biografia sul Leopardi

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Testo

LEOPARDI

In una lettera del marzo 1829 a Pietro Colletta, Giacomo Leopardi confida il proposito di scrivere una autobiografia che descrivesse però solo “poche avventure estrinseche, e queste... delle più ordinarie” e si applicasse invece a rivelare minutamente “le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte”. Questa autobiografia -di cui scrisse solo una breve introduzione-, sarebbe dovuta essere, insomma, la “Storia di un’anima”. Quindi il Leopardi stesso intuì per primo la scarsa rilevanza che ebbero su di lui i fatti esterni della vita familiare e sociale, anche se indubbiamente questi non poterono non condizionare in qualche modo, almeno negli anni della adolescenza e della prima giovinezza, la sua formazione intellettuale e morale. La verità, comunque, è che il Leopardi visse nella solitudine della propria coscienza straordinarie avventure del pensiero e del sentimento e che per lui solo queste assu­mono il rilievo di dati biografici.
E' chiaro, quindi, che la più autentica biografia del Leopardi vada ricercata non sui dati storici della sua esistenza, ma su quelli psicologici; non negli avvenimenti esterni, ma nelle sensazioni intime, nei palpiti segreti. A tal fine molto varrebbero le note sparse dello Zibaldone, soprattutto quelle raccolte, negli indici fatti dallo stesso Poeta, sotto il titolo di “Memorie della mia vita”. Ma più ancora sarebbe utile riconoscere come fonte per una sua biografia tutta intera la sua produzione artistica.
Non ci sembra però questo il luogo per attingere a tali fonti e riteniamo opportuno rimandare il discorso sulla “storia dell'anima leopardiana” al momento in cui ci occuperemo delle opere del grande recanatese. In questa sede ci limiteremo a dare i dati esterni della sua vita.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Il padre, conservatore e sostenitore del potere temporale dei papi, fu uomo di una certa cultura e possedeva una ricchissima biblioteca, ancora oggi oggetto di grande ammirazione. La madre, fredda e autoritaria, dedicò tutta se stessa all’amministrazione del patrimonio familiare, abbastanza dissestato dalle errate speculazioni compiute dal marito, e poco si curò dell'educazione dei figli (Giacomo, Carlo, Paolina, ecc.), ai quali fece mancare del tutto il calore dell’affetto materno.
Ben presto Giacomo si rivelò un “bambino prodigio”, tanto che a poco più di dieci anni avvertì di poter fare a meno dei maestri e di poter continuare da solo i suoi studi nella biblioteca paterna. A soli dodici anni era già in grado di scrivere correntemente in latino e dal latino tradusse i primi due libri delle Odi di Orazio. Compose pure due tragedie: “La virtù indiana” e “Pompeo in Egitto”. A quindici anni iniziò una dotta “Storia dell'astronomia” e compose un “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”. In questi anni di “studio matto e disperatissimo” non solo scrisse molto su vari argomenti, ma riuscì pure a perfezionare la sua conoscenza delle lingue classiche e ad apprendere la lingua ebraica ed alcune lingue moderne. Questo pressoché costante appartarsi nella biblioteca paterna gli alienò il mondo esterno, che egli avvertì poi quasi sempre come ostile e inadatto a comprendere la sua persona; ma gli minò pure gravemente la salute fisica che gli fu causa di non poche sofferenze.
Nel 1817 provò la prima delusione amorosa, essendosi invaghito, senza speranza, della cugina Geltrude Cassi Lazzeri, ospite in casa Leopardi insieme col marito ed una figlioletta. Altre delusioni del genere seguirono a questa (pare fosse innamorato di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa, forse la Silvia del canto “A Silvia”, e di Maria Belardinelli, forse la Nerina delle “Ricordanze”), anche se, come osservò il fratello Carlo, gli amori di Silvia e di Nerina furono più immaginati come motivi di tristezza che realmente sentiti. In effetti Giacomo non ebbe mai interessi profondi per una donna in particolare ed egli stesso ebbe a dire: «In ordine alle donne...ho già perduto due virtù teologali, la fede e la speranza. Resta l'amore, cioè la terza virtù della quale peranco non mi posso spogliare, con tutto che non creda né speri più niente».
In questi anni avvertì maggiormente gli angusti limiti del suo “borgo selvaggio” e, dopo aver anche meditato il suicidio, tentò la fuga da casa. Il progetto fu però sventato dal padre e solo tre anni dopo, nel 1822, egli ottenne il permesso di recarsi a Roma presso lo zio materno Carlo Antici. La permanenza a Roma fu oltremodo deludente perché la città eterna non lo attirò con le sue magnificenze architettoniche e monumentali e la vita intellettuale gli apparve spenta d’ogni fervore. Gli furono di conforto l’amicizia col cardinale Angelo Mai (per il quale due anni prima aveva scritto una canzone) e le conversazioni tenute con alcuni dotti stranieri, ma solo sei mesi dopo decise di ritornare a Recanati, ove restò fino al luglio del 1825, quando ebbe l'invito di recarsi a Milano per curare l'edizione delle opere di Cicerone per conto dell’editore Antonio Fortunato Stella. Ben presto, a causa del clima non idoneo alla sua malferma salute, abbandonò la città lombarda e visse alcuni anni fra Bologna, Recanati, Firenze (ove conobbe il Manzoni, il Niccolini, il Capponi, il Colletta ed il Tommaseo) e Pisa. Dal 1830 al 1833 si stabilì a Firenze nella casa dell’esule napoletano Antonio Ranieri, che seguì poi a Napoli.
In Napoli, in casa del Ranieri, il Leopardi concluse la sua vita terrena all'età di soli 39 anni. Morì infatti di asma e idropisia il 14 giugno 1837. Fu sepolto nella Chiesa di S. Vitale, ma dal 1938 le sua ossa riposano in Piedigrotta, presso la tomba di Virgilio.
Fra le prime manifestazioni del carattere del Leopardi, forse la più radicata nel suo temperamento, risalta un certo sentimento di superiorità che non riuscì mai a controllare, neppure negli anni della piena maturità, e che fu causa non secondaria della sua infelicità, condizionando assai negativamente la sua vita di relazione col prossimo. Fin da fanciullo, quando organizzava giochi da svolgere con i fratelli e per lo più impostati nella rappresentazione scenica di avvenimenti storici antichi, egli non solo riservava sempre a se stesso la parte dell'eroe, ma si prodigava ad esasperare la viltà o la imbecillaggine degli altri personaggi impersonati dai fratelli. Egli stesso, da adulto, ricordando quei giochi, osservò in una nota dello Zibaldone: «Piacere, entusiasmo ed emulazione mi cagionavano nella prima gioventù i giochi e gli spassi ch'io pigliava co' miei fratelli, dov'entrasse uso e paragone di forze corporali. Quella specie di piccola gloria ecclissava per qualche tempo a' miei occhi quella di cui io andava continuamente e sì cupidamente in cerca co' miei abituali studi ».
Uno smodato desiderio di gloria fu, dunque, l'altra dominante caratteristica della personalità del Leopardi, che non riuscì mai a sottrarsi a quest'altro motivo di infelicità pur riconoscendone la pericolosità, tanto da definirlo, in una lettera al Giordani del 21 marzo 1817, “smodato ed insolente”.
Il sentimento di superiorità e il desiderio di gloria furono le molle più evidenti e più significative e determinanti di tutta la sua attività intellettuale, rappresentarono la forza vitale di tutta la sua intensa laboriosità, impressero vigore alle sue meditazioni. Lo resero però anche insofferente della quotidiana consuetudine col genere umano, gli fecero sentire il paese natio come un carcere tetro ed insopportabile, gli mostrarono inadeguata finanche la vita, pur varia e dinamica, che si svolgeva a Roma: lo condannarono, cioè, ad un sostanziale isolamento, che fu una condizione spirituale pressoché costante della sua esistenza, solo superficialmente e temporaneamente modificata dai rapporti col Ranieri e dalle conversazioni che lo impegnarono alcun tempo, a Bologna nel 1826, con una nobile e colta signora fiorentina, Rosa Carniani Malvezzi.
Sembra quasi che il Leopardi abbia speso ogni cura possibile per inibire a se stesso ogni gioia, ogni felicità. Infatti le caratteristiche salienti della sua personalità furono in gran parte volute, coltivate, esasperate dal Poeta stesso nonostante la consapevolezza che gli arrecassero fastidio e dolore. Certo furono anche aggravate dalle infermità fisiche, anch’esse per altro prodotte da una condotta di vita antigienica spontaneamente abbracciata (si ricordino i sette anni di “studio matto e disperatissimo”), ma mai il Poeta tentò con un atto di volontà non dico di reprimerle, ma almeno di contenerle entro limiti più sopportabili.
L’incapacità di comunicare col prossimo più immediato -voglio dire l’incapacità che ebbe di avere conversazioni di tono corrente con gli uomini comuni, che pure rappresentano una notevole fonte di scambio di esperienze e di reciproco conforto, e non già l'incapacità a discorrere delle cose degli uomini con gli uomini nel profondo della sua solitudine e dall'alto della sua arte -, se determinò la sua tendenza ad isolarsi, gli procurò pure l'ostilità degli altri che mal sopportavano il compiaciuto senso di superiorità che egli mostrava nei loro confronti. Sicché appare naturale che la sua vita si improntasse quanto meno ad uno stato permanente di insofferenza in cui fosse frequente l'insorgere di quella “ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia” di cui parla nella lettera al Giordani del 30 aprile 1817.
Questo fu lo stato psicologico in cui si svolse tutta la “storia della sua anima”, che ebbe sostanzialmente un solo protagonista, il Poeta stesso, e qualche “comparsa” in quei pochissimi amici che reputava degni delle sue confidenze e confessioni, come quel Giordani al quale sentiva di poter partecipare le avventure più esemplari della mente e del cuore, o il fratello Carlo col quale si sfogava per ottenere un minimo di conforto alle sue pene. Il grosso dell’umanità sembra tagliato fuori dalla sua “storia” e sono in molti a ritenere che il Leopardi si sia finalmente affacciato alla finestra che dà sul mondo ed abbia finalmente considerato anche la vicenda degli “altri” solo in uno dei suoi ultimi canti, “La ginestra”. Ma il cuore non ci dice di sottoscrivere una tale affermazione. E' vero che il Leopardi nutrì sempre una certa avversione a discorrere con gli uomini comuni; è vero che in più occasioni espresse giudizi molto severi sul comportamento loro (“Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi”, ove è chiaro che “il mondo” sta per la quasi totalità degli uomini contro i pochi dabbene e generosi, i quali per di più sono anche odiatissimi perché “ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi nomi loro. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.”); è vero che, sempre considerando gli uomini, definì Recanati un “borgo selvaggio”, Napoli un “paese semibarbaro e semiafricano” e dei Romani disse che “il più stolido Recanatese avesse una maggior dose di buonsenso che il più savio e più grave Romano”: con tutto ciò come si può dire che avesse in odio o, quanto meno, in dispetto il genere umano un poeta che soffrì tanto per l’infelicità degli uomini, un poeta che amò tanto le cose belle della vita e che in più luoghi compianse se stesso e tutto il genere umano per non avere la disposizione a godere di quelle cose belle, un poeta che, come scrisse il De Sanctis, «non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare; chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto»? Come si può dire che non ami l'umanità chi nell'umanità sa accendere tante scintille di nobili speranze nonostante si senta personalmente del tutto escluso da siffatte speranze?
Tra il 1816 ed il 1819 il Leopardi vive il periodo più difficile della sua esistenza che lo indurrà finanche a concepire propositi di suicidio: i rapporti con i familiari si sono di gran lunga inacerbiti, dai concittadini si tiene alla larga, ma quello che maggiormente l’affligge, fra i tanti mali fisici e la consapevolezza di avere un corpo deforme, di avere cioè “dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino i più”, è una temporanea ma gravissima infermità agli occhi che gli impedisce di ingannare con gli studi il senso di solitudine che l’opprime. In questi anni il suo dolore raggiunge la punta estrema, come testimonia questo accorato lamento rivolto al solito pietoso amico, al Giordani, in una lettera del 26 aprile 1819: «Se in questo momento impazzissi -scrive il Leopardi-, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre con gli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere né movermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perché io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo, e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando che è un niente anche la mia disperazione».
Le tre conversioni
Questi tre anni sono decisivi non solo perché consolidano e rendono definitiva nel giovane poeta la concezione che la vita è dolore e noia, ma anche perché gli fanno maturare quegli orientamenti di pensiero e di sentimento che lo porteranno a tre specifiche “conversioni”: una di natura letteraria per la quale abbandona gli studi filologici per dedicarsi alla letteratura ed alla poesia; una di natura politica per la quale ripudia le idee conservatrici e reazionarie ed abbraccia le idee patriottiche dei liberali (la cui più nobile testimonianza è nei canti “All'Italia” e “Sopra il monumento di Dante”, entrambe del 1818); la terza di natura filosofico-religiosa per la quale rinnega la primitiva fede religiosa e fa propri l'ateismo e la concezione meccanicistica degli illuministi.
Il Leopardi si determinò quindi ben presto all’idea, divenuta col tempo incrollabile, che la vita è dolore e che, specie per l’uomo, meglio sarebbe il non venir mai al mondo.
La pagina più spietata in cui questo convincimento è spiegato in termini esasperati e forse paradossali, ci sembra essere la seguente nota dello “Zibaldone” datata da Bologna, 17-19 aprile 1826:
«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esiste è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere: non v'ha altro di buono che quel che non è, le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive...
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento... Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta...
Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorevole che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.»
Il pessimismo
A questa drastica definizione del “male di vivere”, da cui discende ovviamente il concetto che la felicità non esiste se non nella vana speranza che sempre gli uomini nutrono per il loro avvenire, il Leopardi pervenne attraverso tre fasi che gli studiosi sogliono definire del dolore personale, del dolore storico e del dolore cosmico.
La prima è rappresentata soprattutto dai cosiddetti piccoli idilli (“L'infinito”, “La sera del dì di festa”, “Alla luna”, “Il sogno”, “La vita solitaria”), composti tra il 1819 ed il 1821, e dal famosissimo “Il passero solitario”, che, pur essendo stato composto nel 1829 ed essendo comunemente inserito fra i “grandi idilli”, fu in effetti concepito tra il 1819 ed il 1821 e collocato dal poeta stesso insieme con i piccoli idilli: qui il Leopardi canta il proprio dolore e l'ineluttabilità della propria infelicità («...io questo ciel, che sì benigno / appare in vista, a salutar m'affaccio, / e l'antica natura onnipossente, / che mi fece all'affanno. -A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d'altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.-»), ma non esclude, anzi lo afferma, che gli altri possano essere felici (« Tutta vestita a festa / la gioventù del loco / lascia le case, e per le vie si spande; / e mira ed è mirata, e in cor s'allegra. »).
La seconda fase è rappresentata dalle :
Operette morali” del 1824 nelle quali il Leopardi svolge una ironica ma accesa requisitoria contro il Progresso, che invece di favorire l'uomo offrendogli i mezzi di un maggior benessere, lo ha sostanzialmente allontanato dallo stato beato della primitiva ignoranza, durante il quale egli “sentiva senza avvertire” e fantasticava a suo piacimento finché la Ragione non gli svelò il triste vero della sua fatale infelicità; contro la Filosofia, che si affanna a convincere l'uomo di essere una creatura privilegiata mentre invece è la più infelice di tutte proprio perché è in grado di comprendere il suo malessere ed è fortemente desiderosa di piaceri di cui non potrà mai godere; contro la Natura che crea incessantemente nuovi individui per poi distruggerli non senza averli prima tormentati («So bene - così uno sperduto islandese apostrofa la Natura - che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, con le tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.» e la Natura così risponde: «Tu mostri di non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale, sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento»; ma a quest'altra obiezione dell'islandese la Natura non dà - perché non vuole o, forse, non sa dare - alcuna risposta: «Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima, dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?»).
La terza fase, quella del dolore cosmico, già abbozzata nelle Operette, si sviluppa nei grandi idilli
A Silvia”, “Le ricordanze”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”), composti tra il 1828 ed il 1830: tutte le creature dell'universo soffrono perché coinvolte nel processo di trasformazione che la Natura è costretta ad operare per garantirsi un'esistenza perenne, ma l'uomo soffre maggiormente per tre motivi precisi: perché è dotato di sensibilità per cui avverte scientemente il proprio dolore; perché ha un irrefrenabile desiderio di felicità che non esiste; infine perché solo all'uomo tocca di raggiungere la punta estrema dell'infelicità, che consiste nella “noia” (“taedium vitae”), cioè nell’assenza totale di ogni sensazione sia di bene che di male: il pastore errante dell'Asia dice alla sua “greggia”:
Quando tu siedi
all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?-
La concezione della Natura
A questo punto della sua riflessione è chiaro che la Natura, che pure un tempo gli era apparsa benigna, in quanto aveva fornito l'uomo della fantasia e, quindi, della capacità di eludere la conoscenza della triste realtà creandosi miti e illusioni a proprio piacimento (ed era stata colpa dell’uomo e della sua stolta sete di conoscenza se la Ragione aveva poi squarciato il velo che nascondeva la verità), e poi indifferente verso i problemi dell'uomo, destinato anch'esso, come tutte le altre creature, all'incessante processo di “creazione e distruzione” che è indispensabile alla conservazione dell'universo, ora gli appaia matrigna nei confronti dell'uomo nel quale ha instillato il desiderio di felicità, pur sapendolo destinato all'infelicità, ed al quale ha dato un'acuta sensibilità ad avvertire il dolore, pur potendolo creare insensibile.
Questa avversione verso la Natura, questa ostilità ossessivamente sentita nei suoi confronti, egli ribadì anche nel suo estremo messaggio agli uomini, nel suo testamento morale, cioè ne “
La ginestra”, in cui esorta gli uomini ad accettare virilmente il proprio stato di infelicità e ad unirsi per contrastare fieramente la comune nemica, benché la lotta sia impari e la vittoria impossibile:
Nobile natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli oddi e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aìta
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
Filosofia - Religione - Morale
Naturalmente una così ostinata avversione contro la Natura e, praticamente, contro la vita dell'universo non reggerebbe se non inquadrata in una visione di radicale ateismo. Lo stesso Leopardi, in un'epoca in cui forse era ancora in qualche modo credente (1818?), aveva avvertito: «Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo senza una vita futura».
Ed ancora qualche tempo dopo, quando aveva già rinnegata la fede cattolica ed aveva abbracciato l'ateismo illuministico, egli ribadiva la necessità di un credo religioso, se non altro per motivi morali: «La filosofia indipendente dalla religione - scrive in una notazione dello “Zibaldone” datata 16 giugno 1920 -, in sostanza non è altro che la dottrina della scelleraggine ragionata; e dico questo non parlando cristianamente, e come l'hanno detto tutti gli apologisti della religione, ma moralmente. Perché tutto il bello e il buono di questo mondo essendo pure illusioni, e la virtù, la giustizia, la magnanimità ecc. essendo puri fantasmi e sostanze immaginarie, quella scienza che viene a scoprire tutte queste verità che la natura aveva nascosto sotto un profondissimo arcano, se non sostituisce in loro luogo le rivelate, per necessità viene a concludere che il vero partito in questo mondo, è l'essere un perfetto egoista e il fare sempre quello che ci torna in maggior comodo e piacere». Ma, nonostante queste premesse, egli rinnegò ogni valore positivo prima attribuito alle religioni, in quanto queste promettono una felicità ultraterrena, mentre l'umanità aspira ad una felicità terrena, “da essere sperimentata dai sensi e da questo nostro animo tal quale egli è presentemente”. Il cristianesimo in particolare gli pare “più atto ad atterrire che a consolare o a rallegrare”.
La condizione dell’uomo si profila, così, disperata e dovrebbe logicamente convincere che il miglior partito sarebbe proprio il suicidio.
D’altra parte, una tentazione del genere il Leopardi la aveva avuta realmente da giovane. Sul piano della pura razionalità, il Leopardi accetta codesta conclusione, ma la respinge energicamente con la forza del sentimento. Infatti, nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio”, che è del 1827, il Leopardi non può non convenire sulla giustezza delle argomentazioni di Porfirio in favore del suicidio, ma finisce con l’accettare le ragioni del sentimento enunciate da Plotino.
Ecco uno squarcio del Dialogo da cui si comprende la posizione di entrambi i protagonisti:
«Porfirio: La natura vieta l'uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella la volontà o potere di farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato meno odio dell'infelicità, e amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore o odio; e che non si sfugge la morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio, e odio del male e del danno nostro. Come dunque può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel sol modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi dal mondo; perché mentre son vivo io non la posso schifare [= schivare]. E come sarà vero che la natura mi vieti di appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala, poiché non mi può valere ad altro che a patire, e a questo per necessità mi vale e mi conduce in fatto?
...........................................................................................................
Plotino: Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo.
E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone famigliari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno in questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene che non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non esser atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri: non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che questa azione di privarsi di vita apparisce il più schietto, il più sordido, e certo il men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo...
Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte, che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.»
Le illusioni
In effetti il Leopardi amava la vita e questo suo amore noi non dobbiamo mai trascurare di considerare se veramente ci preme di penetrare nella sua poesia e se vogliamo spiegarci quei quadretti di vita così luminosi e gioiosamente rivestiti dei più splendidi colori a dispetto dell'amara conclusione che la vita è male. Tutto questo verificheremo a proposito dei “Canti”. Per ora ci basti ricordare che anche il Leopardi, come già il Foscolo, suggerisce di crearsi delle “illusioni”, cari compagni dell'esistenza, non tanto per dare un senso e un valore alla vita, ma per trarne conforto nell'affrontare i mali che essa ci presenta. Purtroppo al Leopardi le illusioni non furono di alcun sollievo perché tutte le distrusse sotto i colpi della fiera ragione, ma nondimeno nessun altro poeta le dipinse così affascinanti e lusingatrici come seppe dipingerle lui.
Il Leopardi fu un filosofo?
A questo punto viene spontanea una domanda: il Leopardi fu anche un filosofo? Egli stesso, alludendo alle sue teorie sull'uomo, sulla natura, sulla storia, definisce in più occasioni il complesso delle sue idee un “sistema di pensiero”, volendo con ciò dire di sentirsi filosofo. D'altra parte la sua consuetudine con i testi filosofici non fu né sporadica né superficiale; e per quanto egli affermi di aver tratto molti insegnamenti soprattutto dalla filosofia classica, è fuor di dubbio che conobbe assai bene le opere del Montesquieu, del Voltaire, del Rousseau e di tanti altri filosofi francesi contemporanei, senza escludere i tedeschi, per i quali è anzi da notare una sorprendente analogia fra il pessimismo del Leopardi e quello del coetaneo Schopenhauer (1788-1860).
Non sono mancati studiosi di valore che hanno assecondato il desiderio del Leopardi di volersi considerare anche un filosofo, come per esempio l'Agnoli, quando afferma: “Certo al Leopardi è mancata la severa preparazione, l’ordinamento sistematico, il rigore di metodo, il magnifico paludamento dialettico che si ammirano nelle opere filosofiche dei due scrittori tedeschi [Hartmann e Schopenhauer], ma non crediamo per questo che gli si possa negare la facoltà di analisi; certo però questa si palesa intera e sicura specialmente quand’egli applica l'osservazione al mondo interiore. Nel Leopardi lottarono due facoltà ugualmente possenti: la ragione e il sentimento. Le sue incertezze, le sue esitazioni sono d'origine psicologica. Tanto è vero che, superato il dissidio interno, vinto il sentimento dalla ragione, la filosofia leopardiana corre filata alle naturali sue conclusioni, e il Leopardi si mostra un ragionatore diritto, poderoso e indipendente, almeno nelle conclusioni”.
Noi siamo invece del parere che proprio la mancanza o la fragilità di un “ordinamento sistematico” e di un “rigore di metodo”, lamentata dallo stesso Agnoli e condivisa dai più, sia di per sé sufficiente a negare al Leopardi il titolo di filosofo. Per noi non è vero che nel Leopardi la ragione e il sentimento furono “due facoltà ugualmente possenti” e riteniamo invece che il sentimento sovrastò enormemente la ragione ed anzi fu la causa primaria della fiacchezza di questa. E' difficile non rilevare, anche nei dialoghi delle “
Operette Morali”, che il ragionamento seguito dall’Autore, per quanto serrato e rigoroso, non poggi su assiomi che abbiano dignità filosofica e si risolva invece in una quasi lirica rappresentazione del sentimento del dolore. Il sentimento prevale sempre sulla ragione e detta le conclusioni, come nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio” da noi già citato. Ciò può dipendere o dalla straordinaria potenza del sentimento o dalla debolezza della ragione. Certo è che, se pure questa avesse avuto la forza di filosofare, il sentimento gliel'ha impedito. E non è mai capitato l'inverso, che cioè fosse la ragione a conculcare il sentimento, com'è facilmente dimostrabile considerando i “Canti” leopardiani, in cui lo sfogo lirico prorompe sicuro, travolgendo nettamente i tentativi della ragione di incunearsi con le sue riflessioni.
Per noi il Leopardi fu solamente un grande poeta. D’altronde la consistenza del suo “sistema”, né originale né profondo, farebbe di lui un filosofo di ben modesta levatura e questa figura mediocre contrasterebbe tristemente, malinconicamente con l'immagine superba del suo Genio.
La poetica
Occupiamoci ora della “poetica” del Leopardi.
I primi scritti teorici sulla poesia risalgono agli anni 1816-18, all'epoca, cioè, in cui più accesa era la polemica fra i neoclassici ed i romantici. Si tratta di una “Lettera ai sigg. Compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Mad. la baronessa Di Stäel Holstein ai medesimi”, che non fu mai pubblicata né dalla rivista milanese, cui era stata indirizzata, né dal Leopardi; e del poderoso “
Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica”, composto nel 1818 ed affidato all’editore milanese Stella perché lo pubblicasse o sulla rivista “
Spettatore” o in opuscolo a parte, ma che non fu mai pubblicato vivente l’Autore.
Entrambi gli scritti furono pubblicati postumi nel 1906. Più significative indicazioni sono però contenute in varie pagine dello “Zibaldone”, in cui la poetica del Leopardi si va sempre più delineando in termini romantici, laddove nei primi scritti appare dichiaratamente, sia pure con qualche “distinguo”, favorevole ai classicisti. D’altra parte l’iniziale formazione letteraria del Poeta, così profondamente legata agli studi di filologia classica, non poteva sortire effetti diversi.
Nella “Lettera” il Leopardi si dichiara esplicitamente d’accordo con la tesi del Giordani, secondo la quale la perfezione raggiunta dagli autori classici antichi nell’arte è da considerare definitiva e incapace di ulteriore progresso: “
Se gli scienziati italiani s'istruiscono con diligenza dello stato delle scienze loro presso gli stranieri, questo è perché le scienze possono fare e fanno progressi tutto giorno, dove che la letteratura non può farne, cosa che l’Italiano [il Giordani] autore della lettera a voi indirizzata ha dopo infiniti altri dimostrato egregiamente, e a cui non so per qual ragione la illustre Dama abbia fatto vista di non badare”. Ma il Leopardi condivide l’accusa della De Stäel, secondo cui gli Italiani, allo stato presente, non sanno far altro che imitare stupidamente gli antichi, anche se nega risolutamente che il rimedio potrebbe trovarsi nel conoscere meglio le lettere europee moderne: “
Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori e disaminamento di gusti stranieri. O noi sentiamo l'ardore di quella divina scintilla, e la forza di quel vivissimo impulso, o non lo sentiamo. Se sì, un soverchio studio delle letterature straniere non può servire ad altro che a impedirci di pensare, e di creare di per noi stessi; se no, tutti gli scrittori del mondo non ci faranno poeti in dispetto della natura... noi non abbiamo mai potuto pareggiare gli antichi... perché essi quando volevano descrivere il cielo, il mare, le campagne, si metteano ad osservarle, e noi pigliamo in mano un poeta, e quando voleano ritrarre una passione s'immaginavano di sentirla, e noi ci facciamo a leggere una tragedia, e quando volevano parlare dell’universo vi pensavano sopra, e noi pensiamo sopra il modo in che essi ne hanno parlato... Ebbene date dunque agl'italiani altri modelli, fate che leggano gli autori stranieri: questo è mezzo certo per aver novità e cacciare in bando il rancidume. Vanissimo consiglio! Apriamo tutti i canali della letteratura straniera, facciamo sgorgare ne' nostri campi tutte le acque del settentrione, Italia in un baleno ne sarà dilagata, tutti i poetuzzi Italiani correranno in frotta a berne, e a disguazzarvi, e se n'empieranno sino alla gola... si aumenterà del doppio il vocabolario delle nostre frasi e delle nostre idee; e dopo dieci anni tutte le frasi e tutte le idee aggiunte diverranno viete e comuni; e noi torneremo là onde eravamo partiti, o più veramente ci inoltreremo buon tratto verso il pessimo”.
Il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, che doveva inizialmente essere una lettera aperta di risposta alle argomentazioni del Cavaliere Lodovico Di Breme sulla poesia moderna pubblicate sullo “Spettatore italiano” e che invece si ampliò in un’opera organica, svolge una serrata critica ai risultati ottenuti dai poeti romantici. Basta dare una scorsa ai titoli di alcuni capitoli che compongono il Discorso per rilevare la durezza con cui il Leopardi tratta i poeti romantici: “
L'ufficio del poeta è imitar la natura. I romantici al contrario cantano l'incivilimento"; "La corruzione dei gusti fa sì che la poesia romantica diletti un infinito numero di persone”; “La seconda cagione di questo diletto è la rozzezza di molti cuori e di molte fantasie”; “
La terza cagione è la novità della poesia romantica, laddove l'assuefazione ha fiaccato il diletto della poesia classica”; “I romantici cercano, per commuovere i lettori, le più strane cose che si possano immaginare e gli eccessi di qualsivoglia genere; e ne fanno materia di poesia”; “
La psicologia, caos di sofisticherie e di frenesie, è una delle principalissime singolarità usate dai romantici”; “I romantici, con la loro impudica ostentazione della sensibilità, hanno fatta la poesia di celeste e divina vergine verissima baldracca”.
Nel “Discorso” tuttavia sono già fissati alcuni concetti fondamentali della originale poetica leopardiana, che sostanzialmente si avvicinerà sempre di più all’essenza della poetica romantica. E' già chiaro, ad esempio, l’orientamento a distinguere fra “poesia di immaginazione” e “poesia di sentimento” secondo come era stato teorizzato dallo Schlegel, dalla Stäel e, in Italia, dal Sismondi; c'è l’affermazione che la vera poesia è quella di “immaginazione”, tipica degli antichi, ingenua e istintiva, e non già quella del “sentimento”, propria delle età civili, dei moderni (“non cercheremo la natura e le illusioni di un tempo dove tutto è civiltà e ragione e scienza, e dove è scemato e scema l'uso dell'immaginazione”); c'è ancora l'affermazione che la condizione psicologica degli antichi è simile a quella dei fanciulli dell’età civile (“
quello che furono gli antichi siamo stati noi tutti, dico fanciulli e partecipi di quell'ignoranza che infiamma la fantasia”) e che pertanto agli uomini moderni non resta che ispirarsi ai ricordi dell'infanzia se vogliono fare una poesia che si avvicini, per quanto possibile, a quella veramente autentica degli antichi (“io senza fallo... mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui”).
Successivamente il Leopardi tornerà spesso su questi concetti e li approfondirà in varie annotazioni dello “Zibaldone”, come in questa (datata Recanati 14 dicembre 1928) in cui ricorre il tema della “rimembranza”: “
Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch'egli sia, non può essere poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago”.
A questo punto ci sembra opportuno tracciare una sintesi, più o meno schematica, della poetica del Leopardi, per scrupolo di chiarezza.
Il Leopardi distingue, dunque, la poesia in “poesia d'immaginazione” e “poesia di sentimento”: la prima nasce dalle sensazioni primordiali dell’umanità ed è espressa con immagini di pura fantasia; la seconda nasce da stati d'animo più complessi e sofisticati ed è espressa in forme elaborate ed artificiose: la prima è tipica delle età antiche, irrazionali, “ignoranti”; la seconda delle età civili, in cui la ragione ha prevalso sulla fantasia ed il tragico vero ha inibito le illusioni.
Da ciò discende che la vera poesia è ormai preclusa all'uomo moderno, il quale, però, pur dispone di una risorsa per far poesia all’uso antico: egli può scavare nella memoria le impressioni, le emozioni che la natura suscitò in lui quand'era fanciullo, e riviverle e rappresentarle con immediatezza con il loro stesso linguaggio, cioè con un linguaggio pressoché infantile, suggestivo nella sua indeterminatezza, libero il più possibile da ogni ingerenza culturale. Da ciò discende ancora che l’unico “genere” poetico che l’uomo moderno può e deve usare è quello “lirico”, dato che quelli “epico” e “drammatico” impegnano eccessivamente la ragione e la cultura del poeta.
Interessante è, a questo riguardo, ricordare la teoria leopardiana sulle lingue: le lingue nascono tutte poetiche, cioè tali da rispondere alle esigenze fantastiche degli uomini primitivi; man mano che l’uso della ragione ha consentito all’uomo di avviare il cammino del cosiddetto progresso e lo ha reso sempre più consapevole dei fenomeni naturali, le lingue si son dovute adattare alle nuove esigenze di natura scientifica e sono perciò divenute sempre più razionali, precise, oggettive, fredde, impoetiche. Le lingue poetiche erano quelle degli antichi, mentre le lingue moderne sono scientifiche e razionali, inadatte alla poesia. Fra queste ultime si salva in qualche modo quella italiana, perché l’Italia è indietro agli altri paesi europei in fatto di progresso scientifico. Tuttavia, anche nell’uso della lingua il poeta moderno ha qualche risorsa da spendere e questa consiste nell’usare un linguaggio fanciullesco, istintivo, che adoperi i vocaboli non nel loro reale significato, ma nel significato che avevano nell’infanzia dell’autore, e adoperi anche vocaboli arcaici, propri dell’età fanciullesca della nazione, ormai in disuso e perciò capaci di mille sensazioni, di mille evocazioni, capaci di creare un’atmosfera di lontananza ricca di mille suggestioni.
I grandi idilli
Sempre a Pisa, nello stesso anno 1828, il Poeta scriverà una delle sue poesie più belle, “A Silvia”, il primo dei “Grandi Idilli”, cui seguirono, tra il 1829 ed il 1830, gli altri cinque composti a Recanati, dove era stato costretto a ritirarsi per il ricomparire dei suoi soliti malanni fisici.
Questi canti, scritti “in sedici mesi di notte orribile”, costituiscono il capolavoro del Leopardi.
E' bene precisare subito che nei grandi idilli il Leopardi confonde il suo dolore con quello universale, che “canta” ispirandosi ai cari ricordi della fanciullezza: la rimembranza antica avvolge d’un velo di pudore il pianto del cuore e consente al Poeta un sentimento di tenerezza che lo tiene lontano sia dall'invettiva consueta contro il destino e, più ancora, contro la Natura, sia dal bisogno di usare le “tinte fosche” che meglio converrebbero alla sua ispirazione. Più che cantare gli effetti brutali del dolore che sommerge impietosamente tutto ciò che esiste, egli canta tutto ciò che di bello, di verginale, di consolante si trova purtroppo solamente nei sogni dell’infanzia e non mai nella realtà: quei sogni, quelle illusioni, quegli “ameni inganni” non possono rivivere che in versi sognanti, in versi accarezzati dalle dolci note di una musica lontana, che erano liete ed ora si caricano via via di una tenera malinconia: non trovano posto la disperazione e la rabbia; ed anche quando il Poeta non può fare a meno di riconoscere ed affermare per l'ennesima volta che “è funesto a chi nasce il dì natale”, il tono della voce è pacato, il cuore sembra non aver dimenticato l’immagine sognata della Primavera che ride a un suo segreto amante, gli occhi sono asciutti di pianto, forse perché non hanno più lacrime da versare, ma forse anche perché il Poeta non ha cuore di intristire il ricordo della sua fanciullezza (come appunto si fa dagli adulti che nascondono le proprie pene ai fanciulli).
Il primo dei grandi idilli fu, come già detto, “A Silvia”, composto a Pisa nel 1828. Anche questo canto, come già “Il sogno”, rievoca la tenera immagine di Teresa Fattorini, morta giovanissima (all'età di 21 anni, ma il Poeta anticipa la morte ancor prima del “limitar di gioventù”, in quanto la fanciulla qui è assunta come simbolo della caduta d’ogni sua antica speranza).
In “A Silvia” il Leopardi rievoca gli anni della sua prima adolescenza, quando sovente si affacciava alla finestra rapito dal canto della fanciulla, che sognava un lieto avvenire. Ma la sorte le fu avversa e stroncò violentemente ogni cara illusione:
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.
Ecco come è descritta la morte prematura della fanciulla: solo due parole vestite a lutto: “morbo” e “perivi”; tutte le altre vestite a festa: a cominciare da quel “tenerella” - che vien subito dopo “perivi”- che non sembra affatto riferita ad una fanciulla sul letto di morte, ma piuttosto ad una bambinella che ti gironzola intorno timidamente allegra; e poi: “il fior degli anni”, “molceva”, “dolce lode”, “negre chiome”, “sguardi innamorati”, “dì festivi”, “amore” ! Tornano alla mente le parole del De Sanctis: “chiama illusioni l'amore..., e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. E si noti con quanto affetto e - diremmo quasi - riconoscenza il Poeta si rivolge alla Speranza, che lo ha abbandonato dopo averlo illuso ma anche allietato negli anni dell'adolescenza:
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Quasi certamente l’anno dopo, nel 1829, dopo il ritorno a Recanati, il Leopardi compose quel canto che aveva in mente da circa dieci anni e che volle inserire tra i piccoli idilli: “Il passero solitario”. E' infatti l'unico di questo ciclo che si ispiri al “dolore personale”. Ma lo stile è quello adulto del Leopardi maggiore.
La canzone, a schema libero, si divide in tre strofe: la prima descrive il modo di vivere del passero solitario, che non si cal d’allegria, schiva gli spassi, canta e così trascorre il più bel fiore dell’anno e della sua vita; la seconda strofa descrive la vita giornaliera del Poeta, assai simile a quella del passero solitario, perché anch’egli non cura sollazzo, riso e amore ed anzi da loro quasi fugge lontano, rinviando ogni diletto in altro tempo, nonostante il tacito ammonimento del sole che, dileguandosi tra lontani monti dopo il giorno sereno, “par che dica che la beata gioventù vien meno”; nella terza strofa c’è l’amara conclusione che si ricava dal raffronto delle due vite:
Tu, solingo augellin. venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all'altrui core,
e lor fia voto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
Questo canto è singolarissimo nella produzione leopardiana: concepito in età di circa ventun anni, già a quell’epoca si ispirava ad una situazione psicologica più antica ed era perciò scevro di ogni urgenza passionale e conseguentemente di ogni tinta drammatica. Rievocato poi in età di trentun anni, lasciò intatta la sua primitiva freschezza, quasi per nulla risentendo del travaglio intellettuale intercorso nel frattempo nell’Autore delle “Operette Morali”. Il quale, con la sua sensibilità di grande poeta, ben comprese che il posto da assegnare a questo canto nella raccolta era tra i primi idilli. E qui l’avremmo lasciato volentieri anche noi, se avessimo saputo rinunziare per una volta allo scrupolo didattico, se cioè non ci fossimo posti il dubbio che il giovane lettore avrebbe potuto non comprendere le ragioni più intime del salto di qualità dello stile conseguito dal Poeta.
Nello stesso anno 1829, sempre a Recanati, il Leopardi sentì il bisogno di affidare ai versi de “Le Ricordanze” le proprie emozioni a contatto delle cose a lui più care che, lasciate un tempo, quando aveva voluto fuggire dal “borgo selvaggio”, ritrovava ora intatte e così ricche di ricordi, ancora avvolte in quelle “fole” che la sua fantasia fanciulla -“improvida d’un avvenire mal fido”, direbbe il Manzoni- aveva saputo ricamare su di esse. Ora, però, quei cari ricordi, rievocati con tanta nostalgia, non valgono tuttavia ad attenuare il dolore della presente condizione, di una vita che si consuma nel segno dell’abbandono, senza amore, travolgendo inesorabilmente “ il caro tempo giovanil; più caro / che la fama e l'allor, più che la pura / luce del giorno, e lo spirar” e per di più in un “soggiorno disumano”. Dal contrasto doloroso fra gli “ameni inganni” d'un tempo e l’infelicità del momento nasce il fulcro di questo canto:
O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d'affetti e di pensieri,
obliarvi non so.
............................................................
...Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
consolarmi non so del mio destino.
Ma il Poeta sa bene che la sventura non è soltanto sua:
...E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
Anzi la vita tutta è niente altro che “inutile miseria”:
...Fantasmi, intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e beni
mero desio: non ha la vita un frutto,
inutile miseria.
L’ultima strofa rievoca un personaggio femminile, Nerina, morta in giovane età e perciò assunta dal Leopardi come simbolo della giovinezza infranta, del fatale crollo d’ogni speranza all’apparir del vero, dell’inconsistenza delle illusioni umane. Si è a lungo discusso se Nerina fosse solamente un simbolo od anche il ricordo di una fanciulla realmente esistita ed amata dal Poeta. La concretezza di molti riferimenti che il Leopardi fa alla vita vissuta da Nerina fa propendere per la seconda ipotesi. In tal caso, però, risulta difficile risalire all’individuazione della donna cui si riferirebbe il Poeta: gli studiosi sono divisi fra la Teresa Fattorini del canto “A Silvia” ed una certa Maria Belardinelli che sei anni prima di morire andò a vivere con la famiglia a Recanati ed abitò nei pressi della casa Leopardi (morì il 3 novembre 1827, in età di 27 anni). E' chiaro che, in mancanza di una qualche indicazione dello stesso Autore, non si possa andare al di là di semplici congetture, ma è ancora più chiaro che poco interessi alla comprensione del canto conoscere la verità: Nerina è Nerina come Silvia è Silvia: due momenti della “storia dell’anima” leopardiana, due fantasmi evocati dal sepolcro dei sogni infranti:
O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita.
Riferimenti concreti che fanno pensare ad una creatura reale. Ma Nerina è soprattutto il simbolo della rapidità con cui passano i sogni, della nostalgica ricordanza che ne avanza e su cui mesto riluce delle stelle il raggio. Sembra quasi che nel Leopardi la Natura, una volta tanto, appaia pietosa della condizione umana (come i foscoliani “rai di che son pie le stelle alle obliate sepolture”), ma non è così perché anche qui è lo stato soggettivo del Poeta a sentir mesto il raggio delle stelle, come già prima gli era apparso “nebuloso e tremulo” il volto della luna.
Per meglio intendere il valore sentimentale di questo simbolo - rappresentato ora da Nerina, prima da Silvia - giova ricordare quanto il Leopardi scrisse in una nota dello "Zibaldone" in data 30 giugno 1828, cioè due mesi dopo la composizione del canto “A Silvia” ed un anno prima de “Le Ricordanze”; questo passo è interessante per capire la sostanza e la natura psicologica dei sogni e delle speranze giovanili del Leopardi, il perché questi volle riviverli e rappresentarli nella vicenda amara di due creature strappate anzi tempo alla vita ed il perché queste creature egli volle immaginarsele cadute prima di giungere al "limitar di gioventù” (Silvia) o quando da poco “splendea negli occhi quel confidente immaginar, quel lume di gioventù” (Nerina):
«Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci, salti, ecc., un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell'aria d'innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de' patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi una impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità... Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di sedici o diciotto anni si aggiunga il pensiero dei patimenti che l'aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegnere ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell'angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi.»
Un esame approfondito e dettagliato di questo brano (che lasciamo alla sensibilità ed alla intelligenza del giovane lettore) consentirà un contatto più diretto con gli "ameni inganni” che allietarono la fanciullezza e l'adolescenza del Leopardi ed una presa di coscienza dell' "animo” con cui il Poeta li rievocò da adulto, dopo avere scoperto il vero volto della realtà ed avere sperimentato sulla propria persona "il male di vivere”.
In soli quattro giorni (17-20 settembre 1829) il Leopardi compose "La quiete dopo la tempesta”, che consta di tre strofe di diversa lunghezza: nella prima il Poeta descrive la gioia festosa che sopraggiunge negli uomini quando, passata la tempesta, ricompare il sereno: "Ogni cor si rallegra, in ogni lato / risorge il romorio, / torna il lavoro usato”; nella seconda medita sulla consistenza di questo piacere che non esiste in positivo, ma è soltanto "figlio d'affanno”, "gioia vana”, "frutto del passato timore”; nella terza, infine, ringrazia sarcasticamente la Natura per i doni che porge ai mortali:
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge; e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor; beata
se te d'ogni dolor morte risana.
Pochi giorni dopo il Poeta compose “Il sabato del villaggio”, che è tra gli idilli più suggestivi per la grazia e la soavità con cui viene descritta l’attesa della festa in un semplice villaggio. Una serie di quadretti luminosi e riposanti e solo sullo sfondo il colore della malinconia che tarda a mettersi in evidenza: la donzelletta che viene dalla campagna recando un mazzo di fiori che serviranno ad incorniciare la sua fresca bellezza il dì di festa; la vecchierella che siede di fronte al sole cadente (simbolo anche del suo imminente tramonto) e si lascia per un po' trasportare in questa atmosfera di spensieratezza, riandando sull'onda dei ricordi al tempo della sua giovinezza, quando ancora sana e snella, festeggiava con la danza i suoi anni migliori; i fanciulli che gridano festosi nella piazza; lo zappatore che torna a casa fischiettando, mentre il falegname si affretta a completare il lavoro per rendersi libero la domenica. Tutto questo per nulla adombrato dallo sfondo che, però, alla fine emerge e si impone all'attenzione dell'osservatore:
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Morale: la felicità non esiste in atto; esiste solo nella speranza d’un futuro migliore (che poi si svelerà come un inganno) o nella rimembranza del tempo passato (ricordando cioè gli anni della speranza senza tener conto della realtà che ne seguì). Ecco perché il sabato è il miglior giorno della settimana e non già la domenica, che non appaga le attese della vigilia; e la fanciullezza è la migliore stagione della vita umana, perché precorre alla festa della vita, che è l’età virile, che poi sarà inevitabilmente piena di affanni e di pene. Il canto termina con un'esortazione ai fanciulli di godersi la loro età felice e di non crucciarsi se la maturità tardi a venire:
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
L'ultimo dei grandi idilli è il “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, il capolavoro dei capolavori, secondo il nostro giudizio. L'idea di questo canto venne al Poeta da un articolo del barone Meyendorff comparso nel settembre del 1826 sul “Journal des Savants”, in cui si diceva dell'esistenza di pastori nomadi asiatici che usavano trascorrere la notte, seduti su di una pietra, a contemplare la luna ed a sfogare le proprie tristezze.
Il Poeta presta i propri pensieri ed i propri sentimenti alla semplice ed ingenua voce del pastore e fa interrogare la luna sul mistero della vita. La vita della luna è simile a quella del pastore: sorge la sera e va contemplando i deserti fino al suo tramonto, proprio come il pastore che “sorge in sul primo albore, move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe”, finché a sera, stanco, si riposa. L'unica differenza è che il corso della luna è immortale, la vita del pastore breve.
Ma qual è il fine di entrambi? La vita dell'uomo è paragonabile ad un vecchio che trascina a fatica le sue infermità e le sue miserie “per sassi acuti, ed alta rena, e fratte”, finché giunge al termine del suo corso: un precipizio che lo annienta nel nulla. Infatti già il nascere, per l’uomo, è causa di tormento e rischio di morte. Poi, fin da fanciullo, i genitori debbono consolarlo dell'esser nato. Ma, “se la vita è sventura, perché da noi si dura?” Forse la luna sa il perché della vita, a chi sorrida la primavera, a chi giovi l’estate, e mille altre cose che son celate al semplice pastore. il quale, però, sa una cosa di certo: che la sua vita può forse giovare ad altri, ma a lui è male. Ed anche quando riposa senza alcun patimento, un peso occulto gl’ingombra il cuore: la noia; a differenza del gregge che invece sembra beato quando non è afflitto da alcun dolore presente. Il pastore conclude il suo lamento immaginando che forse, se avesse le ali per volare in cielo e contare le stelle ad una ad una, sarebbe più felice. Ma il cuore gli nega di appigliarsi a questa candida illusione:
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
E' questo il canto supremo del dolore cosmico e della noia. Osserva lo Zumbini: «Nel nostro pastore le formidabili interrogazioni sul mistero della vita e del mondo sono precedute e accompagnate dalla più ingenua maniera di guardare l'una e l'altro; in ciò il maggior effetto del canto, da ciò un'altra forma, pur nuova fra le mille adoperate dal poeta medesimo, a significare il suo pensiero supremo».
Il ciclo di Aspasia
Dopo i grandi Idilli, i cinque canti del cosiddetto “ciclo di Aspasia”.
A sottrarre il Leopardi dalla “orribile notte” in cui era costretto a vivere a Recanati provvidero gli “Amici di Toscana”, primo fra tutti il Colletta, che gli procurarono con molta discrezione i mezzi per poter vivere a Firenze. Il 29 aprile del 1830 egli partiva da Recanati alla volta del capoluogo toscano, dove, ripresosi relativamente in salute, non disdegnò di frequentare i salotti di famiglie amiche. In uno di questi conobbe l’esule napoletano Antonio Ranieri che divenne il suo più fidato amico, fino al punto da portarlo con sé a Napoli, nella propria casa, e da accudirlo amorevolmente fino alla morte. Ma a Firenze conobbe pure una bellissima colta signora, Fanny Targioni Tozzetti, della quale si invaghì perdutamente, ricavandone un'altra terribile delusione, che lo prostrò più d’ogni altra amarezza precedente. A questa donna sono dedicati i cinque canti del ciclo di Aspasia: “Il pensiero dominante” (1831), “Amore e Morte” (1832), “Consalvo” (1832?), “A se stesso” (1833) e “Aspasia” (Napoli 1834).
Il pensiero dominante” fa l’esaltazione dell'Amore, “prepotente signore all'uman core”, che è l’unica attenuante che si può concedere al Destino, così fieramente ostile al genere umano:
Pregio non ha, non ha ragion la vita
se non per lui, per lui che all'uomo è tutto;
sola discolpa al fato,
che noi mortali in terra
pose a tanto patir senz'altro frutto;
solo per cui talvolta,
non alla gente stolta, al cor non vile
la vita della morte è più gentile.
Il Poeta sa bene che anche l’amore è un sogno, ma è un sogno possente, sovrumano, che lo accompagnerà fino alla morte ed oltre.
In “Amore e Morte” il Leopardi afferma che Amore e Morte nacquero ad un parto, son fratelli, e sono i compagni più pietosi, e perciò più diletti, ai miseri mortali: l’uno procura il massimo piacere consentito all'uomo, l’altra segna la fine d’ogni patimento:
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall'uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell'essere si trova;
l'altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
“Consalvo” rappresenta invece Amore e Morte in atto, come è stato convenientemente affermato.
Consalvo (il Leopardi) giace sul letto di morte ormai prossimo ad abbandonare la vita. Gli è accanto Elvira (la donna amata, in cui si raffigura la Fanny Targioni Tozzetti) alla quale il morente chiede finalmente un bacio. Soddisfatto del suo estremo desiderio, il “fuggitivo Consalvo” eleva un lamento lirico nel quale si confondono il delirio della morte e l’estasi dell’amore:
...Morrò contento
del mio destino omai, né più mi dolgo
ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
poscia che quella bocca alla mia bocca
premer fu dato. Anzi felice estimo
la sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
amore e morte. All'una il ciel mi guida
in sul fior dell'età; nell'altro, assai
fortunato mi tengo.
...........................................................
Ma la lena e la vita or vengon meno
agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
né questo dì rimemorar m'è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
la tua diletta immagine si parte
dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
non ti fu quest'affetto, al mio feretro
dimani all'annottar manda un sospiro.
Ma l’amore di Fanny era un inganno. Un inganno atroce se bisogna credere a quanti affermarono che la donna fingeva di corrispondere all’amore del Poeta neppure per pietà, ma per divertimento. Certo è che gli amici, specie il Ranieri, fecero aprire gli occhi al Leopardi, che volle dedicare a se stesso questo delicato e sinceramente patetico atto di resa.
Nacque così il breve canto “A se stesso”:
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.
Forse fu questa estrema delusione a fargli accettare l’invito del Ranieri di trasferirsi a Napoli, ove pensò di vendicarsi scrivendo l’ultimo canto del ciclo dedicato alla Targioni, “Aspasia”: il Poeta confessa che non amò Aspasia, ma una donna ideale ispiratagli dalla bellezza di Aspasia e da lui vagheggiata nelle forme di costei. Aspasia, come tutte le donne reali, non potrà mai comprendere il vero significato dei palpiti amorosi del cuore del Poeta: nessuna donna è capace di volare tanto in alto. Ella può anche vantarsi di averlo fatto inginocchiare ai suoi piedi, ma sappia che il Poeta amava e serviva solo quella “idea” di donna che vedeva raffigurata in lei, non già lei stessa.
L'ultimo Leopardi
Siamo così giunti agli ultimi canti, all' “ultimo Leopardi”. “Sopra un basso rilievo antico sepolcrale dove una giovane donna è rappresentata in atto di partire accommiatandosi dai suoi” rivolge alla Natura un'altra accusa: quella di non aver voluto rendere lieta almeno la morte! Infatti, se la vita è sventura, la morte, che ce ne sottrae, dovrebbe essere bene accetta. Eppure chi mai potrebbe
Desiar de' suoi cari il giorno estremo,
per dover egli scemo
rimaner di se stesso,
veder d'in su la soglia levar via
la diletta persona
con chi passato avrà molt'anni insieme,
e dire a quella addio senz'altra speme
di riscontrarla ancora
per la mondana via;
poi solitario abbandonato in terra,
guardando attorno, all'ore ai lochi usati
rimemorar la scorsa compagnia?
“Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima” è un canto doloroso quanto il precedente, anch’esso rivolto contro la Natura che distrugge in un attimo, con la morte, una stupenda bellezza che tanto conforto e gioia ha dato ai mortali:
Tal fosti: or qui sotterra
polve e scheletro sei...
....................................
...or fango
ed ossa sei: la vista
vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato
qual sembianza fra noi parve più viva
immagine del ciel. Misterio eterno
dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi
pensieri e sensi inenarrabil fonte,
beltà grandeggia, e pare,
quale splendor vibrato
da natura immortal su queste arene,
di sovrumani fati,
di fortunati regni e d'aurei mondi
segno e sicura spene
dare al mortale stato:
diman, per lieve forza,
sozzo a vedere, abominoso, abbietto
divien quel che fu dianzi
quasi angelico aspetto,
e dalle menti insieme
quel che da lui moveva
ammirabil concetto, si dilegua.
“Palinodia al marchese Gino Capponi” è un lungo canto (di ben 279 versi) in forma di epistola, nel quale il Leopardi polemizza ironicamente col nuovo movimento di pensiero scientifico, economico e politico che preannunciava gloriosamente ed enfaticamente una nuova era di progresso, di pace, di libertà: insomma di felicità per l’uomo. Il Leopardi, fingendo, di ritrattare le sue idee sul dolore universale e sulla sua ineluttabilità per accettare le nuove speranze propagandate dai nuovi intellettuali, in effetti ribadisce il suo pessimismo e soprattutto il suo giudizio negativo sul progresso: felici potranno mai essere gli uomini fra mille nuove comodità, se fra loro continueranno a regnare gli odi, le guerre, le invidie, le frodi; se la Natura continuerà a distruggere tutto quello che crea come un fanciullo che atterra il castello or ora costruito "perché gli stessi a lui fuscelli e fogli / per novo lavorio son di mestieri"? Ed ecco con quanto sarcasmo il Poeta apostrofa i filosofi del suo tempo:
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
dell'età ch'or si volge! E che sicuro
filosofar, che sapienza, o Gino,
in più sublimi ancora e più riposti
subbietti insegna ai secoli futuri
il mio secolo e tuo! Con che costanza
quel che ieri schernì, prosteso adora
oggi, e che domani abbatterà, per girne
raccozzando i rottami, e per riporlo
tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!
Nel 1836, non lontano dalla morte, il Leopardi compose “La ginestra o il fiore del deserto”, che è come un messaggio d’amore e di pietà per il genere umano, un testamento morale in cui il sentimento fa un estremo tentativo per sovrastare la ragione a dispetto della verità che proclama. I nuovi filosofi vanno blaterando la superiorità dell’uomo sulla natura, le grandi risorse che egli ha per farsi artefice del proprio destino: vengano allora alle falde del Vesuvio per meditare sulla realtà del rapporto uomo-natura vedendo ancor oggi i resti delle antiche città di Pompei e di Ercolano distrutte in pochi minuti dalla violenza della Natura. Che differenza c’è fra un popolo di formiche annientato dalla caduta di un pomo e la gente di Pompei ed Ercolano sommersa da una sola improvvisa eruzione del Vesuvio? La verità è che la Natura è possente e non si cura degli uomini più che delle formiche! E' stupida la vanità dell’uomo che vuol porsi a dominatore dell’universo e si crea divinità amiche pronte ad intervenire in suo favore. Molto più saggio colui che virilmente riconosce lo stato della propria miseria, l'infelicità universale e non se la prende col compagno di sventura, con l’uomo, ma con la vera responsabile che è la Natura. Solo quando l’umanità saprà fare a meno delle religioni e delle false promesse di una felicità ultraterrena e riconoscerà che la vita è dolore e nulla si può fare per modificarla, solo allora sarà possibile l’avvento di una nuova ed autentica moralità che unirà gli uomini in un vincolo di solidarietà contro la comune nemica, la Natura.
Se “La ginestra” rappresenta il testamento morale del Leopardi, “Il tramonto della Luna” ne rappresenta l’addio al mondo. E' l’estremo saluto che il Poeta rivolge a questa valle di lacrime: gli ultimi versi li dettò, poche ore prima di morire, ad Antonio Ranieri. Il Leopardi paragona le tenebre notturne, che avvolgono ed annullano le cose dopo il tramonto della luna, all’infelicità che avvolge la vita degli uomini dopo che è trascorsa la giovinezza. Però se le cose dopo poche ore di oscurità tornano ad essere illuminate dalla più vivida luce del sole, nessuna speranza di rifiorire resta all’età dell’uomo dopo il tramonto della sua primavera:
Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla quale poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l'altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura.
Con la parola “sepoltura” il Leopardi mise fine alla sua esistenza di uomo infelice e di poeta.
A completare la raccolta dei “Canti”, il Leopardi volle includere, nell'edizione napoletana del 1835, alcuni brevi componimenti (traduzioni o rifacimenti), e precisamente: “Imitazione” (1818), “Scherzo” (1828), “Dal greco di Simonide” (1823 o 1824) “Dello stesso” (1823 o 1824).

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