Ariosto

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Testo

Italiano

Ariosto
Ariosto è lo scrittore più rappresentativo del Rinascimento italiano. Anche biograficamente è diverso dai precedenti poeti: la vita di Ariosto appare comune, lontana dalle vicende politiche di Dante e dalla ricerca interiore di Petrarca. Il suo destino è segnato dalla morte del padre che lo costringe ad occuparsi dei 9 fratelli. Lo stesso poeta sminuisce la sua vita non oggetto di universalizzazione come in precedenza. Persino l’impegno in Garfagnana non viene esaltato ma anzi ricondotto alla quotidianità: alla nostalgia, alle noie, allo scarso prestigio. La novità ariostesca riguarda la concezione dell’artista e della letteratura. La crisi dell’intellettuale è un fatto assodato. Ariosto riprende la visione laica di Boccaccio, la consapevolezza della relatività dei valori per cui l’unico primato della scrittura è quello di poter descrivere questa relatività. Respinge il modello di intellettuale-cortigiano di Bembo e Boiardo. L’aspirazione a una vita di studi e di rapporti umani sinceri esige un’autenticità che si scontra con la situazione marginale del letterato nelle corti a quei tempi. La scrittura non attribuisce più valori ma serve come arma di difesa e d’attacco , per mettere ordine nei processi complessi della realtà. Comunque i valori che porta sono sottoposti alla relatività da cui nascono l’ironia e il distacco. Il pubblico è quello delle corti e la borghesia rinascimentale.

La vita
Ludovico nasce l’8 settembre 1474 a Reggio Emilia un secolo dopo la morte di Petrarca. Il padre lavora per Ercole I a Reggio poi dopo molti spostamenti si fermano a Ferrara per incarichi politici del padre. Dopo i precettori il padre lo indirizza agli studi giuridici. Nel 1494 viene affidato al frate agostiniano Gregorio Elladio col quale coltiva gli studi umanistici. Si inserisce nel mondo culturale di Ferrara e suo amico è Bembo. Inizia la produzione lirica volgare e continua le imitazioni latine di Orazio e Tibullo. Dal 1497 è accolto a corte dagli estensi. Gli ozi letterari si interrompono con la morte del padre per curare i 9 fratelli. Viene assunto a servizio di Ippolito d’Este. Prende gli ordini minori per ottenere benefici ecclesiastici. A Isabella d’Este a Mantova rivela il progetto dell’Orlando Furioso. Si reca più volte a Roma da Giulio II per ottenere prestiti per far guerra a Venezia e giustificarne i motivi. È costretto a fuggire, minacciato di morte. Nello stesso periodo vanno in scena le sue prime opere teatrali Cassaria e i Suppositi. Nel 1513 si reca da papa Leone X che gli concede un’umile parrocchia alla morte del titolare. Nel 1515 con la morte del marito di Alessandra Benucci stringe una relazione con questa che non rende ufficiale per gli ordini e per non privare lei delle rendite ereditate. Si sposeranno in segreto nel 1528. Nel 1516 esce la prima edizione del Furioso. Nel 1517 si separa da Ippolito che non vuole seguire in Ungheria e si rivolge al fratello Alfonso per cui compie tanti viaggi. Per difendersi dalla crisi della corte estense è costretto ad accettare l’incarico in Garfagnana in una situazione di tensioni sociali. Nonostante l’equilibrio politico e il senso della giustizia la lontananza dall’amata e da Ferrara gli rendono gravoso l’incarico. Rientrato a Ferrara rivede il poema maggiore che esce nella sua terza edizione in 46 canti e in stile diverso nel 1532. vengono messe in scena il Negromante e la Lena e numerose traduzioni delle commedie di Plauto e Terenzio. Ludovico si ammala di enterite e muore per una complicazione polmonare il 6 luglio 1533. Viene sepolto nel monastero di san Benedetto

Le lettere
Se l’epistolario petrarchesco è frutto di una elaborazione intellettuale e letteraria, quello ariostesco si mostra ancorato a situazioni reali, trattate nel modo più diretto possibile. Petrarca si descrive idealizzato e artificiale mentre Ariosto si preoccupa solo del contenuto e dello scopo della lettera. L’epistolario di Ariosto manca di organicità e costruzione letteraria. È importante per conoscere il mondo affettivo, psicologico, quotidiano dell’autore e per avere notizie biografiche e sulla sua formazione. Inoltre il valore letterario è dato dalla capacità dell’autore di rappresentare fatti e persone e narrare con semplicità e vivacità. Appare evidente la capacità di estrarre dalle cose quasi ingenuamente il contenuto favoloso. Circa due terzi delle lettere è stato scritto in Garfagnana ma non mancano del taglio diretto e coinvolto di quelle personali.

LETTERA DALLA GARFAGNANA
È indirizzata al duca Alfonso d’Este. Scrive da Garfagnana dove deve affrontare violente forme di brigantaggio che minano il governo centrale. Per questo nonostante il suo comportamento inoppugnabile per fermezza e umanità si dichiara non idoneo lamentando anche la mancanza di appoggio del duca in situazione di ordine pubblico. Cita una lettera registrata mai considerata dal duca, la difesa di un podestà, accusato di favoreggiamento dei briganti, sulla base di testimonianze sospette. Giustifica la sua lamentela, non per suo interesse ma perché in virtù di tali offese i briganti si prendono gioco dei loro governi e quindi del duca. Si lamenta che alcuni briganti non gli consegnano un bandito accusandolo di corruzione ma in realtà non riconoscendogli la sua autorità e che il duca non provveda se non con taglie il cui effetto è solo apparente e formale. Apprezzabile è la perizia retorica con cui vengono evidenziate le mancanze e le assurdità nel comportamento del duca senza mai mancare di rispetto nei suoi confronti. Vi è l’affermazione della dignità del poeta che si rifiuta di svolgere un incarico senza il sostegno di Alfonso.

La produzione lirica
Mentre la produzione in latino ha scarsa importanza la lirica volgare ha un alto decoro con risultati intensi e originali. Le 67 liriche latine appartengono agli anni della giovinezza e mostrano una fedeltà ai temi e ai moduli stilistici classici che spesso confina nell’imitazione. Prevalgono componimenti di tema erotico con tono leggero e sensuale ma ci sono anche epigrammi ed epitaffi. 87 sono i componimenti volgari specialmente sonetti e madrigali risalenti al primo decennio del ‘500. negli ultimi anni si stava dedicando a una revisione dei componimenti volgari. Ariosto non si preoccupò di raccogliere le liriche in un canzoniere organico, sul modello di quello petrarchesco; e la raccolta fu pubblicata solo dopo la sua morte nel 1546 anche se vi sono tracce di un’opera coerente. Ariosto segue il modello di Petrarca e l’estremismo di Bembo da cui nascono la scelta attenta del lessico, modellato sul toscano illustre, la scelta canonica delle forme metriche e la centralità del tema erotico. Tuttavia ha un rapporto libero, ricco e produttivo con la tradizione che invece Bembo e i petrarchisti riducono nei modelli considerando unicamente il Canzoniere. Lo stile è alleggerito da riferimenti ai classici ma si rapporta anche alla tradizione quattrocentesca precedente alla canonizzazione di Petrarca. Così si concede libertà descrittiva anche nella rappresentazione del paesaggio. Recupera anche la tradizione stilnovistica. I capitoli in terza rima mostrano un legame con la poesia cortigiana del ‘400 oscillando tra descrizione e narrazione con volontà di leggerezza.

Le satire
Le satire costituiscono, dopo l’Orlando furioso, l’opera ariostesca più apprezzata dalla critica e più nota. Si dedicò alla loro composizione tra il 1517 e il 1525. La scelta della satira sembra cercare percorsi alternativi rispetto ai canoni lirici e forse pone in discussione il primato di questi con Petrarca e il petrarchismo cinquecentesco. La satira prevede uno sviluppo narrativo e un’articolazione logico discorsiva ben lontani dalla purezza della lirica. Prevede l’introiezione del punto di vista degli interlocutori e la difesa delle proprie scelte con spazio a contaminazioni linguistiche. La scelta di Ariosto di scegliere Orazio come modello per le Satyrae e non per la lirica è coraggiosa. La difesa di una concezione aperta e problematica della letteratura si fonde con l’affermazione di un bisogno di concretezza capace di accogliere gli elementi autobiografici senza incanalarli entro la sublimazione dei modelli lirici. Ariosto scrisse 7 satire. Esse nascono da eventi biografici e rispondono perlopiù al bisogno di difendersi o di affermare il proprio punto di vista con riferimento sempre ai dati concreti della realtà vissuta. È esclusa ogni idealizzazione letteraria. Le satire sono rivolte a personaggi reali con struttura dialogica e perfino teatrale. Vi sono apologhi con funzione allegorica, proverbi con una ricchezza lontana dal purismo di Petrarca. La satira I del 1517 è indirizzata al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno e spiega perché non ha seguito il cardinale in Ungheria e difende la sua libertà. La satira II del 1517 è rivolta al fratello Galasso perché gli trovi un alloggio a Roma e viene criticata la corruzione del papa e del mondo ecclesiastico. La satira III del 1518 dopo l’inizio del servizio presso Alfonso descrive l’ideale di vita semplice schivo dalla vita mondana. La satira IV del 1523 durante la permanenza in Garfagnana descrive la vita difficile e la nostalgia per l’amata e per Ferrara. La satira V parla del matrimonio e dei rischi della vita coniugale. La satira VI è rivolta a Bembo perché consigli un precettore saggio per Virginio. La satira VII del 1524 è rivolta al cancelliere del duca Alfonso. Ariosto rifiuta di diventare l’ambasciatore degli estensi presso la corte di papa Clemente VII a Roma. Difende il suo ideale di vita. Analoga alla struttura metrica del capitolo è quella della satira. Il ricorso alla terzina dantesca in sede di poesia narrativa e argomentativa segnala la valorizzazione di un modello che stava entrando in ombra. Usa questa libertà stilistica per dare spazio a una colloquialità diretta, a un parlato che non esclude momenti stilisticamente trascurati. Il tono confidenziale ben si addice alla tematica autobiografica non sublime e non idealizzata. La personalità ariostesca è orientata a difendere la propria libertà pratica, una vita autentica e riservata.

Il teatro
Delle opere teatrali ci sono rimaste 2 commedie in versi e anche in prosa e 3 solo in versi. La prima opera è del 1493 la Tragedia di Tisbe per Pavia da Ercole I. Ariosto fu un vero uomo di teatro consapevole della propria funzione culturale in una città abituata al prestigio delle rappresentazioni e in cerca di nuove forme sceniche. Cercò di innalzare il decoro letterario delle rappresentazioni senza rinunciare alla loro vivacità e immediatezza. Per far ciò tradusse e mise in scena commedie di Plauto e Terenzio. Fuse poi nelle sue opere il modello latino con la contestualizzazione storico-geografica del suo tempo. La Cassaria rappresenta il recupero con il pagamento del riscatto da parte dei fidanzati delle giovani rapite da un ruffiano. La cassa è quella del riscatto. Il titolo mostra la fedeltà al modello latino. Vi sono continui rovesciamenti di situazioni e atteggiamenti. I Suppositi narra una serie di scambi di persona con sfondo Ferrara. L’imitazione dei classici sostenuta nel Prologo si sposa con l’esigenza di coinvolgere il presente nell’elaborazione artistica. Si propone di inventare un linguaggio comico volgare competitivo con quello latino. Il lessico è perciò basso, gergale, dialettale. Nelle tre commedie scritte dal 1518 fino alla morte viene abbandonata la prosa per il metro italiano più simile al trimetro giambico della commedia latina classica, l’endecasillabo sdrucciolo. Così cerca di ottenere un linguaggio di tono medio vivace e agile ma letterariamente decoroso e sostenuto. Nel 1520 inviò a Papa Leone X il Negromante rappresentata nel 1528. Racconta i tentativi di un giovane di conquistare l’amata con un’altra coppia coinvolta e l’imbroglione mago Iachelino. Nel 1528 fu composta la Lena. Lena è una ruffiana non più giovane, animata da un cinico disprezzo per i valori positivi, e interessata solo all’aspetto crudelmente materiale ed economico della vita. Lena sposata ha un amante Fazio e concede per denaro a un ragazzo di incontrare sua figlia Lavinia. Fazio rovina l’incontro ma poi i 2 si sposano. Il cinismo di Lena è il mezzo che il destino usa per realizzare il lieto fine. Inevitabile il riferimento alla brutalità dei rapporti umani con riferimento particolare alle corti.

Orlando Furioso
Ariosto inizia a comporre il Furioso nel 1505 come continuazione dell’Orlando Innamorato del Boiardo e lavorerà su quest’opera per tutta la vita. La prima versione è del ’16, la seconda del ’21 (ritocchi formali), l’ultima, del 1532, uscita pochi giorni prima della sua morte, è quella definitiva. I canti nella rielaborazione salgono dai 40 ai 46 con l’aggiunta di nuovi episodi e la lingua si raffina per avvicinarsi alle teorie di Bembo (ed è questa l’operazione più difficile da seguire). Guerra e amore sono uniti in un grande intreccio che ha per scopo la celebrazione degli Este e in particolare del cardinale Ippolito. La storia tratta proprio della nascita della casata di Ferrara iniziata da Ruggero e Bradamante. Il titolo è ripreso dal poema di Boiardo enfatizzandone il significato (e sarà così per tutti gli elementi ripresi dal predecessore) ma anche dall’Ercole furioso di Seneca e punta sul paradosso che vede anche un eroe colpito nella ragione a causa dell’amore. La trama non è lineare e non si ha un solo protagonista e la storia di ognuno di questi è ripresa ed interrotta dalle altre. Si hanno comunque due filoni: il racconto d’armi e le vicende romanzesche. Il primo inizia con l’assedio a Parigi che vede Carlo Magno contro Agramente (Saraceno) e Marsilio (Spagnolo). Carlo, per far combattere Orlando e Rinaldo, innamorati di Angelica, la trattiene promettendola in premio a chi dei due avesse combattuto meglio. Angelica all’inizio del Furioso scappa e molti dei cavalieri cominciano a seguirla. Intanto a Parigi Rodomonte, re saraceno, distrugge l’esercito di Carlo finché non interviene Rinaldo con rinforzi. I Pagani si ritirano ma sono annientati in una battaglia navale. Astolfo, intanto, conquista il regno di Agramante che però propone a Carlo una sfida tra tre eroi delle due fazioni per la vittoria della guerra. Si sfidano Orlando, Brandimante e Oliviero da una parte, Agramante, Gradasso e Sobrino dall’altra. Brandimante muore ma i cristiani vincono. Le principali vicende romanzesche sono quelle di Orlando e Ruggiero. Orlando, alla ricerca di Angelica, salva per due volte Olimpia, prima da un tiranno e poi da un sacrificio (a qui poco prima era stata sottratta Angelica). Come altri eroi è vittima del trucco del castello di Atlante ma riprende il suo viaggio liberando Isabella, combattendo con Mandricardo, trovando in un bosco i segni dell’amore di Angelica e Medoro e impazzendo per questo. Pazzo, comincia a vagare arrivando infine in Africa (dopo aver anche incontrato Angelica senza riconoscerla) dove Astolfo, che aveva recuperato il senno dell’amico sulla luna, lo rinsavisce. Orlando infine torna a combattere. Il cugino Rinaldo dopo varie peripezie beve alla fontana dell’Odio e si disamora di Angelica. Astolfo, che era stato trasformato in mirto, torna uomo e con l’ippogrifo compie viaggi che lo portano anche all’Inferno, al Paradiso, sulla luna. Ruggiero invece è innamorato di Bradamante ed è ricambiato nell’amore ma Atlante, che conosce il suo destino che lo porterà a morire, non vuole che Ruggiero si sposi. Bradamante però lo libera ma l’ippogrifo porta via il suo amato. Ruggiero arriva sull’isola della fata Alcina, dove si trova il mirto Astolfo, e si innamora di lei (amore voluto da Atlante). Guidato da Melissa e Logistilla (che rappresenta la ragione) il giovane si libera e libera Astolfo per poi ripartire con l’ippogrifo. Libera Angelica dal sacrificio e cade nella trappola di Atlante che gli fa vedere l’amata nel castello (in cui arriva anche Orlando con altri eroi). Astolfo però, grazie ad un anello magico, li libera. Ruggiero si reca dal suo re Agramante e qui incontra Marfisia. Bradamante, nell’accampamento cristiano, lo spia e si ingelosisce finendo con lo sfidarlo a duello. Ma l’anima di Atlante li ferma rivelando che Ruggiero e Marfisia sono fratello e sorella. I due si possono ora sposare ma prima Ruggiero vuole compiere il suo dovere verso il suo re. Deve ritirarsi e naufraga su un isola dove si battezza e dove incontra Orlando e Rinaldo. Bradamante però viene promessa dal padre al figlio dell’imperatore bizantino Leone. Lei prende tempo offrendo la sua mano a chi la avesse vinta in duello. Ruggiero però diventa schiavo di Leone che lo convince a battersi per lui. Alla fine Ruggiero rivela tutto e Leone, ormai suo amico, gli lascia Bradamante in sposa. Durante i banchetto delle nozze arriva Rodomonte che si batte con Ruggiero ma viene ucciso. Già dal proemio l’autore indica la varietà dell’intreccio che ha creato. La storia inizia dal filone romanzesco con la fuga di Angelica che con il suo comportamento rivela subito come la passione amorosa sia insoddisfabile. Angelica si rivela come il centro, la causa di ogni azione nel romanzo che nel primo capitolo comprendono la corsa di Rinaldo, il combattimento con Ferraù, che evidenziano come i personaggi di Ariosto siano eroi attivi, creatori del proprio destino, e un altro esempio è Bradamante che insegue (e non è inseguita) da Ruggiero. Nel primo capitolo non si trova l’eroismo che contraddistingue le guerre: Ferraù cerca il suo elmo, Rinaldo rincorre il proprio cavallo, Sacripante è sconfitto da una donna e non gli riesce il compito di difendere Angelica. Il vero valore è quello dell’individualismo, la ricerca dell’utile personale in ogni situazione che porta per esempio all’accordo tra Ferraù e Rinaldo per rinviare lo scontro e cercare Angelica. I due cavalieri sono icona del cortigiano del ‘500, che devono avere un galateo e riconoscere il primato del buon senso. Il dinamismo del primo capitolo infatti porta Angelica da Ferraù che deve però sfidare Rinaldo per averla. Mentre lei scappa i due combattono per poi decidere di seguirla. Angelica trova Sacripante, anch’egli in cerca di lei, e decide di usarlo per scappare. Ma Sacripante è disarcionato da Bradamante e Rinaldo riesce a ritrovare Angelica, anche se ora cercava il suo cavallo Baiardo. Il primo canto si apre quindi con il proemio, diviso in tre parti: argomento, invocazione e dedica. Qui Ariosto modifica alcuni schemi tradizionali: l’argomento era la storia del personaggio principale, Ariosto invece individua due filoni: quello di Orlando e quello di Ruggiero. In più come garanzia di unità promette che il personaggio l’innamorato che lui rappresenta, manterrà unita la trama. Si dice pazzo ma non come Orlando, in grado ancora di ragionare (e quindi superiore ai suoi personaggi). Non invoca più i Santi o Dio, ma la donna amata. In più la dedica ad Ippolito si estende a tutto il pubblico, perché questo perdoni se l’autore, guidato dall’amore, sbaglia. Ariosto non presenta i personaggi (accenna solo una descrizione di Angelica) perché l’antefatto si ricollega all’Innamorato e il rapporto tra pubblico e autore consente ad Ariosto di evitare la presentazione. Le sequenze sono ben individuabili: la prima con la fuga di Angelica e il duello, la seconda che inizia con le due diverse strade che intraprendono Rinaldo e Ferraù, il bivio che porta Ferraù a tornare sul fiume dove cercava l’elmo e dove invece trova lo spirito del suo amico a cui apparteneva l’elmo che si è ripreso per seppellirlo. Rinaldo invece insegue il cavallo Baiardo mentre la terza sequenza vede Angelica con Sacripante. Tutti i personaggi sono alla ricerca di qualcosa (la quête cavalleresca); questo pretesto narrativo mette in luce il tema della fortuna e dell’affermazione del valore umano su questa; qua i personaggi sono vittime del caso mentre il più libero sembra chi li guida: il narratore, ironico occhio sulla scena, che vede la realtà mantenendosi nel suo mondo. Un celebre episodio è quello del palazzo di Atlante, creato per fermare Ruggiero ma che alla fine raccoglie molti eroi. Ripreso dal filone di re Artù, Ariosto crea un’allegoria: i personaggi, guidati dalle passioni, non arrivano al loro scopo, il destino non è che un vano affaticarsi: Ariosto riprende vari topos e da loro un valore universale. Orlando è attirato da una figura femminile che sembra Angelica e che lo porta nel castello. Arriva anche Ruggiero e dopo di lui i più famosi paladini. Solo Angelica e poi Astolfo li libereranno. Si trovano due sequenze parallele: quella di Orlando e quella di Ruggiero che indicano anche come il destino dei due sia strettamente collegato. Ci sono due temi: il destino dell’uomo (con l’allegoria del palazzo di Atlante) che vede le passioni come una visione, impossibile. Questo tema si ritrova in tutto il Furioso, sintetizza l’opera, anzi. Ariosto analizza anche il comportamento di Atlante, patetico, destinato all’insuccesso: egli combatte ciò che è già stato stabilito, il destino, cerca di rimandare la fine, quasi come Ariosto. Atlante però alla fine ottiene una piccola vittoria: Ruggiero infatti non muore nel romanzo, ma resta in vita. Il linguaggio si ricollega in modo stretto al tema dell’illusorietà e dell’affanno. Altro episodio importante è quello di Cloridano e Medoro, prefazione dell’amore di quest’ultimo con Angelica. E’ un passo epico, la scena e la guerra tra cristiani e saraceni, e il topos è ripreso da Virgilio e l’avventura di Eurialo e Niso. Ma l’epica di Virgilio è differente: infatti Ariosto non da la descrizione di due eroi ma di due cortigiani, ricollega la tradizione al suo tempo. L’eroismo è qui fedeltà al proprio signore. Cloridano e Medoro sono soldati semplici, il loro re Dardinello è morto e loro vogliono indietro il suo corpo. Di notte entrano nell’accampamento cristiano, fanno strage e riprendono il corpo del loro re. Ma nel ritorno sono scoperti da Zerbino. Cloridano si nasconde ma Medoro non vuole lasciare il suo re, viene ferito ma Cloridano interviene, uccide il cristiano e muore per l’amico che è risparmiato per la sua nobiltà d’animo. La struttura non è più quella della parte romanzesca, piena di intrecci ma ha una sua continuità (come in Virgilio). Lo stile è alto e Ariosto sperimenta uno schema simile a quello di Virgilio con l’uso del suo volgare, allontanandosi dalle ottave del Pulci e di Boiardo, monotone e ripetitive. Resta comunque ironico e scettico e passa dalla lirica all’eloquenza.

Scrittura e interpretazione
Il filone epico e quello d’amore sono da ricondurre a due diverse tradizioni. Il primo deriva dall’epica carolingia, nata con la Chanson de Roland, che tratta della guerra tra Carlo e i Saraceni con la morte di Orlando. Il successo è rapido anche per la situazione del tempo con le lotte antimussulmane del periodo. Ma con il tempo l’epica di queste composizioni (scontro tra diverse civiltà) viene meno. In Italia l’attrattiva verso queste composizioni è data dagli intrecci avventurosi dei paladini. Nel ‘400 si ha grande produzione di cantari (in ottave, recitati) rivolti ad un pubblico analfabeta. Con la stampa l’interesse per queste composizioni si propaga verso le corti e i nobili. Pulci per primo riprende questo tema ironizzando nel Morgante per la sua semplicità, creando quindi una parodia che negli ultimi canti però si affievolisce sviluppando ideali cristiani e populisti, ritornando allo spirito epico. Questo a Firenze. A Ferrara invece i letterati non si trovano nelle file della borghesia che deve mantenere le distanze dal popolo, ma tra i nobili, a corte, e può quindi vedere la materia di Francia (come si chiama il filone carolingio) con simpatia e interesse, mantenendo le distanze e inserendo in esso la mentalità cortigiana. Ci si avvicina a Virgilio ma si inserisce anche il filone romanzesco, di stampo arturiano (saga di re Artù). Questo filone ha la sua origine nei miti celtici ma nasce propriamente con i romanzi arturiani (XII sec.). In queste opere al centro non è la vita di un popolo ma di un cavaliere che affronta le prove della sua quête che lo porta al compimento del suo destino. Questo tipo di romanzo traccia la formazione della aristocrazia feudale. I componimenti nel ‘200 vengono raccolti in una vulgata in cui il finale vede la scoperta del sacro Graal grazie alla tecnica (inventata da de Troyes) dell’entrelacement, l’intreccio di storie diverse. Questa tecnica viene ripresa dalle composizioni carolinge del ‘400, mentre la materia arturiana resta di moda solo nel ‘300. Boiardo non unisce ma alterna questi filoni. L’opera di Boiardo è ripresa da più autori ma perdono il loro carattere encomiastico e l’ideologia cortigiana. Solo Ariosto può riprendere interamente questo schema. Nel periodo di Boiardo non si aveva uno stile simile all’Eneide, Ariosto invece vive nel periodo in cui l’imitazione dei classici è alla base di un buono stile e quindi può seguire il filone epico con disinvoltura rispetto a Boiardo. In più Ariosto ha a disposizione una lingua aulica da utilizzare. E’ questa la prima grande innovazione di Ariosto: un epica illustre. Questo linguaggio è possibile grazie alla vicinanza che vuole Ariosto che lo porta a copiare schemi da Omero, Luciano, Stazio e soprattutto Virgilio. Ariosto da autorità al suo testo e ritrova questa autorità nell’epica latina e da autorità ideologica nella celebrazione degli Este. Il Furioso è dunque da considerare epico per la sua impronta che ricalca l’epica latina nello stile e perché innalza la propria società, il proprio Stato, come giusto e la sua libertà. L’epica infatti si presenta come celebrazione di una situazione storica contemporanea. Ariosto però può allargare questo discorso a tutta l’Italia, per questo la sua opera è da considerare nazionale. L’epica di Ariosto però è differente: non è rivolta a tutti, ma ai soli cortigiani, in quanto la società è di stampo individualistico. I personaggi del poema mantengono la mentalità epica ma Ariosto non la impone come giusta ma ironizza anzi su alcuni suoi aspetti e a volte discosta i personaggi da questa ideologia. Solo gli ultimi canti, dove si sviluppa la materia encomiastica, sono vicini all’epos vero e proprio. Alla fine il tratto romanzesco risulta quello in primo piano. E’ la quête infatti che muove la narrazione e da dinamicità ad un racconto altrimenti statico e con pochi sbocchi (struttura chiusa). Le quêtes di Ariosto però si discostano dal loro solito schema: non hanno un compimento, infatti, spesso sono vane. La quête come inseguimento di un fantasma interiore. Per Ariosto quindi la vita risulta come l’inseguimento di un sogno che a volte risulta impossibile da raggiungere, tanto da portare alla pazzia, ma quindi pazzia è l’esistenza umana e questo è evidenziato dal senno dagli uomini, ormai tutto sulla luna. Grazie a questo episodio Ariosto critica la società rinascimentale, attaccata a un sogno impossibile (e qui si ha il contrario dell’epica, l’ironizzazione della società). Quindi Ariosto disillude, nega gli ideali rinascimentali ma non in modo tragico (mantenendo quindi la sua mentalità rinascimentale e il suo compito encomiastico). Da quindi comunque una figura esemplare: quella di Ruggiero, vero cortigiano dell’opera: egli nell’opera si forma, dall’inconsapevolezza passa alla realizzazione di sé. Grazie anche all’amore, vissuto però senza grandi passioni, riesce a superare ogni difficoltà. Con la ragione riesce a vincere per esempio le passioni di Alcina e con la conversione compie una grande prova interiore. Secondo i piani di Boiardo l’opera doveva terminare con la morte di Ruggiero ma Ariosto segue lo schema del romanzo e decide che la sua morte non può rientrare nella composizione. E’ l’equilibrio rinascimentale, che porta a non mostrare l’aspetto più tragico degli eventi. Il romanzo è aperto anche ad altri generi, primo fra tutti la lirica, presenta nei monologhi dei personaggi e in varie parti dell’opera, ripresa da Boccaccio e da Boiardo, già aperto a vari generi nel suo Innamorato. Si riprendono gli schemi del Canzoniere petrarchesco, svuotandoli dalle tensioni interiori. Ariosto inserisce quindi lamenti amorosi senza spezzare la trama e segue lo stile di Petrarca anche in tutto il resto dell’opera. L’apertura alla lirica produce anche l’inserimento di un introspezione psicologica dei personaggi, già presente in Ovidio, Boccaccio, Boiardo, ma inaugurazione del romanzo moderno con Ariosto. Aristo sperimenta anche parti pastorali (riprese da Sannazaro e la sua Arcadia). Nell’episodio di Angelica e Medoro infatti i due personaggi sembrano al di fuori del mondo, nella loro felicità che non è influenzata da niente. Infine nel poema Ariosto inserisce parti a loro autonome come novelle (di solito usati come antefatti), che mantengono così la loro caratteristica di exemplum. Tutte queste caratteristiche sono tenute insieme da Aristo che ha una doppia veste nel romanzo: è narratore onnisciente che controlla i personaggi e sotto le sue ali li riconduce all’unità, intervenendo nel entrelacement con affermazioni personali, non lasciando la narrazione a se stessa. E’ come un demiurgo, plasma la realtà creando modelli e perfezione. Come il demiurgo non crea dal niente ma riprende schemi e opere già create, rielaborandole soprattutto sotto l’aspetto stilistico, come costume del tempo. Non ricerca l’originalità ma vuole esser lodato per la capacità di plasmare, modellare a suo piacimento un episodio. Nell’elaborare questo ‘edificio’ che non è altro che la sua opera, Ariosto interviene spesso con ironia verso i fatti che narra ma anche verso se stesso. Infatti anche lui si ritrova confuso nel ritrovare i suoi personaggi, anche lui compie una quête: insegue i suoi eroi. Anch’egli è parte del romanzo, ma il suo distacco lo porta a non soffrire per quello che gli capita, ad ironizzare invece. Ma qualcosa inclina la sua posizione: è l’amore che prova e che paragona a quello di Orlando, provocando l’avvicinamento del pubblico al narratore, formando un dialogo e non restando alla semplice ironia, banale, in fin dei conti. Ariosto non partecipa ai problemi del suo tempo, egli trova la serenità in una vita domestica, equilibrio sopra le contingenze storiche. Come uomo di corte deve sottostare al volere del principe ma cerca sempre di mantenere la propria dignità, la propria autonomia, non con la rivolta ma con l’eloquenza e l’ironia. Ironia che è rivolta a tutto ma in particolare alla corte: lo si nota quando Ariosto fa l’elenco del senno perduto dai cortigiani a lui vicini e trovati da Astolfo sulla luna, e il discorso di san Giovanni che individua nella corte pochi veri artisti (cigni) e molti poeti mediocri che approfittando del rapporto inscindibile tra arte e politica, pur di raggiungere il benessere cambiano idee, stili mentre cambiano i principi (corvi). Ariosto, in questo caso molto pessimista, accusa anche Omero e Virgilio, perché nelle loro opere non scrivevano le cose come stavano e le fanno passare per vere, senza ironizzare. Ariosto sa che non può far altro che dedicare l’opera agli Este, esaltandoli, ma vuole esporre a tutti l verità e il perché della sua scelta, cerca quindi l’armonia anche in questo aspetto. Armonia che si trova anche nella trama, in cui fantastico e reale si intrecciano nel rispetto per gli schemi classici e nella voglia di innovazione. Il magico è espediente letterario, metodo per alimentare la narrazione, ma Ariosto sottolinea questo, indicando nella letteratura solo un qualcosa di fittizio. Non accetta la magia come scienza e resta ancorato al razionalismo (avvicinandosi all’illuminismo). Con l’ironia verso la magia si sviluppa l’ironia verso le composizioni che prendevano per serie le magie e gli eventi straordinari e vede quindi in Turpinio, fondatore di questo tipo di narrazioni, il fondatore della tradizione cavalleresca, che non ha niente a che fare con la realtà. Ariosto fa metaletteratura: letteratura ripresa da altri e senza volontà di veridicità. In lui lo spirito di critica umanistico è ai massimi livelli. Come tutti gli autori del ‘500 Ariosto da alla sua opera una revisione soprattutto nella struttura con ottave spostate già nella seconda edizione e con nuovi episodi nella terza. Questo per evitare alcuni scompensi nella trama o per approfondire alcuni significati. In più il Furioso è aggiornato rispetto ai fatti storici che sono intercorsi in quel periodo con il ducato sempre più schiacciato dagli altri stati. Dall’ottica nazionale, italiana, si passa ad un ottica europea, con il consolidamento degli stati moderni. Boiardo scrive in una lingua (koinè) che è un misto tra i vari dialetti lombardi e emiliani sotto le regole del toscano. Ariosto già dalla prima edizione tende come già detto alla clasicizzazione linguistica, evitando forme popolari e ispirandosi a Petrarca, Dante, Boccaccio, Poliziano, Pulci. Nelle edizioni egli si adatta sempre più al toscano letterario, come voleva Bembo, e cioè al toscano del ‘300 e soprattutto a quello di Petrarca e Boccaccio. Ariosto non irrigidisce però la sua opera, la mantiene elegante, a volte anche colloquiale. Ariosto traspone la teoria di Bembo in pratica e questo è importante poiché la sua opera avrà un grande successo in tutta la società, finendo con l’essere la prima opera nazionale moderna.

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