA DI CLAZOMENE
Con Anassagora la filosofia giunge ad Atene, nel periodo d’oro dell’età di Pericle. Nato tra il 500 e il 496 a.C. Nel 462 si trasferì ad Atene.
Per la sua indipendenza di pensiero e l’originalità delle sue dottrine, Anassagora, nel 432 a.C. subì un processo per empietà e, nonostante la protezione che godeva da parte di Pericle, si dovette recare in esilio a Lampsaco, dove morì quattro anni dopo.
Anassagora dedicò tutte le sue energie allo studio della natura (scrisse un “(((( ((((((”), che condusse evitando qualsiasi interferenza con la riflessione sul divino e basandosi solo sull’osservazione diretta e il ragionamento.
Affrontò, in particolare, tutti i problemi cosmologico-astronomici allora oggetto di discussione: la natura del Sole e le sue dimensioni, la luminosità della Luna, le orbite dei pianeti, le eclissi, le comete, i terremoti.
Indicativa del suo atteggiamento conoscitivo è la sua teoria sulla natura del Sole: rifiutando tutte le correnti speculazioni teologiche, Anassagora afferma che si tratta semplicemente di un’enorme pietra infuocata.
Analogo approccio conoscitivo Anassagora applicò al problema della natura umana, che egli volle affrontare esclusivamente in chiave biologica, interessandosi soprattutto ai processi materiali della nutrizione, della crescita, della generazione.
Questo approccio è forse alla base anche della sua teoria della conoscenza che, per alcuni aspetti, rispecchia quella di Empedocle: egli concepisce, infatti, la conoscenza come un processo solo fisico-naturale; a differenza di Empedocle, ritiene però che la percezione si verifichi non già attraverso il riconoscimento del simile da parte del simile, ma attraverso la differenza che si manifesta tra qualità contrarie. La tesi potrebbe esser stata suggerita dall’esperienza che l’uomo prova sensazioni tanto più forti quanto più grande è il contrasto fra i suoi organi sensoriali e gli oggetti percepiti; è una prima, embrionale formulazione della teoria secondo la quale la sensazione è una modificazione di tali organi.
Oltre a tali questioni, Anassagora si pose i tradizionali problemi speculativi circa la genesi e la corruzione delle cose, esaminati in una prospettiva analoga a quella di Empedocle: il nascere è solo un processo di composizione di determinati elementi, il morire è una scomposizione nel corso della quale niente si dissolve del tutto. Per Anassagora, però, i principi costitutivi della realtà sono molto più numerosi di quelli postulati da Empedocle, tanto che sono infiniti: per ciascuna della proprietà che cadono sotto i nostri sensi esistono delle corrispondenti sostanze semplici e qualitativamente diverse, tutte ugualmente immodificabili e originarie, chiamate “semi”. Anassagora pensa inoltre che in ogni cosa siano presenti i semi di tutte le altre (“tutto è in tutto”), in proporzioni diverse. Le caratteristiche di ogni corpo sono date dal “seme” che vi è quantitativamente prevalente.
La tradizione ha chiamato i “semi” di Anassagora “omeomerie” proprio perché hanno la proprietà di essere divisibili all’infinito senza perdere le proprie caratteristiche. I “semi” hanno il vantaggio di giustificare l’enorme varietà qualitativa dei fenomeni naturali; la trasformazione qualitativa cessa di essere un problema e il divenire viene interpretato come un cambiamento quantitativo di proporzioni.
Il principio che “tutto è in tutto” viene espresso da Anassagora anche nella forma “tutto è insieme”, formula che non allude solo al fatto che in ogni cosa ci sono i semi di tutte le altre: Anassagora pensa anche che ci sia stato un tempo in cui tutte le cose erano insieme, in forma confusa, e che solo successivamente si sia verificata una sorta di separazione originaria.
Cosa ha prodotto tale separazione? Anassagora pensa ad un’entità chiamata “((((”, autonoma dalla mescolanza universale ed attivamente in grado di organizzarla in forma ordinata. Sulla base di questa ipotesi, Anassagora delinea una propria cosmogonia, secondo cui il mondo si è generato attraverso un movimento rotatorio iniziale di tipo centrifugo; i corpi si sono poi costituiti per effetto del diverso aggregarsi quantitativo dei semi qualitativi. Tale idea di uno sviluppo cosmogonico irreversibile e lineare implica una concezione del tempo molto diversa da quella della cultura greca.
Il “((((” di Anassagora è un concetto di natura ambigua: esso non è più, infatti, una causa di carattere strettamente fisico, ma non è ancora un principio propriamente teorico-intellettuale, o divino-provvidenziale.
Di qui le critiche di Aristotele: Anassimandro usa il “((((” solo perché non trova spiegazioni più aderenti alla realtà, un “((((” che assomiglia a quegli dei che piovono dall’altro per sbrogliare vicende intricate nelle tragedie.
Significative anche le critiche di Platone, il quale aveva sperato di rinvenire nel “((((” qualcosa che rappresentasse l’ordinamento finalistico dell’universo, ma non ve l’aveva trovato. Il “((((”, dunque, faceva pensare ad un cosmo fondato su una ragione o un principio organizzativo sui generis, benché poi si rivelasse un ente in ultima analisi naturale.
GLI ATOMISTI
La scuola atomista fu iniziata da Leucippo e proseguita da Democrito, dei quali sappiamo molto poco: del primo, che sarebbe nato a Mileto nel V secolo e sarebbe più giovane di qualche anno di Anassagora, ci è rimasto un solo frammento della “Grande Cosmologia” e anche per il secondo che scrisse numerose opere (nel catalogo di Diogene Laerzio troviamo una “Grande Cosmologia”, una “Piccola Cosmologia” e una “Cosmografia”) dobbiamo rifarci soprattutto alle testimonianze.
Queste sembrano attestare rapporti di Leucippo e Democrito principalmente con l’eleatismo e i filosofi pluralisti. Sotto un certo profilo l’atomismo è, in effetti, un ulteriore tentativo di soluzione del problema dell’essere e dei suoi rapporti con il mondo sensibile, così come era stato impostato da Parmenide.
La nuova ipotesi di Leucippo e Democrito può essere schematizzata in quattro punti:
* la realtà è composta da una molteplicità di principi;
* tali principi sono assolutamente primi e indivisibili;
* gli atomi sono molto poveri di caratteristiche specifiche: non possiedono alcuna proprietà sensibile;
* essi non sono però completamente privi di tratti differenzianti: possono infatti variare per forma, ordine e posizione.
Questa nuova dottrina ha importanti implicazioni. La prima concerne l’esistenza del vuoto: se la natura non è un tutto continuo e pieno in ogni parte, ma un insieme costituito da elementi distinti, è evidente che tra un atomo e l’altro occorrerà ammettere l’esistenza del vuoto. Questo non viene concepito come non essere, ma come una seconda modalità dell’essere: gli atomi e il vuoto sono i due aspetti complementari dell’essere, connessi tra loro secondo un rapporto di stretta necessità. Da ciò deriva la seconda implicazione: il movimento è reso possibile proprio dallo spazio vuoto ed è una prerogativa degli atomi in quanto tali. Gli atomisti, poi, concepiscono il moto come eterno, continuo, cieco, disordinato; sempre col moto, che porta gli atomi ad aggregarsi e disgregarsi, spiegano anche la genesi del mondo o, meglio, degli infiniti mondi esistenti : tali mondi si sarebbero originariamente generati da un primo movimento vorticoso, prodotto dal libero gioco dei pieni e dei vuoti.
Come spiegare l’origine delle qualità che contraddistinguono i corpi? Gli atomisti non potevano attribuirle direttamente gli atomi (come aveva fatto Anassagora con i semi), poiché questi si distinguono unicamente per forma, ordine e posizione e, quindi, possiedono solo caratteristiche fisico-spaziali e geometriche.
Le qualità vengono pensate, allora, come una sorta di realtà secondaria derivante da tali caratteristiche: il sapore aspro e la sensazione di ruvidità, ad esempio, deriverebbero dalla forma acuta e spezzata degli atomi che li compongono.
A questa teoria si connette la teoria degli effluvi: nell’aria si troverebbero, estremamente vaganti, sottili emanazioni di atomi, le quali, oltre che giustificare l’esistenza dei demoni e degli dei, spiegano anche la nascita delle sensazioni. Ma la vera essenza della realtà, gli atomi e il vuoto, non è oggetto di percezione: le proprietà che si colgono con gli organi sensoriali sono quelle che verranno chiamate “qualità secondarie” o “soggettive”. Democrito vi si riferisce con la parola “(((((”, che significa legge, ma anche convenzione; e aggiunge che non solo le sensazioni ma anche i nomi sono convenzionali, poiché non rispecchiano la realtà così com è nella sua natura, ma si fondano su un mero accordo rafforzato dall’abitudine o dalla tradizione.
Tutto ciò poneva il problema di come sia possibile raggiungere una conoscenza attendibile.
La soluzione di Democrito è che i fondamenti della realtà vanno individuati per via puramente razionale e che alle sensazioni va negata la prerogativa di dare conoscenza assolute e autonome. L’unico modo corretto di “salvare i fenomeni”, ossia di conoscerli correttamente, consiste nel riorganizzare le procedure cognitive ordinarie in stretto collegamento con i principi posti razionalmente.
Sebbene considerati i fondatori del materialismo e del casualismo, Leucippo e Democrito non elaborarono alcuna distinzione tra materia e spirito. Furono “materialisti” solo nel senso che evitarono ogni ricorso a principi di natura non materiale, spiegarono il divenire solo per mezzo di cause meccaniche e concepirono anche l’anima come un determinato composto di atomi. Quanto al loro “casualismo”, si tratta semplicemente del rifiuto di ricorrere a qualsiasi finalità. Entrambi affermarono che tutto si produce necessariamente: vollero solo sottolineare che tale necessità non obbedisce ad alcun disegno preordinato.
Circa l’origine della società e lo sviluppo della civiltà, Democrito traccia un quadro originale e coerente con la sua impostazione antifinalistica: per lui gli uomini erano originariamente inesperti di tutto e fu solo per necessità che avviarono una rudimentale economia di raccolta e di conservazione.
Quanto alla morale democritea, essa non è esposta in modo sistematico, ma sembra fondata sull’ideale dell’((((((( (tranquillità dell’anima), derivante da una giusta regolazione delle nostre esigenze e dall’abitudine a controllare e razionalizzare gli impulsi.
LA SOFISTICA
La sofistica è un complesso indirizzo culturale sviluppatosi ad Atene tra la metà del V secolo a.C. e i primi decenni del successivo. I suoi esponenti hanno profondamente modificato il concetto tradizionale della filosofia e la stessa immagine del filosofo. A differenza dei precedenti pensatori, i sofisti non si occupano del mondo naturale, ma della sfera umana.
Inoltre, puntano alla ricerca non tanto di principi veri, ma di conoscenze e abilità utili in sede sociale indipendentemente da criteri universali-oggettivi di validità. Essi tendono, anzi, a contestare l’esistenza di tali criteri e ad assumere un atteggiamento critico nei confronti dei valori acquisiti. Infine, offrono le loro competenze a tutti coloro che le richiedono e indipendentemente dagli scopi per i quali vengono richieste.
Con i sofisti la filosofia diviene una professione comparabile ad altre attività socio-economiche; il suo soggetto è non già il sapere vero quanto la capacità espressiva ed argomentativi di far prevalere certe tesi rispetto ad altre.
I sofisti sono ben lungi, però, dal configurarsi come semplici professionisti in un certo ambito intellettuale; al contrario, essi hanno elaborato alcuni principi teorici di grande rilievo: l’autonomia del sapere dalla tradizione, la “laicizzazione” delle virtù etico-sociali, il diritto del ((((( di investigare liberamente ogni ambito di esperienza, la trasmissibilità e l’insegnabilità delle conoscenze teorico-pratiche, l’indipendenza della conoscenza e delle parole dalle cose e la correlativa esistenza di una problematica del ((((( e del linguaggio separata dalla problematica della realtà e le sue (((((.
PROTAGORA DI ABDERA
Uno dei sofisti più celebri è Protagora di Abdera, nato negli anni ’80 del V secolo a.C. La tradizione riporta che, nel 411 a.C. subì un processo per empietà e che riuscì a salvarsi dalla condanna solo con la fuga. Diogene Laerzio gli attribuisce la composizione di numerose opere, tra le quali un trattato “La Verità” e una raccolta “Antilogie”.
La sua tesi più nota è che “l’uomo è misura di tutte le cose”. Essa esprime in primo luogo l’umanismo o, meglio, l’antropocentrismo di questo sofista; in secondo luogo a tale assunto si correla una prospettiva relativistica, confermata dall’ulteriore tesi protagorea secondo cui “intorno a ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti”. In realtà Protagora vuole sostenere non tanto un relativismo assoluto, quanto l’inesistenza di verità soggettive, la centralità di una dimensione irriducibilmente soggettiva nelle asserzioni e nei comportamenti umani, la necessità di riferire ad essa tali asserzioni e comportamenti.
Protagora, per un certo aspetto, contrappone al privilegiamento tradizionale della sapienza il diverso criterio dell’utilità: esiste dunque un principio in qualche modo generale secondo il quale giudicare le credenze e gli atti particolari.
Per quanto le utilità degli individui vadano a rigore valutate secondo angolature soggettive, tale principio consente un confronto e una ricerca comune tra soggetti diversi. Il compito del (((((, nella sua duplice accezione di ragionamento e discorso, deve essere quello di cogliere questa utilità e di convincere gli uomini della loro preferibilità rispetto ad altri stati o comportamenti.
Da questo punto di vista, grande rilievo viene conferito al contenuto e all’aspetto di persuasione propri del ((((( e , più in generale, dell’educazione dell’uomo, soprattutto come insegnamento di virtù etico-politiche.
A proposito dell’esistenza di tali virtù è significativo il mito di Prometeo narrato da Protagora, secondo il quale Zeus ha sì donato “pudore” e “giustizia” a tutti gli individui, ma il loro possesso da parte di questi ultimi dà solo una predisposizione alla vita politica, che poi deve essere posta continuamente in essere mediante appunto l’educazione a un determinato comportamento nella (((((. L’umanismo di Protagora e il suo scetticismo razionalistico si esprimono nell’atteggiamento nei confronti degli dei, riguardo ai quali l’uomo non ha la possibilità di accertare “né che sono né che non sono”.
GORGIA DI LENTINI
L’altro grande esponente della sofistica è Gorgia di Lentini, nato verso il 485 a.C., di cui possediamo discrete informazioni sul capolavoro “Sulla natura o sul non essere” e due intere declamazioni, “L’encomio di Elena” e “L’apologia di Palamede”.
La sua dottrina più nota è espressa in tre tesi connesse tra loro e apparentemente paradossali:
 nulla esiste;
 se poi esiste, è in conoscibile:
 se poi anche esiste ed è conoscibile, non è però manifestabile ad altri.
In sede generale, il primo significato e valore di questa concezione sta nella differenziazione tra realtà, conoscenza e linguaggio.
La prima proposizione deriva dalla constatazione che di qualsiasi predicato di esistenza si possa dimostrare l’unilateralità o l’assurdità (l’essere non può essere affermato con certezza in alcun modo); la seconda proposizione riflette una presa di coscienza ormai matura della differenza tra l’essere e il pensare (l’eventuale esistenza della realtà non garantisce la possibilità di conoscerla). La terza proposizione esprime poi la lucida scoperta dell’ulteriore differenza tra realtà e pensiero da un lato e linguaggio dall’altro. A gorgia si deve una delle prime enunciazioni che si conoscano relative all’insuperabile autonomia delle parole rispetto alle cose, del fatto che la parola è “Altro dall’oggetto”.
Le tre tesi gorgiane radicalizzato il pensiero protagoreo. Se il linguaggio è indipendente dalla realtà e dal pensiero, esso può enunciare qualsiasi cosa; per Gorgia cade dunque la possibilità di distinguere la verità dalla falsità che era stata affermata da Protagora. Inoltre, egli non crede in un qualche criterio o virtù generali e dunque insegnabili; egli tende piuttosto a valorizzare la retorica come arte di persuadere e sedurre indipendentemente dal valore della verità conoscitiva o morale di quanto dice. La parola viene anzi paragonata al ((((((((, che può essere tanto medicina benefica quanto veleno mortale.
In abito sociale Gorgia tende ad affermare un indifferentismo e un solipsismo assoluti: tutti i principi in fondo si equivalgono, né esiste una qualsiasi misura comune che ne consenta una valutazione.
I SOFISTI MINORI
Con i cosiddetti “sofisti minori” la sofistica è ormai al tramonto.Tra i sofisti minori vanno ricordati Prodico di Ceo, Ippia di Elide, Antifonte di Ramnunte.
Prodico di Ceo, nato nella seconda metà del V secolo a.C., è noto per avere sottolineato il principio dell’utile, per avere dato un’interpretazione antropomorfica degli dei e per aver sviluppato la “sinonimia”, ovvero l’arte del definire l’uguaglianza e la differenza dei significati delle parole.
Ippia di Elide deve invece la sua rinomanza all’introduzione nel dibattito filosofico della problematica sull’essenza della legge. Per il sofista esiste una dualità tra ((((( e (((((: mentre alcune norma valgono per natura, altre valgono per convenzione.
Antifonte di Ramnunte riprende questo tema: da un lato egli allarga il concetto di legge; dall’altro distingue più nettamente la legge per natura e la legge per convenzione, dove solo la prima è veramente obbligante, mentre la seconda deriva soltanto da un vincolo esterno. In ambito politico-sociale Antistene esprime forti riserve sull’esistenza di un utile collettivo e sostiene gli interessi dei singoli individui, in una prospettiva sostanzialmente antidemocratica.
Trasimaco di Calcedonia, uno dei “sofisti politici”, riprende e sviluppa questa posizione in modo molto radicale: per il sofista non soltanto esistono solo gli interessi individuali, ma la cosiddetta virtù è il mero “utile del più forte”. La pura e semplice forza si configura dunque come il vero criterio di valutazione e condotta dell’agire sociale.
Tale forza poteva essere intesa anche in senso traslato, come capacità di prevalere mediante un uso spregiudicato degli strumenti del (((((. È proprio su questa capacità che molti sofisti tendono a fondare un nuovo concetto di aristocrazia non più connessa all’appartenenza ad una determinata classe sociale.
Nella prospettiva sofistica, questi nuovi aristocratici possono talvolta interpretare la voce del loro utile e dei loro interessi nel modo più arbitrario e violento: impressionante, a questo proposito, la tesi di Callicle, secondo il quale è giusto che i più forti opprimano i più deboli, si concedano il soddisfacimento di tutti i piaceri e irridano le leggi della città.
Proprio questa estremizzazione di determinati principi rivela la debolezza di fondo della sofistica: capace sì di criticare credenze e valori indebitamente assolutizzati, ma non in grado di suggerire nuove regole di convivenza effettivamente praticabili. Anche in ambito più strettamente filosofico la solistica non seppe sviluppare in modo positivo le sue fondamentali intuizioni e decadde presto a mera eristica, ossia una serie di futili paradossi e dispute verbali.
IPPOCRATE DI COS
Ippocrate, nato nel 460 a.C. a Cos, ma vissuto prevalentemente ad Atene (si spense poi in Tessaglia intorno al 377) è una delle più significative figure della cultura greca antica. La sua opera è affidata ad una sessantina di testi che compongono il “Corpus Hippocraticum”, in parte scritti da collaboratori e discepoli.
Il principale merito della scuola ippocratica è di avere emancipato la medicina dalla tradizione mistico-religiosa.
Tale emancipazione è stata realizzata anzitutto attraverso la reinterpretazione in termini laico-naturali dei fenomeni patologici, che fino a quel momento erano stati spesso attribuiti a cause divine.
In secondo luogo il medico di Cos autonomizza la medicina dalle altre scienze naturali: a suo avviso, in effetti, la medicina è scienza di una materia che possiede proprietà e produce fenomeni molto diversi dalle proprietà e dai fenomeni fisici.
Dal punto di vista metodologico Ippocrate propugna la necessità di una mediazione tra teoria ed osservazione, fra ragione ed esperienza. Sotto il profilo medico-biologico egli introduce tra l’altro la fondamentale ipotesi encefalocentrica, secondo cui la vita e il pensiero dipendono non dal sangue, ma dal cervello e l’importante teoria dei quattro umori, dalla cui combinazione dipenderebbe lo stato di salute o malattia e la cui distribuzione determinerebbe i quattro tipi psicologici fondamentali individuabili tra gli uomini (il sanguigno, il flemmatico, il bilioso e il malinconico).
Sotto il profilo pratico va ricordato il rilievo che nella medicina ippocratica assume l’anamnesi, ossia la ricostruzione della storia del malato attraverso il colloquio col malato stesso e con i suoi familiari.
Uno degli aspetti più interessanti della medicina ippocratica è la sua ambizione antropologica. Isocrate si chiede quale sia la natura dell’uomo, quali rapporti sussistano fra il corpo e l’anima, come avvengano i processi conoscitivi. Egli traccia un’immagine sostanzialmente unitaria dell’essere umano, ammette non soltanto l’influenza del fisico sullo psichico ma anche quella opposta e vede l’uomo come un sistema organizzato gerarchicamente sotto il dominio del cervello.
SOCRATE
Socrate (470/469-399) è una delle massime personalità della filosofia greca.
La sua riflessione va anzitutto inquadrata nell’ambito del rinnovamento prodotto dai sofisti. Come costoro, anche Socrate ritiene che la filosofia debba occuparsi del mondo umano più che di quello naturale: egli concepisce l’attività filosofica come ricerca di principi e conoscenze riguardanti la concreta vita degli uomini, a diretto, quotidiano contatto con essi. Simili alla teoria e alla prassi sofistica sono anche il suo atteggiamento anti-tradizionalistico, il suo razionalismo, il suo privilegiamento della dimensione linguistica e di determinate procedure logico-argomentative.
Altrettanto grandi sono le differenze tra Socrate e i sofisti: diversamente da questi ultimi, egli non concepisce la filosofia come una mera tecnica al servizio di un qualsiasi fine pratico. Al contrario, la filosofia deve ricercare i giusti fini e la verità; da questo ultimo punto di vista Socrate appare lontanissimo sia dal relativismo di Protagora che dal “nichilismo” di Gorgia: la verità esiste e va perseguita con assoluta dedizione. Quanto alla ricerca dei fini, essa evidenzia l’altra cruciale dissomiglianza tra i sofisti e Socrate: i primi erano del tutto indifferenti al problema dei retti principi e dei valori generali, e perseguivano solo obiettivi in grado di soddisfare gli interessi pratico-individuali, indipendentemente dalla loro bontà.
A questo pragmatismo individualistico e amorale Socrate contrappone una prospettiva fortemente etica e tendenzialmente universalizzante: la filosofia può e deve ricercare fini non utilitari ma intimamente morali, in grado di valere non per il singolo ma per tutti gli esseri in quanto tali.
La riflessione socratica si svolge essenzialmente attraverso un dialogo con vari interlocutori. Una sua parte cospicua ha un carattere critico-negativo: Socrate intende demolire le tesi erronee degli altri dialoganti e la presunzione di quanti pretendono di sapere e invece non sanno. Le armi più usate in questa fase sono l’ironia e la confutazione.
L’ironia consiste, anzitutto, nel colmare di lodi l’avversario onde spingerlo ad enunciare principi tanto impegnativi quanto discutibili. La confutazione consiste nello smantellamento graduale di tali principi attraverso domande puntuali, le quali obbligano l’interlocutore a risposte che prima ridimensionano la portata delle enunciazioni di partenza, da ultimo ne dimostrano la palese infondatezza.
La seconda fase dell’indagine socratica ha invece un carattere costruttivo-positivo: Socrate si propone di ricercare il “che cos’è?” delle cose. A quanti rispondevano a tale domanda fornendo particolari esempi, Socrate replica sottolineando la possibilità e la necessità di cogliere un’essenza generale della cosa in questione. Tale presa di posizione attesta non tanto la scoperta da parte di Socrate dei concetti universali, quanto il proposito di riaffermare l’esistenza di principi oggettivi di valore generale contro la dissoluzione sofistica delle conoscenze in mere opinioni soggettive e particolari. Circa la natura di tali principi, Socrate appare orientato a sostenerne l’esistenza in linea teorica. Il suo obiettivo fondamentale era di affermare la fondatezza e l’indispensabilità di una loro ricerca costante e sistematica: Socrate appare così persuaso che il sapere sia piuttosto ricerca che possesso di verità da protestare sovente la sua ignoranza, aggiungendo che proprio tale ignoranza, o meglio il suo “sapere di non sapere”, è il necessario presupposto della conoscenza.
Anche la dottrina della “maieutica” si inserisce in parte entro questa prospettiva: Socrate si paragona ad una levatrice (n sé sterile), il cui compito è favorire nell’altro la produzione della vita (nel caso di Socrate la produzione della verità).
In sede psico-antropologica Socrate afferma anzitutto la necessità di conoscere l’uomo in sé prima di affrontare qualsiasi altro problema che lo riguardi: tale conoscenza si configura come una sorta di autoconoscenza. Sotto questo profilo Socrate riprende idealmente in il famoso motto dell’oracolo di Delfi “conosci te stesso”; in secondo luogo delinea una visione dell’essere umano fondata su quello che potrebbe definirsi il mondo interiore. Centro ed espressione di tale mondo è l’anima, concepita da Socrate non tanto come soffio vitale (alla maniera dei presocratica), quanto come principio di consapevolezza, come luogo in cui l’uomo pensa e dialoga con se stesso intorno al proprio essere ed agire. Tale riflessione deve tendere da un lato ad un’armonizzazione individuale tra le diverse componenti dell’essere umano; dall’altro, deve proporsi il coglimento del bene che solo può fondare la retta convivenza sociale.
Da questa concezione dell’uomo derivano alcune fondamentali conseguenze di ordine etico-esistenziale. La prima è proprio la valorizzazione dell’anima e dell’interiorità: per Socrate il rilievo conferito a questa valorizzazione significava essenzialmente sottolineare l’esistenza di una dimensione di esperienza non sottomessa alle costrizioni della vita pratica. Da questo punto di vista la seconda delle conseguenze è, da un lato, il nuovo peso assegnato a certe virtù (le “virtù spirituali”) rispetto ad altre (quelle “pratiche” privilegiate sia dalla cultura tradizionale che dal pensiero sofistico, dall’altro la nuova interpretazione della libertà, concepita non tanto come il possesso di certi requisiti sociali, quanto come una condizione essenzialmente interiore, legata alla conoscenza e alla volontà personale, sostanzialmente indipendente dal contesto mondano. La libertà socratica consiste nell’agire come il ((((( insito nell’uomo invita ad agire, indipendentemente da seduzioni ed interessi esterni. D’altra parte, se il ((((( detta indubbiamente principi lontani dalle passioni soggettive e materiali, esso non tende affatto a respingere a priori i beni corporei e le passioni. Al contrario, l’ideale dell’uomo socratico è l’((((((((((, ossia una felicità coincidente con una condizione che riguarda tutto l’uomo, fisico non meno che spirituale.
L’elemento centrale della felicità è la realizzazione del ((((( concepito come virtù. Tutti i piaceri e i comportamenti sono validi dal punto di vista della vera felicità solo se ispirati dal (((((, dalla virtù.
Se l’intera filosofia di Socrate si configura come un’etica (in quanto completamente finalizzata alla presa di coscienza e alla realizzazione del (((((), tale etica si configura a sua volta come conoscenza. Uno dei principi capitali del pensiero socratico è appunto che la virtù è conoscenza: chi conosce adeguatamente il bene non può non farlo. A questo primo principio ne è connesso strettamente un secondo: nessuno compie volontariamente il male. Il vizio o l’errore sono, per Socrate, frutto dell’ignoranza: nessuno, in effetti, agirebbe male sapendo che è male giacché, sapendolo, saprebbe che esso non potrà mai produrre la vera felicità.
Alla luce di quanto esposto grande rilievo assume nella filosofia di Socrate il momento educativo: solo la retta educazione può infatti trasmettere quella conoscenza del bene e del male che è la necessaria condizione onde agire rettamente ed acquisire così l’((((((((((.
Se, da un lato, la dottrina socratica è vicina al razionalismo di alcuni sofisti, dall’altro egli ne è assai lontano per il suo rifiuto di un’interpretazione strumentale e relativistica della virtù e del bene: per lui la virtù e il bene valgono di per sé, sono un valore unitario e sono indipendenti dalle diverse occasioni e situazioni proposte dalla realtà mondana.
In ambito religioso Socrate respinge anzitutto ogni interpretazione mitologica del divino, operandone una sorta di razionalizzazione: Dio si configura per certi versi come il ((((( del mondo, un ((((( al quale vengono attribuiti alcuni caratteri antropomorfici e che, soprattutto, opera in qualche misura in modo finalistico. Tale finalismo viene fondato sull’esistenza di un evidente finalismo in seno ai fenomeni naturali, il quale presuppone un principio ordinatore agente appunto secondo fini (Socrate non concepisce però questo Principio come realtà trascendente, né si pronuncia circa l’unicità o meno della divinità).
In ambito diverso Socrate parla poi spesso di un “demone” operante in seno all’uomo. Tale demone ammette diverse interpretazioni: esso è, ad un tempo, la voce dell’anima o della coscienza umana, l’espressione della virtù e del retto pensare (e agire) dell’uomo e, forse, l’apertura verso una dimensione superiore e divina.
I SOCRATICI MINORI
L’espressione “socratici minori” indica generalmente quei filosofi che da un lato si ispirano, almeno parzialmente, all’insegnamento socratico, dall’altro si dimostrano, però, inferiori al principale discepolo di Socrate, Platone.
Tra i socratici minori vi sono differenze assai cospicue, consentite e giustificate dal principio di assoluta libertà di pensiero predicato dallo stesso Socrate. In comune questi allievi diretti o indiretti del grande filosofo hanno tre costanti:
 l’avversione per le codificazioni e le sistemazioni delle dottrine che professano;
 il privilegiamento della dimensione etica e pratico-esistenziale della loro riflessione;
 la valorizzazione dell’aspetto individuale e privato del filosofare.

ANTISTENE DI ATENE
Antistene (445-365 a.C.) è una delle personalità più ricche e complesse del socratismo minore. Allievo diretto di Socrate, ne sviluppò le dottrine in direzione diametralmente opposta a quella di Platone. Tanto questi appare impegnato a sviluppare la lezione socratica in ambito politico, tanto Antistene la orienta in direzione individualistico-privata. E tanto Platone appare persuaso della necessità di ammettere un mondo di forme universali, le idee, tanto Antistene rifiuta ogni universale, in quanto inverificabile ed astratto; alla luce di tale rifiuto Antistene nega la possibilità di discorsi che non riguardino enti particolari, concreti, a proposito dei quali ritiene leciti i soli giudizi tautologici (“l’uomo è un uomo”). Giacché gli altri presupporrebbero l’esistenza di concetti universali applicabili a più soggetti particolari. Scettico in ambito conoscitivo, in ambito morale Antistene difende anzitutto una concezione della libertà come autarchia, cioè come l’indipendenza e l’autosufficienza assolute rispetto a qualsiasi costrizione o bisogno esterno. In secondo luogo egli critica il perseguimento del piacere (anche di quello buono) in quanto esso è sempre una forma di asservimento dell’uomo a qualcosa di altro.
DIOGENE DI SINOPE
L’orientamento fortemente individualistico di Antistene viene estremizzato da Diogene di Sinope, nato sullo scorcio del V secolo e vissuto novant’anni, il principale esponente della scuola cinica (alla quale la tradizione usa collegare anche Antistene). Per Diogene, in effetti, conta solo il privato e la coerenza di comportamento rispetto a determinati principi strettamente personali. Di qui lo stile di vita dissimile e distante da quello comunemente seguito, e il provocatorio rifiuto delle convenzioni sociali (fino all’((((((((, la mancanza di pudore e rispetto). Più di Antistene, Diogene disdegna il piacere e il benessere; ostentava un profondo disprezzo per tutti i fini e i valori, asserendo di ricercare solo l’uomo (cioè un uomo che fosse realmente tale in quanto realmente autonomo dalle vane lusinghe del mondo).
ARISTIPPO DI CIRENE
Aristippo, vissuto tra la fine del V e il VI secolo a.C., fondò la scuola cirenaica. Sostenitore di una filosofia come vita vissuta piuttosto che come riflessione teorica, Aristippo pose il piacere come massimo obiettivo dell’uomo. A differenza di quanto la tradizione amò credere, egli concepiva però tale piacere in modo non ingenuo e grossolano: il piacere da perseguire è quello che procura vero godimento e a lungo, senza produrre l’assoggettamento ad esso da parte dell’uomo (“possiedo, non sono posseduto”).
I suoi allievi, tra cui Aristippo il Metrodidatta, Anniceride, Teodoro l’Ateo ed Egesia il Persuasore di Morte, da un lato difesero certi piaceri ritenuti biasimevoli o inferiori, dall’altro approfondirono un’interpretazione del piacere in chiave sensistica. Anche in sede gnoseologica essi affermarono che la conoscenza si fonda sui sensi e non può oltrepassarne l’orizzonte.
EUCLIDE DI MEGARA
Una terza scuola di socratici minori è quella costituita dai megarici, dal nome della città dove operò il suo fondatore, Euclide, vissuto tra il V e il IV secolo a.C.
Assai legato a Socrate, Euclide appare influenzato anche dall’eleatismo: non a caso tende ad identificare il bene socratico con l’essere degli eleati. Da queste premesse deriva la tendenza euclidea ad assolutizzare il bene, sottolineandone l’unicità e la natura divina.
La mediazione tra socratismo ed eleatismo si realizza anche in sede gnoseologica: Euclide utilizza determinati assunti eleatici per rendere ancora più stringenti le proprie confutazioni degli errori e dei pregiudizi, secondo il metodo socratico. Euclide mirava anche a costruire il vero: di qui il suo tentativo di organizzare una dottrina, ontologica ed etica, fondata sul principio dell’Uno-bene.
La sottigliezza dei megarici si manifesta nelle indagini intorno ad alcuni problemi logici enigmatici e paradossali, come ad esempio fa Eubulide con i paradossi del “calvo”, del “sorite”, del “mentitore” e dell’”uomo tradito”.
Diodoro Crono, vissuto nella seconda metà del IV secolo, esaminò criticamente la concezione aristotelica della possibilità, perché convinto che essa minava i principi eleatici in cui egli credeva.
Non meno rilevante la riflessione di Stilpone (IV-III secolo a.C.), il quale non esitò ad affermare la liceità dei soli giudizi tautologici.
PLATONE
Nato ad Atene nel 428/427 a.C. da una famiglia aristocratica (il suo nome sarebbe Aristocle), Platone coltivò il proposito di dedicarsi alla vita politica; ad interessi politici rispondono i suoi numerosi viaggi a Siracusa (388 a.C. - 367 a.C. – 361 a.C.), dove ritenne possibile contribuire alla realizzazione di una riforma filosoficamente fondata di quella città. Falliti tali tentativi, deluso anche dall’evoluzione politica della propria città, Platone abbandonò i propri progetti pratici e si dedicò interamente alla filosofia, fondando una scuola, l’Accademia. Per quanto composta anche di indagini e riflessioni distanti dai problemi della (((((, si può dire che una della direttrici di fondo della riflessione platonica sia di carattere politico. Da questo punto di vista l’obiettivo di Platone è di rifondare la ((((( su principi e valori certi ed assoluti. Ma questi richiedono il ripensamento non solo della giusta organizzazione della (((((, bensì anche della giusta educazione del cittadino e di certe ancor più generali questioni teoriche: da qui il nesso che congiunge in un insieme unitario buona parte dell’opera platonica. Tale opera è consegnata, altre che a 13 Lettere, ad una cospicua serie di testi in forma di dialogo, organizzati successivamente in nove tetralogie:
1. Eutrifone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade I, Alcibiade II, Ipparco, Amanti
5. Teagete, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minasse, Leggi, Epinomide, Lettere.
Il protagonista di tutti i dialoghi platonici (meno le “Leggi” e l’”Epinomide”) è il maestro di Platone, Socrate; la stessa struttura dialogica delle opere platoniche riprende una delle idee più care a Socrate: l’idea che la verità è qualcosa da ricercare attraverso appunto una discussione razionale. Oltre che a tale ricerca, ispirata a principi razionali, vari dialoghi espongono anche alcuni miti. Essi vengono impiegati quando Platone ritiene che determinate concezioni non possono essere argomentate secondo gli stringenti dettami del (((((.
D’altra parte anche il mito contiene per Platone un preciso contenuto di conoscenza e di verità, la cui possibile “inesattezza” viene compensata dalla sua capacità di persuadere o di stimolare l’immaginazione.
Tutta una serie di dialoghi (quelli più giovanili e “socratici”) è dedicata dal loro autore ad una critica sistematica del sapere e dell’educazione tradizionale. Attaccandone i loro rappresentanti ufficiali (sacerdoti e poeti), Platone intende denunciare il contenuto dogmatico, approssimativo e non veritiero del loro insegnamento. La crisi della paideia ateniese è dovuta in larga misura alla falsità, o almeno all’imprecisione di tale insegnamento, che trasmette mere opinioni non fondate su adeguate conoscenze.
Ancora più radicale è, su un altro versante, la polemica platonica contro la cultura sofistica. Per Platone i sofisti:
 hanno smantellato gli stessi fondamenti di un sapere degno di tal nome;
 hanno diffuso un’immagine relativistica e utilitaristica dei valori;
 hanno sostituito questi stessi valori e alle conoscenze mere parole;
 hanno, correlativamente, stravolto la natura e i compiti dell’educazione;
 hanno taciuto o non compreso che solo una rigorosa definizione dei principi generali (soprattutto dei principi di bene e male) consente di edificare un’educazione e una cultura realmente valide.
La massima parte delle critiche platoniche al sapere tradizionale e al pensiero sofistico è di ispirazione socratica. Ma a partire da un certo punto Platone si va gradualmente distaccando dalle posizioni del maestro; la ragione di fondo di questo distacco è che mentre Socrate pareva accontentarsi della critica delle dottrine a suo avviso errate, o pareva almeno appagarsi del momento della ricerca in quanto tale, Platone vuole invece non solo cercare ma anche trovare, non solo domandare ma anche rispondere. Per questo egli riprende bensì il cruciale interrogativo socratico (“che cos’è?”), ma si propone anche di risolverlo in modo positivo: dicendo che cosa è ciò su cui ci si interroga e dicendolo in modo certo e valido per tutti.
A questo nodo problematico, implicante un versante gnoseologico (“come è possibile una conoscenza certa e valida per tutti?”) e un versante ontologico (“esiste e come è fatta una realtà indubitabile?”) il pensiero più aggiornato del tempo (la sofistica e lo stesso Socrate) non dava risposte soddisfacenti; anzi, i sofisti tendevano a negare consistenza a certe domande, sostenendo che la conoscenza e la realtà indubitabile non esistono.
Ricercando, quindi, una dottrina filosofica in grado di aiutarlo nella propria indagine, Platone finisce con il risalire a Parmenide; questi, in effetti, aveva delineato con grande rigore i caratteri di una scienza-realtà assolutamente certa: quella dell’essere. È vero che la concezione parmenidea era parsa penalizzare la conoscenza dei fenomeni naturali, e che i filosofi pluralisti avevano considerato necessario mediare i principi parmenidei con certe esigenze di tale conoscenza. Ma Platone respinge tale mediazione: ad essa egli contrappone l’esistenza di due ordini di realtà e due ordini di conoscenza: da un lato la realtà e la conoscenza del mondo sensibile, dall’altra la realtà e la conoscenza di una dimensione situata oltre tale mondo.
Questa seconda dimensione (che più tardi sarà definita metafisica) è costituita dalle cosiddette “idee”. Sia questo termine che quello congiunto di ((((( sono costruiti sulla radice “(((” presente nei verbi conoscere e vedere, quasi a suggerire che la conoscenza è essenzialmente una visione. D’altra parte, mentre il significato moderno di idea ne accentua spesso il valore psicologico di produzione mentale, in Platone l’idea è una realtà: anzi, una realtà più compiuta e reale degli stessi fenomeni mondani. Le idee costituiscono infatti l’essenza perfetta e vera di tali fenomeni.
Costituiscono, più precisamente, le forme universali su cui sono modellate le cose particolari; le idee sono inoltre caratterizzate dalla loro natura puramente intelligibili (mentre le cose concrete sono sensibili). Ciò significa che esse possono venir colte solo dall’intelletto e per via razionale. Le proprietà delle idee, infine, risultano quelle stesse che Parmenide aveva attribuito all’essere: esse sono vere, perfette, eterne, immutabili.
La dottrina delle idee offre la risposta al problema gnoseologico e al problema ontologico da cui Platone era partito. In effetti l’ammissione della loro esistenza garantisce:
 che una conoscenza vera ed universale, cioè assolutamente certa e indubitabile per tutti è possibile;
 che le cose possiedono una consistenza reale, oggettiva e invariabile.
Su un piano più ampio le idee rappresentano la risposta alle domande fondamentali che avevano travagliato il pensiero presocratica e socratico: esse sono il principio unitario del mondo molteplice ricercato dai milesii, l’essere assoluto e immobile degli eleati, l’architettura razionale costitutiva del mondo dei pitagorici, il “che cos’è?” universale delle cose particolari perseguito da Socrate.
Nella loro compiuta perfezione le idee sono non solo principi, ma anche valori. Da questo punto di vista il mondo delle idee è non solo il fondamento della realtà ma ciò cui la realtà può commisurarsi e tendere anche finalisticamente o, nel caso degli uomini, eticamente.
A tale proposito non va dimenticata la forte aspirazione assiologico-morale della riflessione di Platone: il mondo, per lui, deve essere non solo spiegato, ma anche organizzato e valorizzato. Questo aspetto della costruzione platonica appare accentuato dal fatto che, così come le idee costituiscono l’elemento ordinatore del mondo, allo stesso modo l’universo delle idee è a sua volta ordinato, almeno in certi dialoghi, intorno all’idea del bene.
La teoria della conoscenza. Una delle peculiarità della filosofia di Socrate era che, per lui, il confronto dialogico tra le opinioni e la ricerca della verità sussistono anche indipendentemente dall’esistenza della verità; per Platone non è così. Nella sua prospettiva la verità deve esistere se si vuole dar senso alla ricerca di essa. Una prima prova dell’esistenza della verità è data proprio dal fatto che gli uomini la cercano e che confrontano tra loro delle opinioni. La verità, in Platone, corrisponde con le idee; che le idee si diano necessariamente è provato anche dalle più elementari esperienze o atti conoscitivi: quando, ad esempio, affermiamo che “questo è un cane” è indispensabile ammettere che esista un’idea di cane cui riferirsi.
Quindi, non solo le idee esistono, ma l’uomo deve in qualche modo possederle, il problema è che spesso le possiede male o che le ha dimenticate. Egli può, però, magari con un aiuto esterno, richiamarle alla mente (paradigmatico l’esempio dello schiavo che appare nel “Menone”).
Questa concezione può apparire vicino alla maieutica di Socrate; in realtà Platone la interpreta in modo molto diverso e più impegnativo. Per lui il darsi di conoscenze autonome dallo studio e dall’esperienza dimostra che l’uomo deve averle acquisite prima della nascita. Ciò implica che l’anima vive anche prima e indipendentemente dal corpo e che, in tale precedente condizione, ha abitato il mondo delle idee. Il duplice motivo di una vita dell’anima autonoma e precedente rispetto a quella del corpo e del suo rapporto con la realtà pura e perfetta rinvia d un certo legame tra Platone e le dottrine orfiche.
La teoria dell’anima e dell’amore. Tali concezioni sono per più versi presenti nella riflessione platonica intorno all’anima contenuta nel “Fedro” e nel “Fedone”.
Per Platone l’anima è anzitutto principio di movimento e di vita. Essa è, anzi, la vita stessa ed anche per questo è immortale.
In secondo luogo, con particolare riferimento all’uomo, l’anima è un demone incarcerato nel corpo e soggetto ad un certo ciclo di reincarnazioni dal quale aspira a liberarsi. Una prova dell’esistenza di quest’anima-demone indipendente dal corpo è data dal fatto che essa può opporsi agli impulsi del corpo stesso; d’altra parte, l’anima, se non appartiene alla corporeità, non appartiene neppure al mondo intelligibile, non è,cioè, un’idea. Platone tende ad accentuare la duplice identità dell’anima, specialmente tramite il mito del cocchio (“Fedro”), cioè l’anima, trainato da un cavallo bianco (gli impulsi buoni e razionali) e da uno nero (le passioni sensibili e carnali). Quando prevale il primo, il cocchio vola nel mondo delle idee; quando prevale il secondo, il cocchio cade sulla terra e l’anima è costretta ad incarnarsi in altri corpi.
Tale concezione esprime e spiega la tendenza di una parte della filosofia platonica a valorizzare il mondo spirituale e ideale di contro al mondo terreno e sensibile. L’anima aspira infatti alla propria purificazione ed emancipazione dal corpo, alla contemplazione delle idee perfette e al distacco da quell’imperfetta realtà sensibile che ostacola tale contemplazione. Per questo, o anche per questo, il vero filosofo desidera morire: la morte implica infatti l’affrancamento dal carcere della corporeità e del mondo terreno e il ritorno nel puro mondo delle idee.
Indipendentemente dalla morte, la ricerca rigorosa e disinteressata della verità e l’esercizio della virtù sono per Platone le strade attraverso le quali l’uomo può avvicinarsi a tale mondo ideale.
D’altra parte, Platone sa bene che non tutte le anime trovano agevole staccarsi dalla realtà sensibile e tendere alla pura sapienza. È pensando principalmente ad esse che egli afferma l’esistenza di un altro modo per appropriarsi delle forme ideali. Tale modo, illustrato nel “Simposio”, è l’eros. Esso viene presentato da un lato come un ente intermedio tra dio e l’uomo, dall’altro come figlio di Povertà e Abbondanza: dalla prima l’essere umano deriva la propria costitutiva mancanza; dalla seconda, la tendenza a superare tale stato. L’amore è, insomma, intuizione dell’esistenza del bello e del buono da parte di chi non li ha ma, insieme, li desidera. Attraverso tale desiderio l’uomo oltrepassa i propri limiti, riesce a perfezionarsi, ascende gradualmente la scala delle cose belle, finché da ultimo arriva a contemplare la bellezza in sé.
A proposito dell’ideale di liberazione dalla vita sensibile e della concezione dell’amore va osservato che la componente spirituale presente nella filosofia platonica non deve essere interpretata come un semplice ripudio dell’esistenza e del mondo: in effetti Platone vuole sottolineare essenzialmente che c’è per l’uomo un modo di esistere che appare più valido degli altri. Non è un caso che il “desiderio di morire” venga espresso da Socrate in rapporto alle circostanze del suo processo: tale desiderio si configura non come una fuga mistica dalla realtà, ma come una concreta scelta etico-esistenziale contrapposta ad altre. Una scelta che, nella prospettiva platonica, appare tanto più plausibile in quanto non coincide con l’annullamento totale dell’uomo: la dottrina dell’immortalità dell’anima garantisce infatti a chi muore fisicamente la sopravvivenza in un altro modo e in altro ordine di realtà. Un’analoga interpretazione va data alla dottrina dell’eros: se Platone parla dell’amore come di un superamento da parte dell’uomo dei propri limiti individuali-sensibili, egli sottolinea anche la possibilità, e la necessità, che l’innamorato “procrei nel bello”, cioè riproduca nel mondo sensibile quel bene e quel bello che ha contemplato sotto forma di idee pure. Idee e cose, dunque, possono intrecciasi in una relazione in grado, se non certo di rendere perfetto il mondo, almeno di perfezionarlo.
Individuo, ((((( e conoscenza nella “Repubblica”. La distinzione netta ma non oppositiva tra idee pure e realtà si coglie bene in sede politica. Platone, lungi dal ricavare dalle proprie premesse la conclusione che il mondo sensibile della ((((( non è organizzabile secondo un modello razionale, delinea nella “Repubblica” precisamente tale modello.
Partendo dai bisogni della città-stato ideale, egli la articola dal punto di vista sociale in tre classi distinte:
 i produttori;
 i guardiani, incaricati di difendere quest’ultima in sede militare e di tutelare i valori di ordine e coesione interna; essi devono essere così dediti alla cosa pubblica che, a differenza di quanto avviene per i produttori, è vietato loro di avere famiglia e beni propri (per essi vige una sorta di “comunismo”);
 i governanti, cui incombe il compito non solo di reggere la (((((, ma di assicurare i principi fondativi della convivenza, a cominciare dalla coincidenza tra felicità e virtù.Tali governanti non costituiscono una vera e propria classe a sé: sono un piccolo gruppo scelto tra i guardiani per le loro doti particolari.
A proposito della distribuzione dei vari individui nelle tre classi Platone accenna ad una tripartizione non sociale, ma naturale di essi in “uomini di bronzo”, “uomini d’argento” e “uomini d’oro”.
Grande rilievo è poi attribuito all’educazione di quanti sono chiamati ad occuparsi dello stato. In effetti, secondo Platone, non tanto le leggi (che sono un potere estrinseco e che possono sempre essere violate) quanto un intimo convincimento circa la validità di determinati comportamenti costituisce la garanzia che non verranno commessi soprusi ed ingiustizie. Occorre, più in particolare, che guardiani e governanti possano identificare la loro felicità con la realizzazione della virtù e della giustizia sociale.
Tra le considerazione svolta a proposito della paideia, spicca la condanna dell’arte: essa appare una mera imitazione della realtà sensibile e poiché quest’ultima è a sua volta un’imitazione della realtà ideale, l’arte si configura come “imitazione di imitazione”, quindi come un’attività assai lontana dal mondo delle idee. La paideia deve invece avvicinare il più possibile l’uomo alla conoscenza di tale mondo; proprio su questa conoscenza (e non sull’appartenenza ad un determinato ceto o famiglia) si fonda per Platone la vera aristocrazia: l’aristocratico è chi possiede la sapienza e sa di conseguenza che occuparsi della felicità e del bene altrui significa produrre anche la felicità e il bene proprio.
Occorre ribadire che il modello platonico di stato è puramente ideale; ma è alla luce di tale modello che Platone giudica le forme di costituzione diverse da quelle delineate nella “repubblica”. Esse gli paiono altrettante degenerazioni del proprio stato ideale e tanto più gravi quanto più distanti da esso.
La meno perfetta è la “timocrazia”, fondata sul governo non della sapienza ma dell’”onore”; segue l’”oligarchia”, fondata sul governo di pochi ispirati da passioni materiali; il terzo grado di degenerazione è la “democrazia”, governo del popolo, in cui vige la libertà più sfrenata e anarchica; infine, il governo peggiore è la “tirannide”, ossia il governo autoritario di uno solo.
Alle tre classi sociali delineate nella “Repubblica” si affianca, nella stessa opera, una nuova teoria dell’anima. Essa viene riarticolata in tre parti: una parte razionale (corrispondente ai governanti), una parte animosa, ossia valorosa (corrispondente ai guardiani) e una parte concupiscibile (corrispondente ai produttori). Attraverso tale corrispondenza Platone pare voler superare l’orientamento socratico a curarsi della sola anima e trascurare lo stato. Se l’anima non è un principio puramente etico-razionale ma include anche le componenti irrazionali dell’uomo, da un lato la “cura dell’anima” non ha più il carattere in qualche misura moralistico e intellettualistico della dottrina socratica; dall’altro tale cura può identificarsi tendenzialmente con la cura dello stato, composto degli stessi fattori di cui è composta l’anima.
La teoria della conoscenza e i dialoghi dialettici. In sede gnoseologica il Platone maturo distingue nella “Repubblica” ed altrove due generi di conoscenza: la sophia (sapienza), relativa al mondo delle idee, e la doxa (opinione) relativa al mondo sensibile. Correlativamente gli uomini si distinguono in filosofi e filodossi.
A loro volta, la sophia si articola in pensiero dianoetico (che coglie gli oggetti della matematica) e in pensiero intellettivo puro ( che coglie le idee senza bisogno di alcuna mediazione); la doxa in arte (imitazione delle cose sensibili) e in credenza.
L’importanza della matematica è connessa per Platone al convincimento ch’essa coglie l’ordine profondo della realtà e che affina le capacità umane di acquisire determinate idee (unità, molteplicità, uguaglianza). Proprio per questo nell’educazione platonica un posto di grande rilievo è conferito sia alla matematica sia alle discipline che hanno alla loro base relazioni aritmetiche.
La scienza più importante è però la dialettica. Essa viene concepita da un lato come procedimento che conduce rigorosamente al coglimento delle idee, dall’altro come riflessione sull’organizzazione interna del mondo ideale in quanto tale e nei suoi rapporti col mondo sensibile. Questa complessa materia è affrontata nei dialoghi dialettici, i principali ei quali sono il “Parmenide” e il “Sofista”. Il “Parmenide” affronta soprattutto i problemi della natura delle idee in sé e del rapporto tra idee e mondo sensibile. A quest’ultimo proposito Platone espone la teoria della partecipazione: le cose semplicemente partecipano delle idee.
A proposito delle idee, da un lato Platone ribadisce la loro necessità, dall’altro mostra l’insostenibilità della separazione parmenidea tra essere e non essere, che produce l’impossibilità di stabilire relazioni conoscitive fondate, in quanto ogni relazione conoscitiva implica diversità e, dunque, non essere.
Nel “Sofista” viene delineato il metodo dicotomico della dialettica, consistente nell’arrivare ad una definizione di un determinato ente attraverso una serie di successive divisioni binarie nell’ambito cui l’ente appartiene.
In secondo luogo viene riproposto il problema dell’esistenza del non essere: la tesi platonica è che, contrariamente alle concezioni parmenidee, il non essere esiste, cioè può essere detto e pensato. Per sostenere il proprio assunto, Platone opera una capitale distinzione tra il non essere come un nulla opposto all’essere e il non essere come un essere diverso dall’essere. Se il primo non può venire effettivamente né pensato né detto, il secondo lo può, in seno alla realtà sensibile, dove si può pensare l’apparente e il falso; e lo può in seno alla stessa realtà ideale, dove il non essere come essere diverso riguarda le idee nei loro rapporti reciproci (un’idea non è un’altra idea).
Le dottrine non scritte e il “Timeo”. Sviluppando ulteriormente certe riflessioni, Platone si è proposto probabilmente di individuare alcuni principi ancor più generali delle stesse idee e in grado di delineare la struttura originaria del mondo ideale e reale. Nel “Filebo” egli parla di “due generi massimi”, il finito e l’infinito, in cui la realtà è interamente divisibile. Altrove egli sembra aver usato concetti di carattere pitagorico, l’”uno” e il “grande e piccolo” coi quali fondare e unificare tutta la realtà pensabile, distinta in vari livelli: principi, idee, cose sensibili. Di questa ambiziosa ricerca sappiamo poco perché affidata in massima parte alle cosiddette “dottrine non scritte”, concezioni che Platone preferì esporre oralmente in seno all’Accademia e che ci sono pervenute essenzialmente grazie ad Aristotele.
Il debito nei confronti dei pitagorici e l’interesse per la problematica dei principi ultimi e della costituzione della realtà sono attestati anche dal “Timeo”. In quest’opera Platone delinea quello che definisce non un sapere rigoroso, ma un discorso verosimile sulla genesi e l’organizzazione del mondo.
Questo viene concepito come una cosa generata, perciò richiedente una causa generatrice: tale causa è identificata con il “demiurgo”, un artefice divino che pur non essendo un vero creatore produce tutti i vari enti naturali. Questa produzione consiste nella costruzione delle cose secondo modelli forniti dalle idee; si tratta, più precisamente, di un’imitazione (mimesi) di tali modelli che, data la differenza esistente tra idee e la realtà, non può mai riuscire perfetta.
In ogni caso, Platone sottolinea il carattere finalistico e in certa misura provvidenziale dell’opera del demiurgo: questi ha costituito il mondo non a caso, ma in modo intelligente e orientato secondo determinati scopi. Il mondo è, quindi, una realtà buona in sé.
All’uopo il demiurgo, oltre a riferirsi alle forme ideali, ha utilizzato le strutture, proporzioni e le armonie della matematica; la materia della quale si è servito è fatta dei quattro ingredienti classici, interpretati in modo atomistico e geometrico: sono cioè particelle piccolissime, non ulteriormente decomponibili, organizzate secondo determinate forme.
Il cosmo platonico è, dunque, vivente. A quest’ultimo proposito Platone introduce l’anima del mondo: essa è anzitutto il principio generale di vita; inoltre media il piano sensibile con il piano razionale-ideale della realtà; in terzo luogo realizza operativamente la compresenza di essere e divenire, di unità e di diversità che caratterizza i fenomeni; infine è il modello delle anime individuali. L’imperfezione del mondo è dovuta anche all’imprescindibile esistenza della “chora”: con questo termine Platone allude da un lato a ciò in cui le cose si generano, dall’altro a qualcosa che si avvicina al non essere, al limite negativo da cui le cose emergono.
L’ACCADEMIA DOPO PLATONE
Dopo la morte del fondatore Platone (348/347 a.C.) i suoi discepoli continuarono la loro attività in seno all’Accademia. La libertà intellettuale che regnava in questo organismo consentì a studiosi dai diversi interessi di proseguire autonomamente le loro ricerche.
Questa stessa libertà permise che certi nuclei della dottrina del maestro venissero gradualmente abbandonati: è il caso della dottrina delle idee, che Speusippo (scolarca per otto anni) inclinò a sostituire con una teoria fondata sugli enti matematici e con una più generale teoria dei principi.
Otto anni dopo gli successe Senocrate, che tenne lo scolarcato fino al 314 a.C. Egli è noto soprattutto per aver suddiviso la filosofia in logica,fisica ed etica. Inoltre, approfondì anche lui la dottrina dei numeri e dei principi, conferendo una certa impronta religiosa alla visione del cosmo.
Le vicende dell’Accademia antica si chiudono con gli scolarcati di Polemone e di Cratete, che ressero l’Accademia fino al 268 a.C. Entrambi privilegiarono i problemi etici e pratici prediletti dalla filosofia ellenistica. Altri personaggi di spicco furono Eraclide Pontico e Filippo di Opunte.
ARISTOTELE
Aristotele (348-322 a.C.) è, con Platone, il massimo esponente del pensiero greco classico. Membro per quasi vent’anni dell’Accademia platonica, intorno al 355 a.C. fondò una scuola propria, il Liceo che, a differenza dell’Accademia, ebbe non tanto un carattere etico-politico, quanto scientifico. Le sue opere si distinguono in essoteriche, cioè destinate a circolare fuori dalla scuola, ed esoteriche, destinate a studiosi e discepoli interni ad essa.
Quelle giunte fino a noi sono solo le esoteriche, che leggiamo nell’ordinamento dato loro nel I secolo a.C. da Andronico di rodi: questi articolò l’opera di Aristotele in cinque parti: scritti di logica, scritti di scienza della natura, metafisica, scritti di filosofia morale e politica, scritti di retorica e poetica.
Il punto di partenza della riflessione aristotelica può essere identificato nella critica della teoria platonica delle idee e nella contrapposizione ad essa di una diversa concezione del rapporto tra le cose particolari e le forme generali che ci permettono di pensare e dirle.
Per Aristotele:
 tali forme non sono enti separati, ma caratteri universali delle cose insiti nelle cose;
 l’introduzione delle idee crea difficoltà e contraddizioni di vario genere;
 mentre la dottrina delle idee ha un forte contenuto etico-assiologico, la dottrina degli universali ha un contenuto essenzialmente conoscitivo.
Tale contenuto conoscitivo viene evidenziato nella teoria delle categorie. Per Aristotele di un certo soggetto si possono pensare e dire molti predicati, riferentisi ai caratteri di tale soggetto. L’insieme di questi predicati risulta organizzabile secondo partizioni o colonne tra loro omogenee e secondo un’estensione decrescente. Ogni colonna di predicati risponde ad una determinata domanda.
Ebbene, le categorie sono i tipi più ampi di predicazioni, rispondenti ai tipi più ampi di interrogativi che si possono fare sulle cose. Le principali categorie sono:
 sostanza;
 qualità;
 quantità;
 relazione;
 luogo;
 tempo.
Esse sono tra loro differenti e non mediabili; non esiste neppure una supercategoria che fondi o unifichi le altre: l’essere, che parrebbe un valido candidato a tale ruolo, non è una categoria. In effetti, mentre il compito delle categorie è di distinguere e di identificare, l’essere non può realizzare tale funzione data la sua assoluta universalità. Esso è, piuttosto, ciò che è presupposto in qualsiasi predicazione.
Di particolare rilievo è la nozione di sostanza: discendendo la colonna dei predicati relativi alla domanda “che cos’è?”, vediamo che da ultimo si perviene a un termine individuale che può fungere solo da soggetto e non più da predicato (il termine Socrate è dicibile solo di Socrate). Tale termine-soggetto è definito da Aristotele “sostanza prima, mentre “sostanze seconde” sono i termini più generali. Anche discendendo le colonne di predicati relativi ad altre domande si perviene infine ad un soggetto ultimo appartenente alla categoria di sostanza: di qui il particolare rilievo di tale categoria.
Una delle tesi fondamentali di Aristotele è poi, più specificamente, la centralità e la precedenza delle sostanze prime: senza tali soggetti i predicati non possono infatti sussistere. In sede ontologica, alle sostanze prime corrispondono le cose individuali; e anche qui l’esistenza di tutte le altre entità richiede quella delle cose individuali su cui poggiano. Col termine “accidente” Aristotele indica invece gli aspetti delle sostanze che ci possono essere o non essere senza che l’identità delle sostanze stesse cambi.
La concezione generale del sapere. Per Aristotele gli uomini sono in rapporto naturale con le cose mediante l’esperienza e tale esperienza si sedimenta nel linguaggio: tra le parole e le cose c’è un’aderenza organica. Il sapere si costituisce anzi congiuntamente sia attraverso la raccolta dei fenomeni come dati, sia attraverso il loro esame sotto forma di discorsi. Si tratta quindi di far emergere le strutture più generali del linguaggio in cui l’esperienza delle cose si è tradotta; poi di cogliere i principi organizzatori generali degli ambiti particolari in cui la realtà e il suo sapere sono suddivisi Il sapere aristotelico appare così nello stesso tempo unitario e articolato: unitario perché fondato su determinate esperienze e principi cognitivi invarianti; articolato perché all’interno della sua struttura d’assieme sussistono distinzioni e differenziazioni irriducibili. Tale sapere è organizzato da Aristotele in tre grandi parti: discipline teoretiche, pratiche e poietiche. Le discipline poietiche riguardano la produzione di oggetti materiali e, per quanto implichino un certo sapere, non sono vere scienze; le discipline pratiche riguardano la sfera dei comportamenti umani e la loro scientificità è un po’ sui generis . Solo le discipline teoretiche sono propriamente scientifiche: esse si dividono a loro volta in scienza della natura, matematiche e “filosofia prima”.
La logica, la teoria della scienza e la dialettica. Secondo l’ordine canonico, la prima parte del sapere aristotelico consta nell’esame degli strumenti logico-linguistici della conoscenza. La vera e propria logica è costituita per Aristotele dall’analisi delle proposizioni assertorie, caratterizzate dal loro essere vere o false, e organizzate secondo due coppie di modalità espressive (universale/particolare e affermativa/negativa) che danno luogo a quattro tipi di asserzione.
Il procedimento logico privilegiato da Aristotele è il sillogismo: un qualsiasi discorso in cui ad alcune premesse seguono necessariamente alcune conclusioni. Il suo merito è di aver colto e approfondito la dimensione logico-formale dei discorsi umani, cioè le caratteristiche e le regole proprie di tali discorsi indipendentemente dal loro contenuto sostanziale.
Entro certi limiti, la teoria aristotelica della scienza poggia sulla dottrina del sillogismo, di cui riprende la struttura deduttiva; oltre che della deduzione la scienza di Aristotele ha però bisogno anche di alcuni principi ultimi e indiscutibili; inoltre si serve di ipotesi e di definizioni. Il più importante di tali principi è quello di “non contraddizione”. Quanto alle ipotesi, sono i presupposti che si devono assumere perché un certo campo disciplinare possa sussistere. Le definizioni, invece, stabiliscono i significati dei termini usati in una certa scienza, identificando in particolare il “genere prossimo” e la “differenza specifica” dell’ente preso in esame.
La conoscenza delle premesse e dei principi necessari alla produzione del sapere non è innata: essi si acquisiscono mediante un processo di induzione connesso all’esperienza. Ed è sempre lavorando nell’esperienza che l’uomo coglie sia il genere prossimo e le differenze delle cose investigate, sia l’universale.
Carattere e finalità diverse possiede invece la conoscenza dialettica. Per quanto non abbia in Aristotele il ruolo che aveva in Platone, essa adempie ad alcune funzioni assai importanti:
 intuisce un certo ordine nel campo delle opinioni;
 esamina tutta una serie di problemi generali, eccedenti gli ambiti particolari nei quali è organizzata la scienza;
 stabilisce la verità di alcuni principi basilari attraverso la confutazione di quanti li negano;
 vaglia le dottrine e i principi comunemente accettati.
Il sapere naturale. La natura è il campo cui Aristotele ha dedicato la maggior parte del suo lavoro. La caratteristica essenziale dei corpi naturali è di avere un principio di mutamento, che può essere di quattro tipi: nascita/morte; alterazione; crescita/diminuzione; spostamento. L’analisi aristotelica mostra che alla base di ogni mutamento c’è sempre un divenire: un ente che non era una certa cosa la diviene. Gli elementi invarianti in tale processo sono tre:
 un soggetto, o sostrato, a cui accade il mutamento;
 la forma assunta al termine del mutamento;
 l’assenza o privazione della forma prima del mutamento.
Aristotele, inoltre, spiega e giustifica il mutamento con la teoria della “potenza” e dell’”atto”. La “potenza” è la predisposizione di qualcosa a ricevere una data “forma”; l’”atto” è la realizzazione compiuta di una forma in qualcosa che è, in potenza, tale forma. Va sottolineato che sostrato, privazione, forma, potenza ed atto designano non già enti concreti, ma solo funzioni invariabili che si applicano ai vari enti. Anzi, un certo ente che in un determinato mutamento funge da forma, in un altro mutamento può fungere da potenza.
Una volta individuati gli elementi invarianti nel mutamento, Aristotele ricerca le condizioni –le cause- che consentono il prodursi effettivo dei fenomeni. Tali cause sono di quattro tipi:
 la causa formale: ossia la forma, l’ordine interno dell’ente concepito nella sua compiutezza;
 la causa materiale: ossia la materia di cui è fatto l’ente;
 la causa finale: ossia l’approdo terminale del mutamento, che orienta finalisticamente l’intero mutamento;
 la causa efficiente: ossia ciò che, esternamente all’ente, realizza nella materia le condizioni a partire dalle quali si produce la forma dell’ente.
La teoria aristotelica delle cause, sa da un lato spiega il prodursi di ogni singolo ente o fenomeno, dall’altro non spiega l’insieme ordinato degli enti o fenomeni naturali. In Aristotele non c’è un nesso causale unitario operante internamente alla natura. Da questo punto di vista la natura di Aristotele è più una collezione che un sistema; i fini restano interni agli specifici e diversi processi naturali: non c’è quindi un finalismo di carattere generale. L’organizzazione stabile unitaria della natura viene affidata in gran parte ad una determinata cosmologia.
Relativamente indipendenti da tale cosmologia sono invece la scienza dei corpi viventi e la scienza dei movimenti. Per quanto riguarda la prima, Aristotele riprendere la teoria dei quattro elementi e afferma che questi, fondendosi, producono composti omogenei detti omeomeri. Questi ultimi ,paragonabili ai nostri tessuti, formano poi composti eterogenei detti aneomeri, cioè gli organi, che a loro volta si collegano in modo da costituire apparati e sistemi, dalla cui combinazione risulta l’organismo vivente. La struttura di questo viene spiegata da Aristotele facendo riferimento alla causa finale: ogni organo del vivente è fatto come è fatto al fine di svolgere la funzione richiesta dall’organismo di cui è parte. Per Aristotele, dunque, la funzione spiega l’organo; un principio che gli consente di istituire per primo indagini di anatomia comparata. Esse rivelano che i viventi sono sì provvisti di una grande varietà di organi, ma che questi possono assolvere ad una stessa funzione e quindi essere ridotti ad un numero finito di generi. Tali generi consentono, a loro volta, di graduare la varietà delle specie viventi in base al numero e alla finalità delle funzioni espletate. La vita animale è più complessa di quella vegetale, e la vita umana più complessa della vita animale. Si afferma così l’idea di una scala naturale della specie, accanto al fondamentale principio della fissità delle specie.
Per quanto riguarda la scienza dei movimenti, Aristotele concentra l’attenzione sullo spostamento o moto locale. Egli compie a questo proposito tre operazioni:
 divide i movimenti in semplici e composti e stabilisce due moti semplici: il rettilineo e il circolare;
 constata che il mondo riproduce questa divisione;
 attribuisce i moti semplici agli elementi, concependoli come moti loro propri per natura.
Tale operazione consente di spiegare l’intero assetto cosmologico in base ai moti dei suoi elementi e di considerarlo tanto naturale quanto lo sono questi.
Aristotele afferma che i quattro elementi formano, al di sotto dei cieli, quattro sfere concentriche costituenti i luoghi naturali degli elementi che, quando li raggiungono, vi restano fermi. Questa dottrina rappresenta il primo completamento della teoria aristotelica dei movimenti, cui segue una seconda integrazione: è bensì vero che esistono anche movimenti innaturali, ma essi sono dovuti ad una violenza esterna e quindi non pregiudicano la stabilità dell’assetto del mondo.
Indispensabile è poi il terzo ed ultimo completamento della teoria dei movimenti: poiché nessuno dei quattro elementi si muove circolarmente, i cieli devono essere costituiti da un quinto elemento (detto “etere”, poi “quintessenza”) che è completamente separato dagli altri e riempie lo spazio al di sopra della sfera sublunare.
La cosmologia. Aristotele concepisce l’universo come un insieme di 55 sfere concentriche contenute l’una nell’altra e materialmente imperniate l’una sull’altra. Per lui, inoltre, il mondo celeste è nettamente diviso dal mondo terrestre: il primo, costituito dal quinto elemento, è sottratto alla nascita, alla morte e a qualsiasi mutamento, è esente da ogni fattore di disordine ed è caratterizzato da un moto circolare sempre identico a se stesso; il mondo terrestre, invece, è costituito dai quattro elementi, che si trasformano l’uno nell’altro e si mescolano formando composti destinati a nascere e morire. È vero che anche in esso vi è un ordine stabile, ma i due mondi sono completamente separati, separazione che deriva dalla netta differenza intercorrente tra il quinto elemento, celeste, e i quattro elementi terrestri. Tale differenziazione, e con essa quella per cui ogni elemento ha un moto proprio qualitativamente irriducibile, faceva sì che nessuna fisica unitaria fosse possibile.
Tra i problemi concettuali affrontati da Aristotele nella “Fisica”, particolarmente importanti sono quelli dell’infinito, dello spazio e del tempo. L’infinito viene negato, sia perché esso renderebbe impossibile un insieme ordinato di luoghi naturali, sia perché è sì concepibile un infinito in potenza, ma non in atto (ogni corpo è potenzialmente divisibile all’infinito ma, per quanto si protragga la divisione, si ottiene in atto solo un composto di parti finite). Lo spazio viene concepito solo in relazione ai corpi, quindi viene trattato come luogo: il luogo occupato dai corpi, una sorta di vaso coincidente con il limite dei corpi stessi. Dove non vi sono corpi, non c’è spazio vuoto, ma il nulla. Il vuoto non esiste: se vi fosse, il movimento sarebbe inconcepibile, perché nel vuoto non è determinabile alcun ordine di luoghi, quindi cadrebbe la stessa nozione di moto naturale. Del tempo Aristotele elabora una concezione affine a quella dello spazio: come questo non esiste senza corpi, così il tempo non esiste senza movimento. Il tempo è una dimensione misurabile del movimento, organizzata secondo la relazione prima-poi.
Quanto alla durata del mondo, essa è infinita perché non è concepibile un movimento iniziale, che richiederebbe sempre un movimento precedente, né è concepibile un primitivo stato di disordine degli elementi. In conclusione si può affermare che il mondo di Aristotele, spazialmente finito e dotato di un interno assetto naturale, temporalmente infinito e autoriproducentesi, soddisfa pienamente l’esigenza di stabilità avanzata dal modello aristotelico di sapere. Tuttavia Aristotele dota questo suo mondo di un’ulteriore garanzia, di ordine teologico.
La metafisica. Il principale problema della metafisica è “che cos è l’essere?”; esso è riducibile, per Aristotele, alla domanda “che cos è la sostanza?”: in effetti la dottrina delle categorie aveva chiarito che l’esistenza di tutto quanto viene pensato e detto rinvia in ultima istanza ad un soggetto rientrante nella categoria della sostanza.
La risposta all’interrogativo sulla sostanza richiede il coglimento dei caratteri generalissimi che consentono formalmente l’esistenza. Per Aristotele questi caratteri sono due: perché qualcosa possa esistere, deve essere separabile, cioè essere distinguibile ed esistere in sé; deve essere qualcosa di particolare e determinato (“un questo”). Ebbene, non la forma, troppo astratta, né la materia, troppo indeterminata, ma la sintesi, o sinolo, di materia e forma negli individui concreti soddisfa questi due requisiti. Nel sinolo la necessaria concretezza della materia viene individualizzata dalla forma; ma se l’essere-sostanza è fatto di individui, come se ne può avere scienza, dato che la scienza è solo dell’universale? La risposta sta nel fatto che per Aristotele l’universale è nell’individuo come sua forma. Da questo punto di vista la forma, che a rigore non esiste separatamente dalla materia, ha una sorta di primato: è essa che determina la materia nel sinolo rendendola così oggetto di scienza. Anzi, Aristotele si spinge ad ammettere la pensabilità di una sostanza immateriale, cioè di una sostanza la cui indispensabile determinatezza non comporta materia. Tale sostanza è, per Aristotele, dio. Attraverso questa strada la metafisica aristotelica offre non solo una dottrina ontologica dell’essere-sostanza come sinolo di materia e forma, ma anche una dottrina teologica dell’essere-sostanza divino.
In realtà la teologia aristotelica non si configura solo come una riflessione su dio in sé e per sé: essa risponde anche ai problemi ed esigenze di carattere filosofico-cosmologico: dio viene concepito come “primo motore immobile”. Tale realtà è resa necessaria dal duplice fatto che ogni movimento è generato da una causa esterna generata a sua volta da una causa precedente e che tale concatenazione casuale non può essere infinita. Si deve pertanto ammettere che all’origine della sequenza di movimenti vi sia un motore che muove senza essere a sua volta mosso. Anche relativamente alla sequenza di potenza ed atto che caratterizza la realtà ci deve essere un punto terminale, costituito nuovamente da dio. Da questo punto di vista dio viene pensato come già in atto, sempre atto, esclusivamente atto. Infine, relativamente al rapporto forma-materia, dio viene concepito come pura forma. Per giustificare la circostanza che dio muove senza muoversi, Aristotele afferma che esso muove come un amato, ossia come l’oggetto dell’amore muove chi ama.
Da un lato, la concezione aristotelica del divino poggia non su una rivelazione ma su un ragionamento ed una dimostrazione; da un altro lato, essa appare non solo “naturalmente” condivisa dagli uomini, ma anche in grado di fondare e rafforzare una ben precisa interpretazione della realtà naturale. Ben lungi dall’accreditare una visione in qualche modo provvidenzialistica del divino, Aristotele sottolinea che dio è pura contemplazione di sé, puro pensiero di pensiero.
La concezione dell’anima. In termini generali Aristotele parla dell’anima non tanto come qualcosa proprio dell’uomo, quanto come ciò che è comune al vivente in quanto tale e che lo differenzia dal non vivente. Sotto questo profilo l’anima è il principio interno delle funzioni proprie dei corpi viventi. Essa viene definita da Aristotele come “atto primo di un corpo naturale avente la vita in potenza”; questa definizione, oltre a riferirsi al rapporto potenza-atto necessario in ogni ente naturale, suggerisce l’organico nesso esistente tra l’anima stessa e il corpo. A differenza di molti filosofi, Aristotele concepisce l’anima come indisgiungibile dal corpo, secondo una prospettiva monastica. Ne consegue che l’anima è mortale, giacché non può sussistere indipendentemente dal corpo, che è mortale.
Questa mortalità vale per i tre tipi di anima che Aristotele individua partendo dall’analisi dei tipi di funzioni accertabili nei corpi viventi: la funzione vegetativo-riproduttiva, la funzione sensitivo-motoria e la funzione intellettiva. L’anima vegetativa è propria delle piante, l’anima sensitiva è propria degli animali, l’anima intellettiva è propria degli uomini.
Esaminando l’anima intellettiva umana, Aristotele dà particolarmente rilievo alle sue funzioni cognitive.
La prima è la sensazione: questa appare organizzata intorno a due poli: l’organo di senso e l’oggetto percepito. In presenza di quest’ultimo, il primo coglie tra le varie forme percepibili quelle che gli sono proprie. L’organo di senso è in potenza l’insieme delle forme percepibili sue proprie e diviene in atto tale insieme quando è in presenza dell’oggetto percepito. Detto organo è passivo e infallibile.
Approfondendo il suo esame dell’esperienza percettiva, Aristotele è indotto ad ammettere tre ulteriori capacità del soggetto percipiente:
 la capacità di cogliere forme percepibili da tutti i diversi sensi;
 la capacità di collegare tra loro le forme percepibili proprie e di riferirle ad un unico corpo;
 la capacità di sentir di sentire.
Per giustificare l’esistenza di tali capacità, Aristotele introduce nell’anima un “senso comune” in grado di svolgere le funzioni sopra indicate.
La seconda facoltà esaminata da Aristotele è quella intellettuale: anche a questo livello si danno due poli, un intelletto passivo (tabula rasa) e ciò che viene offerto ad esso dall’esperienza sensibile. E anche in questo caso il processo psicologico consiste nel coglimento, o meglio nell’assimilazione dell’organo (che ora è intelletto passivo) a una forma, più esattamente a una “forma intelligibile” (equivalente all’essenza della cosa esperita). Le difficoltà riguardanti tale processo sono tre:
 l’intelletto non ha (a differenza della sensazione) un proprio strumento corporeo;
 la necessità di un “intelletto produttivo” o “attivo” che consenta all’intelletto passivo di fare passare la sua conoscenza dalla potenza all’atto.
Tale intelletto attivo è concepito da Aristotele sempre in atto (ossia sempre pensante), indipendentemente dall’esperienza sensibile, e soprattutto separato, immortale ed eterno.
L’etica. L’etica aristotelica verte sui modi di comportamento umani. Per Aristotele tutte le azioni sono orientate verso vari fini, che vanno esaminati ed ordinati. Prima, occorre però respingere la credenza platonica nell’esistenza di un fine (il bene) non solo unitario, ma anche separato e trascendente: proprio questi suoi caratteri lo rendono astratto e inutilizzabile. A tale concezione Aristotele oppone una visione terrena e plurale dei fini umani, connessa all’effettiva natura dell’uomo e del suo agire. In linea di principio il fine generale dell’essere umano è la felicità consistente anzitutto nel buon realizzarsi di ciò cui si mira, poi nel godere in modo non effimero di tutta una serie di cose o stati.
Ma l’etica intende cogliere non solo e non tanto i fini e i modi dell’agire dell’uomo quanto quelli dell’uomo buono. Tali fini e modi sono caratterizzati dalla virtù, che per Aristotele non è tanto un determinato valore (il bene o altro) quanto una disposizione, possedendo la quale noi ci orientiamo verso ciò che è proprio di un uomo buono fare. Approfondendo l’esame della virtù, Aristotele la articola nelle virtù etiche e nelle virtù dianoetiche. Le virtù etiche sono connesse in modo immediato col carattere e la condotta pratica dell’individuo. Su un piano generale orientano quest’ultimo ad adottare nelle diverse circostanze di vita un comportamento mediano, finalizzato al perseguimento del cosiddetto “giusto mezzo”. Su un piano particolare esse si realizzano in capacità assai diversificate, così come diverse e molteplici sono le situazioni in cui l’uomo si trova ad operare. Le capacità etiche non sono innate, ma si acquisiscono compiendo atti virtuosi. L’apprendimento e la pratica di tali atti rafforza le relative disposizioni etiche rendendole stabili e costanti.
Essendo per sé sprovviste di ragione, le virtù etiche non sono però sempre in grado di valutare quale sia il “giusto mezzo” nelle varie situazioni. Per questo Aristotele introduce le virtù dianoetiche. La principale di esse è la “saggezza”, consistente nella disposizione a compiere bene le valutazioni razionali di cui l’uomo ha bisogno per poi realizzare le proprie virtù etiche. Queste ultime risultano necessarie in quanto il retto comportamento umano appartiene in larga misura non alla teoria ma alla pratica.
È anche da questo punto di vista che Aristotele critica l’intellettualismo etico di Socrate, in quanto privilegia unilateralmente il momento conoscitivo nell’agire morale. Sotto un diverso profilo l’etica socratica è poi respinta perché tende a distruggere l’autonomia di tale agire. In effetti il principio secondo cui “nessuno compie il male volontariamente” implica che l’azione della volontà dipende dalla sola conoscenza.
Per Aristotele, invece, il comportamento etico non è determinato dal puro conoscere o ignorare certi principi; in esso uno spazio centrale è occupato al contrario proprio dalla volontà, concepita come qualcosa di affine al desiderio e suscettibile di essere esercitata ed educata. Quando un individuo compie non costretto una certa azione egli vuole effettivamente quello che fa: la bontà o la malvagità del suo agire sono imputabili non al suo possedere o meno una certa conoscenza, ma al suo responsabile e autonomo volere quell’azione.
A fianco dell’agire pratico dell’essere umano Aristotele pone anche un agire teorico. In esso si dispiega pienamente l’opera dell’intelletto sotto forma di conoscenza scientifica e di contemplazione pura. Quest’ultima è legata alla virtù dianoetico della “sapienza”. Per certi versi essa è inferiore alla saggezza perché non è in grado di produrre scelte e mutamenti pratici nell’uomo. Per altri versi, invece, la sapienza, la vita contemplativa vengono da Aristotele nettamente privilegiate. Esse realizzano l’essenza più alta e più propria dell’uomo, ossia l’esercizio del pensiero. Inoltre, rendono l’uomo simile a dio; infine essi fanno dell’essere umano un soggetto autosufficiente, al punto che il filosofo, bastando a se stesso, può vivere tendenzialmente in modo isolato.
La politica. Uno dei principi chiave della riflessione politica di Aristotele è che “l’uomo è per natura un animale politico”. Ciò non significa ch’egli venga equiparato a un qualsiasi animale socievole, ma che il vivere in società gli è connaturale . D’altra parte Aristotele realizza un approccio naturalistico anche alla società e alla comunità politica. La struttura primaria naturale della società è a suo giudizio la famiglia, concepita sia come il luogo della riproduzione biologica, sia come un’unità economica che svolge attività produttive per il sostentamento dei suoi membri. La famiglia si regge su tre rapporti di potere, che sono altrettanto naturali della famiglia stessa: il potere del marito sulla moglie, del padre sul figlio, del padrone sullo schiavo.
Quanto alla famiglia come unità economica, Aristotele sottolinea l’importanza dello scambio, fino a dedicargli un’arte specifica, la crematistica.
La riunione di più famiglie dà luogo a un villaggio e quella di più villaggi ad una comunità politica, che ha il fine di rendere possibile ai suoi membri una vita virtuosa e felice. Ciò avviene mediante una particolare costituzione, di cui vengono distinte tre forme: monarchia, aristocrazia e la politeia (governo di molti). Le tre forme di governo possono essere esercitate o nell’interesse dell’insieme della città, o in quello della parte che governa; in quest’ultimo caso si hanno tre forme degenerative: la tirannide, l’oligarchia e la democrazia.
La poetica. Aristotele muove dalla definizione platonica dell’arte come imitazione, ma dandone un’interpretazione profondamente diversa. Mentre infatti per Platone l’imitazione tratteneva lontano dalla realtà e quindi non aveva valore conoscitivo, per Aristotele l’oggetto imitato ha pieno titolo di realtà e l’imitazione produce conoscenza di ciò che imita. L’arte anzi ha un valore conoscitivo superiore a quello della storia: questa si limita a raccontare le vicende realmente accadute ma accidentali, l’arte invece mostra l’agire umano sotto il profilo universale. Né essa ha solo questa validità conoscitiva: ha anche un’efficacia psicologica e morale sul suo destinatario, paragonabile a quella terapeutica della medicina.
Nell’anima, infatti ci sono passioni che potrebbero essere negative e che l’arte può, rappresentandole, purificare (la “catarsi”).
La retorica. La retorica aristotelica è affine alla dialettica: il suo carattere peculiare è di produrre discorsi persuasivi, tendenti ad ottenere il consenso o l’adesione ad una tesi o ad una scelta pratica.
L’oratore dovrà parlare in modo da essere credibile; gli uditori hanno disposizioni passionali proprie, richiedenti a chi si rivolge ad essi di impostare diversamente il proprio discorso in rapporto alle loro differenti passioni.
Quanto al discorso persuasivo, i suoi principali procedimenti sono l’esempio e l’entitema, un sillogismo di cui non viene esplicitata la struttura logica.
IL LICEO DOPO ARISTOTELE
Dopo la morte di Aristotele, nel Liceo l’impegno filosofico andò diminuendo e prevalse invece l’indagine naturalistica. Teofrasto (scolarca dal 322 al 287) espresse forti dubbi sulla teologia dei motori immobili e assegnò la funzione divina direttamente alla natura. Cercò inoltre di realizzare un approccio naturalistico anche ai fenomeni psicologici. Tale approccio venne ripreso e accentuato dal suo successore Stratone, scolarca dal 287 al 270, il quale considerò il mondo come interamente spiegabile sulla base delle interazioni degli elementi. Insieme con Demetrio Falereo, Stratone fondò una nuova grande istituzione scientifica, il Museo di Alessandria, che accelerò la decadenza del Liceo.

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